«Una cosetta da niente» disse, spingendola piano.
«Facciamo in fretta» aggiunse Irene. «Lazarus non starà fuori per molto.»
Ismael entrò. Irene inspirò a fondo e lo seguì.
L'interno era inondato da una densa nebbiolina di polvere intrappolata in un fioco chiarore che fluttuava come una nube di vapore. L'odore di diversi prodotti chimici permeava l'ambiente. Ismael si chiuse la porta alle spalle e i due si trovarono di fronte a un mondo di ombre indecifrabili. Quello che restava della fabbrica di giocattoli di Lazarus Jann giaceva nell'oscurità, immerso in un sonno perpetuo.
«Non si vede niente» mormorò Irene, reprimendo la sua ansia di uscire da lì prima possibile.
«Dobbiamo aspettare che i nostri occhi si abituino alla penombra. È questione di secondi» suggerì Ismael senza troppa convinzione.
I secondi passarono invano. Il manto di oscurità che velava la stanza della fabbrica di Lazarus non svanì. Irene cercava di intravedere un cammino lungo il quale procedere quando i suoi occhi s'imbatterono in una sagoma eretta e immobile che si trovava pochi metri più in là.
Uno spasmo di terrore le martellò lo stomaco.
«Ismael, qui c'è qualcun altro» disse afferrandosi con forza al braccio del ragazzo.
Lui scrutò nella penombra e deglutì. Una figura con le braccia tese fluttuava, sospesa. La sagoma oscillava lentamente, come un pendolo, e una lunga capigliatura le ricadeva sulle spalle. Con mani tremanti, il ragazzo si tastò nella tasca del giubbotto ed estrasse una scatola di fiammiferi. La figura restava immobile, come una statua vivente pronta a balzare su di loro non appena si fosse accesa una luce.
Ismael sfregò un fiammifero e il luccichio della fiamma li accecò per un attimo. Irene si strinse forte a lui.
Qualche secondo dopo, la visione che apparve dinanzi ai suoi occhi la lasciò senza forze. Un'intensa ondata di freddo le percorse il corpo. Davanti a lei, appeso al soffitto con le braccia tese, c'era il corpo di sua madre, Simone, che oscillava alla luce sfarfalleggiante della fiamma.
«Dio mio. .»
La figura girò lentamente su se stessa e rivelò l'altro lato delle sue fattezze. Cavi e ingranaggi brillarono nel tenue chiarore. Il volto era diviso in due e soltanto una metà era finita.
«È una macchina, semplicemente una macchina» disse Ismael, cercando di tranquillizzarla.
Irene osservò la macabra imitazione di Simone. I suoi lineamenti. Il colore dei suoi occhi, i capelli.
Ogni ruga sulla pelle, ogni tratto del volto erano riprodotti in una maschera inespressiva e raggelante.
«Cosa sta succedendo qui?» domandò.
Ismael le indicò quella che sembrava una porta d'ingresso della casa all'altra estremità del laboratorio.
«Da questa parte» suggerì, allontanando Irene dalla sinistra figura sospesa in aria.
La ragazza, ancora sotto l'effetto di quell'apparizione, lo seguì, confusa e terrorizzata.
Un attimo dopo il fiammifero di Ismael si spense e l'oscurità li avvolse di nuovo.
Appena raggiunsero la porta che conduceva all'interno di Cravenmoore, il manto d'ombra che si era steso ai loro piedi si dispiegò alle loro spalle come un fiore nero, acquistando volume e guizzando sui muri. L'ombra si diresse verso il tavolo da lavoro del laboratorio e la sua scia tenebrosa percorse il manto bianco che copriva la figura dell'angelo meccanico mostrata da Lazarus a Dorian la notte prima.
Lentamente, l'ombra s'infilò sotto il lenzuolo e la sua massa vaporosa penetrò attraverso le giunture della struttura meccanica.
La sagoma dell'ombra sparì completamente all'interno di quel corpo di metallo. Un vapore gelido si sparse sulla creatura meccanica formando una ragnatela di ghiaccio. Poi, gli occhi dell'angelo si aprirono a poco a poco nell'oscurità, due rubini fiammeggianti sotto il lenzuolo.
La figura titanica si alzò lentamente e dispiegò le ali. Pian piano appoggiò i piedi a terra. Gli artigli graffiarono la superficie del legno, lasciandovi il proprio segno. Il manto di luce azzurrata che fluttuava nell'aria catturò la spirale di fumo che saliva dal fiammifero spento lasciato cadere da Ismael.
L'angelo l'attraversò e si perse nelle tenebre, seguendo i passi dei due ragazzi.
9. La notte trasfigurata
L'eco lontana di un picchiettio insistente strappò Simone da un mondo di acquerelli danzanti e di lune che si fondevano in monete d'argento incandescente. Sentì di nuovo il rumore, ma stavolta si svegliò del tutto e capì che il sonno aveva avuto ancora la meglio sulla sua intenzione di leggere qualche capitolo prima di mezzanotte. Mentre prendeva gli occhiali, sentì ancora quel rumore e per la prima volta lo identificò. Qualcuno stava bussando leggermente con le nocche alla finestra che dava sulla veranda.
Simone si alzò e riconobbe il volto sorridente di Lazarus dall'altra parte del vetro. Sentì subito le guance arrossire. Mentre apriva la porta, vide la propria immagine nello specchio dell'ingresso. Un disastro.
«Buona sera, madame Sauvelle. Forse non è un buon momento. .» disse Lazarus.
«Assolutamente. Mi. . La verità è che stavo leggendo e mi sono addormentata.»
«Questo significa che deve cambiare libro» commentò Lazarus.
«Immagino di sì. Ma entri, prego.»
«Non vorrei disturbarla.»
«Non dica sciocchezze. Avanti, per favore.»
Lazarus fece un amabile cenno di assenso ed entrò in casa. I suoi occhi perlustrarono rapidamente la stanza.
«La Casa del Capo non è mai stata meglio» osservò. «Complimenti.»
«Il merito è tutto di Irene. È lei l'arredatrice della famiglia. Una tazza di tè? Caffè?»
«Un tè sarebbe perfetto, però. .»
«Non voglio sentire nemmeno un'altra parola. Farà bene anche a me.»
I loro sguardi s'incrociarono per un istante. Lazarus sorrise con calore. Simone, improvvisamente imbarazzata, abbassò gli occhi e si concentrò nella preparazione del tè.
«Si domanderà il perché della mia visita» iniziò l'inventore di giocattoli.
In effetti, pensò tra sé Simone, poco prima che le giungesse la voce di Lazarus.
«Tutte le notti faccio una breve passeggiata per il bosco, fino agli scogli. Mi aiuta a rilassarmi.»
Ci fu una pausa appena sottolineata dal rumore dell'acqua nella teiera.
«Ha mai sentito parlare del ballo in maschera annuale a Baia Azzurra, madame Sauvelle?»
«L'ultima luna piena di agosto. .» ricordò Simone.
«Già. Mi chiedevo. . Be', voglio che sappia che non deve sentirsi obbligata dalla mia richiesta, altrimenti non mi permetterei di rivolgergliela, cioè, non so se mi spiego. .»
Lazarus sembrava agitato come un liceale. Lei gli sorrise serena.
«Mi chiedevo se le farebbe piacere accompagnarmi quest'anno» concluse alla fine l'uomo.
Simone deglutì. Il sorriso di Lazarus si spense a poco a poco.
«Mi dispiace. Non avrei dovuto chiederglielo. Accetti le mie scuse. .»
«Con o senza zucchero?» lo interruppe amabilmente Simone.
«Prego?»
«Il tè. Con o senza zucchero?»
«Due cucchiaini.»
Simone annuì e versò lentamente i due cucchiaini di zucchero, poi porse la tazza a Lazarus e gli sorrise.
«Forse l'ho offesa. .»
«Non lo ha fatto. È che non sono abituata a ricevere inviti per uscire. Però mi piacerebbe venire con lei a quel ballo» rispose la donna, sorpresa della sua stessa decisione.
Il volto di Lazarus si illuminò in un ampio sorriso.
Per un istante Simone si sentì più giovane di Cent'anni. Era una sensazione ambigua, a metà tra il sublime e il ridicolo. Una sensazione pericolosamente inebriante. Una sensazione più forte del pudore, del riserbo o del rimorso. Aveva dimenticato quanto fosse confortante sentire che qualcuno s'interessava a lei.
Dieci minuti più tardi la conversazione continuava nella veranda della Casa del Capo. La brezza marina faceva oscillare le lampade a olio appese alle pareti.
Lazarus, seduto sulla ringhiera di legno, guardava le chiome degli alberi che si agitavano nel bosco, un mare nero e sussurrante.
Simone osservò il volto dell'inventore di giocattoli.
«Mi fa piacere sapere che vi trovate bene nella casa» disse Lazarus. «Come si stanno adattando i suoi figli alla vita a Baia Azzurra?»
«Non posso lamentarmi. Al contrario. In realtà, pare che Irene si sia incapricciata di un ragazzo del paese. Un certo Ismael. Lo conosce?»
«Ismael. . Sì, naturalmente. Un bravo ragazzo, a quanto ne so» disse Lazarus, distante.
«Lo spero. Comunque, sto ancora aspettando che me lo presenti.»
«I ragazzi sono così. Bisogna mettersi nei loro panni. .» suggerì Lazarus.
«Immagino di fare come tutte le madri: mi rendo ridicola proteggendo troppo mia figlia di quasi quindici anni.»
«È più che naturale.»
«Non so se lo pensa anche lei.»
Lazarus sorrise, ma non disse niente.
«Cosa sa di lui?» chiese Simone.
«Di Ismael? Be', poca roba. .» iniziò lui. «So che è un buon marinaio. Si dice che sia un giovane introverso e poco incline alle amicizie. Ma, a dire il vero, non sono molto informato sulle questioni locali. . Però non credo che debba preoccuparsi.»
Il suono delle voci si arrampicava fino alla sua finestra come la spirale di fumo di una sigaretta mal spenta, in maniera incostante e sinuosa; ignorarlo era impossibile. Il mormorio del mare copriva appena le parole di Lazarus e di sua madre giù in veranda, anche se, per un attimo, Dorian aveva desiderato che lo facesse, e che quella conversazione non fosse mai arrivata alle sue orecchie. C'era qualcosa che lo inquietava in ogni inflessione, in ogni frase. Qualcosa di indefinibile che sembrava impregnare ogni argomento della conversazione.
Forse era l'idea di sentir parlare tranquillamente sua madre con un uomo che non era suo padre, nonostante quest'uomo fosse Lazarus, che Dorian considerava un amico. Magari era quel colore di intimità che sembrava tingere le parole tra i due. Forse, si disse alla fine Dorian, era solo gelosia, e una stupida ostinazione nel pretendere che sua madre non potesse tornare a godere di una conversazione a tu per tu con un altro uomo adulto. E questo era egoista.
Egoista e ingiusto. Dopotutto Simone, oltre che sua madre, era una donna in carne e ossa, che aveva bisogno dell'amicizia e della compagnia di qualcun altro che non fossero i figli. Qualunque libro decente lo metteva bene in chiaro. Dorian riesaminò l'aspetto teorico del ragionamento. Su quel piano, tutto gli pareva perfetto. La pratica, però, era un altro paio di maniche.
Timidamente, senza accendere la luce della stanza, Dorian si avvicinò alla finestra e lanciò un'occhiata furtiva verso la veranda. "Egoista e, per di più, spia" sembrò sussurrargli una voce interiore. Dal comodo anonimato dell'oscurità, Dorian osservò l'ombra della madre proiettata sul pavimento della veranda.
Lazarus, in piedi, guardava il mare, nero e impenetrabile. Dorian deglutì. La brezza agitò le tende che lo nascondevano e fece istintivamente un passo indietro. La voce della madre pronunciò alcune parole incomprensibili. Non erano fatti suoi, concluse, vergognandosi di aver spiato in segreto.
Era sul punto di allontanarsi lentamente dalla finestra quando, con la coda dell'occhio, avvertì un movimento nella penombra. Dorian si voltò di scatto, sentendo i capelli drizzarglisi in testa. La stanza era immersa nell'oscurità, appena lacerata da scampoli di chiarore azzurrato che filtravano fra le tende ondeggianti. Con cautela, la mano tastò il comodino in cerca dell'interruttore della lampada. Il legno era freddo. Le dita tardarono un paio di secondi a trovarlo. Dorian premette l'interruttore. La spirale metallica della lampadina si illuminò di una luce fugace e si spense in un sospiro. Il luccichio vaporoso lo accecò per un istante, poi l'oscurità si fece più densa, come un pozzo profondo di acqua scura.
"La lampadina si è fusa" si disse. "Una cosa normale. Il metallo di cui è fatta la spirale della resistenza, il wolframio, ha una vita limitata." Glielo avevano spiegato a scuola.
Tutti questi pensieri tranquillizzanti svanirono quando Dorian avvertì di nuovo quel movimento nell'ombra. Più concretamente, dell'ombra.
Sentì un'ondata di freddo quando si accorse che una forma sembrava muoversi nel buio, davanti a lui.
La sagoma, nera e opaca, si fermò al centro della stanza. "Mi sta osservando" mormorò la voce nella sua mente. L'ombra parve avanzare nell'oscurità e Dorian si rese conto che non era il pavimento a muoversi, bensì le sue ginocchia, che tremavano di puro terrore dinanzi a quell'oscura forma spettrale che si avvicinava passo dopo passo.
Dorian retrocesse di qualche metro finché lo scarso chiarore che penetrava dalla finestra non lo avvolse in un alone di luce. L'ombra indugiò sulla soglia delle tenebre. Il ragazzo avvertì che i suoi denti erano sul punto di mettersi a battere, ma serrò la mascella con forza e represse la voglia di chiudere gli occhi. Di colpo, qualcuno sembrò pronunciare delle parole. Ci mise qualche secondo ad accorgersi che era lui stesso a parlare. In tono fermo e senza traccia di paura.
«Fuori di qui» mormorò Dorian rivolto alle ombre. «Ho detto fuori.»
Allora sentì un rumore spaventoso, un rumore che pareva l'eco di una risata lontana, crudele e malefica. In quell'istante le fattezze dell'ombra spuntarono dalla penombra come un miraggio di acque di ossidiana. Nere. Demoniache.
