PARTE SECONDA L’ETÀ DELL’ORO

4

«Ecco la grande giornata!» comunicavano in cento lingue gli apparecchi radio. «Il gran giorno è venuto!», proclamavano i titoli di prima pagina di mille quotidiani. «Oggi è il gran giorno!» pensavano gli operatori delle telecamere, controllando le loro macchine disposte intorno al grande spiazzo dove l’astronave di Karellen doveva calare.

C’era soltanto la grande nave ammiraglia ora, sospesa nel cielo di New York. Infatti, come il mondo aveva appena scoperto, le astronavi immobili nel cielo delle altre città dell’uomo non erano mai esistite. Il giorno prima, la gran flotta dei Superni si era dissolta nel nulla, svaporando come la nebbia sotto la rugiada del mattino. Le navi di rifornimento, che andavano e venivano dalle profondità dello spazio cosmico, erano state reali; ma le vaste ombre d’argento che erano rimaste sospese per la durata di una vita umana su quasi tutte le capitali della Terra erano soltanto illusione. Nessuno avrebbe saputo dire in che modo era stata creata l’illusione, ma sembrava che ognuna di quelle astronavi non fosse stata che un’immagine dell’ammiraglia di Karellen. Ma era stato ben mollo più di un abile gioco di luci, perché anche i radar si erano lasciati ingannare, e vivevano ancora persone pronte a giurare di aver sentito il sibilo lamentoso dell’aria squarciata dalle prore astrali quando la flotta era penetrata nell’atmosfera della Terra. Ma questo non era importante: ciò che ora importava davvero era il fatto che Karellen non vedesse più la necessità di uno spiegamento di forze. Aveva rinunciato alle sue armi psicologiche.

«L’astronave si muove!» corse la voce, spargendosi fulminea su tutto il pianeta. «Si dirige verso ponente!»

A meno di mille chilometri all’ora, scendendo mollemente dalle vuote altezze della stratosfera, l’astronave muoveva verso le grandi praterie, puntuale al suo secondo convegno con la storia. Si adagiò dolcemente sul terreno davanti agli obiettivi in attesa e alle migliaia e migliaia di spettatori addensati in lunghe file, ben pochi dei quali potevano vedere tutto ciò che vedevano i milioni di uomini e donne riuniti davanti ai televisori. Il terreno avrebbe dovuto spaccarsi e tremare sotto il peso incredibile della nave immensa, ma lo scafo era ancora nella morsa delle forze cosmiche che le permettevano di navigare tra le stelle. Baciò la terra con la delicatezza di un fiocco di neve. A venti metri d’altezza dal suolo, la gran parete ricurva parve scorrere e tremolare: dove c’era fino a un attimo prima una superficie liscia e levigata, rilucente come la piastra di uno scudo, comparve una vasta apertura. Non si vide niente dell’interno. Non videro niente nemmeno gli occhi inquisitori delle macchine da presa. Era scura come l’ingresso di una caverna. Poi, un’ampia passerella scintillante ne sporse e cominciò a scorrere verso il basso. La si sarebbe detta una lunga lastra di metallo compatto con balaustre ai due lati. Non si vedevano scalini: era liscia e ripida come una pista di toboga e sembrava impossibile salirla o scenderla con mezzi normali. Il mondo intero stava guardando quel nero portale entro cui niente ancora si muoveva. Quindi la voce, udita di rado ma indimenticabile di Karellen, si diffuse dolcemente provenendo da una fonte ben celata. Il suo messaggio non sarebbe potuto essere più inatteso.

«Ci sono dei bambini ai piedi della passerella. Gradirei che due di loro salissero a incontrarmi.»

Per un istante regnò un immenso silenzio. Quindi un bambino e una bambina uscirono dalla folla e si diressero, senza il minimo timore, verso la passerella per entrare nella storia. Altri li seguirono, ma si fermarono di colpo quando dalla nave giunse la risata di Karellen.

«Due bastano.»

Impazienti, pregustando già l’avventura, i due bambini — non dovevano avere più di sei anni — saltarono sulla pista metallica. E fu allora che si verificò il primo miracolo. Salutando allegramente con la mano la folla sottostante e i loro genitori, che probabilmente si ricordavano in ritardo della leggenda del Pifferaio di Hamelin, i bambini cominciarono a salire rapidamente sul piano incredibilmente inclinato. Ma le loro gambe erano immobili, e in breve si vide che i loro corpi erano inclinati ad angolo retto con la strana passerella che possedeva una sua propria forza di gravità, evidentemente capace di annullare quella della Terra. I bambini stavano ancora godendo la novità di quell’esperienza, chiedendosi forse quale fosse la forza che li attirava verso l’alto, quando scomparvero nell’interno della nave.

Un immenso silenzio calò sul mondo intero per lo spazio di venti secondi; anche se in seguito nessuno poté credere che l’intervallo fosse stato tanto breve. Poi l’ombra densa della grande apertura parve venire in avanti, e improvvisamente Karellen si materializzò nella luce del sole. Aveva il bambino seduto sul braccio sinistro, la bimba rannicchiata sul destro. Erano entrambi troppo occupati a giocare con le ali di Karellen per osservare la folla.

Fu un omaggio alla psicologia dei Superni e agli anni della loro meticolosa preparazione, che solo pochissimi dei presenti svenissero. Ma dovettero essere in numero ancora minore quelli che in tutto il mondo non sentirono un brivido dell’antico terrore sfiorare per un orribile istante le loro menti, prima che la ragione lo bandisse per sempre. Non c’era da sbagliarsi. Le ali di cuoio, le piccole corna, la coda forcuta erano là sotto gli occhi di tutti. La più terribile di tutte le narrazioni mistiche si era fatta realtà, uscendo da un passato lontanissimo. Ma ora stava sorridendo, in una sua maestà di ebano, con la luce del sole scintillante sul corpo terribile, e con un bambino d’uomo accoccolato su ogni braccio.

5

Cinquant’anni sono un periodo di tempo sufficientemente lungo a mutare un mondo e la sua popolazione fino a renderli irriconoscibili. Tutto quello che occorre è una profonda conoscenza della tecnica, una veduta molto chiara della mèta che ci si prefigge e potenza.

Tutte cose che i Superni possedevano. Sebbene il loro fine fosse un segreto, la loro scienza era palese, come la loro potenza. Questo potere si esplicava in forme diverse, forme che spesso non erano capite dai popoli al cui destino i Superni avevano presieduto. La potenza era rappresentata dalle grandi astronavi, e quelle, tutti potevano vederle. Ma dietro questa evidente forma di forza c’erano altri mezzi, e più sottili.

«Ogni problema politico» aveva detto una volta Karellen a Stormgren

«può essere risolto dal corretto uso del potere.»

«Mi sembra una affermazione alquanto cinica» aveva risposto Stormgren, poco convinto. «Sa un po’ di «Volere è potere». Nel nostro passato sono infiniti gli esempi di problemi che il potere non è riuscito a risolvere.»

«C’è un errore sostanziale. Voi non avete mai posseduto né potere reale né le capacità indispensabili per applicarlo. In questo, come in ogni problema, esistono modi efficaci o inefficaci di affrontare la soluzione. Supponete, ad esempio, che una delle nazioni terrestri sotto la guida di un capo fanatico tenti di ribellarsi a me. La risposta più inefficace a una minaccia del genere sarebbe l’uso dell’immensa energia racchiusa nelle bombe atomiche. Usando un certo numero di bombe si avrebbe una soluzione completa e definitiva. Ma, come ho detto, sarebbe una soluzione inefficace, anche a non voler tener conto degli altri difetti.»

«E quale sarebbe la soluzione efficace?»

«Quella che non richiede più potenza di una minuscola radio trasmittente, ma esige le stesse qualità occorrenti per costruire e far funzionare una simile radio. È il modo d’impiegare la potenza, qualunque potenza, non la quantità. Quanto credete che sarebbe durata la carriera di dittatore di Hitler se sempre, in qualsiasi posto, una voce tranquilla, pacata, gli avesse parlato all’orecchio? O se una nota musicale, sufficientemente alta da superare ogni altro suono e da impedirgli di dormire, gli fosse risuonata nel cervello giorno e notte? Niente di brutale, come vedete, eppure in ultima analisi un sistema infallibile come una bomba all’idrogeno.»

«Capisco» disse Stormgren. «E non sarebbe possibile sfuggire a questo sistema?»

«Non esiste nascondiglio dove i miei… diciamo sistemi non possano penetrare se io lo voglio. Ecco perché non devo mai ricorrere ai tradizionali mezzi drastici per conservare la mia posizione.»

Le grandi astronavi dei Superni non erano mai state altro che dei simboli, e adesso il mondo sapeva che solo una, solo quella di Karellen esisteva veramente: le altre erano soltanto immagini. Eppure era bastata la loro presenza a cambiare la storia della Terra. Adesso il loro compito era finito, ma l’eco di quel che avevano fatto sarebbe durato per secoli. I calcoli di Karellen erano stati esatti. Il primo istante di repulsione era passato rapidamente, sebbene fossero molti coloro che, mentre si vantavano di essere immuni d’ogni superstizione, non sarebbero mai stati capaci di guardare in faccia uno dei Superni. C’era qualche cosa di strano in questo, qualcosa che andava al di là della ragione e della logica. Nel Medio Evo, la gente credeva nel diavolo e lo temeva. Ma ora si viveva nel XXI secolo: possibile che, dopo tutto, esistesse ancora una memoria razziale?

Se ne era universalmente dedotto che i Superni, sempre uomini della stessa specie, si fossero trovati in conflitto violento con l’uomo preistorico, in un passato molto remoto dato che l’urto non aveva lasciato tracce nella storia scritta. Era questo un altro rompicapo, ma Karellen non aveva voluto dare nessun aiuto per la soluzione.

I Superni, sebbene si fossero ora mostrati all’uomo, lasciavano molto di rado la loro unica nave. Forse stare coi piedi sulla Terra era fisicamente penoso, dato che le loro dimensioni e l’esistenza delle ali indicavano la provenienza da un mondo di gravità notevolmente inferiore a quella terrestre. Non li si vedeva mai senza una cintura adorna di meccanismi complessi, che, si credeva generalmente, regolavano il loro peso e permettevano loro di comunicare l’uno con l’altro. La luce solare diretta era penosa ai loro occhi tanto che non vi restavano esposti più di qualche secondo. Quando dovevano uscire allo scoperto per una qualunque durata di tempo, portavano occhiali che conferivano loro un aspetto per lo meno incongruo. Quantunque sembrassero in grado di respirare l’aria terrestre, spesso portavano con sé dei piccoli cilindri di gas, a cui ogni tanto attinge-vano per rinfrescarsi i polmoni. Sotto molti punti di vista, la comparsa dei Superni aveva posto più problemi di quanti ne avesse risolti. La loro origine era ancora sconosciuta, la loro costituzione biologica fu fonte d’interminabili supposizioni. Di molti argomenti davano la spiegazione liberamente, ma a proposito di altri si poteva dire che il loro atteggiamento era ispirato al più geloso riserbo. Nell’insieme, tuttavia, ciò dispiaceva solo agli scienziati. L’uomo medio, pur preferendo non doversi incontrare coi Superni, era loro grato per quello che avevano fatto di bene al suo mondo.

Dal punto di vista di ère precedenti, era l’avvento di Utopia. Ignoranza, malattie, povertà e timore erano virtualmente scomparsi. Il ricordo della guerra sfumava nel passato come un incubo si dissolve ai primi albori: in breve sarebbe rimasta al di là delle esperienze di tutti i vivi. Con le energie del genere umano incanalate in numerosi sensi costruttivi, la faccia del mondo era stata rifatta. Era, quasi alla lettera, un nuovo mondo, le città che si erano rivelate utili alle generazioni precedenti erano state ricostruite o abbandonate, o trasformate in oggetti da museo quando avevano cessato di servire qualunque scopo utile. Molte città erano già state abbandonate in tal modo, perché tutto il sistema industriale e commerciale era cambiato radicalmente. La produzione adesso era prevalentemente automatica: le fabbriche-automa rovesciavano sul mercato beni di consumo in tali ininterrotte fiumane che tutti i generi di prima necessità erano virtualmente gratuiti. Gli uomini lavoravano per i generi voluttuari preferiti: o non lavoravano affatto. Era Un Solo Mondo. Gli antichi nomi delle nazioni erano ancora in uso, ma non rappresentavano più che comode divisioni postali. Non c’era nessuno sulla Terra che non parlasse inglese, che fosse analfabeta, che non si trovasse nelle immediate vicinanze di un televisore, che non potesse visitare l’altro emisfero entro ventiquattr’ore. La delinquenza era praticamente scomparsa. Era diventata inutile, e impossibile. Quando a un individuo non manca niente, rubare non ha senso. Inoltre, ogni criminale in potenza sapeva che era impossibile sfuggire alla sorveglianza dei Superni. Ai primordi del loro dominio, questi erano intervenuti con tale prontezza ed efficacia a favore della legge e dell’ordine, che la lezione non era stata più dimenticata.

Degli stessi delitti passionali, anche se non del tutto scomparsi, non si sentiva quasi più parlare. Ora che tanti dei suoi problemi psicologici erano stati risolti, l’umanità era di gran lunga più sana e meno irrazionale. E quel-lo che generazioni precedenti avrebbero chiamato vizio non era più ormai che, nel peggiore dei casi, una dimostrazione di cattivo gusto o di scarsa educazione.

Uno dei mutamenti più notevoli era stato il placarsi del folle ritmo che aveva caratterizzato la vita quotidiana del ventesimo secolo. La vita era molto più tranquilla di quanto non lo fosse stata da generazioni. Aveva sì meno sapore per qualcuno, ma molta più tranquillità per tutti gli altri. L’uomo occidentale aveva reimparato, cosa che il resto del mondo non aveva mai dimenticato, che non c’era niente di peccaminoso nel piacere, ove questo non degenerasse nella mollezza e nella inettitudine. Quali che fossero i problemi che l’avvenire riserbava all’uomo, il tempo non gravava ancora troppo sulle sue mani. Gli studi erano molto più completi e duravano più a lungo. Pochissimi erano coloro che lasciavano gli studi prima dei vent’anni: e questa era la prima fase, perché solitamente li si riprendeva a venticinque, per altri tre anni, dopo che viaggi ed esperienze vissute avevano allargato la mente. Ma anche dopo avrebbero continuato a intervalli di qualche anno a seguire corsi supplementari per tutto il resto della vita, scegliendo le discipline che più li attirassero. Un’altra trasformazione fu rappresentata dall’estrema mobilità della nuova società. Grazie alla perfezione dei trasporti aerei, ognuno era libero di recarsi ovunque in qualunque momento, senza prenotazioni o preavvisi di sorta. C’era più spazio nel cielo di quanto ce ne fosse mai stato sulle strade, e il ventunesimo secolo aveva ripetuto su più vasta scala l’impresa grandiosa compiuta dagli Stati Uniti nel motorizzare una intera nazione. Il ventunesimo secolo aveva dato al mondo le ali. Ma era un modo di dire. Il comune aereo privato, o aeromobile, non aveva affatto le ali, nemmeno la più piccola sporgenza d’un controllo di superficie. Perfino le goffe pale del motore degli antichi elicotteri erano state bandite. Ma l’uomo non aveva scoperto l’anti-gravità: soltanto i Superni possedevano quest’ultimo segreto. I loro aeromobili erano mossi da forze che i fratelli Wright non avrebbero capito. I reattori a getto, usati tanto direttamente quanto nella forma più progredita di controllo a strato-limite, spingevano i velivoli e li mantenevano nello spazio. Quello che nessuna norma e nessun editto dei Superni avrebbe potuto fare altrettanto bene, l’abolizione delle ultime frontiere tra le diverse tribù del genere umano, l’avevano fatto i piccoli onnipotenti aeromobili dei singoli cittadini del mondo. C’erano mutamenti anche più profondi. Era un evo del tutto laico. Delle fedi esistite prima dell’avvento dei Superni, solo una forma puritana di buddismo, la più austera, forse, di tutte le religioni, sopravviveva ancora. Ma sebbene pochissimi, per il momento, se ne accorgessero, il declino della religione fu accompagnato da un declino della scienza. C’era una pletora di tecnologi, ma pochi erano gli originali pensatori che sapessero estendere le frontiere delle conoscenze umane. Restava la curiosità, insieme con il tempo e l’agio di potervi indulgere, ma dalle ricerche scientifiche fondamentali era stato strappato il cuore. Sembrava futile spendere un’intera esistenza alla ricerca di segreti che i Superni avevano già svelato da millenni. Questo declino era stato parzialmente velato da un’enorme fioritura delle scienze descrittive, quali zoologia, botanica e astronomia. Non c’erano mai stati tanti scienziati dilettanti che raccogliessero dati per semplice svago, ma erano pochi i teorici che ponessero in correlazione tra loro questi dati. La fine della lotta per la vita e dei conflitti d’ogni genere aveva anche segnato la fine virtuale delle arti creative. Esistevano miriadi di esecutori e operatori, dilettanti e professionisti, ma in realtà non si producevano nuove opere di autentico rilievo nel campo della letteratura, della musica, della pittura e della scultura, da almeno una generazione. Il mondo viveva ancora delle glorie d’un passato che non poteva tornare. Nessuno se ne preoccupava, eccettuato qualche filosofo. La specie era troppo intenta ad assaporare la libertà di recente acquisizione per voler guardare oltre i piaceri del presente. L’avvento di Utopia era finalmente un fatto compiuto: la novità non era ancora stata intaccata dal più grande nemico di tutte le Utopie: la noia. Forse i Superni possedevano la risposta a ciò, come la possedevano per ogni altro problema. Nessuno lo sapeva, non più di quanto gli uomini sapessero, a un’intera esistenza dal loro arrivo, quale fosse il loro scopo ultimo. Il genere umano si era abituato ad avere fiducia in loro e ad accettare senza domande l’altruismo sovrumano che aveva tenuto per tanto tempo Karellen e i suoi simili esuli dalle loro case.

Sempre che fosse altruismo. Perché c’era ancora chi si domandava se la politica dei Superni sarebbe sempre coincisa col vero benessere dell’umanità.

