PARTE SECONDA Gerico

25

Come Lukka aveva predetto, il nostro viaggio non fu né facile né pacifico.

L’intero mondo sembrava in conflitto. Viaggiammo lentamente lungo la costa collinosa, attraverso regioni che i soldati Hatti chiamavano Assuwa e Seha. Sembrava che ogni città, ogni villaggio, ogni fattoria fosse in armi. Bande di predoni si aggiravano nella campagna, alcuni parte di antiche unità Hatti proprio come il contingente di Lukka, ma per lo più semplicemente briganti.

Combattevano quasi tutti i giorni. La gente si uccideva per un paio di polli o addirittura per un uovo. Perdemmo alcuni dei nostri uomini in queste schermaglie, e ne guadagnammo altri da bande diverse che si offrivano di unirsi a noi. Non accettai mai nessuno che anche Lukka non approvasse, e lui accolse solo altri professionisti hatti. Il nostro gruppo rimase di circa trentacinque elementi, uno più uno meno.

Io continuavo ansiosamente a guardarmi le spalle, ogni giorno, aspettandomi di vedere Menelao a capo delle sue forze all’inseguimento della sua ricalcitrante regina. Ma se gli Achei ci stavano seguendo, non ne vidi segno. E di notte dormivo senza che Apollo o Zeus o nessuno di loro venisse a farmi visita. Forse erano occupati da qualche altra parte. O forse, qualunque destino mi avessero preparato, l’avrei incontrato solo in Egitto, dentro la tomba di un re.

Cominciò la stagione delle piogge, e anche se trasformò le strade in pantani scivolosi e viscidi facendoci sentire miseri e infreddoliti, impedì alla maggior parte delle bande di briganti di compiere le loro scorribande assassine. Alla maggior parte. Riuscimmo a sfuggire a una trappola sulle colline al di sopra di una città che Lukka chiamava Ti-Smurna, e Lukka stesso venne quasi ucciso da un contadino che pensava che stessimo dando la caccia a sua moglie e alle sue figlie. Sporco e puzzolente, il contadino si era nascosto al riparo di una misera stalla, una bassa spelonca a cui aveva messo una porta, e aveva lanciato un forcone contro la schiena di Lukka quando lui era entrato a prendere un paio di agnelli. Era al cibo che davamo la caccia, non alle donne. Avevamo pagato la moglie del contadino con un monile del bottino di Troia, ma l’uomo si era nascosto appena ci aveva visto, aspettandosi che violentassimo le sue donne e bruciassimo quello che non potevamo portare via.

Così aveva cercato di colpire Lukka, alle spalle, uno sguardo omicida negli occhi spaventati e vili. Per fortuna io ero abbastanza vicino da mettermi di mezzo, deviando il forcone con il braccio.

Il contadino si aspettava di essere ucciso, ma noi l’avevamo lasciato lì, tremante, inginocchiato nello sterco dei suoi animali. Lukka parlò poco, come al solito, ma quello che disse significava molto.

— Ancora una volta ti devo la vita, mio signore Orion.

Io risposi con noncuranza: — La tua vita è molto importante per me, Lukka.

Non dormivo con Elena. Neanche la toccavo. Lei viaggiava con noi come parte del gruppo, senza lamentarsi delle difficoltà, degli spargimenti di sangue, del dolore. Di notte si faceva il letto da sola, con le coperte per i cavalli, e dormiva un po’ discosta dagli altri. Ma sempre più vicina a me che a chiunque altro. Io mi accontentavo di essere il suo guardiano, non il suo amante. Se questo la sorprendeva, non ne fece mai cenno. Non portava gioielli e non si truccava più. I suoi abiti erano semplici e rozzi, adatti al viaggio.

Ma era sempre bella. Non aveva bisogno di trucco o di vesti o di gioielli. Persino con il viso imbrattato di fango e i capelli legati sotto il cappuccio di un lungo mantello sporco, niente poteva nascondere quei grandi occhi azzurri, quelle labbra sensuali, quella pelle purissima.

Polete stava riprendendo le forze e anche un po’ del suo cinismo. Viaggiava in un carro cigolante tirato da buoi e tormentava chiunque fosse alla guida perché gli raccontasse tutto quello che vedeva, ogni foglia e roccia e nuvola.

Efeso fu la sola eccezione a una litania di combattimenti. Avevamo passato la giornata arrancando stancamente in salita sotto un furioso temporale, bagnati fradici, infreddoliti e doloranti. Circa la metà degli uomini montava cavalli o asini. Elena cavalcava vicino a me su un piccolo pony bigio, avvolta in un mantello blu scuro con il cappuccio, zuppo e pesante di pioggia. Avevo mandato avanti tre dei nostri uomini, a piedi, in esplorazione. Altri ci seguivano, alla retroguardia, per avvisarci di eventuali banditi nascosti alle nostre spalle. O di Achei.

Quando arrivammo in cima alla collina, vidi uno dei nostri esploratori che ci aspettava sul ciglio di una strada fangosa.

— La città — indicò.

La pioggia stava diminuendo, ed Efeso si stendeva sotto di noi in uno sprazzo di sole che si era fatto strada tra le nuvole. La città brillava come una promessa di tepore e benessere, con il marmo bianco luccicante nella luce.

Sembrammo tutti riprendere le forze a quella vista, e scendemmo lungo la strada tortuosa, giù dalla collina, verso il porto.

Efeso è dedicata ad Artemide Guaritrice — disse Lukka. — La gente arriva qui da tutte le parti del mondo per essere guarita dai suoi mali. C’è una sorgente sacra la cui acqua ha poteri curativi miracolosi. — Aggrottò leggermente la fronte, come seccato della sua stessa creduloneria. Poi aggiunse: — Così mi hanno detto.

Non c’erano mura intorno ad Efeso. Nessun esercito aveva mai cercato di occuparla o saccheggiarla. Per una specie di accordo internazionale, quella città era dedicata alla dea Artemide e alle sue arti risanatrici, e nemmeno il più barbaro dei re avrebbe osato attaccarla, per paura di cadere, con tutto l’esercito, sotto gli strali invisibili della dea, portatori di peste e morte dolorosa.

Elena, sentendo Lukka che mi spiegava queste cose, cavalcò vicino a noi. — Artemide è la dea della luna, sorella di Apollo.

Questo mi fece accelerare il cuore. — Allora ha favorito Troia nella guerra.

Elena fece spallucce sotto il mantello zuppo. — Penso di sì. Non è servito a niente però, giusto?

— Ma sarà adirata con noi — disse Lukka.

“Lo è di più suo fratello anche se in realtà non sono fratello e sorella.” Mi sforzai di ridere e dissi a Lukka: — Certamente non crederai che gli dèi e le dee serbino rancore.

Lui non rispose, ma l’espressione del suo viso severo non era di felicità.

Qualunque fosse la sua divinità protettrice, Efeso era la civiltà. Persino le strade erano pavimentate di marmo. I templi maestosamente circondati di colonne di marmo bianco scanalato erano centri di cura come di culto. La città era abituata ad ospitare visitatori, e c’erano moltissime locande. Scegliemmo la prima che trovammo, in periferia. Era quasi vuota, dal momento che i pochi che viaggiavano durante la stagione delle piogge preferivano stare nel cuore della città o vicino alle banchine dove arrivavano le navi.

Il locandiere fu felicissimo di avere circa trenta ospiti. Continuò a fregarsi le mani e a sorridere mentre scaricavamo gli animali e i carri.

— Le vostre cose saranno perfettamente al sicuro qui, signore — mi rassicurò — anche se fossero d’oro massiccio. I miei stessi figli proteggono questa locanda e nessun ladro toccherà quello che è vostro.

Mi chiesi quanto ne sarebbe stato altrettanto sicuro se avesse saputo che dentro le scatole che portavamo nelle nostre camere c’erano veramente dei tesori d’oro. Ammucchiammo tutte le scatole in una sola stanza, la più grande della locanda, dove decisi io stesso di dormire insieme a Polete.

C’erano anche bordelli, in città. Gli uomini di Lukka scomparvero come sbuffi di fumo appena i cavalli furono messi nella stalla e le nostre cose riposte.

— Torneranno domattina — mi disse Lukka.

— Puoi andare anche tu — gli dissi.

— Ci vuole qualcuno che faccia la guardia alle nostre cose — rispose.

— Starò io di guardia. Tu vai a vedere la città.

Il viso severo di Lukka mantenne la sua maschera impassibile, ma io sapevo che stava riflettendo. Infine disse: — Tornerò al tramonto.

Io risi e gli diedi una pacca sulla spalla. — Torna all’alba, mio ligio amico. Goditi la città e le sue delizie. Ti sei meritato una notte di divertimento.

— Sei sicuro…

Indicando le scatole ammucchiate vicino al mio letto, dissi: — Posso fare la guardia ai nostri tesori.

— Da solo?

— Ho i feroci figli del locandiere. — Avevamo visto quei figli. Due erano grandi e corpulenti, altri due esili ma nerboruti, come se fossero nati da madri diverse. A noi non parevano pericolosi, non dopo i combattimenti che avevamo visto, ma sembravano adatti a tenere lontani i ladruncoli.

— E ci sono anch’io — disse Polete. — Anche senza orecchie, riesco a sentire meglio di un pipistrello. Nel buio della notte, sarò una vedetta migliore di te e dei tuoi due occhi.

Con grande riluttanza, Lukka ci lasciò.

Elena era nella stanza vicina. Aveva chiamato a servirla le due giovani figlie del locandiere. Le sentii chiacchierare e ridere mentre portavano secchi di acqua fumante su per le scale cigolanti e la versavano dentro la tinozza di legno che la madre aveva fatto avere a Elena.

Nessuno di loro sapeva chi fossimo, naturalmente. Sapevo che si sarebbe presto parlato della bella donna dai capelli d’oro e della banda di soldati hatti che erano con lei. Ma finché nessuno ci associava alla guerra di Troia o agli Achei eravamo abbastanza al sicuro.

— Parlami della città — chiese Polete. — Com’è?

Io andai sul balcone e cominciai a descrivere quello che vedevo: templi, locande, strade affollate, un porto indaffarato, vele al largo, splendide case sulle colline.

— Deve esserci un mercato nel cuore della città — disse Polete, ridacchiando con allegria. — Domani uno degli uomini potrebbe accompagnarmici e io racconterò la storia della caduta di Troia, dell’orgoglio di Achille e della crudeltà di Agamennone, dell’incendio della grande città e dell’uccisione dei suoi eroi. Alla gente piacerà moltissimo!

— No — dissi con garbo. — Non possiamo far sapere chi siamo. È troppo pericoloso.

Levò gli occhi ciechi verso di me. Le cicatrici delle bruciature sembravano fissarmi cariche d’accusa.

— Ma io sono un cantastorie! Ho la storia più grande che nessuno abbia mai sentito, qui, dentro la testa! — Si batté la tempia proprio sopra le fessure slabbrate dove erano state le orecchie. Posso fare la mia fortuna raccontando questa storia!

— Non qui — dissi. — E non adesso.

— Ma posso smettere di essere un peso per te! Potrei guadagnarmi la vita da solo. Potrei anche diventare famoso!

— Non finché lei è con noi — insistetti.

Lui sbuffò arrabbiato. — Ha causato più dolore di qualunque altra donna mai nata.

— Forse sì. Ma finché non la vedrò al sicuro in Egitto, dove potrà essere protetta, non racconterai niente su Troia.

Polete borbottò, brontolò e brancolò di nuovo verso il letto. Io mi misi al suo fianco e lo guidai lontano dalle scatole accatastate del bottino.

Quando il vecchio si fu lasciato cadere sul materasso di piume, sentii un grattare alla porta.

— Hai sentito…

Polete disse: — È qualcuno che chiede di entrare. Così fanno le persone civili. Non picchiano sulla porta come se volessero abbatterla, come fai tu.

Presi la spada dal tavolo in mezzo ai nostri due letti. Tenendola nel fodero, mi avvicinai alla porta e la socchiusi.

Era una delle figlie del locandiere: una ragazza robusta, con le fossette sulle guance e scuri occhi ridenti.

— La signora chiede se puoi andare nella sua camera — disse, dopo un goffo inchino.

Guardai su e giù per il corridoio. Era vuoto. — Dille che sarò lì tra qualche momento.

Dopo aver chiuso la porta, mi avvicinai al letto di Polete e mi sedetti sul bordo.

— Lo so — disse. — Stai andando da lei. Ti intrappolerà nella sua rete di lusinghe.

— Hai un modo di esprimerti poetico — dissi.

— Non cercare di adularmi.

Ignorando la sua petulanza, chiesi: — Puoi fare la guardia alle nostre cose finché non torno?

Lui grugnì, si rigirò nel soffice letto e infine ammise: — Penso di sì.

— Griderai forte se qualcuno entra nella stanza?

— Sveglierò l’intera locanda.

— Riesci a sbarrare la porta dietro di me e a tornare a letto?

— Cosa importa se inciampo e mi rompo il collo? Tu sarai con la tua amata signora.

Io risi. — Forse starò lì solo pochi minuti. Non ho nessuna intenzione di…

— Oh no, no davvero! — disse ridacchiando. — Assicurati solo di non muggire come un toro in calore. Voglio provare a dormire un po’.

Sentendomi un po’ come uno scolaro che sgattaiola fuori dal dormitorio, andai alla porta e augurai a Polete un piacevole sonnellino.

— Ho il sonno molto leggero, sai — disse lui.

Se intendesse rassicurarmi sul fatto che nessun ladruncolo sarebbe riuscito a derubarci, o avvisarmi di evitare i rumori nella stanza di Elena, non potrei dirlo. Forse intendeva entrambe le cose.

Il corridoio era ancora vuoto, e non vidi nessun angolo buio né una nicchia dove un nemico avrebbe potuto nascondersi in agguato. C’era solo il pavimento di mattonelle consumate, le pareti intonacate e le sei porte di legno delle stanze occupate dai miei uomini. Anche se nessuno di loro le avrebbe usate, quella notte. Dall’altra parte del corridoio correva una ringhiera di assi scheggiate che dava sul cortile centrale della locanda.

Strinsi il pugno per bussare alla porta di Elena, poi mi ricordai delle parole di Polete. Sentendomi un po’ stupido, grattai invece sulle assi di legno liscio.

— Chi è? — disse la voce smorzata di Elena.

— Orion.

— Puoi entrare.

Aprii la porta. Lei era al centro della modesta stanza, splendente come il sole. Aveva indossato gli stessi abiti e gli stessi gioielli che portava la prima volta che l’avevo vista da sola, a Troia. Lì, mi era parsa incredibilmente bella. Qui, nella rozza locanda con le mura grossolanamente intonacate e le finestre prive di tende, mi sembrò una dea scesa in Terra.

Chiusi la porta dietro di me e ci appoggiai la schiena, quasi indebolito dalla bellezza di lei.

— Non hai preso per te nessuno dei tesori di Troia, mio signore Orion — disse.

— Non ne ho voluto nessuno. Finora.

Lei aprì le braccia e io mi avvicinai, la sollevai e la portai verso il soffice letto di piume. Lontano, nella mia memoria, piangevo per una donna completamente diversa dalla bionda, minuta Elena: una donna dai lucidi capelli neri e dai profondi occhi grigi, un’alta e superba dea della verità e della bellezza. Ma era morta, ed Elena era come un caldo fuoco tra le mie braccia.

Il sole scese nel mare luccicante e lunghe ombre violacee si allungarono sulla città mentre il manto della notte copriva ogni cosa. Le stelle fecero capolino tra i brandelli di nuvole e la falce della luna di Artemide si alzò mentre Elena ed io facevamo l’amore e ci assopivamo, ci svegliavamo e facevamo l’amore di nuovo, poi dormivamo e facevamo l’amore un’altra volta.

Nella mezza luce che precede la vera alba dormimmo l’una nelle braccia dell’altro, completamente svuotati, ignari, spossati.

E io mi trovai in quell’altro mondo di luce dorata così brillante che mi feriva gli occhi.

— Credi di potermi sfuggire?

Mi voltai e mi rivoltai, cercando, sforzandomi, di vedere il Radioso. Niente. Solo la sua voce.

— Hai ostacolato i miei piani per l’ultima volta, Orion. Non puoi sfuggire alla mia vendetta.

— Fatti vedere! — gridai. — Vieni qui in modo che possa strangolarti!

Ma mi ritrovai seduto sul letto, le mani ad artiglio che stringevano l’aria vuota, mentre Elena mi fissava con occhi spaventati.