«Fuori di qui» si sentì dire Dorian.
La forma di vapore nero gli svanì sotto gli occhi e l'ombra attraversò la stanza a tutta velocità, come una nuvola di gas incandescente, fino alla porta. Una volta lì, la sagoma formò una spirale fantasmagorica che s'infilò nel buco della serratura, un tornado di tenebre risucchiato da una forza invisibile.
Soltanto allora la resistenza della lampadina si accese di nuovo, e una calda luminosità invase la stanza.
L'impatto improvviso della luce elettrica gli strappò un urlo di panico che gli si strozzò in gola. Gli occhi percorsero ogni angolo della camera, ma non c'era più traccia dell'apparizione che aveva creduto di vedere pochi attimi prima.
Dorian respirò a fondo e si diresse verso la porta.
Mise la mano sulla maniglia. Il metallo era freddo come ghiaccio. Armandosi di determinazione, la aprì e scrutò le ombre del corridoio. Niente.
Dolcemente, richiuse la porta della stanza e tornò alla finestra. Giù, in veranda, Lazarus si stava accomiatando da sua madre. Appena prima di andare via, l'inventore di giocattoli si chinò e la baciò sulla guancia. Un bacio breve, quasi a sfiorarla. Dorian sentì lo stomaco rattrappirsi fino alle dimensioni di un pisello. Un istante dopo, dall'ombra, l'uomo alzò lo sguardo e gli sorrise. Il sangue gli si gelò nelle vene.
L'inventore di giocattoli si allontanò lentamente verso il bosco, sotto la luce della luna. Per quanto ci provasse, Dorian non fu in grado di vedere dove si rifletteva l'ombra di Lazarus. Poco dopo l'oscurità lo inghiottì.
Dopo aver percorso un lungo corridoio che metteva in comunicazione la fabbrica di giocattoli con la casa, Ismael e Irene si addentrarono nelle viscere di Cravenmoore. Sotto il manto della notte, la dimora di Lazarus sembrava un palazzo di tenebra, i cui corridoi, popolati da decine di creature meccaniche, si estendevano verso l'oscurità in tutte le direzioni. La luce che sovrastava la scalinata a spirale al centro della villa spargeva una pioggia di riflessi purpurei, dorati e azzurri che si riverberavano all'interno di Cravenmoore, come bolle fuggite da un caleidoscopio.
Agli occhi di Irene, le sagome addormentate degli automi e i volti inanimati sui muri suggerivano uno strano sortilegio che aveva catturato le anime di decine di precedenti abitanti della casa. Ismael, più prosaico, in loro non vedeva altro che il riflesso della mente labirintica e insondabile che li aveva creati.
E questo non lo tranquillizzava affatto; al contrario, via via che si addentrava nei domini privati di Lazarus Jann, la presenza invisibile dell'inventore di giocattoli gli sembrava più intensa che mai. La sua personalità era in ogni recondito dettaglio di quella costruzione barocca: dal soffitto, una volta affrescata con scene di favole celebri, al pavimento che calpestavano, un'interminabile scacchiera che formava una rete ipnotica e ingannava la vista con uno strano effetto ottico di profondità infinita.
Camminare per Cravenmoore era come addentrarsi in un sogno inebriante e insieme spaventoso.
Ismael si fermò ai piedi di una delle scale e ispezionò attentamente il percorso a spirale che si perdeva verso l'alto. Mentre lo faceva, Irene notò che il volto di uno degli orologi meccanici di Lazarus, a forma di sole, apriva gli occhi e sorrideva. Nel momento in cui la lancetta delle ore raggiungeva la verticale della mezzanotte, il quadrante girò su se stesso e il sole cedette il posto a una luna che irradiava una luce spettrale. Gli occhi cupi e brillanti della luna giravano da un lato all'altro, lentamente.
«Andiamo su» mormorò Ismael. «La stanza di Hannah era al secondo piano.»
«Qui ci sono decine di stanze, Ismael. Come facciamo a sapere qual era la sua?»
«Hannah mi ha detto che la sua stanza era in fondo a un corridoio, di fronte alla baia.»
Irene annuì, anche se quello non le sembrava un chiarimento. Il ragazzo sembrava sopraffatto quanto lei dall'atmosfera del luogo, ma non lo avrebbe ammesso neppure fra cento anni. Entrambi diedero un ultimo sguardo all'orologio.
«È già mezzanotte. Lazarus tornerà presto» disse Irene.
«Muoviamoci.»
La scala saliva in una spirale bizantina che pareva sfidare la legge di gravità, arcuandosi progressivamente come i condotti di accesso alla cupola di una grande cattedrale. Dopo una vertiginosa ascesa, oltrepassarono l'ingresso del primo piano. Ismael afferrò la mano di Irene e continuò a salire.
Ora la curvatura dei muri diventava più pronunciata, e il tragitto si trasformava a poco a poco in un esofago claustrofobico scavato nella pietra.
«Ancora un po'» disse il ragazzo leggendo nell'angosciato silenzio di Irene.
Un'eternità più tardi - in realtà, una trentina di secondi - poterono uscire da quell'asfissiante condotto e raggiungere la porta di accesso al secondo piano di Cravenmoore. Di fronte a loro si apriva il corridoio principale dell'ala est. Un branco di figure pietrificate era in agguato nell'ombra.
«Sarebbe bene che ci separassimo» consigliò Ismael.
«Sapevo che lo avresti detto.»
«In cambio, decidi tu quale lato vuoi esplorare» propose Ismael, cercando di scherzare.
Irene guardò in entrambe le direzioni. A est si distinguevano i corpi di tre figure incappucciate intorno a un enorme pentolone: streghe. La ragazza indicò la direzione opposta.
«Di là.»
«Sono soltanto macchine, Irene» disse Ismael. «Non hanno vita. Semplici giocattoli.»
«Dimmelo di mattina.»
«Va bene, io esplorerò questa parte. Ci rivediamo qui tra quindici minuti. Se non abbiamo trovato niente, sfortuna. Ce la svigniamo» concesse. «Lo prometto.»
Lei annuì. Ismael le allungò la scatola di fiammiferi.
«Caso mai.»
Irene la mise nella tasca della giacca e rivolse un ultimo sguardo a Ismael. Il ragazzo si chinò e la baciò leggermente sulle labbra.
«Buona fortuna» mormorò.
E prima che potesse rispondergli, si allontanò verso l'estremità del corridoio seppellito dal buio.
"Buona fortuna" pensò Irene.
L'eco dei passi di Ismael si perse alle sue spalle.
La ragazza respirò a fondo e si incamminò verso l'altra estremità del corridoio che attraversava l'asse centrale della casa, per poi biforcarsi all'altezza della scalinata centrale. Irene si affacciò appena sull'abisso che scendeva fino al pianoterra. Un fascio di luce cadeva in verticale da una specie di lucernario in cima alla cupola, tracciando un arcobaleno che solcava le tenebre.
Da quel punto, il corridoio si spingeva in due direzioni: verso sud e verso ovest. L'ala ovest era l'unica con vista sulla baia. Senza esitare un istante, Irene si inoltrò nel lungo corridoio, lasciandosi alle spalle il confortante chiarore emanato dal lucernario.
D'improvviso, si accorse che un velo semitrasparente attraversava il passaggio: solo una tendina di garza, oltre la quale il corridoio assumeva una fisionomia palesemente diversa. Non si vedeva più alcuna figura appostata nell'ombra. Sulla ghirlanda che sosteneva la tenda divisoria c'era una lettera ricamata.
Un'iniziale: A.
Irene scostò con le dita il velo della tenda e attraversò quella strana frontiera che sembrava dividere in due l'ala ovest. Un freddo refolo invisibile le accarezzò il volto e per la prima volta la ragazza si accorse che i muri erano ricoperti di un complicato groviglio di rilievi intagliati nel legno. Da lì si potevano vedere solo tre porte. Due sui lati del corridoio e una terza, la più grande, alla sua estremità, contrassegnata con l'iniziale che aveva visto sulla tenda alle sue spalle.
Irene s'incamminò piano verso quella porta. Le incisioni che la circondavano mostravano scene incomprensibili che raffiguravano strane creature.
Ognuna di esse, a sua volta, si giustapponeva ad altre, creando un oceano di geroglifici il cui significato le sfuggiva completamente. Quando arrivò alla porta in fondo, l'idea che fosse improbabile che Hannah avesse occupato una stanza proprio lì aveva già preso forma nella sua mente. Tuttavia, il sortilegio di quel luogo era più potente della sinistra atmosfera da santuario proibito che vi si respirava.
Un'intensa presenza sembrava fluttuare nell'aria. Una presenza quasi palpabile.
Irene sentì il polso che accelerava e posò la mano tremante sulla maniglia della porta. Qualcosa la fermò. Un presentimento. Era ancora in tempo per tornare indietro, raggiungere Ismael e scappare da quella casa prima che Lazarus si accorgesse dell'intrusione. La maniglia girò dolcemente sotto le sue dita, scivolando sulla pelle. Irene chiuse gli occhi.
Non c'era motivo di entrare. Le bastava tornare sui suoi passi. Non c'era motivo di cedere a quell'atmosfera irreale, da sogno, che le sussurrava di aprire la porta e oltrepassare quella soglia senza ritorno. La ragazza aprì gli occhi.
Il corridoio offriva una via di fuga tra le tenebre.
Irene sospirò; per un istante, i suoi occhi si persero tra i riflessi che tingevano la garza. Fu allora che quella sagoma scura si stagliò dietro la tenda e indugiò dall'altro lato.
«Ismael?» mormorò Irene.
La sagoma restò lì per pochi istanti, poi, senza produrre alcun rumore, scomparve di nuovo tra le ombre.
«Ismael, sei tu?» chiese ancora la ragazza.
Il lento veleno del panico aveva iniziato a infiltrarsi nelle sue vene. Senza distogliere lo sguardo da quel punto, Irene aprì la porta della stanza ed entrò, chiudendosela alle spalle. Per un secondo, la luce di zaffiro che penetrava dalle grandi finestre, alte e strette, l'accecò. Poi, mentre le sue pupille si abituavano alla luminosità evanescente della stanza, la ragazza riuscì ad accendere, con mani tremanti, uno dei fiammiferi che le aveva dato Ismael. La luce ramata della fiamma l'aiutò a svelare una sala sontuosa, il cui lusso e splendore sembravano usciti dalle pagine di una fiaba.
Il labirintico soffitto a cassettoni disegnava un mulinello barocco intorno al centro della stanza. A un'estremità, un magnifico baldacchino, dal quale pendevano lunghi veli dorati, ospitava un letto. Al centro della camera, su un tavolo di marmo era posata una grande scacchiera con i pezzi di cristallo cesellato. All'estremità opposta, Irene scoprì un'altra fonte di luce che contribuiva a creare quell'atmosfera iridescente: le fauci cavernose di un camino nel quale bruciavano grossi ceppi ridotti in braci. Sopra il camino era appeso un grande ritratto. Un volto bianco, dai lineamenti più delicati che si possano immaginare in un essere umano, racchiudeva gli occhi profondi e tristi di una donna di commovente bellezza. La dama del ritratto appariva vestita con un lungo abito bianco, e dietro di lei si poteva distinguere l'isolotto del faro della baia.
Irene si avvicinò lentamente al ritratto, sostenendo in alto il fiammifero fino a quando la fiamma non le bruciò le dita. Leccandosi la scottatura, la ragazza notò un candelabro su una scrivania. Non ne aveva davvero bisogno, ma accese la candela con un altro fiammifero. La fiamma irradiò di nuovo un alone di chiarore intorno a lei. Sullo scrittoio c'era un volume rilegato in pelle aperto a metà.
Gli occhi di Irene riconobbero la calligrafia che tanto le era familiare sul foglio incartapecorito e ricoperto da uno strato di polvere che a stento le permetteva di leggere le parole scritte sulla pagina. La ragazza soffiò leggermente e una nuvola di migliaia di particelle brillanti si sparse sul tavolo. Prese il libro tra le mani e sfogliò le pagine a ritroso, fino ad arrivare alla prima. Avvicinò il volume alla luce e lasciò che i suoi occhi percorressero le parole impresse in lettere d'argento. Lentamente, via via che comprendeva ciò che tutto quello significava, un brivido intenso le si conficcò come un ago gelato alla base della nuca.
Alexandra Alma Maltisse,
Lazarus Joseph Jann.
1915.
Un pezzo di legno crepitò nel fuoco, sputando piccole faville che svanirono al contatto con il pavimento. Irene chiuse il libro e lo posò sulla scrivania. In quel momento si accorse che, all'altra estremità della stanza, dietro il velo del baldacchino che ondeggiava, qualcuno l'osservava. Una snella silhouette era stesa sul letto. Una donna. Irene avanzò di qualche passo verso di lei. La donna alzò una mano.
«Alma?» sussurrò Irene, terrorizzata dal suono della propria voce.
La ragazza percorse i metri che la separavano dal letto e si fermò. Il cuore le batteva forte e respirava con affanno. Adagio, cominciò a scostare le tende.
In quell'istante una folata d'aria fredda attraversò la stanza e agitò i veli. Irene si voltò a guardare verso la porta. C'era un'ombra sul pavimento, come una grande pozzanghera d'inchiostro, e si stava espandendo sotto la porta. Un suono spettrale, una voce lontana e piena d'odio sembrò sussurrare qualcosa nell'oscurità.
Un attimo dopo la porta si aprì con una forza incontenibile e sbatté all'interno della stanza, strappando via i cardini che la sostenevano. Quando l'artiglio dalle unghie affilate come lunghi coltelli di acciaio emerse dalle ombre, Irene urlò con tutta la voce che aveva.
Ismael iniziava a pensare di aver commesso un errore nel tentativo di ubicare mentalmente la camera di Hannah. Quando lei gli aveva descritto la casa, il ragazzo aveva tracciato la sua personale piantina di Cravenmoore. Una volta all'interno, però, la struttura labirintica della dimora gli era risultata indecifrabile. Tutte le stanze dell'ala che aveva deciso di esplorare erano ermeticamente chiuse. Neppure una delle serrature aveva ceduto alla sua perizia e l'orologio non pareva mostrare alcuna compassione per il suo completo fallimento.