6

Quando Rupert Boyce diramò gli inviti per la festa, la somma delle distanze espresse in miglia o chilometri risultò impressionante. Per elencare soltanto i primi dodici invitati, c’erano i Foster, che venivano da Adelaide, in Australia, gli Shoenberger da Haiti, i Farran da Stalingrado, i Moravia da Cincinnati, gli Invanko da Parigi e i Sullivan dai paraggi immediati dell’Isola di Pasqua, ma a quattro chilometri di distanza, presumibilmente, sul fondo dell’oceano. Fu un omaggio particolare a Rupert che, sebbene fossero stati invitati una trentina di ospiti, si presentarono alla villa più di quaranta persone: la percentuale che più o meno Rupert aveva previsto. Soltanto i Krause lo delusero, ma fu perché non avevano tenuto conto della differenza di data a causa dei fusi orari, e arrivarono così ventiquattr’ore più tardi.

A mezzogiorno una raccolta imponente di aerei si era radunata nel parco, e gli ultimi arrivati dovettero percorrere un bel tratto a piedi, dopo aver trovato un punto favorevole all’atterraggio. Gli apparecchi parcheggiati erano di ogni tipo, dai Fitterburg monoposto alle Cadillac per famiglia, molto più simili a palazzi aerei che a nervose macchine volanti. In quell’èra tuttavia non si poteva dedurre lo stato sociale degli invitati dai loro mezzi di trasporto.

«Ma che brutta villa» disse Jean Morrei, mentre il loro Meteor scendeva a spirale. «Sembra una scatola su cui qualcuno abbia appoggiato un piede.»

George Greggson, che aveva un’antipatia d’altri tempi per gli atterraggi automatici, modificò l’angolo d’inclinazione prima di rispondere. «Non si può giudicare la villa guardandola da quassù. A livello del terreno si presenta in tutt’altro modo. Oh, povero me!»

«Che cosa è successo?»

«Ci sono anche i Foster. Riconoscerei quelle sfumature di vernice ovunque.»

«Be’, nessuno ti obbliga a rivolgere loro la parola, se non vuoi. C’è questo vantaggio almeno, alle feste organizzate da Rupert: puoi sempre nasconderti in mezzo alla folla degli invitati.»

George aveva scelto un punto d’atterraggio e ora vi stava scendendo in picchiata. Andarono a posarsi librandosi lievi tra un altro Meteor e un coso che nessuno dei due riuscì a identificare. Aveva l’aria di essere velocissimo, pensò Jean, e terribilmente scomodo. Uno dei tecnici amici di Rupert, immaginò lei, l’aveva probabilmente costruito con le sue mani. Le pareva che ci fosse una legge che proibiva questo genere di cose. Il calore li colpì come la vampa di una fiamma ossidrica nell’istante in cui smontarono dall’apparecchio. Parve succhiare tutta l’umidità dei loro corpi, e George ebbe l’impressione che gli scricchiolasse la pelle. In parte era colpa loro, però. Erano partiti dall’Alaska tre ore prima, e avrebbero anche potuto pensare a condizionare la temperatura della cabina concordemente.

«Che razza di posto per abitare!» boccheggiò Jean. «Credevo che questo clima fosse condizionato!»

«Così è infatti» rispose George. «Qui era tutto deserto, un tempo; e guarda adesso che vegetazione! Vieni, staremo divinamente, una volta entrati in casa.»

La voce di Rupert, un po’ più alta del volume naturale, rimbombò allegramente nelle loro orecchie. L’ospite era ritto presso l’aereo, un bicchiere in ogni mano, e li guardava dall’alto in basso con aria sorniona. Ma li guardava dall’alto in basso per la semplice ragione che era alto almeno tre metri e mezzo ed era anche semitrasparente. Si poteva guardare attraverso il suo corpo senza la minima difficoltà.

«Bello scherzo da fare all’ospite, che dovrebbe essere sacro!» protestò

George. Aveva allungato una mano verso i bicchieri, e la mano c’era passata attraverso, come se i bicchieri fossero fatti d’aria. «M’auguro che tu abbia qualche cosa di meno rarefatto, per noi, quando saremo dentro.»

«Non ti preoccupare» disse Rupert. «Ordina da qui e troverai ogni cosa che ti aspetta appena sarai entrato!»

«Due birre grandi raffreddate in aria liquida» disse George prontamente.

«Arriveremo fra un minuto.»

Rupert annuì, depose uno dei suoi bicchieri su un’invisibile tavola, regolò una leva altrettanto invisibile e scomparve di colpo.

«Però!» disse Jean. «È la prima volta che vedo uno di questi congegni in azione. Come ha fatto Rupert a procurarselo? Credevo che solo i Superni li avessero.»

«Hai mai saputo che Rupert non sia riuscito ad avere qualche cosa che voleva?» rispose George, «È proprio il balocco che fa per lui. Mentre se ne sta tranquillamente seduto nel suo studio, può andarsene in giro per mezza Africa. Niente caldo, niente insetti, nessuno sforzo, e il bar sempre a portata di mano. Sarei curioso di sapere che ne avrebbero detto Stanley e Livingstone!»

Il sole troncò ogni altro scambio di parole fino a quando non furono davanti alla villa. Erano giunti sulla porta, che non era molto facile a distinguersi dal resto della parete di vetro che si levava loro dinanzi, quando la porta si spalancò automaticamente fra un tripudio di fanfare. Jean pensò, e a ragione, che ne avrebbe avuto fin sopra i capelli di quelle fanfare, prima che la festa fosse finita.

La signora Boyce del momento li accolse nella deliziosa frescura dell’ingresso. A dire la verità, era lei la principale ragione di tanto concorso di invitati. Non più della metà sarebbe venuta in ogni caso per vedere la nuova villa di Rupert: gli incerti si erano decisi in virtù di ciò che si diceva della nuova moglie di Rupert.

Soltanto un aggettivo poteva descriverla adeguatamente: sconvolgente. Anche in un mondo dove la bellezza muliebre era ormai comune, gli uomini voltavano la testa al suo passaggio. Doveva avere nelle vene, sospettò

George, una discreta percentuale di sangue negro: il profilo era squisitamente greco, e i capelli lunghi, folti e morbidi. Solo la trama bruna, compatta, della pelle, la troppo usata parola «cioccolata» era l’unica che potesse definirla, rivelava la sua origine mista.

«Siete Jean e George, non è vero?» disse la bella donna porgendo la mano. «Sono così lieta di conoscervi! Rupert sta facendo non so che cosa complicata con le bibite… Su, accomodatevi, e fate la conoscenza di tutti gli altri!»

Aveva una voce vibrante, da contralto, che fece correre piccoli brividi per la spina dorsale di George, come se qualcuno gli stesse suonando il piffero sulla colonna vertebrale. Lanciò un’occhiata inquieta a Jean, che era riuscita a mettere insieme un sorriso alquanto artificioso, e finalmente ritrovò la voce. «È un gran piacere conoscervi» disse, penosamente. «Non vedevamo l’ora di venire alla vostra festa.»

«Rupert dà sempre delle feste meravigliose» intervenne Jean. Ma dal modo con cui aveva calcato la voce su quel «sempre», si capiva che aveva voluto dire: «Ogni volta che si sposa». George arrossì lievemente, e lanciò a Jean un’occhiata di rimprovero, ma non ci fu nessun indizio che la loro ospite avesse accusato la frecciata. Cordialità fatta persona, li introdusse nel salone già gremito da una bella rappresentanza di amici di Rupert. Lui sedeva davanti al quadro di una specie di telecamera: il congegno, senza dubbio, ritenne George, che aveva proiettato la sua immagine nel parco per dare loro il benvenuto. In quel momento era occupatissimo a darne dimostrazione, sorprendendo altri due invitati nell’istante in cui scendevano nella zona di atterraggio, e s’interruppe giusto il tempo per salutare Jean e George e scusarsi per aver fatto servire le loro birre a un’altra coppia.

«Troverete tutta la birra che vorrete laggiù» disse, sventolando vagamente una mano, mentre con l’altra girava le manopole del suo apparec-chio. «Mettetevi a vostro agio, vi prego. Dovete conoscere quasi tutti, qui… Maia vi presenterà agli altri. Siete stati gentili a venire.»

«Molto gentile tu a invitarci» disse Jean, senza troppa convinzione. George era già partito per il banco dei rinfreschi, e lei lo seguì subito, scambiando ogni tanto un saluto con qualche persona che conosceva. Tre quarti dei presenti le erano sconosciuti, come di norma a tutte le feste di Rupert.

«Facciamo un piccolo giro di esplorazione» disse a George, dopo che ebbero bevuto e salutato con cenni della mano tutti gli invitati di loro conoscenza. «Voglio dare un’occhiata alla villa.»

Dopo un’occhiata furtiva a Maia Boyce, George la seguì. Negli occhi aveva una espressione trasognata che a Jean non piaceva nemmeno un po’. Un bel fastidio che gli uomini fossero tendenzialmente poligami! D’altra parte, se non lo fossero stati… Sì, era meglio così, forse. George ritornò rapidamente alla normalità mentre ispezionavano le meraviglie della nuova dimora di Rupert. La casa sembrava molto grande per due persone, ma la vastità era giustificata dai frequenti sovraccarichi che avrebbe dovuto sopportare. Si componeva del pianterreno e del primo piano, questo molto più largo e sporgente in modo da fornire l’ombra necessaria intorno al pianterreno. Il grado di meccanizzazione era notevole; la cucina ricordava molto da vicino la cabina di comando di un aereo di linea.

«Povera Ruby!» disse Jean. «Chi sa quanto le sarebbe piaciuta questa villa!»

«Da quel che ho saputo» rispose George, che non aveva mai avuto molta simpatia per la ex signora Boyce «la povera Ruby vive in stato di felicità perfetta col suo amico australiano.»

La cosa era talmente risaputa, che Jean non trovò niente da ribattere e cambiò argomento.

«È una gran bella donna, no?»

George stava in guardia per non cadere in trappola.

«Oh, direi di sì» rispose in tono indifferente. «Sempre per chi, naturalmente, preferisca le brune.»

«Preferenza che tu non hai, vero?» disse Jean, soave.

«Non essere gelosa, cara, ti prego» rise George, accarezzandole i capelli color platino. «Andiamo a dare un’occhiata alla biblioteca. Dove credi che sia? A pianterreno o al primo?»

«Dev’essere al primo piano: non. c’è più posto quaggiù. E poi s’intona alla disposizione generale della villa. Salotti, sale da pranzo, camere da letto si trovano a pianterreno. Mentre di sopra ci sono i reparti svaghi e sport diversi. Però mi sembra pazzesco una piscina al primo piano.»

«Eppure una ragione deve esserci» disse George aprendo una porta a caso. «Rupert deve essere stato consigliato molto bene, quando ha fatto costruire questa villa. Non avrebbe potuto fare tutto di testa sua.»

«Credo che tu abbia ragione. Diversamente, ora vedremmo delle camere senza porte e scale che non portano in nessun posto. A dirti la verità, avrei paura a mettere piede in una casa che Rupert avesse disegnato interamente da sé.»

«Eccoci arrivati» disse George, con l’orgoglio di un ufficiale di rotta dopo un atterraggio di fortuna. «La favolosa collezione Boyle nella sua nuova sede. Sarei curioso di sapere quanti di questi libri Rupert ha letto veramente.»

La biblioteca occupava l’intera lunghezza della casa, ma era divisa in una mezza dozzina di salette dai grandi scaffali messi trasversalmente. Quegli scaffali dovevano contenere, se George ricordava bene, quindicimila volumi: quasi tutto ciò che d’importante era stato pubblicato sui nebulosi argomenti della magia, delle ricerche metapsichiche, della divinazione, della telepatia, oltre che sulla serie completa di quei fenomeni elusivi raccolti alla rinfusa nella categoria della parafisica. Mania molto strana, quella della metapsichica, nell’èra della logica. Presumibilmente Rupert se l’era scelta come forma di evasione.

George percepì l’odore nell’attimo in cui mise piede in biblioteca. Un odore non molto forte, ma penetrante, e non tanto sgradevole quanto sfuggente a ogni analisi. Anche Jean l’aveva sentito e corrugò la fronte nello sforzo di identificarlo. Acido acetico, pensò George, ecco l’odore che più gli si avvicina, ma c’è anche un altro elemento, si direbbe… La biblioteca terminava in una nicchia, dove c’era appena lo spazio per un tavolino, due poltrone e un paio di sgabelli imbottiti. Presumibilmente quello era il rifugio di Rupert. Ma anche adesso c’era gente nella nicchia. Qualcuno che leggeva in una luce eccezionalmente bassa. Jean soffocò un’esclamazione e afferrò George per un braccio. Una reazione giustificabile: un conto era vedere un’immagine teletrasmessa e un altro trovarsi di fronte alla realtà. Anche George, che difficilmente si stupiva, questa volta non riuscì a restare impassibile.

«Spero di non avervi disturbato…» disse educatamente. «Non avevamo la più pallida idea che ci fosse qualcuno. Rupert non ci aveva detto…»

Il Superno abbassò il libro, li guardò attentamente, poi riprese a leggere. Non c’era niente di scortese in quel comportamento, dato che il Superno poteva leggere, conversare e probabilmente fare parecchie altre cose contemporaneamente. Tuttavia, agli occhi di un essere umano era un atteggiamento da schizofrenico.

«Mi chiamo Rashaverak» disse il Superno, cortesemente. «Temo di non apparirvi troppo socievole, ma è molto difficile sottrarsi al fascino della biblioteca di Rupert.»

Jean riuscì a soffocare una risatina nervosa. Aveva notato che l’inatteso compagno leggeva alla media di circa una pagina ogni due secondi. Non aveva il minimo dubbio che il Superno assimilasse compiutamente ogni parola, e si chiese se potesse leggere un libro con ogni occhio. Senza contare, naturalmente, continuò a pensare con una punta di malizia, che potrebbe anche imparare il metodo braille e così leggere anche con le dita, come i ciechi… L’immagine che ne risultò era troppo comica per non dare luogo a inconvenienti, per cui Jean cercò di evitare il guaio gettandosi a capofitto nella conversazione. Dopo tutto, non era una cosa di tutti i giorni poter scambiare due chiacchiere con uno dei padroni della Terra. George la lasciò chiacchierare, dopo le debite presentazioni, augurandosi che sua moglie non si lasciasse sfuggire qualche osservazione poco opportuna. Come Jean, era la prima volta che vedeva un Superno in carne ed ossa. Sebbene essi si mescolassero ufficialmente con funzionari governativi, scienziati e altri, non aveva mai sentito dire che qualcuno avesse partecipato a una festa privata. Si poteva forse dedurre che quella festa non era così privata come poteva sembrare. E il fatto che Rupert possedesse un apparecchio solitamente riservato ai Superni era un altro indizio, e George cominciò a domandarsi «Che Cosa Esattamente Ci Fosse Di Nuovo». Si riservò di chiederlo a Rupert, non appena avesse potuto prenderlo in disparte. Dato che le poltrone erano troppo piccole per lui, Rashaverak si era seduto sul pavimento e sembrava perfettamente a suo agio. La sua testa sì trovava così a soli due metri dal pavimento e George ebbe la stupenda occasione di studiare biologia extraterrestre. Purtroppo, dato che conosceva ben poco anche di biologia terrestre, non poté imparare molto di più di ciò che già sapeva. Soltanto quell’odore acidulo ma tutt’altro che sgradevole, gli riusciva nuovo. Si domandò quale odore avessero gli umani per i Superni e sperò per il meglio. Non c’era niente di realmente antropomorfico in Rashaverak. Però George si rese conto che, visti in distanza, da selvaggi ignoranti, atterriti, i Su-perni avevano potuto benissimo essere scambiati per uomini alati, dando così origine al ritratto convenzionale del Diavolo. Ma, a una distanza ravvicinata come quella, gran parte dell’illusione scompariva. Le ali di Rashaverak erano ripiegate in modo che George non poteva vederle bene, ma la coda, che pareva un tubo di gomma corazzato, gli stava avvoltolata ordinatamente sotto il corpo. Il famoso ciuffo sulla punta non era tanto un ferro di lancia, quanto un largo e piatto rombo. Suo scopo, come si riteneva generalmente, era di dare maggiore stabilità al volo, come le penne caudali d’un uccello. Da pochi dati e supposizioni del genere, gli scienziati erano giunti alla conclusione che i Superni provenissero da un pianeta caratterizzato da bassa gravità e atmosfera densissima. La voce di Rupert rimbombò a un tratto da un altoparlante nascosto.

«Jean! George! Dove diavolo vi siete cacciati? Scendete. Gli altri cominciano a mormorare!»

«Sarà meglio che scenda anch’io» disse Rashaverak, riponendo il volume in uno scaffale. Lo fece con estrema facilità, senza muoversi dal pavimento, e George notò per la prima volta che l’essere aveva due pollici, opponibili, con cinque dita fra loro. «Non vorrei studiare aritmetica secondo un sistema basato sul quattordici» pensò George. Rashaverak in piedi offriva uno spettacolo imponente, e quando il Superno dovette chinarsi per non battere la testa contro il soffitto, fu alquanto evidente che se pure erano desiderosi di mescolarsi agli uomini, gli Eccelsi avevano molte difficoltà di ordine pratico da superare. Parecchi altri aerei di invitati erano giunti in quella mezz’ora, e la sala, ora, rigurgitava. L’arrivo di Rashaverak complicò la situazione, perché tutti quelli che si trovavano nelle sale attigue accorsero per vederlo da vicino. Rupert era ovviamente compiaciuto della sensazione prodotta dal suo ospite eccezionale. Quanto a Jean e George, passarono completamente inosservati, soprattutto perché si trovavano dietro il Superno.

«Vieni qua, Rashy» urlò Rupert. «Voglio farti conoscere un po’ di amici. Siedi su questo divano, così la smetterai di raschiarmi il soffitto.»

Rashaverak, la coda buttata su una spalla, si mosse attraverso la sala come un rompighiaccio che tenti la via della banchisa. Quando si sedette accanto a Rupert, la sala parve ridiventare più vasta, e George emise un sospiro di sollievo.

«Mi viene un attacco di claustrofobia, ogni volta che lo vedo in piedi. Chissà come avrà fatto Rupert ad accaparrarselo… la festa si annuncia interessante, una volta tanto.»