Quella mattina accompagnai Elena e Polete nel centro della città, mentre Lukka, che era tornato all’alba tenendo fede alla sua parola, rimaneva di guardia alle nostre cose e guardava severamente i suoi uomini che tornavano alla locanda barcollando, uno per uno.

Efeso era davvero una città di cultura e di benessere, ricca di templi di marmo e con le strade affollate di mercanti e di merce proveniente da Creta, dall’Egitto, da Babilonia e persino dalla lontana India.

Polete era interessato soprattutto alla piazza del mercato. Era forte abbastanza da camminare, adesso, e si era legato un fazzoletto di seta bianca sugli occhi inutili. Gli avevo procurato un bastone e lui stava imparando a tastare il terreno davanti a sé in modo da poter camminare da solo.

— Cantastorie! — disse, mentre rasentavamo piccoli drappelli di persone riuniti intorno a vecchi accoccolati per terra che intessevano incantesimi di parole per qualche spicciolo.

— Non qui — gli sussurrai.

— Lasciami fermare ad ascoltare — mi pregò. — Prometto di non dire una parola.

Glielo permisi, riluttante. Sapevo di potermi fidare della sua parola. Era del suo cuore che mi preoccupavo. Era un cantastorie, ce l’aveva nel sangue. Per quanto tempo sarebbe potuto restare in silenzio quando aveva la storia più grandiosa di tutti i tempi da raccontare alla folla?

Decisi di lasciargli un’ora tutta per lui, mentre Elena ed io davamo un’occhiata ai negozi e alle bancarelle del mercato. Lei sembrava immensamente felice di toccare stoffe e di esaminare ceramiche decorate, mercanteggiando con i negozianti per poi allontanarsi senza comprare nulla. Io mi stringevo nelle spalle e l’accompagnavo, rimuginando nel fondo della mia mente la minaccia che il Radioso mi aveva fatto prima dell’alba.

“Mi distruggerebbe, se potesse. Che non lo abbia fatto, dimostra o che gli altri Creatori glielo stanno impedendo, o che ha bisogno di me per qualche altra missione.”

“Oppure” osai pensare “che io sto diventando abbastanza forte da difendermi da lui.”

Il terreno vibrò. Un urlo si levò dalla folla nella piazza del mercato. Alcune terrecotte caddero dai ripiani e si ruppero in mille pezzi. Il mondo sembrava girare vorticosamente, da far venire la nausea. Poi la vibrazione cessò, e tutto tornò normale. Per un attimo la gente rimase completamente in silenzio. Poi un uccello cinguettò e tutti cominciarono a parlare contemporaneamente con la tipica eccitazione di chi si sente di essere scampato a un pericolo.

Una scossa di terremoto. Abbastanza naturale in quella zona, pensai. A meno che non fosse un avvertimento, un messaggio di quelle creature superiori che la gente considerava dèi.

L’ora era quasi passata. Potevo vedere Polete, al di là della grande piazza del mercato, in piedi ai margini della folla riunita intorno a uno dei cantastorie, le gambe nodose sottili quasi quanto il bastone a cui si appoggiava.

— Orion.

Guardai Elena. Mi sorrideva come una madre comprensiva sorride al figlio disobbediente. — Non hai sentito nemmeno una parola di quello che ho detto.

— Mi dispiace. La mia mente era altrove.

Lei ripeté: — Ho detto che potremmo vivere molto bene qui a Efeso. È una città civile. Con le ricchezze che abbiamo portato, potremmo comprare una comoda villa e vivere splendidamente.

— E l’Egitto?

Lei sospirò. — È così lontano. E viaggiare è stato molto più difficile di quanto avrei pensato.

— Forse potremmo procurarci una nave e salpare verso l’Egitto — suggerii. — Sarebbe molto più rapido e facile che non per terra.

I suoi occhi si illuminarono. — Certo! Ci sono centinaia di navi nel porto.

Ma quando arrivammo alla banchina, tutti i pensieri in merito svanirono dalla nostra mente. Vedemmo sei galere attraccare al porto, tutte con una testa di leone dipinta sulle vele.

— Menelao! — ansimò Elena.

— O Agamennone — dissi io. — In entrambi i casi, non possiamo restare qui. Stanno cercando te.

26

Fuggimmo da Efeso durante la notte, lasciando il locandiere, che aveva sperato che rimanessimo a lungo, molto seccato.

Mentre ci dirigevamo verso le colline e piegavamo a sud mi chiesi se non avremmo potuto chiedere protezione al consiglio della città. Ma la paura degli Achei che avevano appena distrutto Troia avrebbe paralizzato gli Efesini, mi resi conto. La loro città non aveva mura né un vero esercito, e tutto il controllo si limitava a quello necessario a mantenere l’ordine nei distretti dei bordelli. Per la sua sicurezza, dipendeva dalla buona volontà di tutti. Non avrebbero permesso ad Elena di restare quando Menelao e suo fratello Agamennone avessero richiesto la sua consegna.

Così continuammo ad avanzare, tra le piogge e il freddo dell’inverno, portandoci dietro il nostro bottino di Troia. Eravamo uno strano gruppo: la fuggitiva Elena di Sparta, un cantastorie cieco, una banda di soldati professionisti sopravvissuti a un impero che non esisteva più e un esule di un tempo diverso.

Arrivammo a Mileto. Lì c’erano mura, e solide, e un’indaffarata attività commerciale.

— Ci sono già stato una volta — mi disse Lukka — quando il Sommo Re Hattusilis era irato con la città e ha condotto l’esercito alle sue porte. Erano tutti così spaventati che le hanno aperte senza fare resistenza. Si sono rimessi alla misericordia del Sommo Re. Lui fu magnifico! Uccise solo i capi, quelli che gli erano dispiaciuti, e a noi non permise di toccare un uovo.

Comprammo provviste e cavalli freschi. Mileto sarebbe stata l’ultima grande città sulla nostra strada per un certo tempo. Decidemmo di muoverci nell’entroterra, attraverso le montagne del Toro e la pianura della Cilicia, poi lungo le terre Mitanni e giù sulla costa Siriana.

Ma i suoni e i profumi di un’altra città Egea furono troppo per Polete. Venne da me quando cominciammo a smontare il campo, proprio fuori dalle mura della città, e mi annunciò che non sarebbe venuto con noi. Preferiva restare a Mileto.

— È un posto in cui potrò raccontare le mie storie e guadagnarmi il pane — mi disse. — Non ti sarò di peso più a lungo, mio signore Orion. Lascia che passi i miei ultimi giorni cantando di Troia e delle gesta grandiose che vi si compirono.

— Non puoi stare da solo — insistetti. — Non hai casa né riparo di alcun genere. Come troverai da mangiare?

Lui mi afferrò la spalla con sicurezza, come se avesse potuto vederla. — Lascia che sieda in un angolo del mercato e racconti la storia di Troia, e avrò cibo e vino e un morbido letto prima del calar del sole.

— È davvero questo quello che vuoi? — gli chiesi.

— Ti sono stato di peso abbastanza a lungo, mio signore. Ora posso prendermi cura di me stesso.

Era lì davanti a me nella luce grigia del mattino, un fazzoletto bianco pulito sugli occhi, una tunica nuova sul corpo magro. Scoprii che anche gli occhi ciechi possono piangere. E che lo potevo anch’io.

Ci abbracciammo come fratelli, e lui si voltò senza un’altra parola e camminò lentamente verso le porte della città, battendo il bastone davanti a sé.

Mandai avanti gli altri, dicendo loro che li avrei raggiunti più tardi. Aspettai mezza giornata, poi entrai in città e mi diressi al mercato. Polete sedeva a gambe incrociate al centro di una grande folla che continuava ad aumentare, le braccia gesticolanti, la voce ansimante che parlava lentamente, maestosamente: — Poi il potente Achille pregò sua madre, Teti dai Piedi d’Argento: “Madre, la mia vita è destinata ad essere così breve che l’eterno Zeus, colui che fa tuonare il cielo, mi deve un premio di gloria più prezioso…”

Osservai solo per qualche minuto. Fu abbastanza. Uomini e donne, ragazzi e ragazze, si affrettavano a unirsi alla folla, gli occhi fissi su Polete come quelli di un uccello ipnotizzato da un serpente. Ricchi mercanti, soldati in maglie metalliche, donne eleganti nelle loro vesti colorate, magistrati della città con le insegne del loro ufficio; tutti si accalcavano per sentire il racconto del vecchio. Persino gli altri cantastorie, ignorati da quando Polete aveva cominciato a cantare di Troia, si alzavano dalle loro pietre e si dirigevano lentamente e con riluttanza ad ascoltare il nuovo arrivato.

“Aveva ragione lui” ammisi di malavoglia. “Ha trovato il suo posto. Sarà nutrito e ospitato, qui, persino onorato.” E finché noi eravamo lontani, avrebbe potuto cantare di Troia e di Elena quanto voleva.

Tornai alla porta della città, dove avevo lasciato il mio cavallo alle guardie. Diedi al loro caporale qualche moneta di rame e mi avviai sulla pista nell’entroterra. Non avrei mai più rivisto Polete, e questo mi faceva sentire il peso della perdita.

Ma il tempo e la distanza mitigarono la tristezza, finché rimase solo il ricordo dolce-amaro del vecchio, irritabile cantastorie.

Lukka ci condusse attraverso un passo di montagna ripido e pieno di neve e poi giù, nella pianura tiepida e fertile della Cilicia, dove crescevano uva, grano e orzo, e dove gli alberi di olivo punteggiavano la campagna.

Le città della Cilicia erano chiuse agli stranieri. Il crollo dell’impero Hatti si era sentito, lì; non potendosi più appoggiare alla legge imperiale e alla protezione dell’esercito, ogni città doveva preoccuparsi della sua sicurezza. Barattammo ciò che serviva con contadini e borghigiani sospettosi, poi ci dirigemmo a est e infine a sud, tenendo il mare sulla nostra destra.

Notai che Elena si guardava spesso alle spalle, cercando, come me, segni di inseguitori. Scrutavamo il mare, anche, ogni volta che riuscivamo a vederlo. Nessuna delle vele che individuammo aveva la testa di leone.

Durante il viaggio dormimmo separati. Era una disciplina migliore per gli uomini, pensai. Non avrei dormito con lei finché non fossimo arrivati in una città o in un villaggio dove i soldati avrebbero potuto trovare donne anche per sé.

Mi resi conto che la mia passione per Elena era controllabile, e non quel genere d’amore che provavo per la mia dea morta.

Pian piano, lei cominciò a raccontarmi della sua vita passata. Era stata rapita quando aveva meno di dodici anni, portata via dalla fattoria di uno zio sulla sella di un capitano locale che si era invaghito della sua bellezza appena sbocciata. Suo padre aveva pagato il vecchio bandito e lui l’aveva restituita senza toccarla, ma l’incidente aveva convinto suo padre che sarebbe stato meglio far sposare la figlia rapidamente, mentre era ancora vergine.

— Ogni principotto dell’Acaia chiedeva la mia mano — mi disse una notte mentre eravamo accampati in un piccolo villaggio circondato da una palizzata di assi appuntite. Il capo del villaggio aveva deciso di essere ospitale verso la nostra banda di armati. Lukka e i suoi uomini si stavano intrattenendo con alcune delle donne locali. Ad Elena e a me era stata offerta una capanna di mattoni di fango. Era la prima volta che ci trovavamo sotto un tetto da settimane.

Lei parlava malinconicamente, quasi con tristezza, quasi come se tutto quello che le era successo fosse stato in qualche modo colpa sua. — Con così tanti pretendenti, mio padre doveva essere molto cauto nella scelta. Infine, scelse Menelao, fratello del Sommo Re. Era un buon affare per lui; legava la nostra famiglia alla Casa più potente di Argo.

— Non hai avuto nessuna voce in capitolo nella decisione?

Lei sorrise a un’idea così assurda. — Non ho visto Menelao fino al giorno delle nozze. Mio padre mi teneva ben protetta.

— E poi Alessandro — dissi.

— E poi Alessandro. Era bello, spiritoso e affascinante. Mi trattava come una persona, un essere umano.

— Allora sei andata con lui volontariamente.

Ancora quel sorriso. — Non me lo ha mai chiesto. Non ha mai corso il rischio che io potessi rifiutarlo. Alla fine, nonostante il suo spirito e il suo fascino, si è comportato come un Acheo: ha preso quello che voleva.

Guardai in profondità nei suoi luminosi occhi azzurri, così innocenti, così scaltri. — Ma a Troia mi hai detto…

— Orion — disse lei dolcemente, — in questo mondo, una donna deve accettare quello che non può cambiare. Troia, per me, era meglio di Sparta. Alessandro era più civile di Menelao. Ma nessuno dei due ha chiesto la mia mano: sono stata data a Menelao da mio padre; sono stata presa a lui da Alessandro.

Poi aggiunse, quasi timidamente: — Tu sei il solo uomo a cui ho dovuto dare la caccia. Sei l’unico a cui mi sia data volontariamente.

La presi tra le braccia e per quella notte non parlammo più. Però continuai a chiedermi a quanto della sua storia potevo credere. Quanto c’era di vero nella sua passione per me, e quanto invece era un modo di assicurarsi la mia protezione per tutta la strada sino al lontano Egitto?

Dopo la Cilicia, le bande di predoni e i drappelli di soldati vaganti divennero rari. Non dovevamo più combattere per aprirci la strada. Eppure, ogni notte, Lukka faceva controllare ai suoi uomini le armi e l’equipaggiamento, come se al mattino dovessimo aspettarci una violenta battaglia.

— Ora ci dirigeremo verso Ugarit — mi disse l’Hatti mentre voltavamo di nuovo verso sud. — L’abbiamo saccheggiata molti anni fa, quando in battaglia io ero solo un giovane scudiere attaccato al carro di mio padre.

Oltrepassammo Ugarit. La città una volta potente, era ormai poco più che un guscio consumato dal fuoco, con tuguri e baracche a ridosso dei mozziconi delle mura, dove una volta sorgevano grandi case e torri fortificate. Vidi il segno del potere hatti, abbastanza forte da oltrepassare montagne e pianure per distruggere una città che ne sfidava il Sommo Re. Eppure quella potenza era finita, adesso, trasportata dal vento come le sabbie di una duna che si sgretola.

Per la prima volta, dopo aver lasciato le colline di Troia, vidi una foresta. Gli alberi di cedro alti e imponenti allargavano i rami coperti di foglie in alto sopra di noi, così che attraversarla era come camminare lungo la navata di una cattedrale vivente che continuava per chilometri e chilometri.

E poi, d’improvviso, fummo sulle colline frastagliate e riarse del deserto. Pietre nude cotte da un sole inesorabile fino ad essere troppo calde per toccarle. Quasi niente vegetazione, solo qualche macchia di cespugli qua e là. Serpenti e scorpioni scorrazzavano sul terreno bruciato; in alto, gli avvoltoi continuavano a girare aspettando, aspettando.

Tagliammo nell’entroterra collinoso sul terreno spaccato, evitando la costa e le città portuali. Ogni tanto, una banda di predoni ci si avvicinava, sempre a suo discapito. Lasciammo molti corpi con cui banchettare a quegli uccelli pazienti, anche se perdemmo quattro dei nostri uomini.

Il territorio, una serie di sterili colline e di strette valli e gole dove ci si poteva aspettare un’imboscata ad ogni svolta, era un habitat perfetto per i predoni. Il sole infernale alzava onde di calore tremolante che toglievano la forza ai miei uomini e ai loro cavalli.

Elena viaggiava nel carro, protetta da una tenda fatta con le più fini sete di Troia. Il caldo aveva tolto energia anche a lei. Il suo bel viso si era fatto pallido e teso, e come tutti era coperta di polvere fuligginosa. Ma non si lamentò neppure una volta, né ci chiese di rallentare la marcia.

— Meggido non è lontana da qui — disse Lukka in una giornata particolarmente calda e luminosa, mentre il sudore gli colava sul viso e nella barba. — Gli Hatti e gli Egiziani hanno combattuto una grande battaglia, lì.

Stavamo costeggiando un lago piuttosto grande. Sulle sue rive erano disseminati vari villaggi, ed eravamo riusciti a barattare alcune delle nostre cose in cambio di provviste. L’acqua del lago aveva un sapore amaro, ma era meglio della sete. Riempimmo borracce e barili.