I quindici minuti concordati erano svaporati invano, e l'idea di abbandonare per quella notte la ricerca cominciava a tentarlo. Una semplice occhiata al lugubre arredamento di quel posto gli suggeriva mille e una scusa per svignarsela. Aveva ormai preso la decisione di abbandonare la casa quando sentì l'urlo di Irene, appena un filo di voce che attraversava le tenebre di Cravenmoore da qualche luogo recondito.
L'eco si sparse in varie direzioni. Ismael sentì la scarica di adrenalina bruciargli le vene e si slanciò con tutta la velocità che gli permettevano le gambe verso l'altra estremità di quel monumentale corridoio.
Si soffermò appena a guardare il sinistro tunnel di forme tenebrose che gli scivolava accanto. Passò sotto l'alone spettrale del lucernario in cima alla cupola e oltrepassò l'incrocio di corridoi intorno alla scalinata centrale. La trama delle piastrelle del pavimento sembrava allargarsi sotto i suoi piedi, e la vertiginosa fuga del corridoio si allungava davanti ai suoi occhi come se cavalcasse verso l'infinito.
Sentì di nuovo le urla di Irene, stavolta più vicine.
Ismael superò la tenda trasparente e finalmente individuò l'entrata della stanza all'estremità dell'ala ovest. Senza pensarci un attimo, si lanciò all'interno, ignaro di ciò che l'aspettava.
La fisionomia misteriosa di una stanza monumentale si spalancò davanti ai suoi occhi, alla luce delle braci che sfavillavano nel camino. La sagoma di Irene, che si stagliava davanti a un ampio finestrone tinto di luce azzurrina, lo tranquillizzò per un istante, ma ben presto vide il terrore cieco negli occhi della ragazza. Ismael si voltò d'istinto e la visione che si trovò davanti gli annebbiò la mente, paralizzandolo come la danza ipnotica di un serpente.
Ergendosi dalle ombre, una figura titanica dispiegò due grandi ali nere, le ali di un pipistrello. O di un demonio. L'angelo allungò due lunghe braccia che terminavano in artigli, a loro volta costituiti da dita lunghe e scure, e la lama d'acciaio delle unghie scintillò davanti al suo volto, coperto da un cappuccio.
Ismael fece un passo indietro in direzione del fuoco e l'angelo sollevò il viso, rivelando i suoi lineamenti al chiarore della fiamma. Era qualcosa di più di una semplice macchina, quella sinistra figura.
Qualcosa si era rifugiato al suo interno, trasformandola in una marionetta infernale, una presenza palpabile e malefica. Il ragazzo si sforzò di non chiudere gli occhi e afferrò l'estremità intatta di un ceppo per metà ridotto in brace. Brandendolo di fronte all'angelo, indicò la porta della stanza.
«Vai lentamente verso la porta» mormorò a Irene.
La ragazza, paralizzata dalla paura, ignorò le sue parole.
«Fa' quello che ti ho detto» ordinò energicamente Ismael.
Il tono della sua voce risvegliò Irene, che annuì tremando e iniziò a camminare verso la porta. Aveva percorso appena un paio di metri quando il volto dell'angelo si girò verso di lei come un predatore attento e paziente. Irene sentì i piedi fondersi con il pavimento.
«Non guardarlo e continua a camminare» ordinò Ismael, senza smettere di brandire il ceppo di fronte all'angelo.
Irene fece un altro passo. La creatura voltò la testa verso di lei e la ragazza si lasciò sfuggire un gemito.
Ismael, approfittando della distrazione, colpì l'angelo alla testa. L'impatto provocò una pioggia di faville. Prima che potesse ritrarre il ceppo, uno degli artigli afferrò il pezzo di legno e unghie di cinque centimetri, taglienti come coltelli da caccia, lo ridussero in frantumi sotto i suoi occhi. L'angelo fece un passo verso Ismael, che poté sentire il pavimento vibrare sotto il peso del suo antagonista.
«Sei solo una maledetta macchina. Un maledetto ammasso di lamiere. .» mormorò, cercando di cancellare dalla mente l'effetto terrificante di quei due occhi scarlatti che spuntavano da sotto il cappuccio dell'angelo.
Le pupille demoniache della creatura si assottigliarono lentamente, fino a formare un filamento sanguinante sulle cornee di ossidiana, come gli occhi di un grande felino. L'angelo fece un altro passo verso di lui. Ismael lanciò una rapida occhiata alla porta. Distava più di otto metri. Non aveva vie di fuga, ma Irene sì.
«Quando te lo dico, corri verso la porta e non fermarti finché non sei fuori dalla casa.»
«Che stai dicendo?»
«Non discutere adesso» protestò Ismael, senza distogliere gli occhi dalla creatura. «Corri!»
Il ragazzo stava calcolando mentalmente il tempo che poteva impiegare per correre alla finestra e cercare di scappare lungo le fenditure della facciata, quando accadde una cosa inattesa. Irene, invece di dirigersi verso la porta e fuggire, afferrò un pezzo di legno rovente e affrontò l'angelo.
«Guardami, bastardo» gridò, incendiando con il ceppo il mantello che copriva l'angelo e strappando un urlo di rabbia all'ombra che si nascondeva al suo interno.
Ismael, attonito, si lanciò verso Irene e arrivò giusto in tempo per buttarla a terra, prima che le cinque lame dell'artiglio la facessero a fette. La cappa dell'angelo si trasformò in un mantello di fiamme e la colossale sagoma della creatura divenne una spirale di fuoco. Ismael prese Irene per un braccio e l'aiutò a rialzarsi. Insieme cercarono di correre verso l'uscita, ma l'angelo sbarrò loro la strada dopo essersi strappato la cappa di fuoco che l'avvolgeva. Una struttura di acciaio annerito affiorò dalle fiamme.
Ismael, senza lasciare nemmeno un attimo la ragazza (in previsione di nuovi tentativi di eroismo), la spinse verso la finestra e scagliò una sedia contro i vetri. Una pioggia di schegge li investì e il freddo vento della notte sollevò le tende fino al soffitto. Alle loro spalle sentivano i passi dell'angelo che avanzava.
«Presto! Salta sul cornicione» gridò il ragazzo.
«Cosa?» gemette un'incredula Irene.
Senza perdersi in ragionamenti, lui la spinse fuori.
La giovane attraversò le fauci aperte nei vetri e si ritrovò sospesa su quasi quaranta metri di vuoto.
Sentì una stretta al cuore, convinta che in pochi decimi di secondo sarebbe precipitata di sotto. Ismael, però, non mollò la presa nemmeno di un millimetro, e con uno strattone la fece risalire sullo stretto cornicione che seguiva la facciata, come un corridoio tra le nuvole. Saltò dopo di lei e la spinse avanti.
Il vento gelò il sudore che gli scendeva sulla faccia.
«Non guardare giù!» gridò.
Erano avanzati di un solo metro quando l'artiglio dell'angelo spuntò dalla finestra alle loro spalle; le sue unghie strapparono una pioggia di scintille alla roccia e lasciarono quattro cicatrici sulla pietra. Irene urlò, sentendo i piedi che le tremavano sul cornicione e il corpo che sembrava sbilanciarsi pericolosamente nel vuoto.
«Non posso andare avanti, Ismael» annunciò. «Se faccio ancora un passo, cado.»
«Puoi farcela. E ce la farai. Forza» la incalzò lui, afferrandole forte la mano. «Se cadi, cadremo insieme.»
La ragazza cercò di sorridergli. Di colpo, un paio di metri più avanti, una delle finestre esplose con violenza e scagliò all'esterno migliaia di pezzi di vetro.
Gli artigli dell'angelo spuntarono fuori e, un istante dopo, il corpo della creatura aderì alla facciata come un ragno.
«Dio mio. .» gemette Irene.
Ismael cercò di retrocedere, tirandola. L'angelo strisciò sulla pietra: la sua sagoma quasi si confondeva con i volti diabolici delle gargolle che sostenevano il fregio superiore della facciata di Cravenmoore. La mente del ragazzo esaminò velocemente il campo visivo che gli si apriva davanti. La creatura avanzava palmo a palmo verso di loro.
«Ismael. .»
«Lo so, lo so!»
Il giovane calcolò le possibilità che avevano di sopravvivere a un salto da quell'altezza. Zero, a voler essere generosi. L'alternativa di rientrare nella stanza richiedeva troppo tempo: l'angelo li avrebbe raggiunti mentre tornavano sui loro passi lungo il cornicione. Sapeva che gli restavano solo pochi secondi per prendere una decisione, qualunque fosse. La mano di Irene strinse con forza la sua; stava tremando. Il ragazzo rivolse un ultimo sguardo all'angelo, che strisciava lentamente ma inesorabilmente verso di loro. Deglutì e guardò nella direzione opposta. Il sistema di canalizzazione delle acque di scolo scendeva lungo la facciata fino a terra. Metà del suo cervello si stava chiedendo se quella struttura avrebbe potuto sopportare il peso di due persone, mentre l'altra metà stava cercando il modo di afferrarsi a quella grossa tubatura, la loro ultima opportunità.
«Aggrappati a me» mormorò alla fine.
Irene lo guardò; poi guardò verso il suolo, un abisso, e decifrò i suoi pensieri.
«Ah, Dio mio!»
Ismael le strizzò un occhio. «Buona fortuna» sussurrò.
L'artiglio dell'angelo si conficcò a quattro centimetri dalla sua faccia. Irene urlò e si afferrò a Ismael, chiudendo gli occhi. Stavano precipitando vertiginosamente. Quando la ragazza li riaprì, erano entrambi sospesi nel vuoto. Ismael scendeva lungo il canale di scolo senza riuscire a frenare la caduta. Lo stomaco gli salì in gola. Sopra di loro, l'angelo colpiva la tubatura, schiacciandola contro la facciata.
Ismael si accorse che l'attrito gli strappava senza pietà la pelle dalle mani e dagli avambracci, causandogli un bruciore che, nel giro di pochi secondi, sarebbe diventato un dolore acuto. L'angelo strisciò verso di loro e cercò di afferrare il tubo. . Il suo stesso peso lo strappò dal muro.
Allora la massa metallica della creatura precipitò nel vuoto, portandosi dietro l'intera tubatura che, con Ismael e Irene, tracciò un arco nell'aria fino a terra. Il ragazzo lottò per non perdere il controllo, ma il dolore e la velocità con la quale cadevano ebbero la meglio sui suoi sforzi.
La tubatura gli scivolò tra le braccia e si videro precipitare nel grande stagno che costeggiava l'ala ovest di Cravenmoore. L'impatto sulla gelida lastra di acqua nera li colpì con rabbia. L'inerzia della caduta li spinse fino al fondale scivoloso della laguna.
Irene sentì l'acqua gelata che le entrava nel naso e le bruciava la gola. Un'ondata di panico l'assalì. Aprì gli occhi sott'acqua e a causa del bruciore vide solamente un pozzo di oscurità. Una sagoma apparve accanto a lei: Ismael. Il ragazzo l'afferrò e la portò in superficie. Emersero all'aria aperta tirando un lungo respiro.
«Presto» la incalzò lui.
Irene si accorse dei segni e delle ferite che Ismael aveva sulle mani e sulle braccia.
«Non è niente» mentì il ragazzo, saltando fuori dallo stagno.
Lei lo seguì. I vestiti erano fradici e il freddo della notte li faceva aderire al corpo come un doloroso manto di brina sulla pelle. Ismael scrutò le ombre intorno a loro.
«Dov'è?» chiese Irene.
«Magari il colpo della caduta lo ha. .»
Qualcosa si mosse fra gli arbusti. Riconobbero subito i due occhi scarlatti. L'angelo era ancora lì, e qualunque cosa fosse a guidare i suoi movimenti non aveva l'intenzione di lasciarseli sfuggire.
«Corri!»
Si precipitarono a tutta birra verso il limitare del bosco. I vestiti fradici ostacolavano i loro movimenti e il freddo iniziava a penetrare nelle ossa. Sentirono il rumore dell'angelo nella boscaglia. Ismael tirò con forza la ragazza, dirigendosi verso il cuore della foresta, dove la nebbia diventava più fitta.
«Dove andiamo?» piagnucolò Irene, consapevole che si stavano inoltrando in una zona del bosco che non conosceva.
Ismael non si prese la briga di rispondere e si limitò a tirarla disperatamente. Irene sentì la vegetazione lacerarle la pelle delle caviglie e il peso della fatica consumarle i muscoli. Non poteva mantenere a lungo quel ritmo. Tra pochi secondi la creatura li avrebbe raggiunti nelle viscere della foresta e li avrebbe fatti a pezzi con i suoi artigli.
«Non ce la faccio. .»
«Sì, che ce la fai!»
Il ragazzo la stava trascinando. Le girava la testa e poteva sentire i rami spezzati crepitare alle sue spalle, a pochi metri da loro. Per un istante pensò di essere sul punto di svenire, ma una fitta di dolore alla gamba la riportò a una dolorosa coscienza. Uno degli artigli dell'angelo era spuntato dagli arbusti e le aveva ferito una coscia. La ragazza urlò. Il volto della creatura comparve alle loro spalle. Irene provò a chiudere gli occhi, ma non riuscì a distogliere lo sguardo da quell'infernale predatore.
In quel momento apparve davanti a loro l'ingresso di una caverna nascosta dalla boscaglia. Ismael si lanciò all'interno, trascinandosela dietro. Allora era quello il luogo dove la stava portando. Una grotta.
Per caso Ismael credeva che lì l'angelo avrebbe rinunciato a dare loro la caccia? Per tutta risposta, Irene sentì il rumore degli artigli che graffiavano la roccia della caverna. Ismael la trascinò attraverso l'angusto tunnel finché si fermò davanti a un'apertura per terra, un buco nel vuoto. Dall'interno arrivava un vento freddo, impregnato di salmastro. Più oltre, nell'oscurità, ruggiva un rumore intenso.
Acqua. Il mare.
«Salta» le ordinò il ragazzo.
Irene guardò il buco nero. Per lei, un ingresso diretto all'inferno sarebbe stato più invitante.
«Cosa c'è lì sotto?»