«Hai sentito come Rupert lo tratta confidenzialmente, e in pubblico, per giunta? Ma il Superno non ha avuto l’aria di offendersi. È tutto molto strano.»

«Io invece scommetto che il Superno se l’è avuta a male. Il guaio di Rupert è la sua mania di esibizionismo e la sua mancanza di tatto. E questo mi fa venire in mente alcune delle domande che gli hai rivolto!»

«Per esempio?»

«Per esempio: «Da quanto tempo siete qui fra noi?», «Andate d’accordo col Supercontrollore Karellen?», «Vi trovate bene sulla Terra?». Ti assicuro, tesoro, non si parla ai Superni con quel tono!»

«Non vedo perché. È ora che qualcuno cominci!»

Prima che la discussione degenerasse, furono avvicinati dagli Shoenberger e, rapidissima, avvenne la scissione dell’atomo: le due donne se ne andarono in una direzione per parlare con comodo della signora Boyce, gli uomini in un’altra per fare esattamente la stessa cosa, ma da un diverso punto di vista.

«Secondo me» disse George, invidioso «è una donna troppo superiore a Rupert. Un’unione così non può durare. Lei si stancherà molto presto di lui.» Pensiero che parve sollevarlo straordinariamente.

«Non t’illudere! Oltre a essere quella splendida donna che è, Maia è anche molto a modo. Era tempo che qualcuno s’incaricasse di far mettere la testa a posto a Rupert, e Maia è proprio la donna che ci voleva.»

Rupert e Maia erano seduti accanto a Rashaverak, a ricevere gli ospiti. Di rado le feste di Rupert avevano un punto focale. Di solito si formavano una mezza dozzina di gruppi autonomi intenti a conversazioni loro proprie. Questa volta, però, tutti gli ospiti gravitavano attorno a un preciso centro d’attrazione. George si rammaricò per Maia: quella sarebbe dovuta essere la sua giornata, ma Rashaverak l’aveva in parte eclissata.

«Senti» riprese George, addentando una tartina «sai dirmi come ha fatto Rupert a mettere le mani su di un Super? Non ce ne ha nemmeno parlato, nell’invito.»

Benny si mise a ridere.

«È un’altra delle sue piccole sorprese. Sarà meglio che tu lo chieda direttamente a lui, come ha fatto. Ma questa non è la prima volta, comunque, che accade una cosa del genere. Karellen, per esempio, ha partecipato a ricevimenti della Casa Bianca e di Buckingham Palace, e…»

«Ma è diverso! Rupert è solo un privato cittadino!»

«Può darsi che Rashaverak non sia che un Super di basso rango. Ma chiedilo a loro.»

«Lo farò» disse George «appena mi sarà possibile prendere Rupert da parte.»

«Allora dovrai aspettare un pezzo.»

Benny aveva ragione, ma la festa si andava riscaldando, e non fu molto difficile avere pazienza. La paralisi generale provocata dalla comparsa di Rashaverak si era infine dissolta. C’era ancora un gruppetto di persone intorno al Superno, ma altrove si stava verificando la solita frammentazione, e tutti si comportavano normalmente. Senza voltare la testa, George poteva vedere un famoso produttore cinematografico, un poeta di un certo interesse, un matematico, due attori, un fisico nucleare, il direttore di un giardino zoologico, il direttore di un settimanale, un professore di statistica del Consiglio Bancario Mondiale, un virtuoso del violino, un archeologo e un astrofisico. Non c’erano altri esponenti della professione di George, scenografo della TV, cosa che non gli dispiacque, dato che non aveva voglia di parlare di lavoro.

Finalmente poté cogliere di sorpresa Rupert in cucina mentre sperimentava nuove misture. Era un peccato strapparlo al suo paradiso per riportarlo bruscamente sulla Terra, ma quando era necessario, George sapeva essere spietato.

«Senti, Rupert» cominciò, sedendosi sull’angolo del tavolo «mi pare che tu ci debba qualche spiegazione.»

«Mm» fece Rupert, assaporando il gusto della miscela. «Forse un po’ troppo gin, mi pare…»

«Non scantonare e non fare finta di non essere più in condizioni di capire, perché so benissimo che non sei ancora ubriaco. Allora, da dove salta fuori il tuo amico Superno e che cosa ci fa qui?»

«Ma come, non te l’ho detto?» disse Rupert. «Credevo di avere spiegato tutto. Si vede che non c’eri quando… Ma già, eri in biblioteca.» Si mise a ridacchiare in un modo che a George parve offensivo. «È proprio la biblioteca che ha fatto capitare qui Rashy.»

«Incredibile!»

«Perché?»

George tacque un momento rendendosi conto che a quel riguardo ci voleva un po’ di tatto: Rupert andava molto orgoglioso della sua raccolta.

«Be’, quando si pensa a tutto quello che i Superni possono insegnare in campo scientifico, ci si stupisce un po’ che s’interessino ai fenomeni psichici, parafisici, metapsichici e a tutto questo genere di sciocchezze, no?»

«Sciocchezze o no» rispose Rupert «si interessano alla psicologia umana, e io ho alcuni volumi che possono insegnare loro parecchie cose. Proprio poco tempo prima che io mi trasferissi qui, un vice Sotto Super o un vice Super-Sottocontrollore si è messo in contatto con me per chiedermi in prestito i miei cinquanta volumi più rari. Pare che uno dei bibliotecari della biblioteca del British Museum gli avesse fatto il mio nome. Naturalmente, puoi immaginare cosa gli ho risposto.»

«No, non lo immagino.»

«Gli ho detto con tutta la cortesia possibile che mi ci erano voluti vent’anni per raccogliere la mia biblioteca. Felicissimo che volessero consultare i miei volumi, ma dovevano venire qui se volevano leggerli. Allora ecco comparire Rashy, che da quel momento procede alla media di venti volumi al giorno. Non so che cosa pagherei per sapere a che gli serve tutto quello che legge.»

George ci pensò sopra, alla fine si strinse nelle spalle, deluso.

«Francamente» disse «la mia stima per i Superni scende di parecchi gradi. Credevo che avessero di meglio da fare.»

«Sei il solito incorreggibile materialista! Non credo che Jean concordi con le tue idee. Ma anche dal tuo tanto pratico punto di vista, la cosa è sensata. Sono convinto che ti metteresti a studiare le superstizioni di ogni razza primitiva con la quale dovessi avere a che fare, non è così?»

«Direi di sì» rispose George, non del tutto convinto. Il tavolo non era un sedile comodo, e lui si alzò. Rupert aveva finito ora di rimescolare le sue misture e si accingeva con aria soddisfatta a servirle ai suoi ospiti. «Ehi!» protestò George. «Prima di sparire devi rispondere a un’altra domanda. Come hai fatto ad avere quella specie di telecamera rice-trasmittente con cui hai cercato di spaventarci?»

«S’è trattato di mercanteggiare un po’, ecco tutto. Avevo fatto notare che sarebbe stato utile quell’aggeggio per un lavoro come il mio, e Rashy ha avanzato la proposta a chi di dovere.»

«Perdona la mia ottusità, ma qual è il tuo nuovo lavoro? Immagino che abbia a che fare più o meno con gli animali.»

«Esattamente. Io sono un superveterinario. La mia condotta ricopre circa diecimila chilometri quadrati di giungla, e siccome i miei pazienti non vogliono venire da me, sono io che devo andare a scovarli.»

«Un lavoro sfibrante, no?»

«Naturalmente, non conviene preoccuparsi della minutaglia. Ma soltanto di leoni, elefanti, rinoceronti, e così via. Tutte le mattine metto i controlli per una quota di cento metri, mi siedo davanti allo schermo e me ne vado a esplorare i dintorni; appena trovo qualche creatura bisognosa di me, salto sull’aereo e mi auguro che il mio stile di buon samaritano abbia i suoi risultati. Alle volte, si hanno delle sorprese non molto piacevoli. Leoni e simili sono facili a curarsi; ma cercare di pungere un rinoceronte dall’alto con una freccia anestetica è un’impresa titanica.»

«Rupert!» chiamò qualcuno dalla sala accanto.

«Dio, guarda che cosa mi hai combinato! Mi hai fatto dimenticare i miei ospiti. Là, guarda, prendi quel vassoio. Quelli sono i bicchieri col vermut… non voglio confonderli con gli altri.»

Fu poco prima del tramonto che George riuscì a svignarsela verso la terrazza sul tetto. Per molte buone ragioni, aveva una lieve emicrania, per cui non gli era parso vero sottrarsi al baccano e alla confusione che regnavano da basso. Jean, ballerina infinitamente migliore di lui, aveva ancora l’aria di divertirsi enormemente e non era voluta uscire. George, che grazie all’alcol ingerito si sentiva eroticamente sentimentale, c’era rimasto male e aveva deciso di smaltire il malumore in pace, sotto le stelle. Si giungeva alla terrazza sul tetto mediante la scala mobile fino al primo piano e poi arrampicandosi sulla scala a chiocciola che girava intorno alla tubatura dell’impianto per l’aria condizionata, uscendo infine per una porta. L’aereo di Rupert era parcheggiato a un capo della terrazza: la zona centrale era tenuta a giardino, un giardino che dava già a vedere di essere incolto, mentre il resto non era che una piattaforma-osservatorio con alcune sedie a sdraio. George si lasciò cadere su una delle sedie e si guardò intorno con occhio da sovrano. Si sentiva il dominatore di tutto ciò su cui posava lo sguardo. Le stelle che cominciarono a spuntare da tutte le parti con tanta fretta appena il sole fu del tutto scomparso gli erano completamente sconosciute. Cercò la Croce del Sud, ma non la trovò. Sebbene sapesse ben poco di astronomia e fosse in grado di identificare solo tre o quattro costellazioni, pure quell’assenza di configurazioni familiari gli riuscì stranamente penosa. Come erano penose le urla che provenivano dalla giungla, che ad un tratto sembrava essersi fatta vicina in modo preoccupante. «Basta con quest’aria fresca» pensò George. «Ora me ne torno da basso, prima che un vampiro, o qualche altra creatura altrettanto gradevole, venga a indagare su questa terrazza.»

Stava già per dirigersi verso la porta, quando un altro invitato ne emerse. Si era fatto così buio, ora, che George non poté vedere chi fosse. «Ehi, laggiù!» gridò. «Ne avete avuto abbastanza anche voi?»

Il suo invisibile compagno si mise a ridere. «Rupert sta proiettando i suoi film. Io li ho già visti tutti» disse.

«Una sigaretta?» offrì George.

«Grazie.»

Alla fiamma dell’accendino — George aveva la mania di quelle anticaglie

— riconobbe finalmente l’altro invitato, un giovane negro, straordinariamente bello. Gliene avevano detto il nome, ma George si era fatto un dovere di dimenticarlo subito, assieme a quelli degli altri venti sconosciuti che gli erano stati presentati. Tuttavia, c’era qualcosa di familiare nella fisionomia del giovane, e George a un tratto intuì la verità.

«Non credo che ci siamo conosciuti molto a fondo» disse «ma non siete forse il nuovo cognato di Rupert?»

«Esattamente: sono Jan Rodricks. Tutti dicono che Maia e io ci assomigliamo moltissimo.»

George si domandò se non dovesse esprimere a Jan la sua commiserazione per quel parente di recentissima acquisizione, ma pensò che fosse meglio lasciare il poveretto libero di scoprirlo da sé. Del resto, poteva anche darsi che questa volta Rupert si decidesse a mettere la testa a posto.

«Sono George Greggson» disse. «È la prima volta che venite a una delle famose feste di Rupert?»

«Sì. C’è da conoscere un mucchio di gente nuova in occasioni come questa.»

«E non soltanto di questa Terra» soggiunse George. «È stata la prima occasione che mi si è presentata di conoscere personalmente un Superno.»

L’altro esitò un attimo prima di rispondere, e George ebbe la sensazione di aver colpito un punto debole. Ma la risposta non rivelò niente.

«Nemmeno io ne avevo mai visto uno prima d’ora, tranne che alla TV.»

A questo punto la conversazione cominciò a languire, e dopo un istante George si accorse che Jan aveva voglia di starsene solo. L’aria si faceva fredda, comunque, per cui, scusatosi, scese a raggiungere gli altri. La giungla taceva, ora. Nell’appoggiarsi con le spalle alla presa d’aria dell’impianto di condizionamento, Jan non udì altro suono se non il ronzio lieve della casa che respirava con i suoi polmoni meccanici. Il giovane si sentiva malinconico e solo, ed era così che voleva essere. Ma si sentiva anche profondamente deluso e scoraggiato, che era proprio ciò che non voleva assolutamente essere.

7

Nessuna Utopia potrà mai dare soddisfazione a tutti, in ogni momento. A misura che le condizioni materiali migliorano, gli uomini elevano in proporzione le loro aspirazioni e non si accontentano più di poteri e beni che un tempo sarebbero parsi loro al di là di ogni speranza più audace. E anche quando il mondo esterno ha concesso tutto quello che può, rimangono pur sempre le esigenze della mente e i desideri nostalgici del cuore. Jan Rodricks, sebbene apprezzasse molto di rado la sua fortuna, in un’epoca precedente sarebbe stato ancora più scontento e insoddisfatto. Un secolo prima il colore della sua pelle sarebbe stato un ostacolo tremendo. Oggi, non aveva più nessun significato. Passato anche il senso di superiorità, venuto come reazione, che i negri avevano trovato nel ventunesimo secolo. La parola «negro» non era più tabù tra persone educate e veniva usata da chiunque senza il minimo impaccio. Non aveva più contenuto emotivo di quanto non ne potessero avere etichette da repubblicano o metodista, conservatore o liberale.

Il padre di Jan era stato un affascinante scozzese, irrequieto e irresponsabile, che si era fatto un certo nome come guaritore di professione. La sua morte, alla precoce età di quarantacinque anni, era stata provocata dall’eccessivo consumo del più celebrato prodotto del suo Paese. La signora Rodricks, ancora viva e vegeta, insegnava teoria delle probabilità all’Università di Edimburgo. Era una caratteristica dell’estrema mobilità del genere umano ai primordi del XXI secolo, che la signora Rodricks, la quale era d’un nero ebano, fosse nata in Scozia, mentre il suo biondo marito senza patria fissa aveva passato quasi tutta la sua vita ad Haiti. Maia e Jan non avevano mai avuto una casa loro, ma avevano sempre fatto la spola tra le famiglie paterna e materna come due traghetti. La cosa era stata molto divertente, ma non aveva certo contributo a temperare l’instabilità di carattere che entrambi avevano ereditato dal padre. A ventisette anni, Jan aveva ancora parecchi anni di vita universitaria davanti a sé prima di poter pensare seriamente alla carriera. Aveva superato i primi esami senza sforzo, seguendo un programma di studi che un secolo prima sarebbe parso molto strano. Si interessava di fisica, matematica, filosofia e musica, ed era un pianista di molto talento. In un triennio contava di laurearsi in fisica applicata, con l’astronomia come disciplina sussidiaria. Tutto ciò avrebbe sottinteso un’intensa attività, ma Jan se la prendeva alla leggera. Studiava presso l’istituto più splendidamente situato nel mondo: l’Università di Città del Capo, ai piedi della Table Mountain.

Non aveva preoccupazioni materiali, eppure si sentiva scontento, angustiato e non vedeva rimedio alla sua condizione. A peggiorare questo stato di cose, c’era la felicità di Maia, che sottolineava la causa principale della malinconia di Jan.

Jan soffriva ancora di quella romantica illusione, causa di tanta infelicità e tanta poesia, secondo cui un uomo non ha che un solo vero amore in vita sua. Molto più tardi di quanto non accadesse alla maggioranza dei giovani, Jan aveva dato il suo cuore per la prima volta a una ragazza nota più per la sua bellezza che per la sua costanza. Rosita Tsien affermava di discendere dalla dinastia Manciù, e non mentiva. Aveva infatti ancora molti sudditi, soprattutto nelle Facoltà di Scienze dell’Università. Jan era caduto prigioniero della delicata bellezza di Rosita, e l’idillio si era protratto abbastanza a lungo da rendere più doloroso il finale. Lui non riusciva a capire che cosa avesse fatto crollare tutto. Naturalmente gli sarebbe passata, come era successo ad altri, ma per il momento Jan trovava insopportabile la vita. L’altra sua causa di rodimento era meno facilmente rimediabile perché connessa al peso che il dominio dei Superni esercitava sulle sue aspirazioni. Jan era un romantico non soltanto col cuore ma anche col cervello. Come molti altri giovani, dopo la conquista dello spazio, aveva lasciato che sogni e fantasia vagassero per gli inesplorati oceani del cosmo. Un secolo prima, l’uomo aveva messo il piede sulla scala che avrebbe potuto portarlo alle stelle. Ma proprio in quell’istante, la porta dei pianeti gli era stata chiusa in faccia. I Superni avevano imposto pochi divieti assoluti su alcuni aspetti delle attività umane (quella bellica era stata forse la più importante), ma le ricerche nel campo dell’astronautica erano virtualmente cessate. La sfida portata dalla scienza dei Superni era troppo grande. Almeno per il momento, l’uomo, scoraggiato, si era rivolto ad altre attività. Non valeva la pena di evolvere razzi sempre più perfetti, quando i Superni avevano mezzi di propulsione infinitamente superiori, basati su principi di cui gli uomini non avevano mai nemmeno avuto sentore. Poche centinaia di uomini avevano visitato la Luna, allo scopo di stabilirvi un osservatorio astronomico. Avevano viaggiato come passeggeri in una piccola astronave concessa dai Superni, e con motori a razzo. Era ovvio che si poteva apprendere ben poco dallo studio di un aeromobile così antiquato.

L’uomo, quindi, era ancora prigioniero del suo pianeta. Un pianeta molto più giusto e saggio, ma anche molto più piccolo di quel che non fosse stato un secolo prima. Abolendo guerra, miseria e malattie, i Superni avevano anche abolito l’avventura.