— Chi ha vinto? — chiesi. Lukka rifletté sulla domanda con il solito grave silenzio, poi rispose: — Il Sommo Re Muwatallis ha vantato una nostra grande vittoria. Ma non siamo mai tornati in quel posto, e il nostro esercito rientrò molto più piccolo di quando era partito.

Viaggiammo intorno al lago, e poi lungo il fiume che ne usciva scorrendo verso sud. I villaggi erano rari, lì. Coltivare, anche lungo il fiume, era difficile con quella terra secca e polverosa. La maggior parte dei villaggi vivevano delle capre e delle pecore che brucavano l’erba rada dovunque riuscissero a trovarla. Anche quella gente parlava di Meggido e raccontava di un’enorme battaglia che si era combattuta per la città da tempi immemorabili. Ma le davano un nome leggermente diverso: Armaggeddon.

La temperatura stava diventando così torrida che cominciammo a muoverci solo durante le primissime ore del mattino e di nuovo sul finire del giorno, quando il sole era tramontato. Dormivamo di notte, nelle ore più fredde, tremando nelle nostre coperte, e cercavamo di dormire anche nelle ore più calde del pomeriggio.

Un giorno dovemmo respingere l’attacco di uno strano gruppo di razziatori. Non avevano l’aspetto di banditi. Come noi, sembravano far parte di truppe organizzate, bene armate e abbastanza disciplinate da ritirarsi quando si erano accorti che eravamo soldati professionisti.

Una mattina, facendo il mio turno di esploratore appiedato in testa alla nostra colonna, salii su una piccola altura del terreno sterile e scabroso e, riparandomi gli occhi con una mano, scrutai il baluginante, ondeggiante, infernale panorama.

Rocce e arbusti, erba secca che diventava bruna sotto il sole, tranne che per la sottile linea verde lungo le rive del fiume.

In cima a una collina rocciosa vidi salire una colonna di fumo bianco- grigiastro. Non come il fumo di un fuoco che si arriccia e si sposta col vento; questo era quasi come un pilastro, denso, che girava vorticosamente su se stesso e poi saliva in alto nel cielo accecante. Sembrava brillare, come se fosse illuminato dall’interno.

Corsi per il deserto roccioso in direzione della colonna di fumo. Mentre mi arrampicavo sul fianco della collina, sentii un formicolio sotto i piedi. Si fece più forte, quasi doloroso, mentre mi avvicinavo alla cima.

La vetta della collina era di roccia nuda, tranne che per un paio di ciuffi marroni di cespugli che sembravano morti. La colonna di fumo si alzava direttamente dalla roccia verso il cielo, senza nessuna causa apparente. Le gambe mi dolevano come se qualcuno ci stesse infilando migliaia di spilli.

— Meglio che ti tolga gli stivali, Orion — disse una voce familiare. — I chiodi sono conduttori di forze elettrostatiche. Non intendo causarti un dolore inutile.

Una fosca ira crebbe dentro di me mentre, borbottando, mi toglievo gli stivali e li buttavo da una parte. La sensazione di formicolio non scomparve del tutto, ma diminuì sino a un punto in cui potevo ignorarla.

Il Radioso uscì dalla base della colonna di fumo. Sembrava in qualche modo più vecchio di quanto l’avessi mai visto prima, con il viso più solenne, gli occhi che bruciavano di un fuoco interno. Invece delle vesti che indossava quando l’avevo visto a Ilio, era drappeggiato in un abito che sembrava fatto di lana grezza. Brillava debolmente contro la colonna ondeggiante di fumo grigiastro dietro di lui.

— Dovrei distruggerti per la tua disobbedienza — disse con un tono di voce calmo, monotono, controllato.

Le mani mi prudevano dal desiderio di artigliargli la gola, ma non potevo muoverle. Sapevo che mi controllava, che avrebbe potuto fermare il battito del mio cuore con un movimento del sopracciglio, che poteva obbligarmi ad inginocchiarmi e a strisciare ai suoi piedi solo pensandolo. La furia dentro di me divenne più calda della pietra bruciata dal sole sulla quale stavo scalzo, più calda dell’abbagliante cielo senza nubi che brillava come ottone battuto sopra di noi.

Mentre me ne stavo in piedi, con i pugni inutilmente stretti lungo i fianchi, riuscii a dire: — Non puoi distruggermi. Gli altri non te lo permetteranno. Loro ti si sono opposti, a Troia; alcuni di loro. Accusa loro della tua sconfitta.

— Lo faccio. Orion. Avrò la mia vendetta. E tu mi aiuterai a portarla a termine.

— Mai! Non alzerò un dito per aiutarti. Lavorerò contro di te in ogni modo possibile.

Trasse un profondo, drammatico sospiro e fece un passo verso di me. — Orion, non dobbiamo essere nemici. Tu sei una mia creazione, la mia creatura. Insieme, possiamo salvare il continuum.

— Da quando hai ucciso lei, hai fatto di me il tuo nemico.

Chiuse gli occhi e chinò leggermente la testa. — Lo so. Capisco. — Guardandomi ancora una volta con gli occhi attenti, disse dolcemente: — Manca anche a me.

Tentai di ridergli in faccia, ma venne fuori un ringhio.

— Orion, ho studiato la situazione attentamente. Ci può essere — ho detto solo può, fai attenzione — un modo per riportarla in vita.

Nonostante il suo controllo, feci un balzo in avanti e quasi lo afferrai per le spalle. Ma le mie mani si immobilizzarono a mezz’aria.

— Non così in fretta! — disse il Radioso. — È solo una remota possibilità. I rischi sono enormi. I pericoli…

— Non mi interessa! — dissi, con il sangue che mi pulsava violentemente nelle orecchie. — Ridammela. Riportala in vita!

— Non posso farlo da solo. E gli altri… quelli che mi si sono opposti a Troia, mi si opporranno di nuovo. Significherà una vera forzatura nel continuum, di una portata che nemmeno io ho mai tentato prima.

Sentii le sue parole, ma non riuscii a comprenderne interamente il significato. Adesso ero sicuro che mi stava dicendo la verità.

— Io non mento mai, Orion — disse, leggendomi nel pensiero. — Riportarla alla vita significa interferire nel continuum spazio-tempo in una maniera tale che potrei lacerarlo proprio come ha già fatto una volta Ahriman.

— Ma tu e gli altri Creatori siete sopravvissuti — dissi.

— Alcuni di noi sì. Altri no. Ti ho detto che gli dèi non sono necessariamente immortali.

— E non sono nemmeno giusti o misericordiosi — risposi.

Lui rise. — Proprio così. Proprio così.

— Cercherai di riportarla in vita? — La mia voce era quasi una supplica.

— Sì — disse lui, prima che il mio cuore potesse saltare di gioia, aggiunse: — Ma solo se mi obbedisci pienamente e completamente, Orion. La sua esistenza è nelle tue mani.

Non aveva senso resistergli o fingere. — Cosa vuoi che faccia?

Per un istante non rispose, come se stesse formulando i suoi piani lì per lì. Poi disse: — Ti stai dirigendo a sud, verso l’Egitto.

— Sì.

— Incontrerai presto un gruppo sparso di persone che stanno uscendo dall’Egitto. A centinaia, famiglie intere, che si spostano con le loro greggi e le loro tende. Cercano di occupare questo territorio, di farne la loro…

Questo territorio? — Indicai le sterili rocce e la sterpaglia secca.

— Proprio questo — rispose il Radioso. — E si trovano contro gli abitanti dei villaggi e la gente delle città che vivono già qui. Tu e la tua truppa li aiuterete.

— Perché?

Lui mi sorrise. — Perché mi venerano, Orion. Credono non soltanto che io sia il più potente di tutti gli dèi, ma l’unico dio esistente. E presto, con il tuo aiuto, avranno perfettamente ragione.

Prima che potessi fare un’altra domanda, prima che potessi anche solo pensare, il Radioso scomparve e la colonna di fumo svanì come se non ci fosse mai stata.

27

Ci spingemmo verso sud, lungo il fiume che collegava due mari interni. C’erano dei villaggi disseminati lungo le rive, protetti da mura di mattoni di fango secco. Verdi terreni coltivati irrigati da canali artificiali contrastavano con il nudo marrone e grigio delle colline rocciose. La gente, lì, era diffidente: aveva visto troppe bande di vagabondi ansiose di prendere per sé quelle fertili terre o, se non ci riuscivano, di depredare e saccheggiare le città prima di riprendere il cammino. Commerciarono con noi, più che altro nel tentativo di indurci a lasciare la zona il più rapidamente possibile. Tenni sempre Elena fuori vista, dentro il carro coperto. E continuai a cercare eventuali tracce di Achei al nostro inseguimento.

Poi, in un caldo pomeriggio, mentre la foschia bollente faceva brillare come un miraggio un asciutto canyon roccioso, incontrammo gli esploratori della gente di cui mi aveva parlato il Radioso.

Erano venti guerrieri a piedi, e nemmeno due erano vestiti nello stesso modo, o dello stesso colore, o con lo stesso tipo di armi. Una vera marmaglia, alla prima occhiata. Piccoli di statura, cotti dal sole; proprio come noi, mi resi conto.

Si erano schierati nella gola più stretta del canyon vedendoci avvicinare. Mi chiesi se pensavano di riuscire a impedirci il passaggio e se saremmo arrivati al combattimento. La maggior parte di noi montava cavalli o asini. Pensai che saremmo riusciti a sfondare la loro leggera difesa, se avessimo dovuto.

Ma Lukka, osservandoli con occhio professionale, disse: — Non sono stupidi, nonostante gli stracci che hanno addosso.

— Li riconosci?

Scosse la testa spostandola il meno possibile, riuscendo comunque a rendere la negazione. — Possono essere gli Abiru contro cui ci hanno messo in guardia gli abitanti del villaggio, due giorni fa.

Feci procedere il mio cavallo. — Parlerò con il loro capo.

Lui cavalcò al mio fianco. — Posso tradurre, se parlano una qualunque lingua dell’impero.

— Riuscirò a capire la loro lingua — dissi.

Lukka mi lanciò uno strano sguardo.

— È un dono degli dèi — spiegai. — Il dono delle lingue.

Cavalcai un po’ più avanti e sollevai la mano in segno di pace. Uno dei guerrieri salì verso di me, tenendo tuttavia la spada nella mano destra. Scesi dal cavallo e rimasi in piedi sul terreno polveroso mentre mi si avvicinava. Il caldo picchiava dal cielo d’ottone, riflettendosi sulle rocce ardenti. Era come trovarsi in un forno. Il solo riparo in vista era uno spuntone di roccia lungo la parete del canyon alla mia sinistra. Ma quel giovane guerriero non mostrava nessun interesse a spostarsi dal sole bollente.

Si chiamava Beniamino; era il figlio più grande di un capo tribù. Si definivano Figli di Israele, mi disse. Beniamino era un ragazzo, e la barba cominciava appena a spuntargli. Era magro e muscoloso; ai suoi occhi non sfuggiva nulla mentre osservava i miei uomini, i cavalli, gli asini, e i carri con i buoi. Era teso e sospettoso, e stringeva la spada come se fosse stato pronto ad usarla appena glielo avessero detto.

Quando gli dissi che eravamo soldati hatti, lui usò il termine “Ittiti” e sembrò rilassarsi un po’. Quasi sorrise.

— Allora, al servizio di chi siete? — chiese.

— Di nessuno. Siamo scampati a una grande guerra, lontano, a nord-ovest di qui. Abbiamo aiutato a distruggere la regale città di Troia.

Il suo viso divenne inespressivo; non aveva mai sentito quel nome.

— Forse la conoscete come Ilio, vicino agli stretti chiamati Ellesponto che portano al Mar Nero.

Ancora nessun cenno di riconoscimento.

Io mi arresi. — C’è stata una guerra, e questi uomini hanno aiutato a prendere la città dopo un lungo assedio.

A quel punto, qualcosa brillò nei suoi occhi. — Allora perché siete qui, nella terra di Canaan?

— Stiamo andando a sud, in Egitto, per offrire i nostri servizi al Sommo Re di quella terra.

Lui mi fissò, poi si schiarì il catarro dalla gola e sputò sul terreno bruciato. — Questo per il Faraone. Alla mia gente ci sono volute quattro generazioni per sfuggire alla schiavitù dell’Egitto.

Io mi strinsi nelle spalle e risposi: — Noi siamo soldati professionisti. Abbiamo sentito che il re egiziano ha bisogno di soldati.

Quegli occhi sospettosi mi fissarono. — Non siete al servizio di nessuno, adesso?

— No. Il vecchio impero è crollato…

— Il Dio di Israele ha colpito gli Ittiti — mormorò, e stavolta sorrise davvero.

Io diedi uno sguardo a Lukka, ancora sul suo cavallo, in disparte, e fui felice di vedere che non capiva la lingua ebraica.

— Ed ora, Egli colpirà i perfidi adoratori di Baal, che si sono rinchiusi nella loro città. — Beniamino guardò dietro di me, gli uomini e i loro animali, i carri, Lukka in groppa al suo cavallo leggermente alle mie spalle, e infine ancora me. C’era una nuova luce nei suoi occhi. — Servirete il nostro Dio e il nostro popolo e ci aiuterete a prendere la città di Gerico, proprio come avete preso la città settentrionale di cui parli.

— Non stiamo cercando un’occupazione qui — dissi io. — Stiamo viaggiando verso l’Egitto.

— Servirete il Dio di Israele — insistette Beniamino. Poi, addolcendosi leggermente, disse: — Almeno venite a passare la notte nel nostro accampamento e a conoscere il nostro grande capo, Giosuè.

Io esitai, sentendo odor di trappola.

Il giovane sorrise timidamente. — Non mi perdonerebbe se vi permettessi di andarvene senza condurvi davanti a lui. Cadrei in disgrazia agli occhi di mio padre.

Era difficile discutere con lui.

— Inoltre — aggiunse, con il sorriso che si illuminava un po’ — sarà impossibile per voi andare ancora a sud senza imbattervi in altri gruppi della nostra gente. Siamo una vera moltitudine.

Mi inchinai all’inevitabile e accettai la sua offerta di ospitalità più gentilmente che potei.

Gli Israeliti erano davvero una moltitudine: centinaia di famiglie accampate in una vasta pianura tra il fiume che chiamavano Giordano e le nude montagne consumate, marrone bruciato. Le loro tende punteggiavano la terra verde e le loro greggi sollevavano nubi di polvere, mentre venivano condotte dal pascolo ai rozzi steccati degli ovili notturni.

Con il sole che calava tingendo di rosso il cielo e il vento caldo che cominciava a soffiare da quelle montagne riarse; l’odore delle greggi era quasi insopportabile. Nessuno sembrava notarlo tranne noi, nuovi arrivati. Le famiglie si stavano riunendo davanti a ciascuna tenda e cominciavano ad accendere i fuochi della sera, chiacchierando nella loro lingua gutturale; c’erano bambini che correvano, ragazzi che gridavano l’uno contro l’altro giocando con spade e scudi di legno, ragazze che ridevano con voci dal timbro acuto.

Ma quello che attirò il mio sguardo, e quello di Lukka, fu la città circondata da mura in cima a una bassa collina al centro della pianura. Dominava la regione, proprio come Troia aveva dominato la pianura di Ilio.

— Quella è Gerico — dissi a Lukka.

— È nota come la città più antica del mondo — disse lui.

— Davvero? Certo, le mura sembrano alte e grosse.

— Più forti di quelle di Troia.

— Vogliono che li aiutiamo a conquistarla.

Lui fece un borbottio e tossì.

— Si può fare?

Lukka si grattò la barba. — Mio signore Orion, qualunque città può essere espugnata. È solo questione di tempo e di quante vite si è disposti a perdere.

Mettemmo il campo il più lontano possibile dai recinti degli animali. Mentre gli uomini montavano le tende, io feci uscire Elena dal carro coperto. Non aveva più senso cercare di tenerla nascosta, lì.

— Gli uomini vorranno unirsi alle donne — mi disse Lukka.

Io annuii, ma lo avvisai: — Di’ loro di stare attenti e di controllare le loro maniere. Dubito che queste donne siano del tipo che prende in simpatia gli stranieri.

Lui fece un sorrisino. — Sembrano tutte ben protette dai maschi della famiglia — fu d’accordo. — Però… non c’è niente di male ad essere amichevoli.

— Assicurati soltanto che non siano tanto amichevoli da farsi tagliare la gola.

Beniamino tornò da noi mentre il sole sprofondava dietro le montagne e lunghe ombre violacee si disegnavano sulla pianura.