Ismael sospirò, esausto. I passi dell'angelo risuonavano vicini. Molto vicini.
«È un'entrata alla Grotta dei Pipistrelli.»
«La seconda entrata? Avevi detto che era pericolosa!»
«Non abbiamo scelta. .»
I loro sguardi s'incrociarono nella penombra. Due metri più in là, l'angelo nero fece scrocchiare i suoi artigli. Ismael le fece un cenno. La ragazza gli prese la mano e, chiudendo gli occhi, saltò nel vuoto.
L'angelo si lanciò dietro di loro e superò l'ingresso della grotta, cadendo all'interno.
La discesa attraverso l'oscurità fu infinita, poi i loro corpi s'immersero nel mare e una fitta di freddo morse ogni poro della loro pelle. Quando tornarono in superficie, solo un filo di chiarore filtrava dal foro alla sommità della grotta. L'andirivieni della marea li spingeva contro muri di roccia affilata.
«Dov'è?» chiese Irene, lottando per tenere a bada il tremito provocato dalla temperatura gelida dell'acqua.
Per qualche secondo i due si abbracciarono in silenzio, in attesa che da un momento all'altro quell'infernale invenzione emergesse dal mare e mettesse fine alle loro vite nel buio della caverna. Ma quel momento non arrivò. Ismael lo capì per primo.
Gli occhi scarlatti dell'angelo brillavano intensamente sul fondale. L'enorme peso impediva alla creatura di salire a galla. Un ruggito d'ira li raggiunse attraverso l'acqua. La presenza che manovrava l'angelo si contorceva di rabbia, avendo capito che il suo burattino assassino era caduto in una trappola che lo rendeva inservibile. Quella massa di metallo non sarebbe mai riuscita a raggiungere la superficie.
Era condannata a restare sul fondo della caverna fino a quando il mare non l'avesse trasformata in un mucchio di ferraglia arrugginita.
I ragazzi restarono lì, a guardare il luccichio di quei due occhi che impallidiva e scompariva per sempre sott'acqua. Ismael si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Irene pianse in silenzio.
«È finita» mormorava tremando. «È finita.»
«No» disse Ismael. «Questa non era che una macchina, senza vita né volontà. Qualcosa la muoveva dall'interno. Chi ha cercato di ucciderci è ancora lì. .»
«Ma cos'è?»
«Non lo so. .»
In quel momento si verificò un'esplosione sul fondale della caverna. Una nuvola di bolle scure emerse in superficie, fondendosi in uno spettro nero che strisciò sulle pareti di roccia fino all'ingresso in cima alla grotta. L'ombra si fermò e li osservò da lì.
«Se ne va?» chiese Irene, atterrita.
Una risata crudele e invelenita invase la grotta.
Ismael negò lentamente con la testa.
«Ci lascia qui. .» disse il ragazzo. «Affinché la marea faccia il resto. .»
L'ombra fuggì attraverso l'entrata della caverna.
Ismael sospirò e condusse Irene fino a un piccolo scoglio che emergeva in superficie e offriva giusto lo spazio per entrambi. La issò sulla roccia e l'abbracciò.
Tremavano dal freddo ed erano feriti, ma per alcuni minuti si limitarono a stendersi e a respirare a fondo, in silenzio. A un certo punto Ismael sentì l'acqua che gli lambiva i piedi, e capì che la marea stava salendo. Non era stata la creatura che li perseguitava a cadere nella trappola, ma loro stessi. .
L'ombra li aveva abbandonati a una morte lenta e terribile.
10. Intrappolati
Il mare ruggiva infrangendosi all'imboccatura della Grotta dei Pipistrelli. Le correnti fredde della Baia Nera irrompevano con forza tra i canali di roccia, producendo un rumore spaventoso a causa dell'eco della caverna, immersa nell'oscurità. Il foro di ingresso nella roccia si stagliava sopra di loro, lontano e irraggiungibile, simile alla sommità di una cupola.
In pochi minuti il livello dell'acqua era salito di diversi centimetri. Irene non tardò ad accorgersi che la superficie di roccia che occupavano come naufraghi si riduceva. Millimetro dopo millimetro.
«La marea sta salendo» mormorò.
Ismael si limitò ad annuire, abbattuto.
«Cosa ci succederà?» chiese lei, intuendo la risposta, ma sperando che il ragazzo, inesauribile forziere di sorprese, tirasse fuori dalla manica qualche stratagemma dell'ultima ora.
Lui le rivolse un'occhiata cupa. Le speranze di Irene svanirono all'istante.
«Quando la marea sale, blocca l'entrata della grotta» spiegò Ismael. «E non esiste altra uscita da questo posto se non quel foro in alto, ma non c'è modo di arrivarci da quaggiù.»
Fece una pausa e il suo volto si offuscò di ombre.
«Siamo in trappola» concluse.
L'idea della marea che salendo lentamente li avrebbe annegati come topi, in un incubo di oscurità e freddo, gelò il sangue a Irene. Mentre fuggivano da quella creatura meccanica, l'adrenalina aveva pompato abbastanza eccitazione nelle loro vene da annebbiare la capacità di ragionare. Ora, tremando di freddo al buio, la prospettiva di una morte lenta le appariva insopportabile.
«Ci deve essere un altro modo di uscire da qui» insistette.
«Non c'è.»
«E cosa faremo?»
«Per il momento, aspettiamo.»
Irene capì che non poteva continuare a opprimere il ragazzo cercando risposte. Lui, probabilmente, consapevole dei rischi che riservava la grotta, era più spaventato di lei. E, pensandoci bene, cambiare argomento non sarebbe stata una cattiva idea.
«C'è qualcosa. . Mentre eravamo a Cravenmoore» iniziò. «Quando sono entrata in quella stanza, ho visto qualcosa. Qualcosa che riguarda Alma Maltisse. .»
Ismael le rivolse uno sguardo impenetrabile.
«Credo. . Credo che Alma Maltisse e Alexandra Jann siano la stessa persona. Alma Maltisse era il nome da nubile di Alexandra, prima di sposare Lazarus» spiegò Irene.
«È impossibile. Alma Maltisse è annegata all'isolotto del faro molti anni fa. .» obiettò Ismael.
«Però, nessuno ha trovato il suo corpo. .»
«Impossibile» insistette il ragazzo.
«Mentre ero in quella stanza, fissavo il suo ritratto e. . C'era qualcuno steso sul letto. Una donna.»
Ismael si sfregò gli occhi e cercò di schiarirsi le idee.
«Un momento. Supponiamo che tu abbia ragione. Supponiamo che Alma Maltisse e Alexandra Jann siano la stessa persona. Chi è la donna che hai visto a Cravenmoore? Chi è la donna che durante tutti questi anni è rimasta chiusa lì, assumendo l'identità della moglie malata di Lazarus? » chiese.
«Non lo so. . Quanto più sappiamo di questa storia, meno la capisco» disse Irene. «E c'è qualcos'altro che mi preoccupa. Cosa significava la figura che abbiamo visto nella fabbrica di giocattoli? Era una copia di mia madre. Solo a pensarci mi si drizzano i capelli in testa. Lazarus sta costruendo un giocattolo con il volto di mia madre. .»
Un'ondata di acqua gelida le bagnò le caviglie. Il livello del mare era cresciuto almeno di un palmo da quando erano lì. Si scambiarono uno sguardo angosciato. Il mare ruggì di nuovo e una montagna d'acqua rimbombò all'entrata della caverna. Sarebbe stata una notte molto lunga.
La mezzanotte aveva lasciato sulla scogliera una scia di nebbia che saliva, gradino dopo gradino, dal molo alla Casa del Capo. La lampada a olio oscillava ancora nella veranda, agonizzante. A eccezione del rumore del mare e del sussurro delle foglie nel bosco, il silenzio era assoluto. Dorian era a letto, stringendo un piccolo bicchiere di vetro con dentro una candela accesa. Non voleva che sua madre vedesse la luce, e nemmeno si fidava della lampada dopo quello che era accaduto. La fiamma danzava capricciosamente al suo respiro, come lo spirito di una fata di fuoco.
Una sfilata di riflessi gli rivelava forme insospettate in ogni angolo. Dorian sospirò. Quella notte non sarebbe riuscito a chiudere occhio neppure per tutto l'oro del mondo.
Poco dopo aver salutato Lazarus, Simone si era affacciata nella stanza del figlio per assicurarsi che stesse bene. Dorian si era rannicchiato sotto le lenzuola completamente vestito, offrendo una delle sue antologiche interpretazioni del dolce sonno degli innocenti, e sua madre si era ritirata nella propria camera compiaciuta e decisa a imitarlo. Da allora erano già trascorse ore, forse anni, secondo le stime del ragazzo. L'interminabile nottata gli aveva permesso di capire fino a che punto i suoi nervi fossero tesi come le corde di un pianoforte. Ogni riflesso, ogni scricchiolio, ogni ombra minacciavano di lanciare il suo cuore al galoppo.
Lentamente, la fiamma della candela si andò spegnendo, fino a ridursi a una minuscola bolla azzurra, il cui pallore permetteva a stento di fare breccia nella penombra. In un istante l'oscurità tornò a occupare lo spazio a cui aveva rinunciato a denti stretti.
Dorian poteva sentire il gocciolio della cera bollente che s'induriva nel bicchiere. Solo pochi centimetri più in là, sul comodino, l'angelo di piombo che gli aveva regalato Lazarus l'osservava in silenzio.
"D'accordo" pensò Dorian, deciso a utilizzare la sua tecnica preferita per combattere insonnia e incubi: mangiare qualcosa.
Scostò le lenzuola e si alzò. Decise di non mettersi le scarpe, per evitare i centomila scricchiolii che sembravano provocare i suoi piedi ogni volta che voleva muoversi silenziosamente nella Casa del Capo e, raccogliendo tutto il coraggio che gli restava, attraversò in punta di piedi la stanza fino alla porta. Far scattare la serratura senza provocare il solito concerto di cardini arrugginiti a mezzanotte gli prese dieci secondi abbondanti, ma ne valse la pena. Aprì la porta con lentezza esagerata ed esaminò il panorama.
Il corridoio si perdeva nel buio e l'ombra della scala disegnava una trama di chiaroscuri sulla parete.
Non si avvertiva nemmeno il movimento di un granello di polvere nell'aria. Dorian si chiuse la porta alle spalle e camminò cauto fino alla scala, passando davanti alla camera da letto di Irene.
Sua sorella se n'era andata a dormire da ore, con la scusa di un terribile mal di testa, anche se Dorian sospettava che stesse ancora leggendo o scrivendo disgustose lettere d'amore al fidanzato marinaio, con il quale ormai trascorreva più ore di quante ce ne fossero in un giorno. Da quando l'aveva vista con indosso quel vestito di Simone, sapeva che da lei poteva aspettarsi una sola cosa: problemi. Mentre scendeva gli scalini a mo' di esploratore indiano, Dorian giurò a se stesso che se un giorno avesse commesso la sciocchezza di innamorarsi, si sarebbe comportato con maggiore dignità. Donne come Greta Garbo non badavano a certe sciocchezze. Né bigliettini d'amore, né fiori. Poteva essere un vigliacco, ma banale mai.
Arrivato al pianoterra, Dorian si accorse che un banco di nebbia circondava la casa e che la massa di vapore impediva la vista da tutte le finestre. Il sorriso comparso sulle sue labbra mentre prendeva mentalmente in giro la sorella sparì. "Acqua condensata" si disse. "È soltanto acqua condensata che si muove. Chimica elementare." Grazie a quella tranquillizzante visione scientifica, ignorò il manto di nebbia che s'infiltrava dagli spiragli delle finestre e si diresse in cucina. Una volta lì, constatò che la storia d'amore fra Irene e Capitan Tempesta aveva i suoi aspetti positivi: da quando lo frequentava, sua sorella non aveva più toccato la deliziosa scatola di cioccolatini svizzeri che Simone custodiva nel secondo cassetto della credenza.
Leccandosi le labbra come un gatto, Dorian attaccò il primo bonbon. La squisita esplosione di tartufo, mandorle e cacao gli annebbiò i sensi. Per quanto lo riguardava, dopo la cartografia, il cioccolato era probabilmente la più nobile invenzione del genere umano fino a quel momento.
Specialmente i bonbon.
"Popolo ingegnoso, gli svizzeri" pensò. "Orologi e cioccolatini: l'essenza della vita." Un rumore improvviso lo strappò dalle sue placide considerazioni teoriche. Dorian lo sentì di nuovo, paralizzato, e il secondo bonbon gli scivolò tra le dita. Qualcuno stava bussando alla porta.
Il ragazzo cercò di deglutire, ma aveva la bocca secca. Ancora due colpi decisi alla porta di casa.
Dorian si addentrò nel salotto senza distogliere gli occhi dalla porta. Il fiato della nebbia s'infiltrava da sotto la soglia. Risuonarono altri due colpi alla porta. Dorian vi si ritrovò davanti ed esitò un attimo.
«Chi è?» chiese con voce rotta.
Due nuovi colpi furono la sola risposta che ottenne. Il ragazzo si avvicinò alla finestra, ma il manto di nebbia gli impediva del tutto la vista. Non si sentivano passi in veranda. Lo sconosciuto se n'era andato.
Probabilmente un viaggiatore che si era perso.
Dorian stava per tornare in cucina quando i due colpi risuonarono di nuovo, ma stavolta sui vetri della finestra, a dieci centimetri dal suo viso. Il cuore gli fece un balzo. Dorian indietreggiò piano verso il centro della stanza fino a urtare una sedia alle sue spalle. D'istinto il ragazzo agguantò con forza un candelabro di metallo e lo brandì davanti a sé.
«Vattene. .» sussurrò.
Per una frazione di secondo, un volto sembrò formarsi dall'altra parte del vetro, nella nebbia. Poco dopo la finestra si spalancò, spinta dalla violenza di una tempesta. Un'ondata di freddo gli percorse le ossa e Dorian vide, terrorizzato, una chiazza nera che si allargava sul pavimento.
Un'ombra.
La forma si piazzò davanti a lui e a poco a poco acquistò volume, sollevandosi dal suolo come un burattino di tenebre sospeso a fili invisibili. Il ragazzino cercò di colpire l'intruso con il candelabro, ma il metallo attraversò invano la sagoma scura. Dorian fece un passo indietro e l'ombra gli si scagliò contro.