La luna nascente cominciava a tingere il cielo orientale d’un pallido riflesso latteo. Lassù, come Jean sapeva bene, c’era la base principale dei Superni, in fondo all’immenso cratere di Plutone. Quantunque le astronavi addette ai rifornimenti dovessero essere andate e venute da quella base da oltre settant’anni, soltanto durante la vita di Jean ogni dissimulazione era stata abbandonata e i Superni avevano effettuato arrivi e partenze in piena vista. Nel telescopio con cinque metri d’apertura, le ombre delle grandi astronavi si potevano vedere nitidamente quando, al mattino e alla sera, il sole le allungava per miglia e miglia sulle piane lunari. Siccome tutto quello che i Superni facevano era di immenso interesse per il genere umano, era cominciata una costante vigilanza dei loro arrivi e delle loro partenze, e così si poteva avere un idea delle loro operazioni anche se non dei motivi che le determinavano. Una di quelle grandi ombre era svanita qualche ora prima. Ciò significava, come Jan sapeva, che in un punto dello spazio presso la Luna un’astronave dei Superni attendeva immobile, eseguendo gli ordini che le erano stati impartiti, prima d’iniziare il viaggio per la lontana patria sconosciuta.

Lui non aveva mai visto una di quelle astronavi che ripartivano per il loro pianeta lanciarsi verso le stelle. Se le condizioni di visibilità erano buone, lo spettacolo era visibile da una buona metà del globo, ma Jan non aveva mai avuto fortuna. Non si poteva mai prevedere quando sarebbe avvenuto il decollo, e del resto i Superni non davano nessuna pubblicità all’evento. Jan decise di aspettare altri dieci minuti, prima di scendere a raggiungere gli altri. E quella che cos’era? Niente altro che una meteora, che scivolava mollemente giù dalla costellazione di Eridano. Jan si rilassò, scoprì che la sigaretta si era spenta e ne accese un’altra. Ne aveva fumato circa metà, quando, a mezzo milione di chilometri di distanza, si accese l’iperpropulsione. Dal cuore della radiosità lunare, una minuscola favilla cominciò a salire verso lo zenit. Dapprima il suo movimento fu quasi impercettibile, ma guadagnava velocità a ogni secondo. Salendo, accrebbe il suo fulgore, poi, bruscamente, si affievolì fino a scomparire. Un istante dopo la favilla ricomparve, aumentando in fulgore e velocità. Ora vivida ora fioca secondo un suo ritmo, ascendeva sempre più rapidamente nel cielo, tracciando una fluttuante linea di luce in mezzo alle stelle. Anche ignorandone la vera distanza, l’impressione di velocità che se ne aveva era da mozzare il fiato; sapendo poi che l’astronave in partenza si trovava nello spazio al di là della Luna, la mente era colta da vertigine all’idea delle velocità e delle forze che quel moto implicava. Quello che ora vedeva, si disse Jan, era un sottoprodotto senza importanza di quelle forze. L’astronave stessa era invisibile, già molto più innanzi della luce ascendente. Come un aviogetto si lascia dietro una scia di vapori, così la nave dei Superni lanciata verso l’infinito aveva la sua scia particolare. La teoria generalmente accettata, e non sembrava esservi dubbio della sua fondatezza, era che l’immensa accelerazione dell’iperpropulsione causasse una distorsione locale nello spazio. Ciò che Jan stava ora vedendo era solo la luce delle stelle lontanissime, raccolta e messa a fuoco della sua retina appena le condizioni favorevoli lungo la scia dell’astronave lo permettevano. Era una prova visibile della relatività: la deviazione dei raggi luminosi nelle vicinanze di un colossale campo gravitazionale. La luce fantomatica cominciava ad affievolirsi. Adesso non era più che una minuscola striatura vaga, che puntava verso il cuore della costellazione della Carena, come Jan sapeva che avrebbe fatto. Il mondo dei Superni sembrava essere in quella direzione, approssimativamente, ma poteva gravitare intorno a una qualunque delle migliaia di stelle che si addensavano in quel settore dello spazio. Non c’era modo di stabilire la sua distanza dal Sistema Solare.

Non c’era più niente, ora. Sebbene l’astronave avesse appena cominciato il viaggio, l’occhio umano non poteva vedere più niente. Ma nella memoria di Jan il ricordo di quell’itinerario luminoso continuava ad ardere, fascio di luce lanciato da un faro che non si sarebbe mai affievolito finché lui avesse avuto in sé ambizioni e desideri.


La festa era finita. Quasi tutti gli invitati erano ripartiti a bordo dei loro aerei e sciamavano ora verso i quattro angoli della Terra, tranne qualche eccezione.

Una era Norman Dodsworth, il poeta, che si era ubriacato vergognosamente, ma aveva almeno avuto il buon gusto di svenire prima di dare spettacolo. Con scarsa delicatezza, l’avevano sdraiato all’aperto con la speranza che qualche iena gli desse un rude risveglio. Stando così le cose, era come se Dodsworth non ci fosse affatto.

Tra gli altri rimasti erano George e Jean. Idea che non era stata affatto di George, il quale aveva una gran voglia di tornarsene a casa. Era ovvio che Rupert aveva in serbo qualche sorpresa, probabilmente d’accordo con Jean. George si rassegnò di malumore a qualunque sciocchezza stessero per propinargli.

«Ho tentato di tutto prima di fermarmi su questa» disse Rupert orgogliosamente. «Il problema fondamentale è quello di ridurre l’attrito allo scopo di ottenere la massima libertà di movimento. L’antiquata apparecchiatura a base di tavolo lucido e levigato col suo bravo bicchiere sopra non è tanto male, ma è in uso da secoli, ormai, e io ero sicuro che la scienza moderna poteva trovare di meglio. Ed ecco il risultato. Avvicinate pure le sedie… davvero non te la senti di unirti a noi, Rashy?»

Il Superno parve esitare per una frazione di secondo. Quindi scosse la testa. Avevano forse imparato quel gesto sulla Terra? pensò George.

«No, grazie» rispose. «Preferisco stare a guardare. Un’altra volta, forse.»

«Benissimo… c’è rutto il tempo che vuoi, qualora dovessi cambiare idea più tardi.»

«Ah, bene!» pensò George, più nero che mai, guardando l’orologio. Rupert aveva radunato il gruppetto di amici attorno a un tavolo piccolo ma massiccio e perfettamente rotondo. Il piano, di plastica, era un coperchio molto sottile, che egli sollevò per mettere in mostra un mare scintillante di cuscinetti a sfere strettamente connessi. L’orlo lievemente rilevato del tavolo impediva alle sfere di rotolare via, e George non riuscì a capire a che cosa servissero. Le centinaia di punti di luce riflessa formavano un disegno ipnotico, affascinante, sì che George ne ebbe la mente confusa. Mentre gli altri avvicinavano le sedie, Rupert allungò un braccio sotto il tavolo, prese un disco del diametro di dieci centimetri circa e lo appoggiò sulla superficie dei cuscinetti a sfera.

«Ecco qua» disse. «Appoggiate la punta delle dita su questo disco e vedrete che si muoverà senza fare resistenza.»

George si mise a osservare disco e tavolo con profonda diffidenza. Vide che le lettere dell’alfabeto erano disposte a intervalli regolari, anche se non in base a un preciso ordine di successione, lungo la circonferenza del tavolino, Inoltre c’erano i numeri dall’1 al 9, sparsi alla rinfusa tra le lettere, e due cartoncini con le parole «sì» e «no», l’uno di fronte all’altro, ai margini del tavolino.

«A me sembra un gioco di bussolotti» mormorò. «Mi stupisce che ci sia gente che lo prenda sul serio ancora oggi.» Si sentì meglio, dopo essersi alleggerito con questa piccola protesta rivolta tanto a Jean quanto a Rupert. Rupert si atteggiava a uomo di larghe vedute, ma tutt’altro che credulo, con soltanto un distaccato interesse scientifico per fenomeni del genere, Jean, d’altra parte… George, a volte era un po’ preoccupato nei suoi riguardi. Lei sembrava convinta che ci fosse qualcosa di molto vero in quei giochetti di telepatia e di preveggenza.

Fu solo dopo avere espresso la sua osservazione che George si accorse che la protesta toccava anche a Rashaverak. Lanciò nervosamente un’occhiata nella sua direzione, ma il Superno non dimostrò nessuna reazione. La qual cosa, com’era naturale, non significava assolutamente nulla. Ognuno aveva preso il suo posto. Nel senso delle lancette dell’orologio, sedevano Rupert, Maia, Jan, Jean, George e Benny Shoenberger. Ruth Shoenberger sedeva discosta, al di fuori del circolo, con in mano un quaderno. Ruth aveva fatto qualche obiezione a partecipare alla seduta, la qual cosa aveva indotto Benny a osservare in tono sarcastico che al mondo c’era ancora gente che prendeva sul serio il Talmud. Comunque, Ruth pareva dispostissima a fungere da segretaria.

«Ora» disse Rupert «vi prego di ascoltarmi attentamente. A beneficio degli scettici come George, sarà bene mettere molto in chiaro subito questo: ci sia o non ci sia un elemento soprannaturale in questa faccenda, vi dico che la cosa funziona. Personalmente ritengo che si possa dare una spiegazione di carattere strettamente meccanico. Quando noi poniamo la punta delle dita sul disco, anche se possiamo tentare d’influire sui suoi movimenti, il nostro subcosciente comincia a farci degli scherzi. Ho analizzato moltissime sedute di questo genere e non ho mai trovato risposte che qualcuno del gruppo potesse non sapere o non indovinare… anche se spesso nessuno ne era consapevole. Ad ogni modo, vorrei eseguire l’esperimento in queste circostanze, diremo così, peculiari.»

La Circostanza Peculiare se ne stava seduta a osservarli in silenzio, ma indubbiamente non con indifferenza. George si chiese che cosa pensasse esattamente Rashaverak di simili prodezze. Erano forse, le sue, le reazioni di un antropologo che osserva qualche primitivo rito religioso? Tutta la situazione era semplicemente grottesca, e George si sentì ridicolo come non gli era mai capitato di sentirsi in vita sua.

Se anche gli altri si sentivano ridicoli, non lo dimostrarono. Solo Jean era accesa in volto, eccitata; ma forse erano state le bevande alcoliche.

«Tutto a posto?» disse Rupert. «Bene.» Fece una pausa a effetto, quindi, senza rivolgersi a nessuno in particolare, domandò: «C’è forse qualcuno?»

Sotto le dita George sentì il disco vibrare. Non era sorprendente, data la pressione esercitata su di esso dalle sei persone della catena. Quindi il disco cominciò a scivolare lungo due curve, tracciando un piccolo otto, ter-minato il quale rimase immobile nel centro, da dove si era mosso.

«C’è qualcuno?» ripeté Rupert. E in un tono di più normale conversazione soggiunse: «Spesso bisogna aspettare da dieci minuti a un quarto d’ora, prima che si cominci. Ma alle volte…»

«Ssst!» fece Jean.

Il disco aveva ripreso a muoversi e ora stava percorrendo un grande arco oscillando fra i cartellini del «sì» e del «no». A fatica, George represse un sorriso sarcastico. Che cosa avrebbe dimostrato quel disco, pensò, se si fosse fermato davanti al no? Ricordò il vecchio scherzo: «Se ci sei batti un colpo, se non ci sei battine due!».

Ma il disco si fermò davanti al «sì», brevemente, poi ritornò al centro della tavola. In un certo senso pareva vivo, ora, vivo e in attesa di una nuova domanda. Nonostante tutto George cominciò a sentirsi impressionato.

«Chi sei?» «domandò Rupert.

Le lettere finirono compilate nettamente, a una a una, dal disco, senza la minima esitazione. Il piattello rotondo saettava qua e là per il tavolo come una cosa animata, spesso così veloce che George non riusciva a tenerci sopra le dita. Avrebbe potuto giurare che non contribuiva assolutamente al suo movimento; e, guardandosi intorno, rapidamente, non notò niente di sospetto sulla faccia dei suoi amici. Sembravano assorti e in attesa come lui stesso.

IOSONOTUTTI, compilò il piattello e tornò al suo punto di equilibrio.

«Io sono tutti» ripeté Rupert.

«Una risposta tipica. Evasiva e niente stimolante. Probabilmente significa che non c’è altra cosa, qui, all’infuori dell’effetto combinato delle nostre menti.» Tacque per qualche istante, evidentemente per scegliere la domanda successiva. Infine si rivolse all’aria ancora una volta.

«Hai un messaggio per qualcuno dei presenti?»

«No» rispose prontamente il disco.

Rupert si guardò intorno.

«Dobbiamo fare noi. A volte comunica di sua iniziativa, ma stavolta dobbiamo rivolgergli domande precise. C’è nessuno che voglia cominciare?»

«Pioverà domani?» scherzò George.

Immediatamente il piattello cominciò ad andare e venire nello spazio tra il «sì» e il «no».

«È una domanda futile» disse Rupert in tono di rimprovero. «C’è sempre la probabilità che piova in qualche zona e ci sia siccità in altre. Non bisogna fare domande che implichino ambiguità di risposta.»

George si sentì schiacciato e lasciò a qualche altro la domanda successiva.

«Qual è il mio colore preferito?» domandò Maia.

BLU, fu la risposta giusta.

«Esattissimo!»

«Questo non prova niente. Almeno tre persone presenti sanno la risposta» obiettò George.

«Qual è il colore preferito di Ruth?» domandò Benny.

ROSSO.

«È vero, Ruth?»

La segretaria alzò lo sguardo dal quaderno dove annotava domande e risposte.

«Sì. Ma Benny lo sa, e fa parte della catena.»

«Io non lo sapevo affatto» protestò Benny.

«Lo sapevi benissimo! Non so più quante volte te l’ho detto.»

«Ricordi del subconscio» mormorò Rupert. «Avviene spesso. Ma non possiamo fare qualche domanda un po’ più intelligente, per favore? Ora che la seduta è cominciata così bene, non vorrei vederla finire in niente.»

Cosa strana, la stessa banalità del fenomeno cominciava a impressionare George. Era certissimo che la spiegazione non avesse niente a che vedere col mondo soprannaturale. Come aveva detto Rupert, il disco rispondeva semplicemente ai loro inconsci movimenti muscolari. Ma era il fatto in sé che sorprendeva e colpiva: lui non avrebbe mai creduto che si potessero ottenere risposte tanto pronte e precise. Una volta tentò di vedere se potesse influire sul piattello facendogli comporre il suo nome: riuscì a ottenere la G, ma fu tutto: il resto non aveva senso. Era virtualmente impossibile, decise, che una persona sola fosse in grado di tenere il disco sotto controllo a insaputa degli altri.

Dopo una trentina di minuti, Ruth aveva scritto oltre una decina di messaggi, alcuni dei quali molto lunghi. Vi figuravano ogni tanto errori di ortografia e anomalie grammaticali, ma in numero ridottissimo. Quale che fosse la spiegazione, George era convinto ora di non contribuire consapevolmente ai risultati. Più volte, mentre una parola era in fase di composizione, aveva creduto di prevedere la lettera successiva e perciò il significato del messaggio. Ma ogni volta il piattello si era poi diretto verso tutt’altra lettera, formando una parola del tutto inattesa. Spesso, infatti, l’in-tero messaggio, dato che non c’era soluzione di continuità tra una parola e l’altra, era totalmente privo di senso fino a quando non era ultimato e Ruth non lo aveva riletto.

Quell’esperienza dava a George l’impressione soprannaturale di essere in comunicazione con una mente autonoma, dotata di volontà sua propria. E nello stesso tempo non c’era una prova conclusiva né in un senso né nell’altro. Le risposte erano così banali, così ambigue! Che cosa si poteva tirar fuori per esempio, da:

CREDERENELLUOMOLANATURAECONVOI?

Pure ogni tanto c’erano indizi di verità profonde, addirittura sconvolgenti:

RICORDACHELUOMONONESOLOPRESSOLUOMOESISTEILPAES

EDIALTRI.

Ma era una cosa naturale, che tutti sapevano: tuttavia non poteva forse il messaggio riferirsi ad altri che non i Superni?

George finì per cadere in preda al torpore. Era tempo, si disse assonnato, di riprendere la via del ritorno. Quell’esperimento era senza dubbio tale da rendere perplessi e curiosi di saperne di più, ma non sembrava portarli verso qualcosa di definitivo, e il troppo stroppia anche le cose buone. Guardò di sfuggita i compagni della catena. Benny aveva l’aria di pensarla come lui, Maia e Rupert avevano entrambi gli occhi lievemente vitrei, e Jean, be’, Jean sembrava aver preso fin da principio la cosa troppo sul serio. La sua espressione preoccupò George; pareva quasi che avesse paura a smettere e nello stesso tempo temesse di andare avanti.

Restava soltanto Jan. George non era ancora riuscito a capire che cosa pensasse il giovane delle eccentricità del cognato. Jan non aveva fatto domande e non aveva mostrato sorpresa alle risposte date dal piattello. Sembrava studiare i movimenti del disco come se si trattasse semplicemente di un qualunque fenomeno scientifico.

Rupert si scosse dallo stato letargico nel quale gli sembrava di essere sprofondato.

«Facciamo ancora una domanda» disse «dopo di che potremo dichiarare la giornata conclusa. Voi, Jan, non avete ancora rivolto domande?»

Nello stupore generale, Jan non mostrò esitazione alcuna. Era come se il giovane avesse già deciso da tempo di fare la sua domanda e avesse aspettato l’occasione propizia. Lanciò una sola occhiata alla figura immobile di Rashaverak, poi domandò con voce chiara e ferma: «Quale stella è il sole dei Superni?»

Rupert soffocò un’esclamazione di sorpresa, Maia e Benny non ebbero reazioni.

Jean aveva chiuso gli occhi e sembrava addormentata. Rashaverak si era sporto in avanti così da poter vedere all’interno della catena da sopra le spalle di Rupert.

E il disco cominciò a muoversi.

Quando finalmente tornò allo stato di riposo, ci fu una breve pausa di silenzio. Quindi Ruth domandò, con voce perplessa: «Che cosa significa NGS 549672?»

Ma non ottenne alcuna risposta, perché nello stesso istante George disse ansiosamente: «Chi mi dà una mano per Jean? Temo che sia svenuta.»

8

«Questo Boyce…» disse Karellen. «Ditemi tutto quello che sapete di lui.»