— Giosuè ti invita a cenare con lui. — Sembrava eccitato e compiaciuto.

In quel momento Elena uscì dalla mia tenda; si era appena lavata con l’acqua portata dal lontano fiume, indossava una veste pieghettata color cremisi e una collana e un bracciale d’oro erano i suoi soli gioielli.

Beniamino rimase a bocca aperta davanti a lei.

— Questa è Elena, principessa della perduta città di Troia — dissi, decidendo di non menzionare il fatto che era, tra l’altro, Regina di Sparta. — Mi accompagnerà a cena.

Ci vollero diversi secondi prima che il giovane riuscisse a chiudere la bocca e a distogliere gli occhi da Elena. Infine, si voltò verso di me e disse: — Tra noi, le donne non mangiano con gli uomini.

— In questo caso, il tuo capo dovrà fare un’eccezione.

Beniamino annuì silenziosamente e si precipitò ad informare Giosuè della nuova svolta degli eventi.

Elena mi si avvicinò. — Io posso restare qui, Orion. Non è saggio creare problemi a causa mia.

Io non ero d’accordo. — Ormai è necessario che tu venga con me. Voglio che questo Giosuè, chiunque sia, si renda conto che non può darmi ordini come se fossi un suo servo.

— Ah, capisco — disse lei. Poi, con un sorriso: — E io credo che non potresti sopportare l’idea di mangiare senza avermi al tuo fianco.

Le sorrisi anch’io. — Anche per questo.

Beniamino tornò con una guardia d’onore, sei uomini dagli indumenti puliti, armati solo di una corta spada in un fodero sul fianco, che ci scortarono sino a una tenda larga e bassa di pelli di capra. Dovetti inchinarmi per passare sotto il lembo d’entrata.

All’interno, la tenda era spaziosa. Tappeti consumati coprivano il pavimento. Su un tavolo basso c’erano scodelle di carne fumanti e piatti di olive, cipolle e verdure che non riuscii a identificare. Una dozzina di vecchi sedeva intorno a un tavolo, su cuscini brillantemente decorati. Al centro stava un uomo più giovane, con i lunghi capelli e la barba ancora scuri, gli occhi accesi di un fuoco interiore.

Furono quegli occhi che mi fecero formicolare i nervi come un campanello d’allarme. Ardevano di uno zelo che non conosceva barriere, come di chi è così sicuro di star facendo la cosa giusta, da non dubitare mai, nemmeno per un attimo, di nessuna delle proprie azioni. Era un uomo fra i trenta e i quarant’anni, sottile come una spada e altrettanto dritto anche sotto il peso del fardello che comportava guidare il suo popolo alla conquista di una terra da eleggere a patria. Beniamino fece le presentazioni. Nessuno degli Israeliti si alzò, ma Giosuè ci invitò a sederci nei posti vuoti attorno al tavolo, dopo che fummo debitamente presentati a tutti. Io sedetti proprio di fronte a Giosuè, Elena alla mia sinistra, Beniamino a destra. Gli uomini ignorarono Elena così completamente che mi resi conto che la sua presenza li disturbava assai.

Non c’era vino a tavola, solo un leggero latte di capra fermentato così acido da farmi preferire l’acqua. Il cibo era abbondante, però. Per essere una tribù nomade in marcia attraverso terre ostili, ne avevano moltissimo. Almeno l’avevano i capi.

Giosuè rimase in silenzio durante il pasto, ma mi osservava attentamente, e i suoi occhi non mi lasciarono mai. I vecchi mi fecero centinaia di domande su chi ero, da dove venivo, se i miei uomini erano davvero soldati ittiti, se il Dio di Israele aveva realmente distrutto l’impero ittita. Io risposi più sinceramente che potei, e mentre terminavamo il pranzo con datteri e melone, mi complimentai per il cibo con Giosuè.

— Sì — disse — questa è davvero la terra del latte e del miele, come il Signore nostro Dio ci ha promesso che sarebbe stata.

— Dimmi del vostro Dio — domandai. — Che aspetto ha? Come lo chiamate?

Intorno al tavolo rimasero tutti senza fiato. Molti dei vecchi, in realtà, si spostarono, come se temessero che potessi infettarli. Persino Beniamino si fece leggermente in là.

— Il suo nome non viene mai pronunciato — disse Giosuè con voce acuta, nasale, le parole che gli uscivano rapidamente come se fosse irritato. — È il Signore Dio di Israele, il Dio dei nostri padri.

— Il Dio più potente di tutti — disse uno dei vecchi.

— Il solo Dio — insistette Giosuè con fermezza. — Tutti gli altri dèi sono falsi.

— È una figura dorata, sfolgorante? — chiesi.

— Nessuno lo hai mai visto — disse Giosuè, — ed è proibito fare Sue immagini.

— Come comunicate con lui?

— Ha parlato direttamente a Mosè — rispose l’anziano alla destra di Giosuè. — Ci ha guidato attraverso territori selvaggi e ha dato a Mosè le tavole della legge.

— Ci ha condotto qui — continuò Giosuè, battendo seccamente l’indice sul tavolo. — A Gerico. Abbiamo attraversato il fiume Giordano senza bagnarci, proprio come quando Lui ha guidato Mosè e il nostro popolo attraverso il Mar Rosso. Ci ha promesso che questa terra di Canaan sarà nostra. Ma se non riusciamo a conquistare Gerico, non saremo nient’altro che vagabondi mendicanti, stranieri sulla nostra terra, esuli per sempre.

— Gerico domina la pianura, questo riesco a vederlo.

— Gerico domina l’intera regione. Chi tiene Gerico, tiene tutta Canaan — disse. — È per questo che dobbiamo prendere la città. È per questo che dovete aiutarci.

— Siamo solo due dozzine.

— Due dozzine di soldati ittiti — precisò Giosuè. — Gli stessi Ittiti che hanno raso al suolo Ugarit. Soldati esperti nella guerra d’assedio.

— Ma con così pochi…

Gli occhi di Giosuè brillarono. — Sei stato mandato da Dio ad aiutarci. Rifiutare significherebbe rifiutare il Dio di Israele. E questa sarebbe una cosa estremamente stupida.

Io gli sorrisi. — Sarebbe poco gentile da parte mia rifiutare la tua richiesta, dopo l’ospitalità che ci hai dimostrato.

— Ci aiuterete, allora? — A dispetto di se stesso si sporse in avanti, impaziente.

— I miei uomini ed io faremo quello che possiamo — dissi, rendendomi conto che avevo a che fare con un fanatico e che non c’era via d’uscita.

Tutti sorrisero e annuirono e borbottarono della volontà di Dio.

Ma io aggiunsi: — Una volta che Gerico sarà caduta, riprenderemo la strada verso l’Egitto.

— Egitto! — La parola passò attorno al tavolo come una bestemmia.

— L’Egitto è la nostra destinazione — dissi con calma. — Vi aiuteremo ad assediare Gerico, e poi riprenderemo il nostro cammino verso quella terra.

Giosuè sorrise appena. — Dopo che Gerico sarà caduta, potrete andare in Egitto o in qualunque altro posto vorrete. — Suonò come: “Potete andare all’inferno, per quello che me ne importa”.

28

— Questa è follia — disse Lukka.

Era in piedi nel caldo del mattino, ai margini dell’accampamento israelita, e studiava le triple mura di Gerico. All’alba avevamo fatto il giro completo della città assediata, a distanza di un tiro d’arco. Le mura erano enormi, molto più alte di quelle di Troia e indubbiamente molto più grosse. E per di più, erano ulteriormente difese da una profonda trincea che ne seguiva quasi tutto il perimetro. L’attraversava un ponte levatoio, al momento addossato alla porta. Il fossato era parzialmente riempito di terra e detriti, ma era pur sempre ripido e costituiva un ostacolo apparentemente insormontabile.

— Non riusciremo mai ad appoggiare le nostre torri contro queste mura — mi disse Lukka. Io dovetti convenirne. Gerico sorgeva in cima a una bassa collina, e il muro principale partiva direttamente dalle rocce della vallata e s’inerpicava verso l’alto. Dove il terreno era pianeggiante c’era il fossato, mentre nel tratto che saliva lungo la cresta le mura si triplicavano. Anche senza quella tripla barriera, il fianco della collina era troppo ripido per poterci trascinare le torri da assedio, e le mura erano corredate di solidi torrioni da cui arcieri e frombolieri potevano facilmente colpire eventuali attaccanti.

— Non c’è da stupirsi che Giosuè abbia bisogno d’aiuto — borbottai.

Lukka socchiuse gli occhi per difendersi dal bagliore del sole. — La gente di Gerico ha avuto a disposizione cento generazioni per perfezionare le sue difese. Nessuna banda di nomadi riuscirà ad abbattere quelle mura.

Sorrisi. — È per questo che Giosuè ci ha gentilmente invitato a rimanere con lui, finché quelle mura non vengono giù.

— Resteremo qui molto tempo, allora.

Quella mattina, facemmo il giro delle mura varie volte, cercando un punto debole che però non trovammo. La sola cosa che notai fu che alcune sezioni sembravano più vecchie delle altre, con i mattoni più grigi e allineati con minor precisione.

— Terremoti — disse Lukka. — Le mura sono fatte di mattoni di fango. Una volta seccati diventano duri come la pietra. Ma un terremoto può farli cadere.

Un terremoto. Il barlume d’idea mi sfiorò la mente.

Lukka continuò. — Vedi come il muro è costruito a sezioni, con dei tronchi che le dividono l’una dall’altra? In questo modo, anche quando un terremoto ne danneggia una, le altre rimangono in piedi.

Io annuii, ma la mia mente era altrove.

Quella notte, mentre stavamo sdraiati insieme nella mia tenda, Elena chiese: — Per quanto tempo dovremo restare fra questa gente terribile?

— Finché non prenderanno la città — risposi.

— Ma potrebbero non…

Io la feci tacere con un bacio. Facemmo l’amore, e lei si addormentò.

Anch’io chiusi gli occhi, e decisi di trasferirmi in quell’altro mondo dove i cosiddetti dèi facevano i loro giochi con il nostro destino. Concentrando ogni particella del mio essere, attraversai l’abisso che mi divideva da loro.

Ancora una volta mi ritrovai in quell’aura dorata. Ma riuscivo a vedere la loro città nella nebbia luccicante, e le sue torri e le sue guglie mi sembravano più chiare che mai.

— Ahriman — chiamai, con la mente e con la voce. — Ahriman, mio antico nemico, dove sei?

— Non qui, creatura.

Mi voltai e vidi la donna altezzosa cui io pensavo come a Era. Indossava una veste dorata che le lasciava nuda una spalla, stretta in vita da una catena di gemme. I suoi capelli scuri ricadevano in riccioli, i suoi occhi profondi mi studiavano. Con un sorriso che sembrava quasi minaccioso, disse: — Almeno, sei vestito meglio dell’ultima volta che ci siamo incontrati.

Feci un leggero inchino. La mia uniforme improvvisata, composta da una tunica e da un corsetto di pelle, era in qualche modo migliore degli stracci che indossavo a Ilio.

— Sei venuta per graffiarmi e farmi uscire altro sangue? — chiesi.

Il suo sorriso si allargò leggermente. — Tutt’altro. Anzi, forse posso salvare il sangue che hai ancora in corpo. Il nostro dorato Apollo è impazzito, sai.

— Non si fa più chiamare Apollo.

Lei si strinse nelle spalle. — I nomi non sono importanti, qui. Parlo così solo perché la tua mente limitata possa capire.

— Ti sono grato di questa gentilezza — dissi. — Il Radioso ha trovato una tribù che lo venera come unico dio.

— Sì. E sta cercando di eliminare tutti noi. E per riuscirci — aggiunse inarcando le sopracciglia — si sta servendo di te.

Io rimasi in silenzio, assimilando quelle informazioni.

— Non è così? — domandò lei.

— Sto aiutando gli Israeliti a conquistare Gerico — ammisi. — O almeno, sto cercando di…

— Questo fa parte del suo piano, ne sono sicura!

— Ma non sapevo che stesse tentando di… — ricordai le parole che lei aveva usato — … eliminarvi.

— Adesso lo sai!

— Questo significa che vuole uccidervi?

Ringhiò, quasi. — Lo farebbe, se potesse. Ma non avrà mai una simile possibilità. Lo distruggeremo; e distruggeremo anche te, se continuerai ad aiutarlo in qualunque modo.

— Ma…

Puntandomi addosso un dito accusatore minacciò. — Non esiste un terreno neutrale, Orion. O smetti di aiutarlo, o sarai nostro nemico. Capisci?

— Capisco — risposi.

— Allora considera attentamente le conseguenze delle tue azioni.

— Quella che chiamano Atena — dissi. — Lui mi ha promesso di…

— Non ci si può fidare delle sue promesse. Questo lo sai.

— Voglio resuscitarla, riportarla alla vita — dissi.

— E lui ti ha offerto la vita di Atena in cambio della tua obbedienza? — Era scosse la testa. — Lascia la tua dea morta a noi, Orion. È una di noi, non è per quelli come te.

— Può essere riportata in vita?

— Questo non…

— Può essere riportata in vita?

I suoi occhi si spalancarono, che fosse per rabbia, per paura o per qualcos’altro, non potrei dirlo. Trasse un profondo respiro, poi, infine, rispose con calma: — Una cosa del genere è… possibile. Anche se appena al minimo delle possibilità. Ma tu non devi neanche sognarlo!

— Io lo sogno. Non sogno altro.

— Orion, povero verme, se anche lei fosse riportata in vita, non vorrebbe avere più niente a che fare con te. È una di noi, così irraggiungibile per te che…

— Io l’amo — dissi. — Questo è il vantaggio che ho su voi tutti. Io posso amare. E anche lei. Ma voi no. Né tu, né il Radioso, né nessuno degli altri dèi. Ma lei può, e mi ha amato. Ed è morta per questo.

— Sei senza speranza — disse Era brusca. Mi volse le spalle in un vortice di vesti dorate e scomparve nella nebbia luccicante.

Io rimasi solo per alcuni istanti, poi mi ricordai perché ero lì. Per trovare Ahriman. Quello che gli Achei chiamavano Poseidone, il portatore di terremoti.

Chiudendo gli occhi, visualizzai la sua figura scura e massiccia, il suo volto grigio e pesante, i suoi occhi brucianti. Lo chiamai mentalmente, dicendomi che se non avesse risposto al mio richiamo avrei dovuto cercarlo e trovarlo.

Ricordai, vagamente, una foresta di alberi giganti dove vivevano Ahriman e la sua specie, in un continuum che esisteva da qualche parte, in qualche tempo. Esisteva ancora? Potevo trovarlo?

Un’ombra scura passò sopra di me. La percepii anche se tenevo gli occhi chiusi. Li riaprii e mi ritrovai in una foresta buia e minacciosa: nemmeno una goccia di luce penetrava attraverso la volta di foglie quasi nere che mi sovrastava. Enormi tronchi mi circondavano come grigie colonne che si innalzavano verso l’infinito. Il terreno fra i tronchi era coperto di erba tagliata, piatta e livellata come un parco.

— Perché sei qui?

Dal buio, prese forma una figura ancora più buia: Ahriman, forte e massiccio, vestito del colore della foresta. Ma i suoi occhi brillavano come carboni ardenti.

— Per trovarti — risposi.

Mi si avvicinò di più. Nel suo sussurro aspro e faticoso, chiese: — E perché mi cerchi?

— Ho bisogno del tuo aiuto.

Mi fissò. Era come un vulcano sul punto di eruttare. — Non farò crollare le mura di Gerico per te, Orion. Non aiuterò il tuo pazzo Radioso nei suoi piani selvaggi.

— Non è per lui — dissi.

— Questo non fa differenza. Io desidero solo proteggere il mio popolo nel nostro continuum. Non prenderò parte al bisticcio dei sedicenti Creatori. Non hanno creato né me né la mia razza. Non gli devo niente.

— Il Radioso mi ha promesso che avrebbe riportato Atena alla vita se l’avessi aiutato — dissi, ignorando le sue parole. — Mi aspetta nella grande piramide in Egitto.

— Ti aspetta lì per distruggerti, una volta che avrai cessato di essergli utile.

— No — dissi. — Sarò io a distruggerlo, in qualche modo.

— E cosa ne sarà della tua dea morta, allora?

Non trovai una risposta.

Lentamente, Ahriman dondolò la testa massiccia. — Orion, se vuoi un terremoto, devi fartelo da solo.