Due mani di vapore nero gli serrarono la gola; sentì il contatto gelido sulla pelle. I lineamenti di un volto si disegnarono di fronte a lui. Un brivido gli attraversò il corpo dalla testa ai piedi. Le sembianze di suo padre si materializzarono a pochi centimetri dal suo viso. Armand Sauvelle gli sorrise. Un sorriso canino, crudele e pieno di odio.
«Ciao, Dorian. Sono venuto a cercare la mamma. Mi porterai da lei, Dorian?» sussurrò l'ombra.
Il suono di quella voce gli gelò l'anima. Quella non era la voce di suo padre. Quelle luci, demoniache e ardenti, non erano i suoi occhi. E quei denti lunghi e affilati che gli sporgevano dalle labbra non erano quelli di Armand Sauvelle.
«Tu non sei mio padre. .»
Il sorriso da lupo dell'ombra svanì e i suoi lineamenti si sciolsero come cera al fuoco.
Un ruggito animale, di rabbia e di odio, gli straziò i timpani e una forza invisibile lo scagliò verso il lato opposto della stanza. Dorian urtò contro una delle poltrone, rovesciandola.
Sconcertato, si rialzò a fatica, in tempo per vedere l'ombra salire le scale, come una pozza di catrame animata di vita propria che strisciava sugli scalini.
«Mamma!» gridò Dorian, correndole dietro.
L'ombra si fermò un attimo e inchiodò gli occhi nei suoi. Le labbra di ossidiana formarono una parola inudibile. Il suo nome.
I vetri delle finestre di tutta la casa esplosero in una pioggia di schegge letali e la nebbia penetrò ruggendo nella Casa del Capo, mentre l'ombra continuava a salire al piano di sopra. Dorian le si lanciò dietro, inseguendo quella forma spettrale che fluttuava sul pavimento e avanzava verso la porta della camera da letto di Simone.
«No!» gridò il ragazzo. «Non toccare mia madre.»
L'ombra gli sorrise e, un attimo dopo, la massa di vapore nero si trasformò in un vortice che s'infilò nella serratura della stanza. Un secondo di silenzio letale seguì la sua scomparsa.
Dorian corse verso la porta ma, prima che potesse raggiungerla, la tavola di legno volò via, divelta dai cardini con la forza di un uragano, e si fracassò con furia dall'altra parte del corridoio. Dorian si buttò di lato e riuscì a schivarla per pochi millimetri.
Quando si rialzò, davanti ai suoi occhi si spalancò una visione da incubo. L'ombra correva sui muri della stanza di Simone. La silhouette di sua madre, incosciente sul letto, proiettava la propria ombra sulla parete. Dorian vide la sagoma nera scivolare lungo i muri e le labbra dello spettro posarsi su quelle dell'ombra di sua madre. Simone si agitò con violenza nel sonno, misteriosamente imprigionata in un incubo. Due artigli invisibili l'afferrarono e la sollevarono dalle lenzuola. Dorian le bloccò la strada.
Ancora una volta, una furia incontenibile lo colpì e lo scagliò fuori dalla stanza. L'ombra, portando Simone tra le braccia, scese di corsa le scale. Dorian lottò per non perdere i sensi, si rialzò e la seguì al pianoterra. Lo spettro si voltò e, per un istante, i due si fissarono.
«So chi sei. .» mormorò il ragazzo.
Un nuovo volto, a lui sconosciuto, fece la sua apparizione: le fattezze di un uomo giovane, di bell'aspetto e dagli occhi luminosi.
«Tu non sai niente» disse l'ombra.
Dorian vide gli occhi dello spettro perlustrare la stanza e fermarsi sulla porta che conduceva in cantina. La porta di legno consunto si aprì improvvisamente e il ragazzo sentì una presenza invisibile che lo spingeva in quella direzione senza che potesse fare niente per opporsi. Cadde giù per le scale, verso il buio. La porta si richiuse come un'inamovibile lastra di pietra.
Dorian capì che in pochi secondi avrebbe perso conoscenza. Il tempo di sentire la risata dell'ombra, simile a quella di uno sciacallo, che portava via sua madre verso il bosco, nella nebbia.
A mano a mano che la marea guadagnava terreno all'interno della grotta, Irene e Ismael sentivano l'assedio mortale stringersi intorno a loro, una trappola claustrofobica e letale. Irene aveva già dimenticato il momento in cui l'acqua li aveva privati del loro momentaneo rifugio sulla roccia. Ormai non toccavano più. Erano alla mercé della marea e delle proprie capacità di resistenza. Il freddo le sferzava i muscoli provocandole un intenso dolore, il dolore di centinaia di aghi che la trafiggevano. La sensibilità delle mani cominciava a svanire e la stanchezza dispiegava artigli di piombo che sembravano afferrarle le caviglie e tirarla giù. Una voce interiore le sussurrava di arrendersi e congiungersi al sonno tranquillo che li aspettava sott'acqua. Ismael sosteneva a galla la ragazza e sentiva il suo corpo tremargli fra le braccia. Quanto tempo avrebbe potuto resistere così, non lo sapeva. Quanto mancava all'alba e al ritirarsi della marea, ancora meno.
«Non tenere le braccia ferme. Muoviti. Non smettere di muoverti» gemette.
Irene annuì, al limite dell'incoscienza.
«Ho sonno. .» sussurrò la ragazza, quasi delirando.
«No. Non puoi addormentarti ora» ordinò Ismael.
Gli occhi socchiusi di Irene lo guardavano senza vederlo. Lui sollevò il braccio e toccò il soffitto roccioso nel punto in cui li aveva spinti la marea. Le correnti interne li allontanavano dal foro in cima alla volta e li trascinavano nelle viscere della grotta, chiudendo l'unica via di fuga. Malgrado tutti i loro sforzi per rimanere sotto al foro d'ingresso, non c'era modo di afferrarsi a qualcosa ed evitare che la forza inarrestabile della corrente li allontanasse da lì a suo capriccio. Ormai restava appena lo spazio per respirare. E la marea, inesorabile, continuava a salire.
Per un attimo, il volto di Irene precipitò sott'acqua.
Ismael l'afferrò e la tirò su. La ragazza era completamente stordita. Sapeva di uomini più forti ed esperti che erano morti nello stesso modo, in balia del mare. Il freddo poteva avere ragione di chiunque.
Il manto letale prima intorpidiva i muscoli e annebbiava la mente, poi aspettava paziente che la vittima si arrendesse all'abbraccio della morte.
Ismael scosse la ragazza mettendosi di fronte a lei.
Irene balbettò parole senza senso. Senza pensarci due volte, Ismael la schiaffeggiò con forza. Lei aprì gli occhi e si lasciò sfuggire un urlo di panico. Per alcuni secondi non seppe dove si trovava.
Nell'oscurità, circondata dall'acqua gelida e sentendo braccia estranee che la stringevano, credette di essersi svegliata nel peggiore dei suoi incubi. Poi, tutto le tornò alla mente. Cravenmoore. L'angelo. La grotta. Ismael l'abbracciò e lei non riuscì a trattenere il pianto: singhiozzava come una bambina spaventata.
«Non lasciarmi morire qui» sussurrò.
Il ragazzo accolse le sue parole come una pugnalata avvelenata.
«Non morirai qui. Te lo prometto. Non lo permetterò. La marea calerà presto e forse la grotta non si riempirà completamente. . Fra un po' potremo uscire da qui.»
Irene annuì e si strinse a lui con più forza. Magari Ismael avesse nutrito nelle proprie parole la stessa fede della compagna.
Lazarus Jann salì lentamente i gradini della scalinata principale di Cravenmoore. L'aura di una presenza estranea fluttuava sotto l'alone della lampada in cima alla volta. Poteva percepirla nell'odore dell'aria, nel modo in cui le particelle di polvere tessevano una rete di granelli argentati quando venivano intrappolate dalla luce. Arrivato al secondo piano, i suoi occhi si posarono sulla porta all'estremità del corridoio, oltre i veli. Era aperta. Le mani cominciarono a tremargli.
«Alexandra?»
Un freddo sbuffo di vento sollevò le tende che pendevano nel corridoio in penombra. Un oscuro presentimento si abbatté su di lui. Lazarus chiuse gli occhi e si portò una mano al fianco. Una fitta di dolore gli era esplosa in petto, prolungandosi fino al braccio destro, come una miccia, polverizzando con crudeltà i suoi nervi.
«Alexandra?» gemette di nuovo.
Lazarus corse alla porta della stanza e si fermò sulla soglia, osservando i segni della lotta e le finestre rotte, abbandonate alla nebbiolina fredda che arrivava dal bosco. Strinse il pugno fino a sentire le unghie che si conficcavano nel palmo della mano.
«Che tu sia maledetto. .»
Poi, asciugandosi il sudore che gli imperlava la fronte, si avvicinò al letto e, con infinita delicatezza, scostò le tende che pendevano dal baldacchino.
«Mi dispiace, cara. .» disse mentre si sedeva al bordo del letto. «Mi dispiace. .»
Un rumore sconosciuto attirò la sua attenzione. La porta della camera oscillava da un lato all'altro.
Lazarus si alzò e si avvicinò cautamente alla soglia.
«Chi è?» chiese.
Non ottenne risposta, ma la porta si fermò.
Lazarus fece qualche passo verso il corridoio e scrutò nell'oscurità. Quando sentì il sibilo su di lui, era già tardi. Un colpo secco alla nuca lo fece stramazzare al suolo, semincosciente. Sentì delle mani che lo prendevano per le spalle e lo trascinavano lungo il corridoio. I suoi occhi riuscirono a catturare una visione fugace: Christian, l'automa che sorvegliava la porta principale. Il suo volto si girò verso di lui.
Un luccichio crudele gli brillava negli occhi.
Poco dopo Lazarus perse i sensi.
Ismael intuì l'arrivo dell'alba dal ritirarsi delle correnti che li avevano sospinti irrimediabilmente all'interno della grotta per tutta la notte. Le mani invisibili del mare allentarono a poco a poco la presa, permettendogli di trascinare un'incosciente Irene verso la parte più alta della caverna, dove il livello delle acque concedeva loro una sacca d'aria. Quando il chiarore che si riverberava sul fondale sabbioso tese un sentiero di pallida luce verso l'uscita della grotta e la marea batté in ritirata, Ismael si lasciò sfuggire un grido di giubilo che nessuno, nemmeno la sua compagna, poté sentire. Il ragazzo sapeva che non appena il livello del mare avesse iniziato a scendere, sarebbe stata la caverna stessa a mostrare loro la strada verso la laguna e l'aria aperta.
Erano forse un paio d'ore che Irene si teneva a galla soltanto grazie all'aiuto di Ismael. Riusciva a malapena a stare sveglia. Il suo corpo ormai non tremava; semplicemente, si lasciava cullare dalla corrente come un oggetto inanimato. Mentre aspettava pazientemente che la marea li lasciasse uscire, Ismael capì che, senza di lui, Irene sarebbe morta da ore.
Mentre la teneva a galla e le sussurrava parole di conforto che lei non poteva capire, al ragazzo vennero in mente le storie raccontate dalla gente di mare sugli incontri con la morte: quando qualcuno salvava la vita di un proprio simile in mare, le loro anime restavano unite eternamente da un vincolo invisibile.
A poco a poco la corrente si ritirò e Ismael riuscì a trascinare Irene verso la laguna, lasciandosi alle spalle l'imboccatura della grotta. Mentre l'alba disegnava una treccia d'ambra all'orizzonte, la portò fino a riva. Quando lei aprì gli occhi, stordita, vide il volto sorridente di Ismael che la osservava.
«Siamo vivi» mormorò lui.
Irene lasciò cadere le palpebre, esausta.
Ismael sollevò per l'ultima volta lo sguardo e contemplò la luce dell'alba sul bosco e sulla scogliera.
Era lo spettacolo più emozionante a cui avesse assistito in tutta la vita. Poi, lentamente, si stese accanto a Irene sulla sabbia bianca e si arrese alla stanchezza. Nulla avrebbe potuto svegliarli da quel sonno. Nulla.
11. Il volto dietro la maschera
La prima cosa che Irene vide quando si svegliò furono due occhi neri e impenetrabili che la osservavano con circospezione. Si ritrasse di scatto e il gabbiano, spaventato, si alzò in volo. Irene sentì le labbra secche e doloranti, un'ardente tensione della pelle e fitte di bruciore su tutto il corpo. I muscoli le sembravano ridotti a uno straccio e il cervello gelatina pura. Un'ondata di nausea la percorse dalla bocca dello stomaco alla testa. Quando cercò di alzarsi, capì che quello strano fuoco che pareva corroderle la pelle come acido era il sole. Un sapore amaro le affiorò alle labbra. Il miraggio di quella che sembrava una caletta fra le rocce le fluttuava attorno come una giostra. Non si era mai sentita peggio in tutta la sua vita.
Si stese di nuovo e si accorse della presenza di Ismael accanto a lei. Non fosse stato per il respiro affannoso, Irene avrebbe giurato che era morto. Si sfregò gli occhi e posò una mano piagata sul collo del compagno. Pulsazioni. Irene accarezzò il viso di Ismael, che poco dopo aprì gli occhi. Per un attimo, il sole lo accecò.
«Sei orribile. .» mormorò, sorridendo a fatica.
«Vedessi te. .» replicò la ragazza.
Come due naufraghi sbattuti sulla spiaggia dalla tempesta, si alzarono barcollando e cercarono la protezione dell'ombra sotto i resti di un tronco abbattuto ai piedi della scogliera. Il gabbiano che aveva vegliato sul loro sonno si posò di nuovo sulla sabbia, con la curiosità ancora insoddisfatta.
«Che ore saranno?» chiese Irene, combattendo contro il martellio che le percuoteva le tempie a ogni parola che pronunciava.
Ismael le mostrò l'orologio. Il quadrante era pieno d'acqua e la lancetta dei secondi, staccata dal perno, emulava un'anguilla pietrificata in un acquario.
Il ragazzo si protesse gli occhi con le mani e osservò il sole.
«È già passato mezzogiorno.»