Il Supercontrollore non usò esattamente queste parole, e i pensieri sottintesi trascendevano di grati lunga questo significato. Un ascoltatore umano avrebbe al massimo udito un fiotto di suoni rapidamente modulati, non molto diversi da quelli di una trasmissione in alfabeto Morse fatta a grande velocità. Sebbene fossero stati registrati molti saggi dell’idioma Superno, la loro estrema complessità sfocava qualunque analisi. La velocità di trasmissione garantiva l’impossibilità, da parte di qualunque interprete che avesse anche assimilato il linguaggio, di stare alla pari con i Superni in una loro normale conversazione.

Il Supercontrollore della Terra, voltando le spalle a Rashaverak, guardava la fossa multicolore del Gran Canyon. A dieci chilometri circa, ma appena velati dalla distanza, i bastioni a terrazze erano esposti alla piena forza del sole. A centinaia di metri sotto le pendici ombreggiate sul cui ciglio Karellen stava ritto, un trenino a cremagliera scendeva lentamente a spirale nell’abisso della valle. Era strano, pensò Karellen, che tanti esseri umani cogliessero ancora qualunque occasione per comportarsi secondo usanze primitive. Potevano giungere sul fondo del canyon in una frazione del tempo impiegato dal trenino, se avessero voluto, e con maggiori comodità. Invece preferivano essere sballottati su binari che probabilmente erano pericolosi e pericolanti proprio come sembravano. Karellen fece un gesto impercettibile con la mano. Il grande panorama sbiadì alla vista, lasciando soltanto una vacuità piena d’ombre che si per-deva in prospettiva. Le realtà del suo ufficio e della sua posizione gravarono ancora una volta sulle spalle del Supercontrollore.

«Rupert Boyce è un tipo alquanto curioso» rispose Rashaverak. «Professionalmente, è il responsabile sanitario della Principale Riserva Africana. È molto capace e ama il suo lavoro. Poiché deve sorvegliare parecchie migliaia di chilometri quadrati di territorio, ha uno dei quindici televisori panoramici che abbiamo distribuito a titolo di prestito, con le solite garanzie, naturalmente. È, tra parentesi, il solo apparecchio che abbia complete possibilità di proiezione. Boyce ha dimostrato di saperne fare buon uso, per cui gliele abbiamo lasciate tutte.»

«Qual è stata la tesi da lui sostenuta?»

«Voleva apparire a numerosi animali selvaggi in modo che si abituassero a vederlo e quindi non lo assalissero quando si fosse presentato materialmente a loro. La sua teoria si è dimostrata valida con quegli animali che si regolano più sulla vista che sull’odorato, sebbene io tema che prima o poi finisca sotto le zanne di qualche fiera. Ma c’è un’altra ragione per cui gli abbiamo concesso l’apparecchio.»

«L’apparecchio lo rendeva più prezioso come collaboratore?»

«Precisamente. Ho letto ora circa la metà della sua preziosa biblioteca. È stata una prova ben dura!»

«Non ne dubito» rispose Karellen, asciutto. «Avete scoperto qualcosa che ne valesse la pena, fra tutto quel ciarpame?»

«Sì. Undici casi di parziale sfondamento e ventisette probabili. Il materiale è tuttavia così tenue che non lo si può usare a fini d’esemplificazione. E l’evidenza dei fatti è sempre frammista inestricabilmente al misticismo, caratteristica inalienabile della mente umana.»

«E l’atteggiamento di Boyce qual è?»

«Si finge alquanto scettico, ma è chiaro che non avrebbe consumato tanto tempo ed energie in questo campo senza una profonda fede subconscia. L’ho sfidato e ha finito per ammettere che dovevo avere ragione. Il suo grande desiderio è scoprire una prova irrefutabile. Ecco perché fa quegli esperimenti, anche se ama far credere che sono specie di giochi.»

«Siete certo che non sospetti che il vostro interesse non è soltanto accademico?»

«Certissimo. Sotto molti aspetti, Boyce è notevolmente ottuso e semplice. Cosa che rende i suoi tentativi di ricerche, proprio in questo campo, quasi patetici. Non vedo la necessità di ricorrere a qualche azione speciale nei suoi riguardi.»

«Già. E in merito alla giovane donna che è svenuta?»

«Questo è il particolare più interessante di tutta la faccenda. Jean Morrei rappresentava quasi certamente il mezzo attraverso cui è pervenuta la comunicazione. Ma la donna ha ventisei anni: troppi per costituire un contatto diretto, a giudicare da tutte le nostre esperienze precedenti. Deve essere quindi qualcun altro strettamente connesso a lei. La conclusione è ovvia. Non possiamo avere più molti anni da attendere. Dobbiamo trasferirla alla Categoria Porpora: può anche darsi che sia il più importante essere vivente.»

«D’accordo. Provvederò io. E il giovane che ha fatto la domanda? Si tratta di un caso di pura curiosità, senza fondamento, o aveva qualche altro motivo?»

«È stato il caso a portarlo a quella riunione: la sorella aveva appena sposato Rupert Boyce. Non conosceva nessuno degli altri invitati. Sono sicuro che la domanda non era premeditata, ma piuttosto ispirata da condizioni insolite, oltre che dalla mia presenza. Date le premesse, non c’è da stupirsi del suo comportamento. Il suo grande sogno è l’astronautica: è segretario del Gruppo degli Astronauti all’Università del Capo e mira a fare di questo campo di studi lo scopo della sua vita.»

«La sua carriera dovrebbe essere interessante. In attesa, quale sarà, secondo voi, la sua linea di condotta e in che modo dovremo occuparci di lui?»

«Indubbiamente tenterà di controllare la notizia della nostra provenienza, appena potrà. Ma non c’è modo per lui di dimostrare la verità della risposta avuta: non solo, ma per l’origine stessa dell’informazione è molto difficile che si azzardi a renderla pubblica. Ma se anche lo facesse, in che cosa potrebbe, sia pur lontanamente, danneggiarci?»

«Farò vagliare con la massima cura i due elementi della situazione» rispose Karellen. «Sebbene l’assoluto divieto di rivelare la nostra base faccia parte delle direttive impartiteci, non vedo in che modo la notizia possa essere usata contro di noi.»

«È quello che penso anch’io. Tutto quello che Rodricks riuscirà a trovare sarà qualche informazione molto dubbia e di nessun valore pratico.»

«Così parrebbe, ma non lasciamoci dominare da un senso di eccessiva sicurezza. Gli esseri umani sono straordinariamente ingegnosi e spesso molto tenaci. Non è mai prudente sottovalutarli, e sarà interessante seguire la carriera di Rodricks. Dovrò riflettere ancora su questo argomento.»


Rupert Boyce non giunse mai realmente in fondo alla cosa. Dopo che i suoi ospiti se ne furono andati, con un tono un po’ più dimesso e riservato del solito Rupert aveva spinto il tavolo nel suo angolo, con aria cogitabonda. La lieve nebbiolina alcolica inibì un’analisi approfondita di quanto era accaduto, e del resto gli stessi fatti già cominciavano ad apparirgli vaghi e sfumati. Aveva l’impressione generica che fosse accaduto qualcosa di molto importante ma indefinibile, e si chiese se fosse il caso di parlarne a Rashaverak. Ma poi si disse che sarebbe stata un’indiscrezione. Dopo tutto, era stato Jan a provocare quella situazione imbarazzante, e Rupert si rese conto di nutrire un vago risentimento verso il cognato. Ma era poi colpa di Jan? Anzi, era colpa di qualcuno? Con un certo senso di disagio, Rupert si ricordò che era stato il suo esperimento, quello a cui i suoi amici avevano partecipato. E decise, con buon esito, di non pensare più all’intera faccenda. Avrebbe forse potuto fare qualcosa se si fosse ritrovata l’ultima pagina del quaderno di Ruth, ma, nella confusione, era scomparsa. Jan finse sempre di non saperne niente e ben difficilmente si sarebbe potuto accusare Rashaverak. Così, nessuno poté mai ricordare esattamente la parola che era stata compitata, se non che sembrava totalmente priva di senso…


Chi era rimasto più profondamente impressionato fu George Greggson, che non avrebbe più dimenticato il senso di terrore provato quando Jean gli si era afflosciata tra le braccia, trasformandosi da una piacevole compagna a un essere bisognoso di tenerezza e di affetto. Le donne sono sempre svenute, da tempi immemorabili, e non tutte le volte sul serio, ottenendo sempre dagli uomini l’effetto sperato. Ma lo svenimento di Jean, del tutto genuino, non avrebbe ottenuto di più se fosse stato calcolato perché, come lui si rese conto più tardi, George in quel momento prese la decisione più importante della sua vita. Jean era la donna che realmente contava per lui, nonostante le sue idee strampalate e i suoi ancora più strampalati amici. Non che George avesse intenzione di abbandonare del tutto Naomi, o Jiy, o Elsa, o… come diamine si chiamava quella?… Denise, ma era venuto il tempo di un rapporto più stabile e serio. Non dubitava che Jean fosse d’accordo con lui, dato che i suoi sentimenti erano stati manifesti fin dal primo giorno.

Ma dietro quella decisione c’era un altro fattore di cui per il momento George non era conscio. L’esperienza di quella sera aveva indebolito il suo disprezzo e il suo scetticismo per le cose che interessavano particolarmente Jean. Non l’avrebbe mai ammesso, ma era così, e questo aveva rimosso l’ultima barriera che si levava tra loro.

Guardò Jean che giaceva pallida, ma composta e serena, nella poltroncina inclinabile dell’aereo. Le tenebre si addensavano sotto di loro, le stelle sopra. George non aveva la più pallida idea di dove si trovassero e non gliene importava niente. Era affare del pilota automatico che li stava pilotando verso casa e li avrebbe fatti atterrare, come annunciava l’indicatore sul cruscotto, esattamente entro cinquantasei minuti. Jean gli sorrise in risposta e dolcemente sciolse la mano dalla stretta delle dita di George.

«Solo per ristabilire la circolazione» disse, in tono di preghiera, soffregandosi le dita. «Vorrei che tu mi credessi, ora che ti assicuro di stare benissimo.»

«Allora, che cosa pensi che sia successo? Ricorderai, immagino, qualche cosa, non è vero?»

«No… c’è una lacuna nella mia memoria, il vuoto assoluto. Ho sentito Jan fare la domanda… e poi vi ho visto tutti che, agitatissimi, eravate chini su di me. Sono certa che deve essere stata una specie di trance. Del resto…»

Tacque per un istante e decise di non dire a George che quel genere di cose le era capitato altre volte. Sapeva come la pensava lui in merito e non intendeva sconvolgerlo maggiormente, o addirittura spaventarlo.

«Del resto… che cosa?» domandò George.

«Oh, niente. Sarei curiosa di sapere che cosa quel Superno ha pensato di tutta la faccenda. Forse gli abbiamo dato più di quanto si aspettasse.»

Jean fu scossa da un brivido e le si velarono gli occhi.

«Ho paura dei Superni, George. Non voglio dire che siano malvagi, né altre sciocchezze del genere. Sono certa che le loro intenzioni sono eccellenti e che fanno ciò che ritengono ci giovi di più, ma vorrei sapere quali sono i loro piani.»

George si mosse a disagio.

«È quello che l’umanità si chiede da quando sono comparsi sul nostro pianeta» rispose. «Ce lo diranno appena saremo abbastanza maturi per saperlo, e, a dirti la verità, io non sono molto curioso. Senza contare che ho cose più importanti a cui pensare.» Si girò verso Jean e le afferrò le mani.

«Che ne diresti di andare domani all’anagrafe, a firmare un contratto per… diciamo cinque anni?»

Jean lo guardò negli occhi e decise che, tutto sommato, non le dispia-ceva quel che sentiva quando guardava George.

«Facciamo dieci» rispose.


Jan tirava per le lunghe. Non c’era fretta, e poi voleva pensare. Era quasi come se temesse che approfondendo le cose la fantastica speranza si dissolvesse. Finché non aveva nessuna certezza, poteva continuare a sognare. Inoltre, prima di passare all’azione, doveva consultare la bibliotecaria dell’Osservatorio. La donna conosceva benissimo tanto lui quanto il suo campo di interessi, e la richiesta l’avrebbe sicuramente sconcertata. Forse non era una cosa importante, ma Jan preferiva non correre rischi. Fra una settimana avrebbe avuto un’occasione migliore. Sapeva di esagerare con le precauzioni, ma l’eccessiva cautela aggiungeva un gusto goliardico all’avventura. Inoltre Jan temeva il ridicolo più di qualsiasi cosa che i Superni potessero fare per ostacolarlo, e se si stava imbarcando su una nave che faceva acqua era meglio che nessuno lo sapesse. Per andare a Londra aveva un ottimo motivo, e gli accordi erano già stati presi da alcune settimane. Per quanto fosse troppo giovane e troppo poco qualificato per la carica di delegato, era però uno dei tre studenti che erano riusciti a farsi assegnare al gruppo ufficiale partecipante alla riunione dell’International Astronomical Union. In periodo di vacanze sarebbe stato un vero peccato perdere quell’occasione, dato che non vedeva Londra dall’infanzia. Anche se si trattava di argomenti che poteva capire, i rapporti che sarebbero stati presentati alla I.A.U. non gli interessavano gran che, ma, come ogni altro addetto a un congresso scientifico, sarebbe andato alle conferenze che si annunciavano più interessanti e avrebbe trascorso il resto del tempo a conversare con colleghi entusiasti o semplicemente curiosi. Londra era cambiata enormemente in quegli ultimi cinquant’anni. Ora la sua popolazione non superava i due milioni, ma le macchine superavano questa cifra di almeno cento volte. Non era più un grande porto, perché, come in ogni Paese autosufficiente, l’intera fisionomia del commercio internazionale era profondamente mutata. C’erano ancora prodotti che alcuni Paesi facevano meglio degli altri, ma raggiungevano la loro destinazione direttamente per via aerea.

Altre cose, però, non erano mutate. La città era ancora un centro amministrativo, artistico e culturale. In questi campi, nessuna delle metropoli continentali poteva rivaleggiare con Londra, nemmeno Parigi, nonostante che molti protestassero affermando il contrario. Un londinese di un secolo prima sarebbe stato capace di ritrovare la sua strada, almeno nel centro, senza difficoltà. C’erano nuovi ponti sul Tamigi, ma al posto dei vecchi. Le grandi, squallide stazioni della metropolitana erano scomparse, o per lo meno sopravvivevano soltanto nei sobborghi. Ma le Camere del Parlamento erano immutate: il monocolo Nelson fissava ancora Whitehall, la cupola di St. Paul si levava ancora su Ludgate Hill, anche se adesso si vedevano edifici più alti sfidare il suo primato.

E le guardie montavano ancora di sentinella davanti a Buckingham Palace. Fu solo nel secondo giorno del Congresso che a Jan si offrì l’occasione che cercava. Sembrava che non ci fosse nessuno in sede, in quel momento. Jan, stringendo nella mano il suo cartoncino di socio, come un passaporto, nell’eventualità di qualche controllo inatteso, non ebbe difficoltà a trovare la biblioteca.

Gli ci volle quasi un’ora per trovare quel che cercava e imparare a servirsi dei grandi cataloghi stellari con i loro milioni di voci. Tremava lievemente quando cominciò a intravedere la fine delle sue ricerche e fu lieto che non ci fosse nessuno ad assistere al suo nervosismo. Rimise a posto il catalogo e rimase per molto tempo seduto immobile, fissando, senza vederla, la parete coperta dagli scaffali zeppi di volumi. Infine si allontanò a passo lento per i corridoi silenziosi e giù per le scale. Aveva evitato l’ascensore, perché voleva essere libero e non rinchiuso in uno spazio angusto.

Aveva la mente ancora in pieno caos quando attraversò la strada per raggiungere il parapetto del Lungotamigi, dove lasciò che il suo sguardo seguisse il fiume nel suo lento corso verso il mare. Passeggiando lentamente passò in rassegna i dati di fatto, uno dopo l’altro. Dato N. 1: nessuno, alla festa di Rupert, poteva sapere che lui avrebbe fatto quella particolare domanda. Non lo aveva saputo nemmeno lui fino al momento di formularla, come spontanea reazione alle circostanze. Pertanto, nessuno avrebbe potuto preparare una risposta o averla già avuta nella mente.

Dato N. 2: NGS 549672 probabilmente non significava niente per nessuno che non fosse astronomo. Sebbene il grande National Geographic Survey fosse stato completato da mezzo secolo, la sua esistenza era nota soltanto a qualche migliaio di specialisti. E prendendovi un numero qualunque a casaccio, nessuno avrebbe potuto dire in quale punto del cielo si trovasse quella stella particolare.

Ma, e questo era il dato N. 3, che solo lui ora aveva scoperto, la piccola stella insignificante nota come NGS 549672 si trovava precisamente là dove era giusto che fosse. Stava nel cuore della costellazione della Carena, a un’estremità di quella striscia di fuoco che lo stesso Jan aveva visto, poche notti prima, staccarsi dal Sistema Solare per lanciarsi sopra gli abissi dello spazio.

Era assurdo che si trattasse di una combinazione. NGS 549672 «doveva» essere il sistema stellare dove si trovava il mondo dei Superni. Tuttavia, accettare il fatto significava per Jan violare tutti i principi tanto amati del metodo scientifico. Ebbene, peggio per quei principi. In quell’occasione doveva accettare il fatto che, in certo qual modo, il fantastico esperimento di Rupert aveva attinto a una fonte di conoscenza, ignota fino a quel momento. Rashaverak? Sembrava la spiegazione più probabile. Il Superno non aveva partecipato alla catena, ma questo non aveva molta importanza. Tuttavia Jan non era attratto dal meccanismo della parafisica: era la sola utilizzazione dei risultati che lo interessava. Si sapeva ben poco della stella NGS 549672: non era mai stato notato niente che la distinguesse da milioni di altre stelle. Ma il Catalogo ne dava la grandezza in luminosità, le coordinate, il tipo spettrale. Jan avrebbe dovuto ora fare qualche ricerca, insieme con un po’ di calcoli abbastanza semplici. Solo allora avrebbe saputo, almeno approssimativamente, quanto il mondo dei Superni distasse dalla Terra.

Un lento sorriso si allargò sulla faccia di Jan, quando il giovane si staccò dal Tamigi per tornare verso la bianca facciata abbagliante del Centro Scientifico. Sapere è potere, e lui era il solo uomo sulla Terra a sapere da dove provenivano i Superni. Come avrebbe utilizzato quella conoscenza, non poteva immaginare: ma l’avrebbe custodita al sicuro nella sua mente, aspettando il momento del destino.