Stavo per chiedergli cosa volesse dire, ma la foresta e la figura minacciosa del mio vecchio nemico cominciarono ad affievolirsi, e io mi ritrovai seduto nel buio della mia tenda, sul pagliericcio vicino ad Elena.

Anche lei era seduta, con gli occhi spalancati per il terrore.

— Non c’eri più — sussurrò con voce soffocata. — Non c’eri e poi sei apparso vicino a me.

Le misi un braccio intorno alle spalle nude e cercai di calmarla. — Va tutto bene…

— È magia! Stregoneria! — Aveva la pelle fredda, e tremava.

Stringendola con entrambe le braccia, dissi: — Elena, molto tempo fa ti ho detto di essere il servitore di un dio. Era la verità. Qualche volta devo andare dagli dèi, parlare con loro, chiedere aiuto.

Sollevò lo sguardo su di me. Anche nelle ombre che precedevano l’alba, potei vedere la paura e la meraviglia sul suo viso. — Vai davvero sull’Olimpo?

— Non so il nome di quel posto, ma, sì, vado nella casa degli dèi.

Elena sprofondò nel silenzio, come se non ci fossero parole per esprimere lo shock che provava.

— Non sono dèi — le dissi — non nel senso che intendi tu. Certamente non nel senso in cui credono Giosuè e la sua gente. Non gli interessa nulla di noi, tranne quando vogliono usarci per i loro piani. Non sono nemmeno immortali. La dea che una volta amavo è morta, uccisa da uno della sua specie.

— Amavi una dea?

— Amavo una donna del gruppo che voi chiamate dèi e dee — risposi. — Adesso è morta, e io cerco la vendetta contro colui che l’ha uccisa.

— Cerchi la vendetta contro un dio?

— Cerco vendetta contro un pazzo che ha ucciso il mio amore.

Elena scosse la bella testa. — Questo è un sogno. Deve essere un sogno. Eppure… i sogni stessi vengono mandati dagli dèi.

— Non è un sogno, Elena.

— Cercherò di capirne il significato — disse ignorando le mie parole. — Gli dèi ci hanno mandato un messaggio, e io cercherò di capirne il significato.

Era il suo modo di adattarsi a quello che le avevo detto. Decisi di non discutere. Sdraiato sul pagliericcio, la tenni stretta finché non si addormentò di nuovo. La mia mente si concentrò su Ahriman e su quello che mi aveva detto: “Orion, se vuoi un terremoto, devi fartelo da solo”.

Pensai di aver capito cosa intendeva. Con un sorriso, mi rimisi a dormire.

29

— Un tunnel sotto il muro? — Lukka sembrava più divertito che scettico.

Ci trovavamo di fronte al lato occidentale delle mura di Gerico, dove cominciavano a salire. C’erano due muri di sostegno più piccoli alla base della collina, il più alto a terrazza, ma nessuna trincea li difendeva.

— È possibile? — chiesi.

Si sfregò la barba. La collina su cui sorgeva Gerico era costituita da detriti di precedenti insediamenti. Generazioni incalcolabili di costruzioni fatte di mattoni di fango erano crollate con il passare dei secoli a causa del tempo, delle piogge, del fuoco e delle guerre.

Come tutte le città, in quella parte del mondo, Gerico era costruita in cima alle sue stesse rovine, su un tumulo ogni volta più alto sul livello della pianura originaria.

— Ci vorranno molto tempo e molti lavoratori — disse Lukka infine.

— Abbiamo abbondanza di entrambi.

Ma lui era ancora lontano dall’essere soddisfatto. — I tunnel possono essere trappole. Una volta che ci avranno visti scavare, possono uscire dalle mura e massacrarci. O aprire un contro-tunnel e prenderci di sorpresa.

— Allora dovremo fare in modo che non ci vedano — dissi con scioltezza.

Lukka rimase poco convinto.

Ma gli occhi di Giosuè si illuminarono quando gli spiegai il mio piano. — Una volta che il tunnel sarà arrivato sotto le fondamenta del muro principale, accenderemo un fuoco che brucerà completamente le travi di legno e farà cadere quella sezione di muro.

Passeggiava avanti e indietro per la sua tenda, la schiena leggermente curva, le mani intrecciate dietro la schiena. Giosuè era un uomo sorprendentemente piccolo, ma quello che gli mancava in statura lo compensava con il fervore. E anche se sembrava che gli Israeliti fossero governati dal loro consiglio di anziani, dodici uomini che rappresentavano ciascuna delle loro tribù, era solo Giosuè che prendeva le decisioni militari.

Infine si girò verso di me e mosse la testa a scatti facendo dondolare la barba e i riccioli scuri. — Sì! Il Signore Iddio ci ha mandato la risposta. Faremo cadere le mura di Gerico con uno schianto di tuono! E tutti vedranno che il Signore Dio di Israele è più potente di qualunque muro fatto dall’uomo!

Era cosmicamente ironico. Giosuè credeva con ogni grammo del suo essere che io gli fossi stato mandato dal suo dio. E in un certo senso era così. Ma sapevo che se avessi cercato di dirgli che il dio che adorava era umano quanto lui, semplicemente un uomo del lontano futuro che aveva sviluppato poteri sovrumani, sarebbe impallidito e mi avrebbe accusato di blasfemia. Se gli avessi detto che inoltre era un assassino, un pazzo, rinnegato anche dagli “dèi” suoi simili e che io intendevo distruggerlo, un giorno, Giosuè mi avrebbe fatto uccidere senza pensarci due volte.

Così rimasi in silenzio e lasciai che credesse in quello che credeva. Il suo mondo era molto più semplice del mio, e a suo modo Giosuè aveva ragione: il suo dio mi aveva mandato ad aiutarli a far cadere le mura di Gerico.

La grande forza di Gerico era la sua sorgente, una fonte d’acqua fresca e pura che sgorgava dal terreno, da quanto Beniamino mi aveva detto. Era per questo che il muro orientale della città arrivava sino al livello del manto roccioso: proteggeva la fonte. La maggior parte delle torri era da quella parte, come anche la trincea e le entrate principali della città.

Fingendo di riprendere l’assedio, rizzammo un nuovo gruppo di tende sul fianco occidentale della collina e costruimmo un recinto per i cavalli, tutto fuori dalla portata di un tiro d’arco. Da una delle tende, la più grande, cominciammo a scavare. Giosuè fornì centinaia di uomini. Nessuno di loro era uno schiavo; non c’erano schiavi nell’accampamento israelita. Gli uomini lavoravano volontariamente. Non senza lamentarsi, discutere, borbottare. Ma scavavano, mentre Lukka e i suoi Ittiti, come li chiamavano gli Israeliti, sovrintendevano ai lavori.

Disfarsi della terra fu il primo problema. Di giorno, riempivamo dei cesti che tenevamo nella tenda, e durante la notte andavamo a svuotarli a circa un chilometro dalla città.

Le travi per puntellare il tunnel erano un altro problema, dal momento che gli alberi erano molto scarsi in quella deserta terra rocciosa. Squadre di uomini vennero mandati a nord, lungo il fiume, nella terra chiamata Galilea, dove acquistarono il legno dagli abitanti dei villaggi intorno al lago.

Il terreno non era troppo difficile per i picconi di bronzo e rame che avevamo, finché rimanemmo al di sopra del mantello roccioso, anche se lo strato leggero era a malapena sufficiente a ospitare un tunnel. I nostri scavatori dovevano lavorare sdraiati sulla pancia. Poi, lo sapevo, una volta raggiunte le fondamenta dei due muri di sostegno esterni, sarebbero cominciate le complicazioni.

Passavo le notti con Elena, ed entrambi diventavamo più irascibili mentre il tempo passava lentamente. Lei voleva andarsene, e riprendere il cammino a sud verso l’Egitto.

— Partiamo adesso, stanotte, in questo momento — mi esortò. — Solo noi due. Non si prenderanno il disturbo di seguirci o riportarci qui. C’è Lukka ad occuparsi dello scavo, e questo è tutto ciò che realmente vogliono da te. Possiamo andarcene!

Io le accarezzai i capelli dorati, che brillavano nella pallida luce della luna. — Non posso lasciare Lukka e i suoi uomini. Hanno fiducia in me. E non possiamo sapere cosa farebbe veramente Giosuè se noi scappiamo. È un fanatico. Potrebbe massacrare Lukka e i suoi una volta finito il tunnel: sacrificarli al suo dio.

— E allora? Moriranno, prima o poi. Sono soldati; si aspettano di essere uccisi.

— Non posso farlo — dissi.

— Orion, ho paura di questo posto. Ho paura che gli dèi che tu visiti ti toglieranno a me per sempre.

Scuotendo la testa le risposi: — No. Ti ho promesso di portarti in Egitto ed è quello che farò. Solo dopo sistemerò le cose con colui che cerco.

— Allora andiamo in Egitto subito! Dimentica Lukka e gli altri. Di’ agli dèi di portarci in Egitto, adesso, stanotte!

— Non dico niente agli dèi — le ricordai.

— Allora lascia parlare me con loro. Sono una regina, dopotutto, e figlia di Zeus in persona. Mi ascolteranno.

— Ci sono volte — dissi — in cui parli come una bambina viziata, così presa da te stessa che meriteresti una sculacciata.

Lei sapeva quando aveva raggiunto il limite della mia pazienza. Circondandomi il collo con le braccia, sussurrò: — Non sono mai stata sculacciata. Non saresti così brutale con me, vero?

— Potrei.

— Non potresti pensare a qualche altra punizione? — Fece scorrere le dita lungo la mia spina dorsale. — Qualcosa che ti darebbe più piacere?

Io stetti al gioco. — Cos’hai in mente?

Passò il resto della notte a mostrarmelo.

Sebbene Elena ed io consumassimo di solito i nostri pasti con Lukka e gli uomini, vicino al nostro fuoco e nelle nostre tende, ogni tanto Giosuè o Beniamino mi invitavano a cenare con loro. Me solo. Avevano messo in chiaro che le donne non mangiavano con gli uomini. Io declinai la maggior parte di quegli inviti, ma ne accettai qualcuno per educazione.

Giosuè era sempre circondato da anziani e sacerdoti, con moltissimi servitori dei due sessi che si davano da fare intorno al suo tavolo. Si parlava sempre del destino dei Figli di Israele, e di come il loro dio li aveva riscattati dalla schiavitù in Egitto e aveva promesso loro il dominio su quella terra chiamata Canaan.

Beniamino, suo padre e i suoi fratelli parlavano di cose diverse, quando mangiavo con loro. Il vecchio ricordava i giorni in Egitto, a lavorare da schiavo come costruttore di mattoni per il re, che lui chiamava faraone. Una volta accennai al fatto che Giosuè mi sembrava un fanatico. Il vecchio sorrise con tolleranza.

— Vive nell’ombra di Mosè. Non è facile portare il peso del comando dopo che il capo più grande di tutti è andato a raggiungere Abramo e Isacco.

Beniamino si intromise: — Giosuè sta cercando di trasformare in un esercito un popolo di schiavi. Sta tentando di creare disciplina dove prima c’erano fame e paura.

D’accordo, ci voleva un uomo straordinario per riuscirci. E cominciai a guardare quegli Israeliti con occhi nuovi. Diversamente dagli Achei a Troia, appartenenti alla classe dei guerrieri, saccheggiatori da generazioni che costituivano il livello più alto di una società strettamente gerarchica, gli Israeliti erano un’intera nazione: uomini, donne, bambini, greggi, con le tende e tutti i loro beni, che vagava per quella terra bruciata dal sole, una terra di rocce e di montagne, in cerca di una patria. Non avevano nessuna classe guerriera. La sola casta privilegiata che riuscivo a vedere era quella dei sacerdoti, ma anche questi lavoravano con le mani, quando ce n’era bisogno. Cominciai a sentire di nuovo rispetto per loro, e mi chiesi se le promesse del dio sarebbero mai state mantenute.

Poco dopo il pomeriggio del quarto giorno di scavi, Lukka uscì dalla grande tenda, strizzò gli occhi contro il sole inesorabile e venne verso di me. Come sempre, indipendentemente dal caldo o dal freddo, indossava la corazza di pelle e portava tutte le sue armi. Sapevo che la cotta di maglia e l’elmo di ferro erano a portata di mano. Lukka era pronto alla battaglia in ogni momento.

Io mi trovavo su una bassa altura, e esaminavo il lontano muro di Gerico. Nessun segno di attività. Nessuna sentinella in vista. La città tremolava nella foschia della calura mentre il sole mi bruciava le spalle e il collo scoperti. Mi ero liberato di tutto, a parte il gonnellino.

Avevamo lanciato qualche freccia incendiaria contro la città, quella mattina. Ogni giorno davamo una piccola dimostrazione di forza da qualche parte lungo il muro occidentale, per far credere ai difensori che stessimo cercando un punto debole. Ma nel sole di mezzogiorno non c’era in giro praticamente nessuno.

Lukka colava sudore quando mi raggiunse. Io avevo fatto in modo che il mio corpo si adeguasse al calore, dilatando i capillari e regolando la temperatura corporea. Come qualunque essere umano, avevo bisogno d’acqua per restare in vita, ma diversamente dagli altri, potevo conservarla nei tessuti per un tempo molto più lungo; essudandone solo una piccola parte.

— Devi essere mezzo cammello — disse Lukka, quando gli offrii la borraccia che portavo con me. Bevve con avidità, assetato.

— Come va il lavoro? — chiesi.

— Abbiamo raggiunto la base del muro più esterno. Ho dato agli operai qualcuna delle nostre punte di lancia di ferro per affrontare i mattoni. Sono duri come pietra.

— Quanto ci vorrà per perforarlo? Si strinse nelle spalle, facendo scricchiolare leggermente la corazza di pelle. — Difficile saperlo. Potremmo lavorare di notte.

— Fammi vedere — dissi, incamminandomi verso la tenda.

C’era più fresco, all’ombra, ma l’aria era soffocante. La polvere era spessa abbastanza da farmi starnutire. Lukka ordinò agli operai di fermarsi e di uscire dal tunnel. Io mi misi carponi e avanzai strisciando.

Il tunnel era largo a sufficienza perché due uomini potessero passarvi carponi, fianco a fianco. Lukka mi seguì un po’ indietro. Non portavamo nessuna luce, ma ogni tre metri circa gli scavatori avevano infilato una sottile canna bucata che arrivava in superficie, ottenendo aria da respirare e una piccola quantità di luce, appena sufficiente ad evitare il buio totale.

Arrivammo alla fine del tunnel abbastanza rapidamente, e ci trovammo di fronte una parete di mattoni di fango duri come la pietra. A terra giacevano due corti paletti, ognuno portava legata una punta di lancia di ferro. I mattoni erano scalfiti e parzialmente perforati.

Nella luce fioca ne presi uno e colpii la parete. Un suono sordo e risonante, e alcune scaglie di fango secco vennero giù.

— Sarà un lavoro lento — dissi.

— E rumoroso — aggiunse Lukka. — Soprattutto se lavoreremo di notte, ci sentiranno dall’interno della città.

Aveva ragione, come al solito.

Uscimmo in fretta dal tunnel come due roditori che attraversano raspando la loro tana. Il sole splendente e l’aria del giorno sembravano meravigliosi, nonostante il caldo.

— Niente lavoro notturno — dissi a Lukka. — Il tempo che potremmo guadagnare non vale il rischio di essere scoperti.

— Quando arriveremo al muro principale ci sentiranno scalpellare anche di giorno — fece notare lui.

— Dovremo pensare a qualcosa, allora.

Fu Giosuè che trovò una soluzione. Quella notte, quando gli dissi che ci stavamo avvicinando abbastanza da essere sentiti dall’interno della città, si arricciò la barba con le dita qualche minuto, poi mi guardò con un gran sorriso.

— Faremo tanto chiasso che non sentiranno mai scavare — disse. — Faremo una festa rumorosissima in onore dei Signore.

Io non ero sicuro dell’efficacia del suo piano, ma lui insistette che tutto sarebbe andato bene e mi pregò di riprendere i lavori la mattina dopo.

Mentre tornavo alla mia tenda, quella sera, e il sole calava dietro le montagne facendole diventare viola e rendendo il cielo di un fiammante rosso dorato, uno straniero mi venne incontro.

— Orion — sussurrò. — Vieni con me.

Era imbacuccato in un lunga veste grigia con sopra un mantello scuro, il cappuccio calato che gli nascondeva i tratti del viso.