«Quanto tempo abbiamo dormito?» chiese lei.
«Non abbastanza» replicò Ismael. «Potrei dormire per una settimana di seguito.»
«Adesso non c'è tempo» incalzò Irene.
Lui annuì e studiò la scogliera in cerca di una via d'uscita praticabile.
«Non sarà facile. Io so arrivare alla laguna soltanto dal mare. .» iniziò.
«Cosa c'è dietro la scogliera?»
«Il bosco che abbiamo attraversato ieri notte.»
«E cosa stiamo aspettando?»
Ismael esaminò di nuovo la scogliera. Una selva di spuntoni di pietra acuminati si ergeva di fronte a loro. Per scalare quelle rocce ci sarebbe voluto del tempo, per non parlare delle numerose possibilità di fare uno spiacevole incontro con la legge di gravità e rompersi l'osso del collo. Gli passò per la testa l'immagine di un uovo che si spiaccicava al suolo.
"Un finale perfetto" pensò.
«Sai arrampicarti?» chiese Ismael.
Irene si strinse nelle spalle. Il ragazzo le guardò i piedi nudi ricoperti di sabbia. Braccia e gambe pallide senza alcuna protezione.
«A scuola facevo ginnastica ed ero la più brava ad arrampicarmi sulla corda» disse lei. «Immagino sia la stessa cosa.»
Ismael sospirò. I suoi problemi non erano finiti.
Per qualche secondo Simone Sauvelle ebbe di nuovo otto anni. Vide di nuovo quelle luci di rame e d'argento che disegnavano capricciosi acquerelli di fumo. Sentì di nuovo l'intenso aroma della cera bruciata, le voci che sussurravano nella penombra e la danza invisibile di centinaia di ceri che ardevano in quel palazzo di misteri e incantesimi che aveva stregato i ricordi della sua infanzia: l'antica cattedrale di Saint-Étienne. Ma il sortilegio durò soltanto qualche secondo.
Poco dopo, via via che i suoi occhi stanchi percorrevano le lugubri tenebre che la circondavano, Simone comprese che quelle candele non appartenevano a nessuna cappella: le macchie di luce che danzavano sulle pareti erano vecchie fotografie e quelle voci, quei sussurri lontani, esistevano solo nella sua mente. Seppe istintivamente di non trovarsi nella Casa del Capo, né in nessun altro posto che potesse ricordare. La sua memoria le riportò un'eco confusa delle ultime ore. Ricordava di aver chiacchierato con Lazarus in veranda. Ricordava di essersi preparata un bicchiere di latte caldo prima di andare a letto, e ricordava le ultime parole lette nel libro che troneggiava sul comodino.
Dopo aver spento la luce, evocò vagamente di aver sognato le urla di un bambino e un'assurda sensazione di essersi svegliata in piena notte per contemplare le ombre che sembravano camminare nell'oscurità.
Dopo di che, la sua memoria sfumava come i bordi di un disegno non terminato. Le sue mani palparono un tessuto di cotone e si rese così conto di indossare ancora la camicia da notte. Si alzò e si avvicinò piano alla parete che rifletteva la luce di decine di candele bianche, impeccabilmente allineate sui bracci di candelabri solcati da lacrime di cera.
Le fiamme sussurravano all'unisono; quel rumore erano le voci che le era sembrato di sentire. Il chiarore dorato di tutte quelle luci le dilatò le pupille e una rara lucidità le penetrò nella mente. I ricordi sembrarono tornare a uno a uno, come le prime gocce di pioggia all'alba. Con loro, arrivò il primo attacco di panico.
Ricordò il freddo contatto di mani invisibili che la trascinavano nelle tenebre. Ricordò una voce che le sussurrava all'orecchio mentre ogni muscolo del suo corpo si pietrificava, incapace di reagire. Ricordò una forma fatta di ombre che la trasportava attraverso il bosco. Ricordò che quell'ombra spettrale aveva mormorato il suo nome e che lei, paralizzata dal terrore, aveva capito che non si trattava di un incubo.
Simone chiuse gli occhi e si portò le mani alla bocca, trattenendo un urlo.
Il suo primo pensiero fu per i figli. Che ne era stato di Irene e Dorian? Erano ancora a casa? Li aveva presi quell'indescrivibile apparizione? Una forza lacerante marchiò a fuoco nel suo animo ciascuna di quelle domande. Corse verso quella che sembrava una porta e armeggiò invano con la serratura, gridando e urlando finché la stanchezza e la disperazione non ebbero la meglio. A poco a poco, una fredda serenità la riportò alla realtà.
Era prigioniera. Chi l'aveva sequestrata in piena notte per rinchiuderla lì aveva probabilmente catturato anche i suoi figli. In quel momento, pensare che avesse potuto ferirli o far loro del male era fuori luogo. Se sperava di poter fare qualcosa per loro, doveva tenere a bada qualunque spasmo di panico e mantenere il controllo dei pensieri. Simone strinse forte i pugni mentre si ripeteva queste parole.
Respirò a fondo a occhi chiusi, sentendo che il cuore recuperava un battito normale. Dopo un po'
riaprì gli occhi e osservò attentamente la stanza. Prima capiva ciò che stava succedendo, prima sarebbe uscita da lì per andare in soccorso di Irene e Dorian.
La cosa che i suoi occhi registrarono subito furono i mobili, piccoli e austeri. Mobili da bambino, di fattura semplice, che sfiorava la povertà. Era nella stanza di un bambino, ma il suo istinto le diceva che da molto tempo nessun bambino la abitava. La presenza tangibile che la impregnava, qualunque cosa fosse, emanava vecchiaia, decrepitezza. Simone andò verso il letto e vi si sedette, osservando la stanza da lì. Non c'era innocenza in quella camera da letto. Ciò che poteva intuire era oscurità. Cattiveria.
Il lento veleno della paura iniziò a scorrerle nelle vene, ma Simone ignorò i suoi segnali. Prese un candelabro e si avvicinò alla parete. Infiniti ritagli di giornale e fotografie formavano un murale che si perdeva nella penombra. Notò la rara precisione con la quale quelle immagini erano state attaccate alla parete. Un sinistro museo di ricordi si dispiegava davanti ai suoi occhi, e ciascuno di quei ritagli sembrava proclamare in silenzio l'esistenza di qualche significato. Una voce che cercava di farsi ascoltare dal passato. Simone avvicinò la candela a pochi centimetri dal muro e si lasciò inondare dal torrente di fotografie e incisioni, di parole e disegni.
I suoi occhi captarono al volo un nome familiare fra le decine di notizie: Daniel Hoffmann. Quel nome le accese la memoria in un lampo. Il misterioso personaggio di Berlino la cui corrispondenza, secondo le istruzioni di Lazarus, doveva tenere separata. Lo strano individuo le cui lettere, come Simone aveva scoperto per caso, finivano nel fuoco. Eppure, c'era qualcosa che non quadrava. L'uomo di cui parlavano quegli articoli non viveva a Berlino e, a giudicare dalla data di pubblicazione dei giornali, avrebbe dovuto avere adesso un'età troppo avanzata. Confusa, Simone si immerse nel testo dell'articolo.
L'Hoffmann dei ritagli era un uomo ricco, incredibilmente ricco. Qualche centimetro più in là, la prima pagina del "Figaro" pubblicava la notizia di un incendio nella fabbrica di giocattoli. Hoffmann era morto nella tragedia. Le fiamme consumavano l'edificio e una folla si accalcava a osservarle, paralizzata dall'infernale spettacolo. Tra la gente, un bambino dagli occhi spaventati guardava in macchina, sperduto. Lo stesso sguardo appariva in un altro ritaglio.
Stavolta l'articolo raccontava la tenebrosa storia di un ragazzo rimasto per sette giorni rinchiuso in una cantina, abbandonato nell'oscurità. I poliziotti lo avevano scoperto quando avevano trovato sua madre morta in una delle stanze. Il volto del bambino, che doveva avere solo sette o otto anni, era uno specchio senza fondo.
Un brivido intenso l'attanagliò, mentre i pezzi di un sinistro rompicapo iniziavano a insinuarsi nella sua testa. Ma c'era dell'altro, e l'affascinante potenza di quelle immagini era ipnotica. I ritagli avanzavano nel tempo. Molti parlavano di gente scomparsa, di persone che Simone non aveva mai sentito nominare.
Tra di esse spiccava una ragazza di splendente bellezza, Alexandra Alma Maltisse, erede di un impero metallurgico di Lione, indicata da una rivista di Marsiglia come promessa sposa di un giovane ma prestigioso ingegnere e inventore di giocattoli, Lazarus Jann. Accanto a quel ritaglio, una serie di foto mostrava la sfolgorante coppia che distribuiva giocattoli in un orfanotrofio di Montparnasse. I due sprigionavano felicità e luminosità. "È mio fermo proposito che tutti i bambini di questo paese, qualunque sia la loro situazione, possano avere un giocattolo" dichiarava l'inventore nella didascalia della foto.
Più oltre, un altro giornale annunciava il matrimonio di Lazarus Jann e Alexandra Maltisse. La foto ufficiale del fidanzamento era stata scattata ai piedi della scalinata di Cravenmoore.
Un Lazarus traboccante di gioventù abbracciava la promessa sposa. Nemmeno una nuvola offuscava quell'immagine da sogno. Il giovane e intraprendente Lazarus Jann aveva acquistato la sontuosa dimora per farla diventare la loro casa. Diverse immagini di Cravenmoore illustravano l'articolo.
La successione di fotografie e ritagli si prolungava sempre più, ingrandendo quella galleria di personaggi e avvenimenti del passato. Simone si fermò e tornò indietro. Il volto di quel bambino, sperduto e terrorizzato, non l'abbandonava. Lasciò che i suoi occhi penetrassero in quello sguardo desolato e, a poco a poco, vi riconobbe lo sguardo in cui aveva riposto speranze e amicizia. Quello sguardo non era del Jean Neville di cui Lazarus le aveva parlato. Era uno sguardo che lei conosceva, e dolorosamente. Era lo sguardo di Lazarus Jann.
Una nube nera le fece calare un velo sul cuore. Simone inspirò a fondo e chiuse gli occhi. Per qualche motivo, prima che la voce risuonasse alle sue spalle, seppe che nella stanza c'era qualcun altro.
Ismael e Irene raggiunsero la cima della scogliera poco prima delle quattro. Testimoni della difficoltà dell'ascesa erano le ammaccature e le ferite che la pietra aveva inciso sulle loro braccia e gambe. Era il prezzo per superare il sentiero proibito. Per quanto difficoltosa Ismael si fosse aspettata la salita, la realtà si rivelò peggiore e più pericolosa di quanto avesse immaginato. Irene, senza fiatare nemmeno per un secondo e senza aprire bocca per lamentarsi dei graffi che le squarciavano la pelle, gli aveva dimostrato un coraggio mai visto prima. Si era arrampicata avventurandosi per dirupi dove nessuno sano di mente avrebbe messo piede. Quando alla fine raggiunsero il limitare del bosco, Ismael si limitò ad abbracciarla in silenzio. La forza che bruciava in quella ragazza non avrebbe potuto spegnerla nemmeno tutta l'acqua dell'oceano.
«Stanca?»
Senza fiato, Irene negò con la testa.
«Non ti hanno mai detto che sei la persona più testarda di questo pianeta?»
Un mezzo sorriso affiorò sulle labbra della ragazza.
«Aspetta di conoscere mia madre.»
Prima che Ismael potesse replicare, lei lo prese per mano e lo tirò verso il bosco. Alle loro spalle, un abisso più giù, si intravedeva la laguna.
Se un giorno qualcuno gli avesse detto che si sarebbe arrampicato su quelle scogliere infernali non ci avrebbe creduto. Però, riguardo a Irene, era pronto a credere a qualunque cosa.
Simone si girò piano verso il buio. Poteva avvertire la presenza dell'intruso; poteva perfino sentire il sussurro del suo respiro lento. L'aura delle candele sfumava in un alone impenetrabile, oltre il quale la stanza si trasformava in un vasto palcoscenico privo di fondale. Simone scrutò la penombra che nascondeva il visitatore. Una insolita serenità la dominava e le forniva una lucidità di pensiero che la sorprendeva. I suoi sensi sembravano catturare ogni minuscolo dettaglio di ciò che la circondava con una precisione impressionante. La sua mente registrava ogni vibrazione dell'aria, ogni rumore, ogni riflesso.
In questo modo, trincerata in quello strano stato di calma, rimase in silenzio ad affrontare le tenebre, in attesa che il visitatore si facesse riconoscere.
«Non mi aspettavo di vederla qui» disse alla fine la voce dall'ombra, una voce debole, distante. «Ha paura?»
Simone scosse la testa.
«Bene. Non deve averne. Non deve avere paura.»
«Pensa di rimanere nascosto lì, Lazarus?»
Un lungo silenzio seguì la sua domanda. Il respiro di Lazarus si fece più udibile.
«Preferisco stare qui» rispose alla fine.
«Perché?»
Qualcosa brillò nella penombra. Un luccichio fugace, quasi impercettibile.
«Perché non si siede, madame Sauvelle?»
«Preferisco rimanere in piedi.»
«Come vuole.» L'uomo fece una nuova pausa. «Probabilmente si domanderà cos'è successo.»
«Fra l'altro» tagliò corto Simone, con la lama dell'indignazione che trapelava dal suo tono di voce.
«Forse la cosa più semplice è che mi faccia lei delle domande e che io cerchi di rispondere.»
Simone si lasciò sfuggire un sospiro di rabbia.
«La mia prima e ultima domanda è dov'è l'uscita» sbottò.
«Temo che questo non sia possibile. Non ancora.»
«Perché no?»
«Questa è un'altra delle sue domande?»
«Dove mi trovo?»
«A Cravenmoore.»
«Come ci sono arrivata e perché?»
«Qualcuno l'ha portata. .»
«Lei?»
«No.»
«Allora chi?»
«Qualcuno che lei non conosce. . ancora.»
«Dove sono i miei figli?»
«Non lo so.»
Simone avanzò verso il buio, con il viso rosso di rabbia.
«Maledetto bastardo!»