9

La razza umana continuava a crogiolarsi nel lungo e limpido pomeriggio estivo della pace e della prosperità. Sarebbe mai più venuto l’inverno? Era impensabile. L’età della ragione, precocemente annunciata dai capi mati del metodo scientifico. Ebbene, e mezzo prima, era arrivata. E stavolta non c’era possibilità di errore.

Non che mancassero gli inconvenienti, d’accordo, ma li si accettava di buon grado: bisognava essere davvero molto vecchi per avvertire la noia dei notiziari giornalistici che le telescriventi riproducevano in ogni casa. Del tutto scomparse le crisi politiche ed economiche che un tempo originavano titoli e lettere cubitali. Non esistevano più delitti misteriosi che lasciassero perplessa la polizia e destassero in milioni di petti un’indignazione morale che spesso non era che invidia mascherata. I delitti che ancora si commettevano non erano mai misteriosi: bastava semplicemente girare un disco, o una manopola, e si poteva vedere il delitto riprodotto nei minimi particolari. Che esistessero strumenti simili aveva provocato in un primo momento un’ondata di panico fra la gente rispettosa della legge, e timorata. Era una cosa che i Superni, i quali si erano impadroniti quasi completamente di tutti i ghiribizzi della psicologia umana, non avevano previsto. Fu necessario far capire chiaramente che a nessun occhio indiscreto era dato spiare le azioni private dei suoi simili e che i pochissimi strumenti nelle mani degli uomini sarebbero stati sotto la più stretta sorveglianza. Il Proiettore di Rupert Boyce, per esempio, non poteva funzionare oltre i limiti della Riserva, ragione per cui Rupert e Maia erano le uniche persone entro il suo raggio d’azione.

Perfino i rarissimi crimini di eccezionale gravità non avevano particolare rilievo nei notiziari, dato che la gente veramente educata non desidera, dopo tutto, leggere gli errori sociali commessi dagli altri. La settimana media lavorativa era ridotta ormai a venti ore, ma queste venti ore non rappresentavano certo una sinecura. Ben poco lavoro restava di natura automatica, monotona. Il cervello umano era troppo prezioso per sprecarlo in lavori che qualche migliaio di transistor, poche cellule fotoelettriche e un metro cubo di circuiti stampati potevano fornire facilmente. C’erano fabbriche che lavoravano per settimane di seguito, ininterrottamente, senza essere visitate da un solo essere umano. Gli uomini erano necessari per eliminare inconvenienti, decidere, progettare nuove iniziative. Gli automi facevano il resto.

I più possedevano due case, nelle parti del mondo più lontane l’una dall’altra. Ora che le regioni polari erano state aperte alla colonizzazione umana, una notevole minoranza degli esseri umani oscillava dall’Artico all’Antartico con un moto pendolare che aveva una frequenza di sei mesi in media, poiché era invalsa la moda di andare alla ricerca della lunga estate polare senza notte. Altri erano andati a stabilirsi nei deserti, sulle montagne o addirittura sul fondo del mare. Non, c’era più un luogo sulla faccia del pianeta dove scienza descrittiva e scienza applicata non potessero dare una casa confortevole a chi ne sentisse profondamente la necessità. Alcune tra le più eccentriche dimore erano divenute la fonte delle poche notizie sensazionali che si divulgassero. Anche nella società più perfettamente organizzata sarebbero sempre avvenuti incidenti. Forse era buon segno che la gente ritenesse che valeva la pena di rischiare, e spesso di rompersi l’osso del collo, per amore di una villa accogliente sotto la sommità dell’Everest, o dominante il panorama attraverso gli spruzzi iridescenti delle Cascate Victoria. Di conseguenza, c’era sempre qualcuno che veniva tratto in salvo da qualcun altro. Era diventato una specie di gioco, quasi uno sport universale.

La gente poteva indulgere in queste manie, perché disponeva di tempo e di denaro. L’abolizione delle forze armate aveva quasi immediatamente raddoppiato le ricchezze, e la produzione accresciuta aveva fatto il resto. Di conseguenza, era difficile paragonare il tenore di vita dell’uomo del ventunesimo secolo con quello di ogni altro secolo precedente. Tutto era così a buon mercato che i generi di prima necessità erano gratuiti, elargiti, come un servizio pubblico, dalla comunità, così come lo erano stati un tempo strade, acqua, illuminazione stradale e fognature. Un individuo poteva viaggiare per le destinazioni più disperate, mangiare qualunque cibo di cui gli saltasse il ticchio, senza mai dover sborsare denaro. Si era guadagnato questo diritto nella sua qualità di membro produttivo della comunità. C’erano, si capisce, dei fannulloni, ma il numero di persone che abbiano sufficiente forza di volontà d’indulgere in una vita di ozio assoluto è assai più piccolo di quanto si crederebbe. Mantenere quei parassiti rappresentava un fardello molto meno grave del raccogliere gli eserciti di esattori, commessi, impiegati di banca, agenti di cambio e così via, tutta gente la cui funzione principale consisteva, considerando la cosa da un punto di vista globale, nel trasportare voci ed elenchi di voci da un registro all’altro. Quasi un quarto della totale attività del genere umano, si calcolava, era assorbito da sport e svaghi di varia natura, che andavano da quelli più sedentari come gli scacchi a occupazioni mortali come il volo-sci per attraversare le valli da un crinale all’altro. Un imprevedibile risultato di tutto ciò fu l’estinzione degli sportivi professionisti. C’erano troppi dilettanti abilissimi, e le mutate condizioni economiche avevano reso antiquato il sistema di un tempo. Subito dopo lo sport, lo svago rappresentava il massimo sforzo di produzione industriale. Per oltre un secolo c’era stata gente che aveva creduto Hollywood il centro del mondo; potevano forse fare la stessa affermazione anche adesso, e a maggior ragione, ma non andava errato chi avesse detto che in massima parte la produzione cinematografica del 2055 sarebbe parsa puro intellettualismo incomprensibile ai pubblici del 1955. indubbiamente, si era raggiunto qualche progresso: il botteghino non era più il signore assoluto. Fra tutte le distrazioni e le deviazioni di un pianeta che ormai aveva tutta l’aria di diventare in breve un immenso giardino di ricreazione, si trovavano persone che avevano ancora il tempo di ripetere l’antichissima domanda, ch’era sempre rimasta senza risposta: «Dove andremo a finire?».

10

Jan si appoggiò all’elefante e posò le mani sull’epidermide del bestione, ruvida come la scorza di un albero. Guardò le zanne enormi e la proboscide ricurva colpito dall’abilità dell’imbalsamatore che aveva saputo cogliere quel momento di sfida, o di saluto. Si chiese quali altre creature avrebbero visto un giorno, su qualche mondo sconosciuto, quell’esemplare terrestre.

«Quanti animali hai mandato ai Superni?» chiese a Rupert.

«Una cinquantina almeno, ma questo è il più grosso. Magnifico, vero?

Gli altri animali erano quasi tutti piccoli: farfalle, serpenti, scimmie, e così via. L’anno scorso però mi sono procurato un ippopotamo.»

Jan increspò le labbra in una smorfia.

«È un pensiero morboso» disse «ma immagino che debbano ormai avere un magnifico esemplare impaglialo dell’Homo Sapiens nella loro raccolta. Chi avrà avuto tanto onore?»

«Deve essere proprio così» rispose Rupert in tono indifferente. «Non credo che sia stato loro difficile mettersi d’accordo con qualche ospedale.»

«Che cosa succederebbe» disse Jan, pensoso «se qualcuno sì offrisse di andare come campione vivo? Purché sia garantito il ritorno, naturalmente.»

Rupert rise, comprensivo.

«È per caso un’offerta da parte tua? Vuoi che ne parli a Rashaverak?»

Per un istante, Jan rifletté sull’idea prendendola sul serio. Infine scosse la testa.

«No… no. Pensavo a voce alta, ecco tutto. Mi respingerebbero senza esitare. A proposito, hai occasione di vedere spesso Rashaverak in questo periodo?»

«Mi ha telefonato cinque o sei settimane fa. Aveva trovato un libro a cui davo disperatamente la caccia da non so quanto tempo. È stato molto gentile.»

Jan fece lentamente il giro del pachiderma imbalsamato, ammirando ancora una volta l’arte che lo aveva immobilizzato per sempre in quell’istante di massimo vigore.

«Hai mai scoperto che cosa cercasse nella tua biblioteca?» domandò.

«Voglio dire che sembra molto difficile conciliare la scienza dei Superni con la passione per l’occultismo.»

Rupert guardò Jan sospettosamente, senza capire se il cognato si prendesse gioco, o no, della sua innocente mania.

«Le sue spiegazioni mi sono sempre parse convincenti. Come antropologo era attratto da ogni aspetto della nostra cultura. Non dimenticare che hanno moltissimo tempo a disposizione. Possono penetrare in ogni particolarità molto più di quanto potrà mai fare uno studioso della nostra specie. Leggersi tutta la mia biblioteca probabilmente non è stato che un lievissimo sforzo da parte di Rashaverak.»

Poteva anche darsi che fosse la risposta giusta, ma Jan non si sentì convinto. C’erano state occasioni in cui aveva pensato di confidare il suo segreto a Rupert, ma la sua naturale prudenza lo aveva sempre trattenuto. Quando avesse rivisto il suo amico Superno, Rupert avrebbe probabilmente rivelato qualche cosa: la tentazione sarebbe stata troppo forte.

«Incidentalmente» disse Rupert, cambiando discorso a un tratto «se credi che il mio sia stato un lavoro di caccia grossa, dovresti vedere l’incarico che ha avuto Sullivan. Si è impegnato a consegnare le due più grosse bestie del pianeta: un capodoglio e una piovra gigante. Appariranno allacciati tra loro in una lotta mortale. Che quadro!»

Per un istante Jan non parlò. L’idea che gli era esplosa nella mente era troppo fantastica per essere presa sul serio. Eppure, proprio per la sua temerarietà poteva avere buon esito…

«Che ti è successo?» domandò Rupert, ansiosamente. «Il caldo comincia forse a darti noia?»

Jan si scosse per ritornare alla realtà.

«No, no, sto benissimo» rispose. «Pensavo soltanto come faranno i Superni a trasportare un pacchetto come questo!»

«Oh» fece Rupert «una di quelle loro astronavi da carico scenderà fin sulla superficie del pianeta, aprirà uno dei portelli a piano inclinato e lo stiverà nel suo ventre in due minuti.»

«Era appunto quello che stavo pensando» osservò Jan.


Sarebbe anche potuta essere la cabina di un’astronave, ma non lo era. Le pareti erano ricoperte di manometri e strumenti vari: non c’erano finestrini o sportelli, ma solo un vasto schermo davanti al pilota. Il batiscafo poteva trasportare sei passeggeri, ma per il momento Jan era il solo. Il pilota stava ora scendendo dalle alte regioni dell’oceano verso l’ancora inesplorata vastità del South Pacific Basin, seguendo, come Jan sapeva, l’invisibile reticolato di onde sonore prodotto da un radiofaro lungo i fondali dell’oceano. Navigavano ancora molto al di sopra del fondo, simile a nuvole sopra la superficie della Terra.

C’era ben poco da vedere: i riflettori del mezzo sottomarino frugavano le acque invano. Lo sconvolgimento creato dai getti di propulsione aveva probabilmente fatto fuggire le creature di minor mole: se qualche creatura fosse andata a vedere la causa di tanta commozione equorea, sarebbe stata di tali dimensioni da non conoscere il significato di paura.

«È tempo di fare il punto» disse il pilota. Girò una serie di manopole, e il batiscafo giunse dolcemente in stato di quiete, rallentando a mano a mano che la forza d’inerzia perdeva potenza. Lo scafo, immobile ora, si librava nell’elemento liquido come un pallone galleggiante nell’atmosfera. Ci volle poco per controllare la loro posizione sul reticolo del sonar. Quand’ebbe finito di esaminare gli strumenti, il pilota disse: «Prima di riaccendere i motori, cerchiamo di sentire qualche cosa.»

L’altoparlante inondò la cabina silenziosa con un lungo mormorio sommesso, continuo; non c’era suono dominante che Jan potesse distinguere dal resto. Era uno sfondo compatto di suoni, nel quale si fondevano tutti i rumori del mondo subacqueo. Jan stava ascoltando le voci di miriadi di creature marine che parlavano tutte insieme. Era come stare al centro di una foresta brulicante di vita, salvo che nella foresta uno avrebbe distinto alcune voci singole, mentre lì non un solo filo della trama sonora poteva essere dipanato e identificato. Ed era un insieme di suoni così nuovo e bizzarro e diverso da tutto quello che aveva sempre udito in vita sua, che Jan si sentì rabbrividire. Eppure anche quelle regioni facevano parte del suo mondo.

L’urlo s’incise sullo sfondo di vibrazioni sonore come un fulmine che fori un ammasso di nubi tempestose. Poi si affievolì rapidamente, scemando in un lamento spettrale, un ululato che alla fine si spense in un sospiro, per essere rilanciato dopo un istante da una fonte più lontana. Poi fu un’esplosione subitanea di urli, un coro di strilli, che raggiunse in breve l’apice tan-to da costringere il pilota ad allungare in fretta la mano verso il comando del volume.

«In nome di Dio, che cosa era quel frastuono?» ansimò Jan.

«Impressionante, non è vero? È un gruppo di balene a dieci chilometri di distanza. Sapevo che si trovavano da queste parti e ho pensato che vi sarebbe piaciuto sentirle.»

«E io ho sempre creduto che il mare fosse silenzioso! Ma perché fanno tanto baccano?»

«Comunicano tra loro, suppongo. Sullivan potrebbe dirvelo. Pare che il professore possa perfino identificare delle balene singole, per quanto io stenti a crederlo. Oh, ecco qua! Abbiamo visite!»

Un pesce dalle fauci spalancate, incredibilmente larghe, era comparso sullo schermo. Sembrava molto grosso, ma poiché Jan non conosceva la scala della ripresa televisiva, era difficile stabilirlo. Da un punto immediatamente sotto le branchie, gli penzolava un lungo tentacolo, che terminava in un organo non identificabile, a forma di campana.

«Lo stiamo vedendo con gli infrarossi» disse il pilota. «Guardiamo ora l’immagine al naturale.»

Il pesce svanì, e rimase solo l’organo pendulo, dal quale emanava una vivida fosforescenza. Poi, appena per un istante, la sagoma della strana creatura tremolò visibile, mentre una linea d’impulsi luminosi saettava lungo il suo corpo.

«È un pesce-rospo, detto anche rana-pescatrice, perché il peduncolo gli serve come esca per attirare le prede. Fantastico, vero? Quello che non riesco a capire è perché la sua esca naturale non attiri pesci abbastanza grossi da divorarlo. Purtroppo non possiamo stare fermi qui tutto il giorno. Guardate come scappa, ora che metto in azione i getti.»

La cabina riprese a vibrare mentre lo scafo si muoveva in avanti. Il grande pesce luminoso a un tratto accese tutte le sue luci, come in un frenetico segnale di allarme, e filò via, meteora lanciata nelle tenebre degli abissi.

Il sottomarino continuò a scivolare dolcemente come su un piano inclinato, scendendo sempre più negli abissi; ora sullo schermo cominciava a delinearsi un quadro completo, ma dato l’angolo d’inclinazione Jan ci mise un po’ di tempo per interpretare quello che vedeva. Infine capì: si stavano avvicinando a una montagna sommersa che emergeva come una escrescenza dalla pianura invisibile.

«Siamo quasi arrivati» disse al pilota. «Fra un minuto potrete vedere il laboratorio.»

Passarono lentamente sopra uno sperone roccioso che sporgeva dalla base della montagna, e la piana sottostante cominciò a delinearsi. Jan immaginò che lo scafo si trovasse ora solo a qualche centinaio di metri al disopra del fondo oceanico. Quindi vide, a un chilometro circa davanti a sé, un ammasso di sfere sorrette da tripodi e collegate tra loro da tubi. L’insieme ricordava in modo straordinario i serbatoi di uno stabilimento chimico, e infatti era stato concepito in base agli stessi principi fondamentali. La sola differenza stava nel fatto che le pressioni a cui bisognava opporre resistenza erano esterne, non si originavano internamente. Il pilota abbassò una piccola leva e si sporse verso il quadro comandi.

«SDue chiama il Laboratorio. Sto per agganciarmi.»

La risposta venne immediatamente:

«Laboratorio a SDue. Sta bene. Procedete pure e prendete contatto.»

Le ricurve pareti metalliche cominciarono a riempire lo schermo. In pochi minuti il batiscafo era premuto fortemente contro la parete della base, le due aperture a tenuta stagna si erano congiunte e si spingevano attraverso lo scafo fino al fondo di una gigantesca spirale. Venne poi il segnale di «equilibrio di pressione» dalla camera di equilibrio, e l’accesso al Laboratorio Abissale Numero Uno fu aperto. Jan trovò il professor Sullivan in una stanzetta non molto linda e ordinata che sembrava combinare in sé le caratteristiche di ufficio, laboratorio scientifico e officina. Il professore stava studiando al microscopio l’interno di quella che sembrava una piccola bomba. Presumibilmente si trattava di una capsula a pressione contenente alcuni campioni di vita abissale che continuavano a nuotare allegramente nelle normali condizioni di varie tonnellate di pressione per centimetro quadrato.

«Ebbene» disse Sullivan, strappandosi a malincuore dall’oculare «come sta il nostro Rupert? E in che posso esservi utile?»

«Rupert sta bene, grazie» rispose Jan. «Vi manda i suoi saluti e dice che gli piacerebbe tanto venirvi a trovare quaggiù, se non fosse per la sua claustrofobia.»

«Certo che si sentirebbe piuttosto a disagio qua sotto, con cinque chilometri d’acqua sopra la testa. A voi non fa effetto questa idea?»

Jan alzò le spalle.

«Non più che se mi trovassi a bordo di uno stratoplano. Se dovesse succedere qualche cosa, il risultato sarebbe lo stesso tanto nell’uno quanto nell’altro caso.»