Ma io sapevo chi era, e lo seguii senza parlare mentre passava fra le tende dell’accampamento israelita e si dirigeva fuori, attraverso i verdi campi, in direzione del fiume lontano.

— Siamo abbastanza distanti — dissi io alla fine. — Possiamo fermarci qui. Anche se brilli come una stella nessuno lo noterà dall’accampamento.

Lui rise, un riso basso e profondo soffocato in gola. — Non ci sono molte possibilità che io emani radiazioni sufficienti perché loro mi trovino.

Con loro, sapevo che non si riferiva agli Israeliti.

— Stai aiutando questa gente a sopraffare Gerico. Questo mi fa piacere.

— Potrò partire per l’Egitto una volta che Gerico sarà presa? — chiesi.

— Certamente. — Sembrava sorpreso della mia domanda.

— E tu resusciterai Atena?

— Proverò, Orion. Proverò. Non Posso promettere nient’altro. Ci sono delle difficoltà; enormi difficoltà. Loro stanno cercando di fermarmi.

— Lo so.

— Si sono messi in contatto con te?

— Io mi sono messo in contatto con loro. Pensano che tu sia diventato pazzo.

Rise di nuovo. Amaramente. — Io lotto da solo per sostenere il continuum, il loro continuum, in modo che possano continuare a esistere. Sono l’unica barriera contro la distruzione completa. Io proteggo la Terra e le mie creature con ogni particella della mia forza e della mia saggezza. E loro la chiamano pazzia. Folli!

— Era mi ha detto che se ti aiuto, lei e gli altri mi distruggeranno.

Nell’ombra del cappuccio non riuscivo a cogliere la sua espressione. Era la prima volta che incontravo il Radioso senza che irradiasse luce e splendore.

Dato che non rispondeva, aggiunsi: — E tu mi hai avvisato che se non ti aiuto mi distruggerai.

— E tu mi hai detto, Orion, che vuoi distruggere me. Una bella situazione.

— Puoi ridare la vita ad Atena?

— Se io non posso, non può nessun altro. Nessuno ci proverebbe nemmeno, Orion. Ci vuole un… pazzo, come me, anche solo per tentare una cosa del genere.

— Allora continuerò ad aiutarti.

— E mi riferirai esattamente quello che loro ti diranno in qualunque momento si mettano di nuovo in contatto con te.

— Se lo desideri — risposi.

— Io non desidero, Orion. Io ordino. Posso vedere i tuoi pensieri chiaramente come parole scritte in cielo con il fuoco. Non mi puoi nascondere niente.

— Allora vedi la tua stessa morte.

Rise divertito, questa volta. — Ah, Orion, credi davvero di poter sconfiggere gli dèi!

— Voi non siete dèi. Puoi ingannare nomadi ignoranti come Giosuè e il suo popolo, ma io la so più lunga.

— Certo, certo — disse con condiscendenza. — Adesso, torna dalla tua Elena e alle sue moine per farsi portare in Egitto.

Non c’era niente che non sapesse, mi resi conto. Stava lì davanti a me, e anche sotto quel travestimento potei percepire il suo sorrisino di superiorità.

— Dimmi una cosa — chiesi. — Perché Gerico è così importante? Perché questa gente di Giosuè è così cara al tuo cuore? Una volta hai detto che non sei tanto egocentrico da provare piacere solo quando la gente ti venera. È ancora vero?

Per un momento non rispose. Quando infine lo fece, la sua voce era bassa e seria. — Sì, è ancora vero, Orion. Mi piace che le mie creature mi adorino, lo ammetto. Ma la ragione vera che sta dietro a Gerico, la ragione vera per cui porterò la mia gente a governare questa terra di Canaan, è umiliare gli altri che cercano di ostacolare i miei piani. Mi hanno fermato a Troia, con il tuo aiuto. Non mi fermeranno qui!

Non ebbi risposta a quelle parole.

— Credono che sia pazzo, vero? Vedremo chi è il vero protettore del continuum. Si inchineranno tutti davanti a me, Orion. Tutti loro!

Si voltò e s’incamminò da solo verso il fiume. Lo seguii con gli occhi nelle ombre della notte che si facevano più profonde, mentre le stelle uscivano una ad una, finché la sua figura non scomparve nel buio.

30

— Questo potrebbe distruggere tutti i nostri sogni, tutte le nostre speranze. — Il giovane viso di Beniamino aveva un’espressione molto solenne. Si trovava nella mia tenda, vicino a Lukka che stava a testa bassa con un soldato hatti alle spalle, altri due ai lati, e una piccola folla adirata di Israeliti subito fuori, in minaccioso silenzio.

Elena sedeva nell’angolo opposto della tenda, su una sedia di legno che mi era stata data da uno dei fratelli di Beniamino. Una delle donne le aveva portato un soffice cuscino di piume, gaiamente decorato di strisce in rilievo rosse e blu.

Beniamino disse: — Questo soldato ittita ha fatto i suoi comodi con una delle giovani donne della mia tribù, e ora rifiuta di trattarla come deve.

Io rimasi sorpreso, quasi sbalordito a quelle parole. Per settimane eravamo vissuti fianco a fianco senza l’ombra di un problema. Difficilmente le donne israelite volevano avere a che fare con uomini che non fossero della loro tribù. Quelle che lo facevano, giovani vedove e poche nubili che non si preoccupavano della verginità, erano state sufficienti a Lukka e ai suoi uomini.

Ma ora una delle ragazze chiedeva il matrimonio come prezzo per aver fatto l’amore.

Io guardai Lukka. Il suo viso era cupamente impassibile mentre stava in piedi davanti a me. Vidi che aveva la spada al fianco. Beniamino, ritto vicino a lui, sembrava quasi un bambino: più piccolo, più magro, il giovane volto senza rughe, senza cicatrici di battaglia. Ma rappresentava l’onore della sua tribù.

— Portate l’uomo davanti a me — dissi.

Lukka alzò una mano. — Con il tuo permesso, mio signore, parlerò io per lui.

Sollevai un sopracciglio.

— È una nostra usanza — spiegò. — Io sono il suo comandante. Sono io responsabile della sua condotta.

Dunque erano quelle le regole del gioco, dissi a me stesso. Lukka stava tra me e l’accusato. Se volevo assegnare una punizione, sarebbe toccata a Lukka per primo.

Beniamino lanciò uno sguardo al mio braccio destro, e sembrò capire cosa implicassero le sue parole.

— La giovane signora in questione — chiesi a Beniamino — è stata costretta?

Lui scosse la testa. — Non afferma questo.

— Era vergine?

Gli occhi dell’Israelita si spalancarono. — Naturalmente!

Io mi rivolsi a Lukka. Lui si strinse leggermente nelle spalle. — Qui si tratta della parola di lei contro quella dell’accusato.

Il viso di Beniamino divenne rosso.

— Vuoi dire che affermi che non lo era?

Io alzai le mani per evitare che la situazione degenerasse. — Non c’è nessun modo di chiarire questo punto, in un senso o nell’altro. Cosa vuole lei da questo uomo?

— Il matrimonio.

— Suo padre lo approva?

— Lo pretende!

Io guardai il soldato sotto accusa dietro di loro, ma lui teneva la testa talmente china che non riuscii a vederlo in faccia. A Lukka, chiesi: — L’uomo è disposto a sposare questa donna?

— Sì, la sposerà.

Vidi il soldato irrigidirsi, come se un ago rovente gli fosse stato conficcato nella carne.

— Allora qual è il problema?

— Per sposare qualcuno della nostra tribù — disse Beniamino — è necessario accettare la nostra religione.

— E questo lui non lo farà — intervenne Lukka. — Il suo dio è Taru, un dio della tempesta, non un qualche spirito invisibile e senza nome.

Pensai che Beniamino sarebbe scoppiato. Diventò rosso come la fiamma dalla radice dei capelli fino al collo. Se avesse avuto un’arma avrebbe attaccato Lukka sul posto, ne sono sicuro.

Lo presi per le spalle e lo costrinsi a guardarmi. — Uomini diversi venerano dèi diversi, amico mio — dissi nel modo più delicato che mi riuscì. — Questo lo sai.

Emise un gemito di raccapriccio. Il suo viso tornò a un colore più vicino al normale. — Inoltre — aggiunse Lukka — per abbracciare la loro religione bisogna farsi circoncidere, e questo non lo accetterebbe mai.

— È proprio necessario? — chiesi a Beniamino.

Lui annuì.

Non riuscivo a biasimare il soldato perché rifiutava la circoncisione. Però aveva scelto la donna sbagliata. Lei gli aveva fornito il sesso e ora esigeva il matrimonio in pagamento. Ma gli Israeliti pretendevano che le loro donne sposassero solo uomini della stessa fede, quindi lui doveva accettare la sua religione. Se rifiutava, saremmo stati sommersi da un’orda di parenti furibondi che ci avrebbero massacrato in nome dell’onore della famiglia e della purezza della religione. Naturalmente, molti di loro ci avrebbero accompagnato nella tomba, ma sarebbe finita con noi tutti morti e Gerico ancora in piedi.

Desiderai quasi che il Radioso fosse davvero un dio saggio e misericordioso, tale da scendere tra noi per illuminare con la luce della ragione quello spinoso problema. Quasi.

Guardai Beniamino negli occhi e dissi: — Amico mio, mi sembra che se l’uomo è disposto a sposare la donna, sia più che sufficiente. Non è andato da lei in cerca della rivelazione religiosa, ma in cerca d’amore. Non puoi aspettarti che rinunci alla sua fede.

Prima che potesse pensare una risposta, aggiunsi: — E come sai, abbiamo la parola giurata di Giosuè in persona che una volta caduta Gerico ci sarà permesso di lasciarvi e di riprendere la nostra strada verso l’Egitto. La donna è disposta ad accompagnare suo marito in quella terra? La sua famiglia acconsente che lei si separi da loro?

Il giovane israelita prese molto tempo per riflettere, aggrottando le sopracciglia pensierosamente mentre noi tutti stavamo lì, in attesa della sua risposta. Sapeva bene quanto me cosa c’era in gioco. Avrebbe sacrificato l’onore della ragazza in cambio della conquista di Gerico?

Fu Elena a rompere il silenzio.

Si alzò dalla sedia e venne lentamente verso di me, dicendo: — Voi uomini siete causa di così tanti problemi! Povera ragazza, capisco benissimo come si sente.

Beniamino la fissò. Elena indossava un veste modesta, ma i suoi capelli dorati e la sua sfolgorante bellezza conferivano regalità anche al più semplice indumento.

Si fermò vicino a me e si tolse l’anello dall’indice sinistro. Era un pesante cerchio d’oro, con incastonato un rubino sfavillante.

— Dallo alla tua parente — disse porgendolo a Beniamino — e dille che è il dono di una regina. Deve accontentarsi di questo, perché l’uomo che ama non può sposarla.

— Ma, mia signora…

— Shsh — disse Elena. — Che razza di marito avrebbe, se la sposasse? Un uomo che le darebbe la colpa per ogni goccia di pioggia che gli cade addosso. Un soldato che non conosce altro che la violenza, e che fuggirebbe da lei la prima volta che ne avesse l’occasione. O la trascinerebbe di nuovo in Egitto, la terra della sua schiavitù. Di’ a suo padre che dovrebbe essere felice di sbarazzarsi di lui. Quando Gerico cadrà e noi saremo partiti, la consideri come una vedova. Questo anello l’aiuterà a trovarsi un marito adatto tra la sua stessa gente.

— Ma il suo onore… — disse Beniamino.

— Niente può rimpiazzarlo. Però lei vi ha rinunciato abbastanza facilmente, no? Ha commesso un grave errore, ma non costringetela ad accentuarlo con uno ancora più grande.

Beniamino teneva l’anello in una mano. Guardò Elena, poi si voltò verso di me. Grattandosi la testa, alla fine disse: — Porterò questo a suo padre e vedrò se sarà d’accordo con la vostra saggezza, mia signora.

— Lo sarà — gli assicurò Elena.

Beniamino uscì lentamente, perso così profondamente nei suoi pensieri da vedere a malapena dove stava andando. Gli uomini all’esterno mormoravano e borbottavano e parlottavano dirigendosi verso le tende della loro tribù.

Io sorrisi ad Elena. — Grazie. È stato un bel pensiero da parte tua, molto saggio. E molto generoso.

Lei mi rispose con un sorrisino altezzoso. — Vale la pena di pagare qualunque prezzo pur di accelerare il momento in cui potremo lasciare questo posto disgraziato.

Lukka era d’accordo. Agitando una mano per congedare i suoi soldati, mi disse: — Forse ora possiamo tornare a buttare giù quel maledetto muro.

31

La “festa rumorosissima in onore del Signore” consisteva in una banda in marcia. Giosuè riunì tutti i sacerdoti e li fece marciare intorno alle mura della città, insieme a una cassa di legno rivestita d’oro di squisita fattura portata in processione su due lunghi pali. I sacerdoti con le vesti e i turbanti più colorati erano preceduti da sette uomini che suonavano trombe di corna d’ariete e seguiti da altre trombe, tamburi e piatti.

La cassa era un oggetto di culto che Giosuè chiamava “l’arca dell’alleanza”. Non mi fu mai permesso di avvicinarmi abbastanza da vederla nei dettagli. Infatti, Beniamino insisteva che il solo toccarla avrebbe significato la morte istantanea. Mi chiesi se non fosse un qualche tipo di attrezzatura per comunicare con la dimensione in cui vivevano il Radioso e la sua specie, ma Beniamino mi disse che conteneva due tavole di pietra su cui erano scritte le leggi date a Mosè direttamente dal loro dio.

Sapevo che era meglio non discutere di religione, anche con Beniamino. I sacerdoti e la loro banda itinerante fecero effettivamente un bel po’ di baccano, e girarono intorno alle mura della città per tutto il giorno, sostituendo con uomini freschi quelli via via troppo stanchi.

Coperti dalla loro musica e dai loro canti, noi perforammo le fondamenta del muro principale. Con le punte di lancia avevamo sfondato i due muri di sostegno esterni, e poi, senza troppe difficoltà, avevamo scavato un cunicolo nei detriti millenari che costituivano la collina di Gerico. Adesso c’era abbastanza spazio perché i nostri scavatori potessero ingrandirlo in modo da farci stare un uomo in piedi. Giosuè aveva dato il via ai sacerdoti quando eravamo arrivati alla base del muro principale.

All’inizio, marciarono a una certa distanza dalla cinta muraria, e le sentinelle di guardia lanciavano loro sguardi molto sospettosi, aspettandosi un qualche tipo d’attacco a sorpresa. Ma verso sera sulle mura c’erano sempre più donne e bambini, che guardavano quella strana e colorata processione.

Per sei giorni marciarono e suonarono i loro strumenti e cantarono, mentre noi grattavamo e sfregavamo le massicce fondamenta. I cittadini di Gerico, in fila sui bastioni, agitavano le mani e gridavano prese in giro. Ogni tanto qualche bambino buttava giù qualcosa, ma niente di bellico venne indirizzato alla strana sfilata. Forse la gente della città pensava che non fosse bene prendersela con dei sacerdoti, incorrendo magari nell’ira di un dio. Forse pensavano che l’intenzione degli Israeliti fosse di farli diventare tutti matti, con quella musica e quei canti ininterrotti.

Esattamente come Elena. — Non posso più sopportare questo orribile chiasso! Mi fa dolere le orecchie!

Era notte, e i soli rumori fuori dalla nostra tenda erano il ronzio degli insetti e la voce lontana di una madre che cantava una dolce ninnananna al suo bambino.

— Se davvero vai a far visita agli dèi — disse Elena — perché non chiedi loro di far cadere le mura per te?

Sorrisi. — L’ho fatto. E mi hanno risposto di arrangiarmi da solo.

A dispetto di se stessa, anche lei sorrise. — Gli dèi non sono sempre gentili con noi, vero?

— Domani finirà tutto — le dissi. — Abbiamo finito di scavare. Adesso tocca al fuoco.

Lasciai Elena sola nella nostra tenda e uscii nel buio per controllare i preparativi per l’assalto del giorno dopo. Tutti gli uomini che già avevano lavorato tanto duramente allo scavo stavano raccogliendo sterpi nei campi, li trascinavano nel tunnel e li ammucchiavano alla base delle fondamenta del muro principale.

Come mi ero aspettato, i mattoni di fango erano contornati da robusti tronchi distanziati di qualche metro. Alcuni erano molto vecchi, secchi, infiammabili. Una volta che avessero preso fuoco, l’intera sezione di muro sarebbe crollata. O almeno speravo.