Si incamminò verso il luogo da cui proveniva la voce. A poco a poco i suoi occhi percepirono una sagoma su una poltrona. Lazarus. Ma c'era qualcosa di strano nel suo volto. Simone si fermò.
«È una maschera» disse Lazarus.
«Per quale motivo?» domandò lei, sentendo svanire vertiginosamente la serenità che aveva provato.
«Le maschere rivelano il vero volto delle persone. .»
Simone cercò di non perdere la calma. Arrendersi all'ira non l'avrebbe condotta a nulla.
«Dove sono i miei figli? Per favore. .»
«Gliel'ho già detto, madame Sauvelle. Non lo so.»
«Cosa mi farà?»
Lazarus allungò una mano, infilata in un guanto satinato. La superficie della maschera brillò di nuovo.
Era il riflesso che aveva notato prima.
«Non le farò del male, Simone. Non abbia paura. Deve fidarsi di me.»
«Una richiesta un po' fuori luogo, non le sembra?»
«Per il suo bene. Cerco di proteggerla.»
«Da chi?»
«Si sieda, per favore.»
«Cosa diavolo sta succedendo qui? Perché non me lo dice?»
Simone notò come la propria voce fosse diventata un filo fragile e infantile. Riconoscendo il bordo dell'isteria, strinse i pugni e respirò a fondo. Indietreggiò di qualche passo e si accomodò su una delle sedie che circondavano un tavolo vuoto.
«Grazie» mormorò Lazarus.
Lei si lasciò sfuggire una lacrima in silenzio.
«Prima di tutto, deve sapere che mi dispiace profondamente che si sia ritrovata coinvolta in tutto questo. Non avrei mai pensato che sarebbe arrivato questo momento. .» dichiarò l'inventore di giocattoli.
«Non è mai esistito un bambino chiamato Jean Neville, non è così?» chiese Simone. «Quel bambino era lei. La storia che mi ha raccontato. . era una mezza verità sulla sua stessa storia.»
«Vedo che ha letto la mia collezione di ritagli. Probabilmente questo l'ha spinta a farsi delle idee interessanti, ma sbagliate.»
«L'unica idea che mi sono fatta, signor Jann, è che lei è una persona malata e bisognosa di aiuto. Non so come sia riuscito a portarmi qui, ma le assicuro che appena ne uscirò la mia prima visita sarà alla polizia. Il rapimento è un delitto. .»
Le sue parole le suonarono tanto ridicole quanto fuori luogo.
«Allora devo intuire che ha intenzione di rinunciare al suo lavoro, madame Sauvelle?»
Quella strana punta di ironia suscitò un segnale di allarme nell'animo di Simone. Non le sembrava possibile che quel commento venisse dal Lazarus che conosceva. Anche se, a dire il vero, se qualcosa era chiaro era che non lo conosceva per nulla.
«Intuisca quello che vuole» replicò freddamente.
«Bene. In questo caso, prima che si rivolga alle autorità, per la qual cosa ha il mio consenso, mi permetta di completare le tessere della storia che senza dubbio lei ha già imbastito nella sua mente.»
Simone osservò la maschera, pallida e priva di qualsiasi espressione. Un volto di porcellana da cui scaturiva quella voce fredda e distante. Gli occhi erano due pozzi di oscurità.
«Come vedrà, stimata Simone, l'unica morale che si può trarre da questa storia, o da qualunque altra, è che nella vita reale, diversamente dalla finzione, nulla è ciò che sembra. .»
«Mi prometta una cosa, Lazarus» lo interruppe lei.
«Se posso. .»
«Mi prometta che, se ascolto la sua storia, mi lascerà andare via di qui con i miei figli. Io le giuro che non mi rivolgerò alle autorità. Prenderò soltanto la mia famiglia e lascerò questo paese per sempre. Non saprà mai più nulla di me» supplicò Simone.
La maschera rimase qualche secondo in silenzio.
«È questo che desidera?»
Lei annuì, trattenendo le lacrime.
«Mi delude, Simone. Credevo fossimo amici. Buoni amici.»
«Per favore. .»
La maschera serrò il pugno.
«D'accordo. Se quello che vuole è ritrovare i suoi figli, lo farà. A tempo debito. .»
«Ricorda sua madre, madame Sauvelle? Tutti i bambini hanno nel cuore un posto riservato alla donna che li ha messi al mondo. È come una luce che non si spegne mai. Una stella nel firmamento. Io ho passato la maggior parte della mia vita a cercare di cancellare quella luce. Di dimenticarla completamente. Ma non è facile. Non lo è. Spero che, prima di giudicarmi e condannarmi, voglia ascoltare bene la mia storia. Sarò breve. Le buone storie hanno bisogno di poche parole. .
«Venni al mondo la notte del 26 dicembre 1882, in una vecchia casa della strada più buia e tortuosa del quartiere di Les Gobelins, a Parigi. Un posto tenebroso e insalubre, certamente. Ha letto Victor Hugo, madame Sauvelle? Se sì, saprà di cosa sto parlando. Fu lì che mia madre, con l'aiuto della sua vicina Nicole, diede alla luce un bebé. Era un inverno così freddo che, a quanto pare, ci misi qualche minuto a prorompere nel pianto che ci si aspetta da ogni neonato. Tant'è vero che, per un attimo, mia madre fu convinta che fossi nato morto. Quando vide che così non era, la poverina lo interpretò come un miracolo e decise, divina ironia, di chiamarmi Lazarus.
«Evoco gli anni dell'infanzia come una successione di grida per strada e di lunghe malattie di mia madre. In uno dei miei primi ricordi, sono seduto sulle ginocchia di Nicole, la vicina, e ascolto quella brava donna raccontarmi che mia madre è molto malata, che non può accorrere ai miei richiami e che devo essere buono e andare a giocare con gli altri bambini. Gli altri bambini ai quali si riferiva erano un gruppo di straccioni che mendicavano dall'alba al tramonto e imparavano prima dei sette anni che la sopravvivenza nel quartiere consisteva nel diventare criminale o poliziotto. Non è necessario chiarire quale delle due alternative fosse la preferita.
«L'unica luce di speranza in quei giorni nel quartiere era rappresentata da un personaggio misterioso che occupava i nostri sogni. Si chiamava Daniel Hoffmann e il suo nome era sinonimo di fantasia per tutti noi, al punto che tanti dubitavano perfino della sua esistenza. Secondo la leggenda, Hoffmann percorreva le strade di Parigi con vari travestimenti e simulando diverse identità, distribuendo ai bambini poveri i giocattoli che lui stesso aveva costruito nella sua fabbrica. Tutti i bambini di Parigi avevano sentito parlare di lui e tutti sognavano di essere un giorno i prescelti dalla fortuna.
«Hoffmann era l'imperatore della magia, dell'immaginazione. Solo una cosa poteva sconfiggere la forza del suo fascino: l'età. Via via che i ragazzi crescevano e il loro spirito restava privo della capacità di immaginare, di giocare, il nome di Daniel Hoffmann si cancellava dalla loro memoria; finché un giorno, ormai adulti, non erano in grado di identificarlo quando lo sentivano pronunciare dai figli. .
«Daniel Hoffmann è stato il più bravo creatore di giocattoli che sia mai esistito. Aveva una grande fabbrica nel quartiere di Les Gobelins. L'edificio assomigliava a un'enorme cattedrale che si ergeva fra le tenebre di quel quartiere spettrale e pieno di pericoli e miseria. Una torre sottile come un ago s'innalzava al suo centro e si conficcava tra le nuvole. Di lì, le campane annunciavano l'alba e il crepuscolo ogni giorno dell'anno. L'eco di quelle campane si sentiva in tutta la città. Noi ragazzi del quartiere conoscevamo la fabbrica, però gli adulti non erano in grado di vederla e credevano che al suo posto ci fosse un'immensa palude impenetrabile, un territorio abbandonato nel cuore di tenebra di Parigi.
«Nessuno aveva mai visto il vero volto di Daniel Hoffmann. Si diceva che il creatore dei giocattoli abitasse in una sala in cima alla torre e non ne uscisse quasi mai, se non quando si avventurava, travestito, per le strade di Parigi al tramonto e regalava giocattoli ai bambini diseredati della città. In cambio chiedeva soltanto una cosa: il cuore dei ragazzi, la loro promessa di amore e di obbedienza eterni. Qualunque ragazzino del quartiere gli avrebbe dato il cuore senza esitare. Ma non tutti sentivano quel richiamo. Le voci parlavano di centinaia di differenti travestimenti che occultavano la sua identità.
C'era chi si spingeva a dire che Daniel Hoffmann non usasse mai due volte lo stesso abbigliamento.
«Ma torniamo a mia madre. La malattia a cui si riferiva Nicole è per me ancora un mistero. Immagino che certe persone, come alcuni giocattoli, nascano a volte con un difetto d'origine. In qualche modo, questo ci trasforma tutti in giocattoli rotti, non le pare? Il fatto è che l'infermità di cui soffriva mia madre si tradusse con il tempo in una progressiva perdita delle capacità mentali. Quando il corpo è ferito, la mente non tarda a deviare dal cammino. È la legge della vita.
«Fu così che imparai a crescere con la solitudine come unica compagnia sognando che un giorno Daniel Hoffmann sarebbe venuto in mio aiuto. Ricordo che ogni notte, prima di andare a letto, chiedevo all'angelo custode di portarmi da lui. Ogni notte. E fu sempre così che, immagino spinto da quelle fantasie su Hoffmann, iniziai a costruire io stesso i giocattoli.
«Utilizzavo resti che trovavo nella spazzatura del quartiere. Così costruii il mio primo treno, e un castello di tre piani. Poi seguirono un drago di cartone e, più avanti, una macchina per volare, molto prima che gli aeroplani fossero una visione abituale in cielo. Però il mio giocattolo preferito era Gabriel.
Gabriel era un angelo. Un angelo meraviglioso che forgiai con le mie mani affinché mi proteggesse dall'oscurità e dai pericoli del destino. Lo costruii con i resti di un ferro da stiro e chincaglieria varia; che mi procurai da un telaio abbandonato due strade oltre quella in cui abitavamo. Ma Gabriel, il mio angelo custode, ebbe vita breve.
«Il giorno in cui mia madre scoprì il mio arsenale di giocattoli, Gabriel venne condannato a morte.
«Mia madre mi portò in cantina e lì, sussurrando e senza smettere di guardarsi attorno, come se temesse che ci fosse qualcuno in agguato nell'ombra, mi raccontò che un uomo le aveva parlato in sogno. Il suo confidente le aveva fatto la seguente rivelazione: i giocattoli, tutti i giocattoli, erano un'invenzione di Lucifero in persona. Grazie a quelli, sperava di dannare le anime di tutti i bambini del mondo. Quella sera stessa Gabriel e tutti i miei giocattoli finirono nella caldaia.
«Mia madre insistette perché li distruggessimo insieme, assicurandoci che fossero ridotti in cenere. In caso contrario, l'ombra della mia anima maledetta, mi spiegò, sarebbe venuta a prendermi. Ogni macchia nella mia condotta, ogni mancanza, ogni disobbedienza vi restava impressa. Un'ombra che portavo sempre con me e che era un riflesso della mia malvagità e della mia mancanza di considerazione nei suoi riguardi, nei riguardi del mondo. .
«A quell'epoca avevo sette anni. .
«Fu più o meno in quel periodo che la malattia di mia madre si aggravò. Iniziò a rinchiudermi in cantina, dove, secondo lei, l'ombra non avrebbe potuto trovarmi se fosse venuta a prendermi. Durante quelle lunghe prigionie, a stento osavo respirare, temendo che i miei sospiri richiamassero l'attenzione dell'ombra, quel malvagio riflesso della mia anima debole, e che mi portasse dritto all'inferno. Tutto questo le sembrerà comico, nel peggiore dei casi triste, madame Sauvelle, ma per quel bambino di pochi anni era la spaventosa realtà di ogni giorno.
«Non vorrei annoiarla con dettagli sordidi di quel periodo. Basti dire che, durante una di quelle prigionie, mia madre perse definitivamente il poco senno che le restava e io rimasi una settimana intera imprigionato in cantina, solo nell'oscurità. L'avrà già letto sul ritaglio, immagino. Una di quelle storie che ai giornalisti piace mettere in prima pagina. Le cattive notizie, specie se scabrose e raccapriccianti, aprono i portafogli del pubblico con sbalorditiva efficacia. Nel frattempo, si chiederà lei, che cosa fa un bambino rinchiuso per sette giorni e sette notti in uno scantinato buio?
«In primo luogo, mi permetta di dirle che l'essere umano, privato per qualche ora della luce, perde il senso del tempo. Le ore si trasformano in minuti o in secondi. O in settimane, se preferisce. Il tempo e la luce sono strettamente legati. Il fatto è che durante quel periodo accadde qualcosa di davvero prodigioso. Un miracolo. Il mio secondo miracolo, se vuole, dopo quei minuti in sospeso appena nato.
«Le mie preghiere ebbero effetto. Tutte quelle sere a pregare in silenzio non erano state inutili. La chiami fortuna, lo chiami destino.
«Daniel Hoffmann venne da me. Proprio da me. Fra tutti i bambini di Parigi, quella notte fui io il prescelto per ricevere la sua grazia. Ricordo ancora quel timido bussare alla botola che dava all'esterno, in strada. Io non potevo arrivarci, ma potei rispondere a quella voce; la voce più buona e meravigliosa che abbia mai sentito. Una voce che faceva svanire l'oscurità e dissipava la paura di un povero bimbo spaventato come il sole scioglie il ghiaccio. E sa una cosa, Simone? Daniel Hoffmann mi chiamò per nome.
«E io gli aprii le porte del mio cuore. Dopo un po', una luce meravigliosa illuminò la cantina e Hoffmann comparve dal nulla, indossando uno sfolgorante vestito bianco. Se l'avesse visto, Simone. .
Era un angelo, un vero e proprio angelo di luce. Non ho mai visto nessuno irradiare quell'aura di bellezza e di pace.
«Quella notte Daniel Hoffmann e io chiacchierammo in intimità, come stiamo facendo noi adesso.