«E in questo modo infatti che si deve ragionare, ma è sbalorditivo quanto pochi siano quelli che ragionano così.» Gingillandosi con i controlli del suo microscopio, Sullivan lanciò a Jan un’occhiata indagatrice. «Sarà per me un vero piacere farvi visitare l’impianto» riprese «ma devo confessare che sono rimasto alquanto sorpreso, quando Rupert mi ha comunicato la vostra richiesta. Non ho capito perché mai uno di voi astrofili, maniaci del vuoto assoluto degli spazi cosmici, si sentisse attratto dal nostro lavoro, Non avete scelto per caso la direzione opposta?» Sbottò in una risatina divertita. «Personalmente, non ho capito la vostra fretta di venire qui. Passeranno secoli, prima che la totalità delle estensioni subacquee sia stata minutamente riprodotta, registrata, catalogata.»

Jan respirò profondamente. Era contento che fosse stato proprio Sullivan ad affrontare l’argomento, perché ciò gli facilitava il compito. Nonostante il tono ironico dell’ittiologo, i due uomini avevano molte cose in comune. Non doveva essere tanto difficile gettare un ponte fra loro, cattivarsi la comprensione e l’aiuto cordiale di Sullivan.

«Professor Sullivan» cominciò Jan «se, appassionato dell’oceano come siete, vi vedeste negare dai Superni il permesso addirittura di avvicinarlo, come vi comportereste?»

«Proverei un sentimento di profonda contrarietà, non c’è dubbio.»

«Ne sono certo. E supponendo che un giorno vi si offrisse l’occasione di raggiungere il vostro scopo, a loro insaputa, che cosa fareste? Cogliereste quell’occasione?»

«Naturalmente» rispose pronto Sullivan, senza esitare. «Prima si agisce e poi si discute.»

«Ci sei questa volta» pensò Jan. «Non puoi tirarti più indietro ora, a meno che tu abbia paura dei Superni. E non mi sembri il tipo d’aver paura.» Protendendosi verso lo scienziato si dispose a esporre il suo progetto. Il professor Sullivan non era stupito, e prima ancora che Jan cominciasse a parlarne, le sue labbra si atteggiarono in un sorriso ironico.

«Dunque, si tratta di questo, eh?» disse lentamente. «Molto, molto interessante. Ora raccontatemi tutto e ditemi perché dovrei aiutarvi.»

11

In un’epoca precedente, ricorrere al professor Sullivan sarebbe stato un lusso costoso. Le sue operazioni costavano quanto una piccola guerra, e in realtà lui era assai simile a un generale impegnato in una eterna battaglia contro un inesauribile nemico. Il nemico del professor Sullivan era il mare, e il mare combatteva con le sue armi: il freddo, il buio, e soprattutto la pressione. Dal canto suo Sullivan teneva impegnato l’avversario con l’intelligenza e l’abilità tecnica. E aveva vinto molte battaglie. Ma il mare era paziente e non aveva fretta. Un giorno, Sullivan lo sapeva, lui avrebbe fatto un errore. Comunque aveva la consolazione di sapere che non sarebbe mai annegato, perché la fine sarebbe avvenuta in altro modo, e più rapido. Quando Jan gli aveva fatto la sua richiesta, lui non si era impegnato in alcun modo, pur sapendo quale sarebbe stata, alla fine, la sua risposta. Quella era l’occasione per un esperimento tra i più interessanti, ma, come accade spesso nel campo delle ricerche scientifiche, Sullivan aveva in corso altri progetti che richiedevano parecchio tempo per essere portati a termine. Il professor Sullivan era intelligente e capace, ma ripensando alla sua carriera si rendeva conto perfettamente di non avere affatto raggiunto quella fama che rende immortale il nome di uno scienziato. E nella inattesa e allettante richiesta di Jan c’erano realmente tutti gli elementi per passare alla storia. Non avrebbe mai ammesso, però, di nutrire questa ambizione, e per rendergli giustizia bisogna dire che avrebbe aiutato Jan anche se il suo concorso nell’attuazione del progetto fosse dovuto restare segreto. In quanto a Jan, ora stava ripensandoci. Nell’entusiasmo della sua scoperta si era spinto troppo oltre. Aveva fatto le sue indagini, ma non era mai, prima, passato a una vera azione diretta per realizzare il suo sogno. Adesso, però, se il professore Sullivan accettava di aiutarlo, lui non aveva più modo di ritirarsi e doveva affrontare il futuro che lui stesso si era scelto con tutto quello che una simile scelta comportava.

Fu il pensiero che, se avesse rifiutato quella incredibile occasione, non se lo sarebbe mai perdonato, a farlo decidere. Rinunciare avrebbe significato passare il resto della vita a rammaricarsi e rimproverarsi, e questo era inaccettabile.

La risposta di Sullivan gli arrivò qualche ora più tardi. Ormai il dado era tratto. Senza fretta, perché di tempo ne aveva più che a sufficienza, cominciò a sistemare le sue faccende.


«Carissima Maia» (la lettera cominciava così) «senza dubbio questa sarà per te, a dir poco, una sorpresa. Quando riceverai questa lettera io non sarò più sulla Terra. Con ciò non voglio dire di essere partito per la Luna, come già molti altri hanno fatto. No, sarò in viaggio per il mondo dei Superni. Sarò il primo essere umano che abbia lasciato il Sistema Solare.

«Affido questa lettera all’amico che mi aiuta: la conserverà fino a quando non avrà saputo che il mio piano ha avuto buon esito, almeno nella sua prima fase, quando cioè sarà troppo tardi perché i Superni possano intervenire.

«Ma innanzi tutto lascia che ti spieghi come sono arrivato a tanto. Tu sai quanto mi sia sempre appassionato all’astronautica, e quale senso di frustrazione io abbia sempre sofferto per il divieto impostoci di tentare il viaggio per gli altri pianeti o di scoprire quale sia la civiltà dei Superni. Se loro non fossero mai intervenuti, noi saremmo potuti giungere ormai su Marte e su Venere. Ammetto che esistevano identiche probabilità che la razza umana si autodistruggesse con bombe al cobalto e altre armi totali che il ventesimo secolo andava elaborando. Ma talvolta penso che mi sarebbe piaciuto che l’uomo avesse avuto l’opportunità di fare da sé.

«Può darsi che i Superni abbiano le loro buone ragioni di tenerci chiusi nella ‘nursery’, ragioni probabilmente più che buone, più che ottime; ma anche se le conoscessi, non credo che determinerebbero una differenza nel mio modo di sentire… o di agire.

«Tutto cominciò in realtà a quella festa di Rupert. Rammenti quella sciocca seduta che, da lui predisposta, fu troncata dallo svenimento di quella vostra amica (di cui non mi ricordo più il nome)? Io avevo domandato da quale stella provenissero i Superni, e la risposta fu NGS

549672. Quando accertai che quel numero corrispondeva al nome di una stella su di un catalogo stellare, decisi di approfondire la cosa. Scoprii così che la stella si trova nella costellazione della Carena; e uno dei pochissimi fatti che sappiamo dei Superni è che vengono da quella direzione del cielo.

«Sappiamo molte cose, oggi, attraverso le nostre continue osservazioni delle loro partenze, sulla velocità delle astronavi dei Superni. Esse lasciano il Sistema Solare con tale tremenda accelerazione da avvicinarsi alla velocità della luce in meno di un’ora. Ciò significa che i Superni devono possedere un sistema propulsivo tale da agire alla pari su ogni atomo delle loro astronavi, così che nessuna cosa a bordo resta stritolata all’istante. Mi domando perché usino accelerazioni così colossali, quando hanno a loro disposizione tutto lo spazio e tutto il tempo che vogliono per accumulare il massimo di velocità. Secondo me, essi possono in un modo o nell’altro sfruttare i campi di forza che circondano le stelle, per cui devono eseguire manovre di partenza e di arrivo nelle immediate vicinanze di un sole.

«NGS 549672 si trova a una distanza di 40 anni luce dalla Terra. Le a-stronavi dei Superni raggiungono oltre il 99 per cento della velocità della luce, quindi il viaggio deve durare quarant’anni del nostro tempo. Il nostro tempo: questo è il punto cruciale.

«Ora, come può darsi che tu sappia, cose molto strane succedono a chi si approssima alla velocità della luce. Il tempo stesso comincia a fluire secondo un ritmo diverso, a passare cioè più lentamente, tanto che i mesi sulla Terra non sono più che ore sulle astronavi dei Superni. L’effetto è fondamentale: fu scoperto dal grande Einstein più d’un secolo fa.

«Ho fatto alcuni calcoli su quello che noi sappiamo della super-propulsione, usando i risultati fermamente stabiliti dalla Teoria della Relatività. Per i passeggeri d’una delle astronavi Superne il viaggio a NGS 549672 non può durare più di due mesi, anche se in base al computo terrestre passano ben quarant’anni. So che questo sembra un paradosso, e ci sia di consolazione il fatto che ha reso perplesse le più grandi menti del mondo fin dal giorno in cui Einstein espose la sua teoria.

«Forse, questo esempio ti mostrerà meglio il genere di cose che possono accadere e ti darà un quadro più nitido della situazione. Se i Superni mi rimandassero subito sulla Terra, io tornerei a casa invecchiato di soli quattro mesi. Ma sulla Terra in realtà saranno passati ottant’anni. Così che tu comprendi, Maia, che questo è il mio addio…

«Ben pochi vincoli mi legano qui, come sai bene, per cui posso partire con la coscienza tranquilla. Non ho detto niente alla mamma: si lascerebbe andare a qualche crisi di nervi che non potrei sopportare. È meglio così. Tu mi capisci.

«A questo punto, puoi essere colta dal dubbio che io sia impazzito, dato che sembra impossibile per chiunque salire a bordo d’una delle astronavi Superne. Ma ho trovato il modo di farlo. Non è una cosa che si verifichi molto spesso e può anche darsi che dopo questa volta non si verifichi più, perché sono certo che Karellen non ripete due volte lo stesso errore. Conosci la leggenda del Cavallo di Troia? Ma c’è nell’Antico Testamento un esempio più calzante…».


«Indubbiamente starete più comodo di Giona» disse Sullivan. «Non abbiamo la prova che quel profeta avesse comodità di luce elettrica e impianti igienici. Ma vi occorreranno provviste di scorta, e vedo che non trascurate l’ossigeno. Riuscirete a stivare tutto quello che vi occorrerà per un viaggio di due mesi in uno spazio così ristretto?»

Batté il dito sugli appunti e disegni accuratissimi che Jan aveva messo sulla tavola, tra il microscopio e il cranio di una improbabile creatura subacquea.

«Spero che l’ossigeno non sia necessario» rispose Jan. «Sappiamo che i Superni possono respirare la nostra atmosfera ma non sembrano amarla molto e io potrei non essere in grado di adattarmi alla loro. Quanto alle scorte, la narcosamina risolverà brillantemente il problema. È sicurissima. Appena partiti, mi farò un’iniezione che mi metterà fuori combattimento per sei settimane, giorno più giorno meno. Saremo quasi arrivati, per quel momento. In realtà, non era tanto dell’ossigeno o dei viveri che mi preoccupavo, quanto della noia.»

Sullivan annuì con aria saputa.

«Sì, la narcosamina è abbastanza sicura e la si può dosare con un massimo di precisione. Ma badate a munirvi di una discreta quantità di viveri immediatamente disponibili: avrete una fame da lupo quando vi sveglierete, e vi sentirete più debole di un gattino appena nato. Immaginate la prospettiva di morire di fame per il solo fatto di non trovare la forza di usare un apriscatole?»

«Ci avevo pensato, infatti» rispose Jan. «Mi difenderò con lo zucchero e la cioccolata, come al solito.»

«Bene. Mi fa piacere che abbiate previsto anche i minimi particolari, senza sottovalutarli. È con la vostra vita che state giocando, e non mi perdonerei mai di avervi aiutato a commettere un suicidio.»

Prese il cranio non meglio identificato e si pose a guardarlo con l’aria di pensare ad altro. Jan si affrettò a mettere la mano sul foglio dei disegni, per impedirgli di arrotolarsi.

«Per fortuna» riprese Sullivan «il materiale che vi occorre è di tipo corrente, e il nostro laboratorio potrà farvi trovare tutto pronto in un paio di settimane. E nell’ipotesi che cambiaste idea…»

«Non cambierò idea» disse Jan.


«Ho messo in bilancio tutti i rischi che ho deciso di correre, e non sembrano esservi errori nel mio piano. In capo a sei settimane salterò fuori dal mio nascondiglio come qualunque altro clandestino e mi consegnerò ai Superni. Ma in quel momento, il viaggio sarà quasi finito, in base al mio tempo, non dimenticarlo. Staremo per atterrare sul pianeta dei Superni.

«Naturalmente, tutto quello che accadrà da quel momento in poi, saranno loro a deciderlo. Probabilmente, sarò rispedito sulla Terra con la prima astronave, ma almeno ho la speranza di vedere qualcosa. Ho una macchina fotografica da quattro millimetri e una buona scorta di pellicola: non sarà colpa mia se non potrò servirmene. Anche nella peggiore delle ipotesi, avrò dimostrato che gli esseri umani non possono essere tenuti in quarantena per sempre. Avrò stabilito un precedente che costringerà Karellen a fare qualcosa.

«E ora, Maia cara, ti ho detto tutto quello che dovevo dirti. So che non sentirai molto la mia mancanza: ma siamo sinceri, e confessiamo che non siamo mai stati legati da troppi vincoli. Inoltre, ora che sei sposata con Rupert, sarai completamente felice nel tuo universo privato. Almeno lo spero.

«Addio, dunque, e buona fortuna, Maia. Sarà per me una gioia conoscere i tuoi nipoti… Non dimenticherai di informarli della mia esistenza, vero?

«Il tuo affezionatissimo fratello, Jan.»

12

Quando Jan lo vide per la prima volta, trovò difficile convincersi che non assisteva al montaggio della fusoliera di un piccolo aereo. Lo scheletro metallico era lungo venti metri, perfettamente aerodinamico e circondato da un’intelaiatura leggera che degli operai martellavano coi loro strumenti automatici.

«Sì» disse Sullivan in risposta alla domanda di Jan «usiamo la normale tecnica aeronautica, e infatti la maggior parte di questi operai provengono dall’industria aeronautica. Non si crederebbe che una creatura di queste dimensioni potesse essere viva, o gettarsi d’un balzo completamente fuori dell’acqua, come l’ho vista fare.»

Era tutto molto affascinante, ma Jan aveva altre cose in mente. I suoi occhi andavano frugando lo scheletro gigantesco alla ricerca del nascondiglio per la sua celletta, la «bara ad aria condizionata», come Sullivan l’aveva battezzata. D’una cosa almeno fu subito certo: in quanto a spazio c’era posto per una dozzina di clandestini.

«La struttura interna parrebbe quasi completa» disse Jan. «Quando contate di ricoprirlo della sua pelle? Suppongo che abbiate già catturato il vostro capodoglio, diversamente non avreste saputo quali dimensioni dare allo scheletro.»

Sullivan parve immensamente divertito dall’osservazione.

«Ma noi non abbiamo la più lontana intenzione di catturare un capodoglio. E del resto, questi cetacei non hanno una «pelle» nell’accezione normale del termine. Sarebbe la cosa meno pratica del mondo ricoprire questo scheletro con uno strato di grasso spesso venti centimetri. No, l’intera faccenda sarà simulata con un modello di materie plastiche su cui spargeremo con molta cura una mano di tintura. Quando avremo finito, nessuno potrà accorgersi della differenza.»

Nel qual caso, pensò Jan, la sola cosa intelligente che potrebbero fare i Superni sarebbe scattare delle fotografie e poi fare il modello a grandezza naturale una volta tornati sul loro pianeta. Ma forse le astronavi addette ai rifornimenti tornavano vuote, e una bazzecola come un capodoglio lungo venti metri non era un bagaglio di cui potessero accorgersi. Quando si possedevano il loro potere e le loro risorse, a che scopo fare certe trascurabili economie?


Il professor Sullivan stava ritto presso una delle grandi statue che erano sempre state una sfida all’archeologia fin da quando l’isola di Pasqua era stata scoperta. Monarca, dio, o qualunque altra cosa potesse rappresentare, il suo sguardo senz’occhi sembrava seguire quello del professore, intento a osservare la propria opera. Sullivan era fiero di ciò che aveva fatto: gli sembrava un delitto che quel capolavoro tra breve venisse sottratto per sempre dalla vista degli uomini.

Il quadro sarebbe potuto essere l’opera di un artista folle in preda a delirio da stupefacenti. E nello stesso tempo era una scrupolosa imitazione dal vero. La Natura stessa era artista, lì. La scena era di quelle che pochi uomini avevano visto prima che si raggiungesse la perfezione delle riprese televisive subacquee, ma anche con la televisione era una scena che durava solo alcuni secondi, nelle rare occasioni in cui i giganteschi antagonisti salivano scrosciando vorticosi alla superficie. Quelle battaglie si combattevano nell’interminabile notte degli abissi oceanici, là dove i colossali capodogli andavano alla ricerca di cibo. E quel cibo si ribellava con la forza a essere divorato vivo.

La lunga mascella inferiore del cetaceo, dai denti seghettati, sbadigliava mostruosamente, preparandosi ad accogliere la preda. La testa della vittima era quasi nascosta sotto il guizzante intrico dei bianchi tentacoli carnosi, coi quali la piovra gigantesca lottava disperatamente in difesa della vita. I lividi segni lasciati dalle ventose, segni che avevano il diametro d’una ventina di centimetri, variegavano la pelle del capodoglio, là dove i tentacoli si erano avvinghiati. Ma un tentacolo era già stato ridotto a un mozzicone troncato di netto, e non poteva esservi dubbio sull’esito finale della lotta. Quando i due più grandi animali del pianeta si davano battaglia, era sempre il capodoglio a vincere, perché, nonostante tutta l’immensa forza racchiusa nella foresta dei tentacoli, la piovra poteva soltanto sperare di fuggire prima che quelle fauci l’avessero fatta a pezzi. Gli immensi occhi senza espressione (mezzo metro di diametro), fissavano il suo carnefice, anche se, con ogni probabilità, nessuna delle due creature poteva vedere l’altra nelle tenebre dell’abisso.