Per tutta la lunga notte, gli operai continuarono la loro opera incendiaria. Lukka e due dei suoi uomini migliori erano laggiù, a supervisionare il lavoro e ad aprire le prese d’aria lungo la base del muro, in modo che il fuoco non soffocasse.

Finalmente terminarono. Lukka uscì dal tunnel quando il primo cenno di grigio cominciò a illuminare il cielo dietro le montagne al di là del Giordano.

Io entrai per l’ispezione finale, strisciando sulla pancia nella prima parte del tunnel, sentendomi come un lombrico, cieco e chiuso da tutti i lati. Dopo quella che mi sembrò un’ora, la galleria divenne più alta, potei mettermi carponi e, alla fine, alzarmi in piedi e camminare come un uomo.

Portavo con me una torcia, e pezzi di selce e ferro per provocare la scintilla che l’avrebbe accesa. Ma non prima che fosse giorno pieno, e che i sacerdoti di Giosuè avessero ricominciato la loro sfilata intorno alle mura. Volevamo trattenere l’attenzione dei difensori di Gerico sul rumoroso corteo il più a lungo possibile, in modo che il fuoco prendesse bene e non ci fosse modo di domarlo prima che il muro franasse. Sentivo anche che Giosuè dava un certo valore alla coreografia, facendo sì che il crollo delle mura sembrasse provocato dalla musica dei sacerdoti.

Era pienamente consapevole del valore della manipolazione delle opinioni della gente. Paragonava di continuo il loro passaggio del fiume Giordano con quello di Mosè attraverso il Mar Rosso. E non si stancava di ripetere che la gente di Canaan doveva rendersi conto che il Dio di Israele era più potente dei loro dèi, che lui considerava falsi e inesistenti.

Avevo portato con me anche una piccola candela e l’accesi quando raggiunsi l’estremità del tunnel. Gli sterpi sembravano pronti a bruciare: ce n’era un bel mucchio contro e sotto le fondamenta del muro, abbastanza per dar fuoco ai tronchi. Potevo sentire l’odore dell’aria della notte, leggermente umida, che penetrava dai buchi che Lukka aveva fatto aprire. Poteva bastare a dare al fuoco l’ossigeno di cui aveva bisogno. Tutto era pronto, pensai.

Spensi la candela, ma la luce non scomparve. Al contrario, invece, aumentò e si diffuse tutt’intorno finché mi resi conto che ero stato risucchiato ancora una volta nella dimensione dei Creatori.

Ne vidi quattro davanti a me, nell’informe bagliore che usavano per tenere nascosto il loro mondo ai miei occhi. Però, se mi concentravo, riuscivo a cogliere alle loro spalle le deboli tracce di strane forme. Macchine? Strumenti? Sembravano all’interno di una grande stanza, più che all’aperto. Un laboratorio? Un centro di controllo?

Riconobbi lo Zeus dalla barba corta, ed Era vicino a lui. Gli altri due erano maschi; li avevo già visti. Uno era magro e muscoloso, alto come Zeus. Aveva il volto sottile, con un lungo mento a punta e corti capelli nerissimi che finivano sulla fronte alta con una “V” che coincideva perfettamente con l’angolo del mento. Sfoderava un sorriso ironico; gli occhi erano maligni. Pensai a lui come a Ermes, il messaggero degli dèi, il protettore dei ladri. L’altro era corpulento, grosso di spalle e di braccia, con capelli rossi fittamente ricciuti e gli occhi fulvi di un leone. Ares, il dio della guerra. Ovviamente.

Portavano tutti abiti identici di luccicante stoffa metallica, quasi delle uniformi. La sola differenza erano i colori: Zeus era vestito d’oro, Era di rosso rame, Ermes d’argento e Ares di bronzo.

— Continui ad aiutare il nostro folle Apollo — disse Zeus. Era una semplice affermazione, come quella di un cancelliere di tribunale che legge i capi d’accusa.

Io risposi: — Continuo a fare quello che devo per riportare alla vita quella di nome Atena.

— Sei stato avvisato, Orion — disse Era, gli occhi scuri che lampeggiavano.

Feci in modo di sorriderle. — Mi distruggeresti, dea? Metteresti fine alla mia vita, finalmente? Sarebbe un sollievo.

— Potresti impiegare molto a morire — disse quasi facendo le fusa.

— No! — intervenne bruscamente Zeus. — Non siamo qui per minacciare o punire. Il nostro scopo è trovare Apollo e fermare i suoi piani pazzeschi prima che ci distrugga tutti.

— E questa creatura — disse il bruno Ermes — sa dove trovarlo.

— Non sono il suo guardiano.

— Certamente gliene servirebbe uno — disse Ares, ridendo della sua stessa battuta.

— Possiamo aprire il tuo cervello, Orion, e tirarne fuori tutti i ricordi — disse Era.

— Sono certo che lo possiate. E molti li trovereste dolorosi.

Zeus agitò una mano con impazienza. — Dici di non sapere dove sia il Radioso.

— Sì, è la verità.

— Ma puoi trovarlo per noi?

— In modo che possiate distruggerlo?

— Quello che ne facciamo non è affare tuo, Orion — disse Era. — Considerando come ti ha trattato, penso che dovresti essere contento di vederlo fuori combattimento.

— Potete riportare Atena alla vita? — chiesi.

Il suo sguardo vacillò, allontanandosi da me. Gli altri sembravano a disagio, persino Zeus.

— Non siamo qui per parlare di lei — disse brusco il rosso. — È Apollo che cerchiamo.

Prima che potessi rendermi conto delle conseguenze, promisi: — Posso condurvi da lui. Dopo che avrà riportato Atena alla vita.

— Nessuno può farlo — si lasciò sfuggire Era, annoiata.

Zeus e gli altri le lanciarono un’occhiata.

Io dissi: — Dopo che non sarà riuscito a resuscitarla, allora.

Con un sorriso malizioso, Ermes chiese: — Come facciamo a sapere che possiamo fidarci di te?

Io mi strinsi nelle spalle. — A quanto pare potete trovarmi quando volete. Se vi convincerete che non tengo fede alla mia parola, d’accordo, farete di me quello che vorrete. Se Atena non può essere riportata alla vita, non sono poi così interessato a continuare a vivere.

Una reale solidarietà sembrò riempire gli occhi di Zeus. Ma Era sogghignò, scettica. — E cosa mi dici del tuo attuale amore, la bella Elena?

— Mi ama come l’amo io — risposi. — Finché ci saremo utili l’un l’altro, e non oltre.

Zeus si passò una mano nella barba. — Ci consegnerai Apollo quando ti sarai reso conto che non può resuscitare Atena?

— Sì.

— Non possiamo fidarci della parola di una creatura — disse Era. — Questa è follia! Più aspettiamo, più il pericolo…

— Stai calma — disse Zeus. Parlò gentilmente, ma Era si fermò a metà frase. Volgendo di nuovo gli occhi grigi verso di me, Zeus disse: — Io mi fido davvero di te, Orion. Il destino del continuum dipende dalla tua parola. Se ci mentirai, segnerai non solo la tua distruzione, non solo la nostra distruzione, ma la fine del continuum, la rovina totale dell’intero spazio-tempo nel quale tutti esistiamo.

— Lascerai che il Radioso porti a termine i suoi piani a Gerico? — Ares aveva gli occhi spalancati per l’incredulità. — Alimenterai la sua follia?

— Mi fiderò di Orion — rispose Zeus. — Per adesso.

Gli altri tre cominciarono a parlare contemporaneamente, ma io non sentii mai cosa dissero. Zeus mi fece un cenno con la testa, poi mosse leggermente la mano destra.

E improvvisamente mi ritrovai nel buio completo del tunnel, alla base del muro principale di Gerico.

Rimasi lì tremante per diversi minuti. La fine si avvicinava, lo sapevo. Potevano non essere capaci di scovare il Radioso, ma certamente sapevano scovare me. Nell’istante in cui le nostre strade si fossero incrociate, gli sarebbero saltati addosso e l’avrebbero condannato, ucciso, prima che io avessi la minima possibilità di resuscitare la dea che avevo amato.

Mi costrinsi a calmarmi. L’amara iniquità della situazione faceva quasi ridere. Io volevo distruggere il Radioso. Loro volevano distruggere il Radioso. Ma io dovevo proteggerlo finché non avesse fatto il suo tentativo di riportare alla vita Atena. Dubitavo che potesse farlo. E più ci pensavo, più disperavo della sua capacità di restituirmela.

Eppure, era abbastanza intelligente, e abbastanza potente, da eludere il loro controllo. Non riuscivano a trovarlo, pur sapendo che doveva essere dalle parti di Gerico. Avevano paura di lui, paura per le loro vite. Forse lui era davvero il più potente tra loro. E mentre loro cercavano di scovarlo e di distruggerlo, lui stava progettando di distruggerli a sua volta. Mi trovavo al centro di un’autentica lotta Olimpica.

Un leggero suono mi fece trasalire. Un rumore stridente, piagnucoloso. Le trombe di corno! Sbattendo gli occhi, mi resi conto che una sottile lama di luce penetrava fino a me. Era mattina. Giosuè aveva cominciato la sua parata. Per Gerico stava arrivando il colpo di grazia.

Picchiai sulla pietra focaia e accesi la torcia, poi la misi sul mucchio di sterpaglia contro il muro. Secchi come il deserto nella stagione calda, i rami presero fuoco istantaneamente. Mi allontanai dal calore improvviso, e mi resi conto che avrei fatto meglio a uscire il più rapidamente possibile.

Mi chinai per entrare nella parte più bassa del tunnel e fuggii come un ragno dalle zampe storte, con il calore dietro di me che sembrava volesse raggiungermi. Mi chiesi se il fuoco avrebbe attaccato anche le travi che sostenevano il cunicolo intrappolandomi nel crollo. Stavo strisciando sul ventre, adesso, molto più lentamente di quanto volessi. Ricordai confusamente altre vite, altre morti: nella furia bollente di un vulcano in eruzione, nel vortice fiammeggiante di un reattore nucleare.

Il fumo mi faceva tossire. Chiusi gli occhi; tanto non avrei potuto vedere molto in quel buio profondo. Avanzai strisciando, incalzato dal calore alle mie spalle e richiamato da un accenno d’aria fresca di fronte.

Improvvisamente, sentii due forti mani che mi afferravano per i polsi e mi trascinavano sul terreno scabroso. Aprii gli occhi e vidi Lukka, che tirando, sbuffando, imprecando mi portava alla luce del sole e al sicuro.

Ci alzammo in piedi, circondati dai soldati hatti. Erano armati di tutto punto, adesso, con gli scudi e le armature pronti per la battaglia.

— Funziona? — chiesi a Lukka. Lui sorrise gravemente. — Vieni a vedere da te.

Uscimmo insieme dalla tenda e guardammo in direzione della città. Spirali di fumo si stavano alzando dalla base del muro. Stavano passando da un grigio biancastro a un colore più scuro e minaccioso. Il fumo si fece più denso.

— I tronchi devono aver preso — disse Lukka.

Lontano, intorno alla curva del muro, i sacerdoti israeliti non avevano smesso di soffiare nei corni, di picchiare sui tamburi, di far risuonare i piatti. Cantavano le lodi del loro Signore, e la gente di Gerico se ne stava sulla cima del muro condannato a guardare lo spettacolo, continuando con i suoi motteggi e ridendo divertita.

Mi rivolsi a guardare il campo degli Israeliti. Gli attaccanti stavano mettendosi in formazione. Non portavano uniforme, avevano poche armature, ma ognuno aveva un qualche tipo di scudo e una spada o una lancia. Erano pronti per la battaglia.

Mentre la processione dei sacerdoti continuava a girare intorno al muro, Giosuè ordinò ai suoi uomini di mettersi in marcia. Ne contai varie migliaia, dai ragazzi agli anziani. Marciavano a tempo con i sacerdoti, anche se si tenevano più lontani dalla città, fuori dalla portata degli archi.

I sacerdoti videro il fumo salire e si allontanarono, tornando verso l’accampamento. Gli armati si diressero alla cinta muraria, come aspettandosi che cadesse loro ai piedi.

E così fu.

Mentre l’armata degli Israeliti si avvicinava ai bastioni, il fumo diventò più denso e più nero. Sentii strani rumori borbottanti, come se sottoterra qualcuno gemesse invocando aiuto. La gente di Gerico si agitava e gesticolava, adesso, con grida di terrore improvviso.

Poi, con il roboare profondo di un gigante che crolla, un’intera sezione di muro franò, rotolò su se stessa in una rovina di mattoni. Nubi di polvere grigio-rossastra macchiarono il fumo e avanzarono nella pianura verso di noi.

Una singola nota di tromba risuonò chiara e acuta in mezzo al fragore e alle grida. Con un boato che scosse il terreno, l’esercito d’Israele si riversò sul mucchio di macerie, oltre la breccia delle mura di Gerico.

32

Trattenni Lukka e i suoi uomini per metà della giornata, per evitare che corressero rischi. Avevamo fatto il nostro lavoro, la battaglia riguardava gli Israeliti.

Ma quando il sole fu alto, Gerico era in fiamme, e persino l’imperturbabile Lukka era impaziente di andare a raccogliere il bottino.

Io ero vicino alla tenda da cui partiva il tunnel e guardai le nuvole di sgradevole fumo nero spargersi nel cielo. Gli uomini di Lukka erano seduti o in piedi, in quel poco d’ombra che potevano trovare, e gli gettavano occhiate interrogative. Infine, lui si voltò verso di me.

Prima che potesse parlare, dissi: — Tornate al calar della notte.

Mi scoccò uno dei suoi rari sorrisi e fece segno ai suoi uomini di seguirlo. Balzarono in piedi come cuccioli di lupo famelici, felici di andare a caccia.

Andai con loro fino alla breccia, per vedere con i miei occhi il frutto del nostro lavoro. Il muro era grosso più di nove metri, dov’era ancora in piedi. Sentivo il calore del mucchio di macerie anche attraverso le suole degli stivali. Il fuoco non si era spento, bruciava ancora, lì sotto. Spire sottili di fumo grigio salivano in corrispondenza di altre travi di sostegno, ai lati della nostra breccia. Il fuoco avrebbe bruciato ancora per ore, forse per giorni, mi resi conto. Altre sezioni di muro sarebbero cadute.

In città, era come essere a Troia. Gli Israeliti uccidevano e violentavano e bruciavano, proprio come i barbari achei. In preda a una feroce sete di sangue, e non importa quale dio venerassero o come lo chiamassero, anche loro si comportavano da bestie.

“Forse Elena ha ragione” pensai. “Forse in Egitto troveremo esseri civili, ordine e pace.”

Scesi dalle macerie fumanti e mi diressi alla mia tenda. Elena stava tenendo una riunione, lì fuori, circondata da più di due dozzine di donne israelite. Arrivai abbastanza vicino da sentire qualcuna delle sue parole. — Saranno sporchi, insanguinati ed eccitati, quando torneranno. Dovreste tenere pronta dell’acqua profumata con cui lavarli, ristorarli e placarli.

— Acqua profumata? — chiese una delle donne.

— In una tinozza? — chiese un’altra.

Elena rispose. — Sì. E lasciate che siano i servi a fare il bagno ai vostri mariti.

— Servi? — Risero tutte.

Elena sembrava perplessa.

— Ma dicci una cosa — chiese una delle donne più anziane — come fai a rendere i tuoi occhi più grandi?

— E che incantesimo usi perché un uomo ti rimanga fedele?

Io mi allontanai, scuotendo la testa. Mentre gli uomini seguivano i loro istinti selvaggi, uccidendo, bruciando, saccheggiando, anche le donne seguivano i loro istinti, imparando a sottomettere e indocilire i loro uomini.

Per un po’ camminai senza meta tra le tende. I soli maschi nell’accampamento erano i bambini e i vecchi. Le donne erano riunite in piccoli gruppi, come quelle con Elena, e sussurravano tra loro lanciando sguardi occasionali alla città in fiamme.

— Orion — mi chiamò una strana voce.

Mi voltai e vidi Giosuè, in piedi nell’ombra del tendone a strisce che partiva dalla sua tenda. Una brezza umida gonfiava leggermente la tela premendola contro le funi scricchiolanti. Potevo sentire l’odore umido della nebbia e la dolce fragranza delle palme da datteri. Il fuoco della città risucchiava l’aria dalla valle del fiume.

Molti dei sacerdoti più anziani stavano intorno a Giosuè, sdraiati su panche, o per terra. Sembravano stanchi, sfiniti, leggermente vergognosi.

— Hai Gerico — dissi a Giosuè.

— Grazie al Signore nostro Dio — disse. Poi aggiunse: — E a te.

Io chinai leggermente la testa.

— Hai reso un grande servizio al Dio di Israele e al Suo popolo — disse lui. — Sarai ampiamente ricompensato.

— Apprezzo la vostra gratitudine. — Per qualche ragione, non riuscivo a dire che ero felice di averli aiutati. — Tra qualche giorno, i miei uomini ed io continueremo per la nostra strada… verso sud.

Sapeva che mi riferivo all’Egitto.

— Siete certi di volerci andare?

— Assolutamente certi.

— È quello che lei desidera, vero?

— Sì.

— Orion, perché passi la tua vita a servire una donna? Resta con me! Sii il mio braccio destro. Ci sono altre città da conquistare. I Filistei della costa sono nemici potenti.

Guardai nei suoi occhi profondi e vi scorsi la stessa luce ardente che brillava negli occhi del Radioso. Follia? O grandezza? Entrambe, pensai. Forse l’una non poteva esistere senza l’altra.

— Non ho niente contro i Filistei o chiunque altro — dissi. — E ho le mie ragioni per andare in Egitto.

— Stai attaccato alle vesti di una donna — mi rimproverò.

Risposi: — Cerco un dio, in Egitto.

— Un falso dio — disse Giosuè brusco. — C’è solo un unico vero Dio…

— So quello in cui credi — dissi prima che potesse continuare — e magari hai ragione. Forse il dio che vado a cercare in Egitto è lo stesso che veneri tu.

— Allora perché cercarlo in una terra di schiavitù e tirannia?

— L’Egitto è un Paese civile — lo contraddissi.

Giosuè sputò per terra. Uno dei vecchi sacerdoti dalla barba bianca che era rimasto ad ascoltare si mise in piedi faticosamente e, appoggiandosi a un bastone, puntò un dito ossuto contro di me.

— L’Egitto civile? Una terra dove il re ordina di uccidere ogni neonata israelita semplicemente perché i suoi ministri gli hanno detto che il nostro numero sta aumentando troppo in fretta? È civiltà questa? — La sua debole, vecchia voce tremò d’ira. — Una terra dove tutto il nostro popolo è stato tenuto in schiavitù per costruire monumenti al tiranno che uccideva i nostri bambini?

Lo guardai stringendo gli occhi, non sapendo cosa rispondere.

— Siamo fuggiti dall’Egitto — disse Giosuè — con nient’altro che gli abiti che avevamo addosso e quelle poche cose che potevamo portare. Solo il miracolo del Signore nostro Dio ci ha salvato. Abbiamo passato anni vagando nel deserto del Sinai, disposti a morire di fame e di sete piuttosto che tornare alla schiavitù. No, Orion, non credere che l’Egitto sia civile.

— Ma io devo andarci — insistetti.

— Per trovare il Dio che già è tra noi? Resta, e Lui ti benedirà.

— Il dio che cerco è venerato da molti popoli, in molti modi. Per alcuni è il dio del sole…

— C’è un unico vero Dio — intonò il vecchio sacerdote. — Tutti gli altri dèi sono falsi.

— Lui mi ha detto di cercarlo in Egitto — mi lasciai scappare, sull’orlo dell’esasperazione.

Il vecchio sacerdote si scostò da me barcollando. Giosuè impallidì.

— Dio parla con te?

— Questo dio l’ha fatto.

— In un sogno?

Alzai il braccio indicando la lontana riva del fiume. — Lì, vicino al fiume, qualche notte fa.

— Bestemmia! — sibilò il vecchio sacerdote tirandosi la lunga barba bianca.

Giosuè scosse la testa, con un’espressione quasi compiaciuta. — Non era il Dio di Israele che hai visto, Orion. Era un uomo, o una falsa visione.

Naturale, finché lui era così coinvolto. Ovvio. Decisi che non aveva senso discutere con loro. Se avessero saputo che il dio che veneravano era quello che mi ero ripromesso di uccidere, mi avrebbero fatto a pezzi.

— Forse — gli concessi. — Comunque, io devo andare in Egitto.

Giosuè cercò d’insistere: — È un errore, Orion. Faresti molto meglio a rimanere con noi.

— Non posso — risposi.

Giosuè tacque. Allargò appena le mani in un vago gesto di congedo. Me ne andai e mi diressi di nuovo alla mia tenda, con i pensieri in subbuglio dal momento che mi rendevo conto che Giosuè non ci avrebbe lasciato partire. Non se poteva impedircelo, almeno.

Mentre la notte avvolgeva del suo nero mantello le rovine di Gerico, gli Israeliti tornarono barcollando all’accampamento e alle loro donne, imbrattati di sangue, carichi delle ricchezze della città più antica del mondo. Erano silenziosi e cupi, mentre il ricordo delle atrocità commesse cominciava a bruciare nelle loro coscienze. Anche le donne erano silenziose, sapendo che era meglio non fare domande.

Lukka riportò indietro i suoi soldati tutti insieme, vacillante come loro sotto un fardello di sete, coperte, armature, armi, gioielli, e persino sculture d’avorio e di giada.

— Arriveremo in Egitto da uomini ricchi — mi disse fiero deponendo il bottino ai miei piedi, vicino al nostro fuoco.

Piano, gli risposi: — Se arriveremo in Egitto, sarà contro il volere di Giosuè e della sua gente.

Lukka mi fissò, il viso severo mezzo nascosto dalle ombre tremolanti del fuoco.

— Tieni insieme gli uomini, e stai pronto a partire quando ti darò l’ordine — gli dissi.

Lui rispose con un rapido cenno d’assenso e fece in modo che gli uomini cominciassero immediatamente a raccogliere il bottino e a caricarlo sui nostri carri.

Elena era più impaziente che mai di partire, e quando le dissi dei miei timori, disse: — Allora dobbiamo andarcene adesso, stanotte, mentre sono ubriachi di vittoria e dormono senza avere appostato sentinelle.

— E cosa succederà domattina, quando scopriranno che non ci siamo più? Potrebbero raggiungerci e costringerci a tornare.

— Lukka e i suoi soldati potrebbero trattenerli mentre noi fuggiamo — disse lei.

— E morire per darci qualche ora di vantaggio? — Scossi la testa. — Ce ne andremo, ma solo quando avrò convinto Giosuè a lasciarci andare.

Lei si adirò, ma si rese conto che non c’era altro modo.

Quella notte dormii senza sogni, senza Creatori. Ma il mattino seguente ero pronto ad affrontare Giosuè. Era un piano semplice, forse anche rozzo, ma speravo che avrebbe funzionato.

Tutta la giornata fu dedicata a cerimonie di ringraziamento e di espiazione, e i sacerdoti cantarono inni di lode al loro dio con melodie che suonavano in qualche modo tristi e malinconiche. Il popolo di Israele si adornò degli indumenti più fini, di cui molti saccheggiati a Gerico, e si unì ai canti, tribù per tribù. Mi accorsi che se anche le parole degli inni erano dirette al dio invisibile, gli occhi di tutti fissavano Giosuè. Lui era in piedi di fronte al suo popolo, drappeggiato in una veste multicolore, e accettava silenziosamente quell’omaggio.

Al calar del sole, gli Israeliti erano di nuovo riuniti nelle loro unità tribali e familiari, ognuna raccolta intorno al suo fuoco, e i canti erano meno solenni, più allegri: canzoni di casa, canzoni della gente comune. Si cominciò a ballare, qua e là, uomini e donne in gruppi separati, e ridevano e giravano intorno ai fuochi mentre battevano i piedi sul terreno polveroso.

Beniamino mandò un ragazzo per invitarmi alla tenda della sua famiglia, ma io declinai educatamente l’invito, dal momento che non includeva Elena. Uomini e donne d’Israele non solo mangiavano ma anche ballavano separati. Naturalmente.

Aspettavo una convocazione da parte di Giosuè e, neanche a dirlo, avevamo appena finito la cena quando un giovane con una corazza di bronzo appena rubata mi si avvicinò e mi disse che Giosuè desiderava scambiare qualche parola con me.

Dissi ad Elena e a Lukka di tenersi pronti a partire, poi seguii l’Israelita alla tenda del suo capo.

La tenda era stracolma delle spoglie di Gerico: belle casse di cipresso intarsiate d’osso, d’avorio, piene sino all’orlo di fini indumenti, mucchi di drappi e coperte, tavoli che si curvavano sotto il peso di piatti e calici dorati, daghe dai complicati intagli, spade e armature, oggetti di smalto, terrecotte e brocche per il vino, cumuli di gioielli e sculture.

Memorizzai tutto con un solo rapido sguardo, poi guardai Giosuè. Sedeva su una pila di cuscini all’estremità della tenda con indosso splendide vesti, in tutto simile a un sovrano orientale. Con un gesto della mano congedò le tre ragazze che lo servivano, che mi oltrepassarono correndo, scalze, lasciandoci soli.

— Prendi quello che vuoi — disse lui indicando con grandiosità il bottino. — Qualunque cosa tu voglia, è tua. E prendi qualche gioiello per la tua bella compagna.

Ignorai quei tesori e andai direttamente verso di lui, e mi sedetti sui tappeti ai suoi piedi.

— Giosuè, non ho bisogno di niente, né lo voglio. Voglio che tu mantenga la tua promessa e ci lasci andare in pace, ora che vi abbiamo aiutato a conquistare Gerico.

Non c’era vino in vista. Le sue mani erano vuote, gli occhi limpidi. Ma sembrava quasi ubriaco. Forse di vittoria. Forse della visione di conquiste future.

— Dio ti ha messo nelle mie mani, Orion — disse. — Gli dispiacerebbe se ti lasciassi andare.

— Parli con il tuo dio, adesso?

Nei suoi occhi passò un lampo d’ira. Ma rispose abbastanza gentilmente: — Il nostro prossimo obiettivo saranno gli Amalekiti. Ci premono addosso e devono essere distrutti completamente.

— No — dissi io.

— Tu e i tuoi guerrieri ittiti valete troppo per lasciarvi andare — disse Giosuè. — Non mentre ci sono così tanti nemici intorno a noi.

— Dobbiamo partire.

Sollevò una mano conciliante. — Quando avremo pacificato la regione. Quando i Figli di Israele potranno vivere qui al sicuro, senza essere minacciati dai loro vicini. Allora potrete partire.

— Potrebbero volerci parecchi anni — dissi.

Lui si strinse nelle spalle. — È nelle mani di Dio, non nelle mie.

Io riuscii a sorridergli. — Giosuè, certamente tu, più di chiunque altro, puoi capire il desiderio di un uomo di essere libero. Io non intendo essere schiavo, né tuo né del tuo dio.

— Schiavo? — Indicò di nuovo il bottino. — Uno schiavo viene ricompensato così splendidamente?

— Un uomo che non è libero di andare dove vuole è uno schiavo, non importa quanti gingilli il suo padrone gli offre.

Si passò il dito tra i riccioli della barba. — Allora ho paura che sarai schiavo ancora per un po’, Orion. Tu e i tuoi soldati.

— Impossibile — insistetti.

— Se resisti — minacciò Giosuè con voce calma come se stesse discutendo del tempo — i tuoi uomini pagheranno per la tua testardaggine. E la tua bella donna.

Me l’ero aspettato con tanta sicurezza che non ero nemmeno un po’ sorpreso. Nemmeno adirato. Mi alzai semplicemente in piedi e lo guardai.

— Beniamino mi ha detto che il tuo dio ha colpito gli Egiziani con molte calamità, prima che il loro re vi permettesse di lasciare il territorio. Io non posso prometterti nessuna calamità, ma ti dispiacerà di averci costretto a restare.

Il viso di Giosuè si fece rosso scuro, se d’ira o di vergogna non lo sapevo. Lo lasciai lì seduto e tornai alla mia tenda.

Sia Lukka sia Elena mi chiesero ansiosi se stavamo per partire.

— All’alba — risposi. — Ora dormite un po’. Domani sarà una giornata faticosa.

33

Elena aveva ragione sulla trascuratezza degli Israeliti, per quella notte. Gli uomini di Gerico erano stati uccisi; le donne e i bambini superstiti erano rannicchiati nei resti anneriti delle loro case bruciate e saccheggiate. Non c’era bisogno di guardie o di sentinelle. Gli Israeliti dormivano profondamente dopo una giornata di cerimonie e celebrazioni.

Mi diressi silenziosamente, nel buio, verso la tenda di Giosuè. La sola luce proveniva dalle braci morenti dei fuochi da campo e dallo splendore delle stelle sopra di me. Il bagliore nebuloso della Via Lattea divideva il cielo a metà, e quando guardai in alto mi chiesi ancora una volta verso quale di quelle stelle io e il mio amore ci stessimo dirigendo quando eravamo morti.

Non c’era tempo per i ricordi. Né per le amarezze. Raggiunsi la tenda di Giosuè e scavalcai i corpi dei servi che dormivano proprio davanti all’entrata.

Dentro la tenda era buio pesto. Compresi facilmente dove Giosuè dormiva, grazie al debole calore emanato dal suo corpo. Come una vipera, risi tra me. Anche se la mia capacità era niente in confronto alla raffinata sensibilità di un serpente a sonagli. In ogni caso, percepivo una debole emanazione dall’estremità della tenda, e mi ci diressi a tentoni.

Individuai la forma di Giosuè addormentato già a pochi metri da lui. Giaceva su un fianco, abbandonato sui cuscini dove l’avevo visto qualche ora prima, indossando ancora le sue splendide vesti.

Era solo. Bene.

Allungai il braccio e gli misi la mano sulla bocca. Si svegliò immediatamente e cominciò ad agitare le braccia e le gambe. Io gli posi fermamente l’avambraccio sulla trachea e sussurrai: — Vuoi che l’angelo della morte visiti la tua tenda?

I suoi occhi si spalancarono. Mi riconobbe e si fermò.

Senza togliergli la mano dalla bocca, lo tirai in piedi e dissi: — Tu ed io faremo un piccolo viaggio.

Poi mi concentrai per passare nel mondo dei Creatori. Chiusi gli occhi e sentii un istante di freddo pungente, poi un’ondata di calore. Giosuè era bloccato nella mia stretta, con la mia mano sinistra sulla sua bocca, e la destra che gli stringeva la spalla.

Ci trovavamo su un’altura dalla quale si vedeva una grande città. Tutto il paesaggio era immerso in un fulgore dorato, e mi accorsi che per la prima volta potevo cogliere i dettagli di quel mondo, con una certa chiarezza. La città che si stendeva sotto di noi era una meraviglia di torri e guglie aggraziate, ed era chiusa nella curva protettiva di una cupola trasparente.

Giosuè aveva gli occhi che gli schizzavano dalla testa. Gli tolsi la mano dalla bocca, ma lui non disse una parola. Si limitò a guardare giù, con la bocca spalancata.

— Davvero, Orion! Questo è troppo!

Mi voltai e vidi il bruno Ermes.

— Adesso porti altre creature insieme a te — mi rimproverò. — Se lo vede qualcuno degli altri…

— Vuoi dire che non gli dici tutto? — lo rimproverai anch’io.

Lui sorrise. — Non immediatamente. Naturalmente, non ci sono segreti tra noi; le informazioni vengono scambiate, che lo vogliamo o no. Ma se fossi in te, me ne andrei prima che gli altri decidano che stai diventando troppo invadente.

— Grazie. Lo farò.

— Sbrigati — disse, e scomparve.

Le ginocchia di Giosuè cedettero e io dovetti sostenerlo. Dopo aver gettato uno sguardo panoramico per registrare nella mente ogni dettaglio nel modo più preciso possibile, chiusi di nuovo gli occhi e feci in modo di tornare da dove eravamo venuti.

Aprii gli occhi nel buio della tenda di Giosuè. Lui era abbandonato nelle mie braccia, e tremava di un fremito incontrollabile.

— Quando arriverà l’alba — dissi — io e la mia gente lasceremo il vostro accampamento. Ti abbiamo servito fedelmente, e mi aspetto che tu tenga fede alla tua parte dell’accordo. Se cercherai di ostacolarci in qualunque modo, tornerò da te e ti manderò di nuovo in quella terra dorata; ma ti ci abbandonerò per sempre.

Lo lasciai sprofondare nuovamente nei suoi cuscini e uscii dalla sua tenda. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.

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