L’intero gruppo aveva una lunghezza di oltre trenta metri, e ora lo circondava una travatura di alluminio già agganciata al paranco di sollevamento. Tutto era pronto, secondo il piacere dei Superni. Sullivan si augurò che facessero alla svelta: la tensione stava diventando intollerabile. Qualcuno uscì dall’ufficio nella gran luce del sole, palesemente alla ricerca del professore. Sullivan riconobbe il suo assistente e si affrettò ad andargli incontro.

«Salve, Bill… Ci sono novità?»

L’altro gli porse un modulo con espressione soddisfatta.

«Buone notizie, professore. Siamo stati onorati! Il Supercontrollore in persona desidera venire a dare un’occhiata al nostro gruppo, prima che venga caricato. Pensate alla pubblicità che significa per noi un gesto simile! Ci servirà enormemente, quando faremo la richiesta di quella nuova concessione di crediti! Era proprio qualche cosa del genere che speravo da tanto tempo!»

Sullivan inghiottì con uno sforzo. Non aveva niente contro la pubblicità, ma questa volta temeva di averne troppa.


Karellen si fermò presso la testa del capodoglio e guardò da sotto in su il gran muso tozzo e le fauci irte di avorio. Sullivan, con malcelato disagio, si chiese che cosa stesse pensando il Supercontrollore. Il suo atteggiamento fino a quel momento non aveva rilevato il minimo sospetto da parte sua, e la visita poteva anche essere del tutto naturale. Ma Sullivan si sarebbe sentito felice, quando tutto fosse finito.

«Non abbiamo animali così grandi sul nostro pianeta» disse Karellen. «È questo il motivo per cui vi abbiamo pregato di fare questa composizione. I miei… compatrioti la troveranno affascinante.»

«Con la vostra bassa gravità» rispose Sullivan «c’era da credere che si fossero sviluppati animali di grandi dimensioni. Del resto, la vostra corporatura è notevolmente superiore alla nostra.»

«Sì… ma non abbiamo oceani. E per quanto riguarda le dimensioni, la terra non può mai competere col mare.»

Cosa perfettamente vera, pensò Sullivan. E da quel che ne sapeva, quello era un fatto sconosciuto riguardo al mondo dei Superni. Jan avrebbe visto cose molto interessanti.

«Nella vostra Bibbia» riprese Karellen «si legge il racconto molto notevole di un profeta ebreo, un certo Giona, se non erro, che fu inghiottito da una balena e così trasportato a riva sano e salvo, dopo essere stato gettato in mare dalla sua nave. Ritenete che il mito si basi su fatti realmente avvenuti?»

«Io credo» rispose Sullivan cautamente «che ci sia stato qualche pescatore di balene che inghiottito da un cetaceo sia poi stato rigurgitato senza gravi conseguenze. Naturalmente, non può essere stato in gola alla balena più di qualche secondo, diversamente sarebbe morto soffocato. E deve aver avuto molta fortuna a non impigliarsi nei denti! È una storia quasi incredibile, ma non impossibile.»

«Molto interessante» disse Karellen. Rimase là ancora per qualche secondo a fissare le fauci cavernose, quindi si spostò di alcuni passi, per osservare la piovra. Sullivan s’augurò che non avesse sentito il suo sospiro di sollievo.


«Se avessi saputo tutto quello che dovevo passare» disse Sullivan «vi avrei cacciato dal mio ufficio non appena avete tentato di contagiarmi con la vostra follia.»

«Mi dispiace molto» rispose Jan. «Ma in fondo ce la siamo cavata.»

«Speriamo. Buona fortuna, a ogni modo. Se voleste cambiare idea, avete ancora almeno sei ore di tempo.»

«Non mi serviranno. Solo Karellen potrebbe fermarmi, adesso. E grazie per tutto quello che avete fatto per me. Se mai dovessi tornare, in grado di scrivere un libro sui Superni, lo dedicherò a voi.»

«Un gran bene, mi farà, il vostro libro!» rispose bruscamente Sullivan.

«Sarò morto da decenni!» Con sua grande meraviglia, e anche un’ombra di costernazione perché non era certo un sentimentale, si accorse che quegli addii cominciavano a commuoverlo. Si era abituato a Jan in quelle settimane passate insieme a cospirare, e gli si era affezionato. Inoltre, cominciava a temere di diventare correo in una forma alquanto complicata di suicidio.

Tenne ferma la scaletta, mentre Jan saliva entro la gran bocca, facendo bene attenzione a non toccare le file dei denti. Alla luce della torcia elettri-ca, vide Jan voltarsi e fargli un cenno di saluto, poi scomparire nella cavità. S’udì il suono del portello a chiusura stagna che si apriva e richiudeva. Infine, silenzio.

Nel chiaro di luna che aveva trasformato la battaglia pietrificata in una scena d’incubo, il professor Sullivan tornò lentamente verso il suo ufficio. Rifletteva su quello che aveva fatto e sulle conseguenze. Conseguenze che lui avrebbe sempre ignorato, naturalmente. Jan sarebbe forse tornato a camminare in quello stesso punto del mondo avendo speso soltanto qualche mese di vita nel viaggio di andata per il pianeta dei Superni e in quello di ritorno. Ma questo ritorno, se ci fosse stato, sarebbe avvenuto oltre l’invalicabile barriera del Tempo, perché l’evento avrebbe potuto verificarsi solo ottant’anni più tardi.

Le luci si spensero nel minuscolo cilindro metallico appena Jan ebbe serrato il portello a chiusura stagna. Non si abbandonò a riflessioni e pentimenti, ma si mise immediatamente a controllare l’inventario che aveva già preparato. Tutte le scorte e le provviste erano già state stivate da alcuni giorni, ma un’ultima verifica l’avrebbe messo nel giusto stato d’animo che gli occorreva, con la certezza che non era stato trascurato niente. Un’ora più tardi, soddisfatto, si sistemò comodo nella poltroncina di gomma piuma, e ricapitolò il suo piano punto per punto. Lì dentro l’unico rumore era il ronzio dell’orologio-calendario da cui avrebbe saputo quando il viaggio stava per finire.

Per quanto tremenda fosse la forza che faceva volare l’astronave dei Superni, grazie alla perfetta compensazione lì nella sua nicchia lui non avrebbe sentito niente. Sullivan aveva controllato con cura questo particolare, sottolineando che il nascondiglio non avrebbe resistito oltre una certa gravità, e gli aveva assicurato che da quel lato non c’erano pericoli. Naturalmente durante il volo ci sarebbe stato un cambiamento considerevole di pressione, che non avrebbe però portato alcun danno, perché le bestie, cave all’interno, «respiravano» da diversi fori appositi. Prima di uscire dalla sua nicchia, Jan avrebbe dovuto controllare la pressione per compensare un eventuale squilibrio. Per quanto riguardava una probabile irrespirabilità dell’atmosfera, infine, un semplice respiratore composto da una bombola di ossigeno e una maschera sarebbe bastato per ovviare all’inconveniente. Se invece l’aria all’interno dell’astronave era respirabile, tanto meglio. Tutto molto chiaro.

Bene, non c’era scopo ad aspettare ancora. Rimandare avrebbe soltanto acuito la tensione nervosa.

Trasse la piccola siringa, già carica di una soluzione accuratamente preparata. La narcosamina era stata scoperta durante le ricerche nel campo dell’ibernazione animale. Non era esatto dire, come credevano i profani, che la narcosamina producesse una sospensione della vita fisiologica. Tutto quello che faceva era rallentare enormemente i processi vitali, ma il metabolismo continuava, sebbene con un ritmo infinitamente minore. Era come gettare cenere sul fuoco della vita per lasciarlo covare inavvertito. Ma quando, dopo settimane o mesi, gli effetti della droga cominciavano a svanire, il fuoco riprendeva la sua forza, e il dormiente ricominciava a vivere al punto in cui era rimasto. La narcosamina era assolutamente innocua. La Natura se ne serviva da un milione di anni per proteggere molti dei suoi figli dagli inverni senza cibo.

Così Jan dormì. Non sentì la trazione dei cavi che issavano l’enorme gabbia metallica fin entro il ventre dell’astrocargo dei Superni. Non udì i portelli che si chiudevano, per riaprirsi soltanto dopo milioni e milioni di chilometri. Non udì lontanissimo, appena percettibile al di là delle paratie di titanio, l’urlo di protesta dell’atmosfera terrestre lacerata dall’astronave che risaliva rapidissima verso il suo elemento naturale. E non sentì infuriare la superpropulsione.

13

La sala delle riunioni era sempre affollata in occasione di quegli incontri settimanali, ma oggi era così gremita che i cronisti non riuscivano nemmeno a prendere note. Per la centesima volta, brontolavano tra loro contro lo spirito conservatore di Karellen e la sua mancanza di considerazione. In qualunque altra parte del mondo avrebbero potuto portare telecamere, nastri magnetici e tutti gli altri strumenti del loro specializzatissimo lavoro. Ma lì dovevano affidarsi a mezzi arcaici come la carta e la matita, e perfino, incredibile a dirsi, la stenografia. Le prime volte c’erano stati diversi tentativi di registrazione, molto più comodo che non stenografare, ma il fumo che era uscito immediatamente dai registratori aveva convinto tutti dell’inutilità del tentativo, e anche spiegato perché veniva sempre consigliato di lasciare fuori della sala delle conferenze gli orologi e altre eventuali congegni metallici. Per colmo d’ironia Karellen registrava invece tutto ciò che veniva detto. Alcuni giornalisti colpevoli di leggerezza e di imprecisione o di malafede, per quanto questi ultimi casi fossero stati molto scarsi, erano stati in seguito convocati per un breve e spiacevole incontro con degli incaricati di Karellen, che li avevano pregati di ascoltare attentamente la registrazione di quello che il Supercontrollore aveva realmente detto. Dopo quella volta, la lezione non dovette più essere ripetuta.

Strano come circolano certe notizie. Ogni volta che Karellen doveva fare qualche importante dichiarazione, cosa che capitava due o tre volte all’anno, la sala delle conferenze era sempre affollata nonostante che non venisse mai dato nessun preannuncio. Il silenzio discese sulla turba mormorante quando i grandi portali si spalancarono e Karellen avanzò sul palco. La luce qui era fioca — una luce come quella, approssimativamente, che emetteva il lontanissimo sole dei Superni così che il Supercontrollore della Terra aveva fatto a meno degli occhiali neri che di solito portava allo scoperto. Rispose al coro discorde di saluti con un «Buon giorno a tutti» di prammatica, e poi si volse verso un’alta figura di particolare distinzione in prima fila. Il signor Golde, decano dell’Associazione della Stampa, sarebbe potuto essere l’ispiratore ufficiale dell’annuncio, da parte di un maggiordomo: «Tre cronisti, milord, e un signore del ‘Times’». Era vestito come un diplomatico di vecchia scuola e ne aveva i modi: nessuno avrebbe esitato un istante ad aver fiducia in lui e nessuno aveva mai dovuto pentirsi, infatti, di essersi fidato.

«Quanta gente oggi, signor Golde. Deve esserci una grande scarsità di notizie sensazionali.»

L’inviato del «Times» sorrise, e si schiarì la voce.

«Spero che possiate smentire il fatto, signor Supercontrollore.»

Osservò attentamente Karellen che meditava sulla risposta da dare. Sembrava così ingiusto che le facce dei Superni, dure ed ermetiche come maschere, non rivelassero ombra d’emozione! I grandi occhi distanziati, le pupille fortemente contratte anche in quella luce blanda, ricambiavano insondabilmente le occhiate francamente curiose degli umani.

«Sì, ho qualche notizia interessante. Come indubbiamente sapete, una delle mie astronavi addette ai rifornimenti ha lasciato di recente la Terra per tornare alla sua base. Abbiamo appena scoperto che a bordo c’era un clandestino» disse il Supercontrollore.

Cento matite s’impuntarono sulla carta, immobilizzandosi: cento paia d’occhi fissarono Karellen.

«Un clandestino, avete detto, signor Supercontrollore?» chiese Golde.

«Posso domandarvi chi è e come è salito a bordo?»

«Il suo nome è Jan Rodricks: si tratta di uno studente di fisica e astronomia dell’Università di Città del Capo. Potrete senza dubbio scoprire altri particolari grazie ai vostri efficientissimi organismi d’informazione.»

Karellen sorrise. Il sorriso del Supercontrollore era una cosa molto strana. Quasi tutto l’effetto in realtà era dato dagli occhi: la inflessibile bocca senza labbra non si muoveva quasi. Era forse, pensò Golde, un’altra delle molte caratteristiche umane che Karellen aveva imitato con tanta abilità?

Perché l’effetto totale era senza dubbio quello d’un sorriso, e la mente lo accettava all’istante come tale.

«Quanto al modo in cui è potuto partire» continuò Karellen «non ha molta importanza. Posso assicurare i presenti, o qualunque altro potenziale astronauta, che non c’è nessuna possibilità di ripetere l’impresa.»

«Ma che cosa accadrà a questo Rodricks?» insistette Golde. «Sarà rimandato sulla Terra?»

«È una cosa, questa, che esula dalle mie competenze, ma ritengo che tornerà con la prima nave in arrivo. Troverebbe condizioni troppo… diverse… per sentirsi a suo agio, là dove è andato. E ciò mi riconduce allo scopo principale della nostra riunione.» Karellen fece una pausa, e il silenzio divenne ancor più profondo. «Ci sono state lamentele tra i più giovani e romantici elementi della specie umana perché lo spazio cosmico è stato proibito all’uomo. Noi abbiamo uno scopo preciso, signori, non imponiamo divieti per il solo gusto d’imporli. Vi siete mai soffermati a considerare, se mi perdonerete un paragone non molto lusinghiero, che cosa avrebbe sentito un uomo dell’Età della Pietra se si fosse trovato a un tratto in una grande città moderna?»

«Eppure» protestò l’inviato dell’»Herald Tribune» «c’è indubbiamente una differenza fondamentale. Noi abbiamo fatto l’abitudine alla scienza. Sul vostro mondo ci sono moltissime cose che senza dubbio noi non potremmo capire… ma non ci sembrerebbero davvero opera di magia!»

«Ne siete proprio sicuro?» ribatté Karellen così piano che fu appena possibile udirlo. «Non più di cento anni intercorrono fra l’era della elettricità e quella del vapore, ma cosa se ne sarebbe fatto, un ingegnere dell’Ottocento, di un televisore o di una calcolatrice elettronica? E quanto gli sarebbe rimasto da vivere se avesse voluto scoprire il loro funzionamento? Il divario fra due tecnologie può essere così ampio, da rivelarsi… letale.»

(«Siamo fortunati» disse l’inviato della «Reuter» a quello della BBC. «È in vena di dichiarazioni importanti sulla loro politica nei nostri riguardi. Conosco i sintomi.)»

«E ci sono altre ragioni per cui abbiamo costretto il genere umano entro i confini della Terra. Osservate.»

Le luci si affievolirono e infine si spensero. Nell’istante in cui scomparvero, un’opalescenza lattiginosa si formò nel centro della sala, macchia di luce biancastra che si condensò poi in un vortice di stelle… una nebulosa a spirale vista da un punto posto molto al di là del suo sole più esterno.

«Nessun occhio umano ha mai visto questa immagine prima d’ora» disse la voce di Karellen dal buio. «Voi ora state guardando il vostro Universo, l’isola galattica di cui il vostro Sole fa parte, da una distanza di mezzo milione di anni luce.»

Seguì un lungo silenzio. Quando Karellen riprese a parlare, nella sua voce era percettibile un sentimento che non era del tutto pietà e non precisamente sarcasmo.

«Oggi avete un mondo in pace, siete una specie unita. In breve vi sarete abbastanza inciviliti da poter governare il vostro pianeta senza il nostro aiuto. Forse potrete alla fine addossarvi i problemi di un intero Sistema Solare… diciamo di cinquanta mondi fra lune e pianeti. Ma credete davvero di poter mai avere a che fare con questo?»

La nebulosa cominciò a dilatarsi. Ora le singole stelle passavano via velocissime; apparendo, avvicinandosi, scomparendo infine come faville lanciate dall’alito di una immensa fucina. E ognuna di quelle scintille fuggenti era un sole, con chi sa quanti mondi che gli gravitavano intorno…

«In questa sola nostra galassia» mormorò Karellen «ci sono ottantasettemila milioni di soli. Ma anche questa cifra non dà che un’idea molto vaga dell’immensità dello spazio. Sfidandola, sareste come formiche che tentassero di classificare ed etichettare tutti i granelli di sabbia di tutti i deserti del mondo. La vostra razza, allo stato attuale della sua evoluzione, non è in grado di affrontare una sfida così grandiosa. Uno dei miei doveri è stato quello di proteggervi dalle forze che si trovano fra le stelle… forze superiori a qualunque cosa possiate mai immaginare.»

L’immagine dei turbinanti vapori infuocati della galassia cominciò a sbiadire, e la luce tornò nel silenzio attonito della sala. Karellen si mosse: la conferenza era finita. Sulla soglia si fermò, volgendosi a guardare la folla, che tacque all’istante.

«È un pensiero che rattrista, ma dovete rassegnarvi. Può darsi che un giorno possiate conquistare i pianeti. Ma le stelle non sono per l’uomo.»


«Le Stelle non sono per l’Uomo.» Sì, vedersi sbattere sul muso la porta dello spazio li avrebbe addolorati. Ma dovevano imparare a guardare in faccia la verità, o quella parte di verità che sarebbe stata data loro. Dalle solitarie altezze della stratosfera, Karellen abbassò lo sguardo sul mondo e sulle creature che erano state affidate alla sua riluttante tutela. Pensò a tutto quello che doveva ancora succedere e a quello che sarebbe stato quel mondo fra una decina di anni al più tardi. Non avrebbero mai saputo quanto erano stati fortunati. Per la durata di un’intera vita umana, il genere umano aveva raggiunto tanta felicità quanta qualunque specie vivente possa mai conoscere. Era stata l’Età dell’Oro. Ma l’Oro era anche il colore del tramonto, dell’autunno: e soltanto le orecchie di Karellen potevano cogliere i primi gemiti delle bufere invernali. E solo Karellen sapeva con quanta inesorabile rapidità l’Età dell’Oro volgesse alla fine.

Загрузка...