Non ci fu bisogno che gli raccontassi di Gabriel e degli altri miei giocattoli; era già al corrente. Sappia che Hoffmann era un uomo informato. Era al corrente anche delle storie sull'ombra che mia madre mi aveva raccontato. Sapeva tutto al riguardo. Sollevato, gli confessai che quell'ombra mi terrorizzava davvero. Non può immaginare la compassione, la comprensione che emanava da quell'uomo. Ascoltò pazientemente il racconto di quanto mi accadeva, e potevo sentire che era partecipe del mio dolore, della mia angoscia. In particolare, capiva qual era il più grande dei miei timori, il peggiore dei miei incubi: l'ombra. La mia stessa ombra, quello spirito maligno che mi seguiva ovunque e si faceva carico di tutto il male che c'era dentro di me. .
«Fu Daniel Hoffmann a spiegarmi cosa dovevo fare. Fino a quel momento ero un povero ignorante, cerchi di capirmi. Che ne sapevo io di ombre? Che ne sapevo di quei misteriosi spiriti che facevano visita alle persone in sogno e parlavano loro del passato e del futuro? Nulla.
«Invece lui sapeva. Sapeva tutto. Ed era disposto ad aiutarmi.
«Quella notte Daniel Hoffmann mi rivelò il futuro. Mi disse che ero destinato a succedergli alla testa del suo impero. Mi spiegò che tutta la sua conoscenza, tutta la sua arte, un giorno sarebbe stata mia e che il mondo di povertà che mi circondava sarebbe svanito per sempre. Mi mise tra le mani un avvenire che non avrei mai osato sognare. Un futuro. Io non sapevo cosa fosse. E lui me lo offrì. In cambio, dovevo fare soltanto una cosa. Una piccola, insignificante promessa: dovevo consegnargli il mio cuore.
Solo a lui e a nessun altro.
«L'inventore di giocattoli mi chiese se comprendevo ciò che questo significava. Risposi di sì, senza esitare un istante. Certo che poteva contare sul mio cuore. Era l'unica persona che si fosse comportata bene con me. L'unica a cui fosse importato di me. Mi disse che, se lo desideravo, molto presto sarei uscito di lì, che non avrei mai più rivisto quella casa e quel quartiere, e nemmeno mia madre. E, la cosa più importante, disse che non avrei mai più dovuto preoccuparmi dell'ombra. Se facevo ciò che lui mi chiedeva, il futuro mi si sarebbe spalancato davanti, fulgido e luminoso.
«Mi domandò se avevo fiducia in lui. Annuii. Allora tirò fuori una piccola boccetta di vetro, simile a quella in cui lei terrebbe il profumo. Sorridendo, la stappò e i miei occhi assistettero a un'impressionante visione. La mia ombra, il mio riflesso sul muro, si trasformò in una macchia danzante. Una nube di oscurità che venne assorbita dalla boccetta, catturata per sempre al suo interno.
Poi Daniel Hoffmann richiuse la boccetta e me la diede. Il vetro era freddo come il ghiaccio.
«Mi spiegò allora che, da quel momento, il mio cuore ormai gli apparteneva e che presto, molto presto, tutti i miei problemi sarebbero scomparsi. Se non mancavo al mio giuramento. Gli dissi che mai avrei potuto fare una cosa simile. Mi sorrise di nuovo con affetto e mi diede un regalo. Un caleidoscopio. Mi chiese di chiudere gli occhi e pensare con tutte le forze a quello che più desideravo nell'universo. Mentre lo facevo, si accovacciò davanti a me e mi baciò sulla fronte. Quando aprii gli occhi, non c'era più.
«Una settimana dopo, la polizia, avvertita da un anonimo informatore che la mise al corrente di quanto accadeva a casa mia, mi tirò fuori da quel buco. Mia madre era morta. .
«Nel tragitto verso il commissariato, le strade furono invase dai mezzi dei pompieri. Nell'aria si sentiva l'odore del fuoco. I poliziotti che mi tenevano in custodia fecero una deviazione e allora la vidi: all'orizzonte, la fabbrica di Daniel Hoffmann bruciava in uno degli incendi più spaventosi della storia di Parigi. La gente che non si era mai accorta della sua esistenza osservava quella cattedrale di fuoco. Tutti ricordarono allora il nome di quel personaggio che aveva riempito di sogni la loro infanzia: Daniel Hoffmann. Bruciava il palazzo dell'imperatore. .
«Le fiamme e la colonna di fumo nero si innalzarono verso il cielo per tre giorni e tre notti, come se l'averno avesse aperto le sue porte nel cuore oscuro della città. Io ero lì e lo vidi con i miei occhi. Giorni dopo, quando restavano soltanto le ceneri a testimoniare l'esistenza dell'impressionante edificio che prima sorgeva in quel luogo, i giornali pubblicarono la notizia.
«Con il tempo, le autorità trovarono un parente di mia madre che si prese cura di me e io andai a vivere con la sua famiglia a Cap d'Antibes. Lì sono cresciuto e sono stato educato. Una vita normale.
Felice. Come mi aveva promesso Daniel Hoffmann. Mi permisi perfino di inventare una variante del mio passato per raccontarla a me stesso: la storia che le ho narrato.
«Il giorno in cui compii diciott'anni ricevetti una lettera. Il timbro risaliva a otto anni prima, dell'ufficio postale di Montparnasse. In quella lettera il mio vecchio amico mi annunciava che lo studio notarile di un certo monsieur Gilbert Travant, di Fontainebleau, custodiva le carte di una villa sulla costa della Normandia che entrava legalmente in mio possesso al compimento della maggiore età. La lettera, su carta pergamena, era firmata con una "D".
«Ci misi diversi anni a prendere possesso di Cravenmoore. A quel punto ero già un promettente ingegnere. I miei progetti di giocattoli erano superiori a qualunque altro conosciuto fino ad allora. Ben presto capii che era giunto il momento di creare una fabbrica tutta mia. A Cravenmoore. Stava accadendo tutto proprio come mi era stato annunciato. Finché non avvenne l'incidente. Accadde alla Porte de Saint-Michel, un 13 febbraio. Lei si chiamava Alexandra Alma Maltisse ed era la creatura più bella che avessi mai visto.
«In tutti quegli anni, avevo conservato la boccetta che Daniel Hoffmann mi aveva dato quella notte nella cantina di rue des Gobelins. Era ancora gelida al tatto come allora. Sei mesi dopo tradii la promessa a Daniel Hoffmann e consegnai il mio cuore a quella ragazza. La sposai. Fu il giorno più felice della mia vita. La notte prima delle nozze, che si sarebbero celebrate a Cravenmoore, presi la boccetta che conteneva la mia ombra e mi diressi alle scogliere del capo. Da lì, condannandola per sempre all'oblio, la scagliai nelle acque scure.
«Naturalmente, infransi la mia promessa. .»
Il sole aveva già iniziato a declinare sulla baia quando Ismael e Irene avvistarono tra gli alberi la facciata posteriore della Casa del Capo. La stanchezza che entrambi si trascinavano sembrava essersi rintanata discretamente in qualche luogo non molto lontano, nell'attesa di un momento più opportuno per rifarsi viva. Ismael aveva già sentito parlare di quel fenomeno, una sorta di aura che sperimentavano alcuni atleti quando oltrepassavano i limiti delle loro capacità di resistenza. Superato quel punto, il corpo andava avanti senza mostrare segni di stanchezza. Fino a quando la macchina non si fermava, è chiaro. Una volta terminato lo sforzo, la punizione crollava loro addosso tutta in una volta. Un prestito dei muscoli, per così dire.
«A cosa stai pensando?» chiese Irene, notando l'espressione meditabonda del ragazzo.
«Che ho fame.»
«Anch'io. Non è strano?»
«Al contrario. Niente di meglio che un bello spavento per aprire lo stomaco» si consentì di scherzare Ismael.
La Casa del Capo era tranquilla e non c'era traccia apparente degli abitanti. Due ghirlande di vestiti asciutti, appesi agli stenditoi, ondeggiavano al vento. Con la coda dell'occhio, Ismael captò una visione fugace di quelli che sembravano proprio indumenti intimi di Irene. La sua mente si attardò a considerare l'aspetto che avrebbe avuto la sua compagna con indosso quei capi.
«Stai bene?» chiese lei.
Il ragazzo deglutì, però annuì.
«Stanco e affamato, questo è tutto.»
Irene gli rivolse un sorriso enigmatico. Per un istante Ismael valutò la possibilità che tutte le donne fossero, segretamente, in grado di leggere il pensiero. Meglio non perdersi in simili considerazioni a stomaco vuoto.
La ragazza cercò di aprire la porta sul retro della casa, ma a quanto pareva qualcuno l'aveva chiusa a chiave dall'interno. Il sorriso di Irene si trasformò in una smorfia di stupore.
«Mamma? Dorian?» chiamò mentre indietreggiava di qualche passo ed esaminava le finestre del primo piano.
«Proviamo davanti» disse Ismael.
Lei lo seguì, costeggiando la casa fino alla veranda, fin quando i loro piedi calpestarono un tappeto di vetri rotti. Allora Ismael e Irene si fermarono e videro la porta divelta e tutte le finestre fatte a pezzi. A prima vista, sembrava che un'esplosione di gas avesse strappato la porta dai cardini, sputando all'esterno una tempesta di vetri. Irene cercò di contenere l'ondata di freddo che le saliva dallo stomaco.
Inutilmente. Rivolse uno sguardo terrorizzato a Ismael e si apprestò a entrare in casa. Lui la trattenne, in silenzio.
«Madame Sauvelle?» chiamò dalla veranda.
La sua voce si perse in fondo alla casa. Ismael si spinse con cautela all'interno ed esaminò il panorama.
Irene si affacciò dietro di lui e sospirò profondamente. La parola per descrivere lo stato della casa, sempre che ce ne fosse una, era devastazione. Ismael non aveva mai visto gli effetti di un tornado, ma immaginò che fossero simili a quelli che i suoi occhi gli stavano trasmettendo.
«Mio Dio. .»
«Attenta ai vetri» avvertì il ragazzo.
«Mamma!»
L'urlo risuonò per la casa, uno spirito vagante di stanza in stanza. Ismael, senza lasciare Irene nemmeno per un attimo, andò verso la base delle scale e lanciò un'occhiata al piano superiore.
«Andiamo di sopra» disse lei.
Salirono le scale lentamente, esaminando le tracce lasciate da una forza invisibile. La prima a notare che la camera da letto di Simone non aveva più la porta fu Irene.
«No. .» mormorò.
Ismael raggiunse la soglia della stanza e la esaminò. Niente. A una a una, controllarono tutte le camere del primo piano. Vuote.
«Dove sono?» chiese la ragazza con la voce tremante.
«Qui non c'è nessuno. Torniamo giù.»
A quanto poteva vedere, la lotta, o qualunque cosa fosse accaduta in quello scenario, era stata violenta.
Il ragazzo tenne per sé ogni osservazione al riguardo, ma un oscuro sospetto sulla sorte della famiglia di Irene gli attraversò la mente. Lei, ancora sotto shock, piangeva in silenzio ai piedi delle scale.
"Questione di pochi minuti" si disse Ismael "e scoppierà l'isteria." Meglio pensare a qualcosa, e in fretta, prima che succedesse. Stava vagliando una decina di possibilità, ognuna meno efficace dell'altra, quando si sentirono per la prima volta i colpi. Un silenzio mortale li seguì.
Irene alzò lo sguardo, piangente, e gli occhi cercarono la conferma di Ismael. Il ragazzo annuì, sollevando un dito per indicarle di fare silenzio. I colpi si ripeterono, secchi e metallici, viaggiando attraverso la struttura della casa. Ismael impiegò qualche secondo a rintracciare l'origine di quegli impatti sordi e attutiti. Metallo. Qualcosa, o qualcuno, stava battendo su un pezzo di metallo da qualche parte. Il rumore si ripeté meccanicamente. Ismael sentì la vibrazione viaggiare sotto i suoi piedi e i suoi occhi si fermarono su una porta chiusa nel corridoio che conduceva alla cucina, nella parte posteriore della casa.
«Dove dà quella porta?»
«In cantina. .» rispose Irene.
Il ragazzo si avvicinò e accostò l'orecchio al legno. I colpi si ripeterono per l'ennesima volta. Cercò di aprire, ma la maniglia era bloccata.
«C'è qualcuno lì dentro?» gridò.
Sentì un rumore di passi che salivano le scale.
«Stai attento» disse Irene.
Ismael si allontanò dalla porta. Per un attimo, l'immagine dell'angelo che sbucava dalla cantina gli invase la mente. Si sentì una voce debole dall'altra parte, distante. Irene si alzò di scatto e corse verso la porta.
«Dorian?»
La voce balbettò qualcosa.
Irene guardò Ismael e annuì.
«È mio fratello. .»
Il ragazzo verificò che abbattere una porta o, in quel caso, farla a pezzi era un lavoro molto più complesso di quanto gli sceneggiati radiofonici facessero intendere. Trascorsero dieci minuti buoni prima che la porta, con l'aiuto di una sbarra di ferro trovata nella credenza, finalmente si arrendesse.
Ismael, zuppo di sudore, indietreggiò di qualche passo e Irene diede lo strattone di grazia. La serratura, un ammasso di schegge di legno che spuntavano dal meccanismo solido e arrugginito, cadde a terra. A Ismael sembrò un riccio.
Un attimo dopo, un ragazzo dall'aspetto pallido emerse dall'oscurità. Il volto era attanagliato da una maschera di terrore e le mani gli tremavano. Dorian si rifugiò tra le braccia della sorella, come un animale spaventato. Irene guardò Ismael. Qualunque cosa il ragazzo avesse visto, lo aveva davvero impressionato. Irene si accovacciò davanti a lui e gli pulì il viso macchiato di sporcizia e lacrime secche.
«Stai bene, Dorian?» gli chiese con calma, palpandogli il corpo in cerca di ferite o fratture.
Dorian annuì più volte.
«Dov'è mamma?»
Il ragazzo sollevò lo sguardo. Gli occhi erano ristagni di terrore.
«Dorian, è importante. Dov'è mamma?»
«Se l'è portata via. .» balbettò lui.
Ismael si chiese da quanto tempo fosse rinchiuso lì sotto, al buio.
«Se l'è portata via. .» ripeté Dorian, come se si trovasse sotto gli effetti di una trance ipnotica.
«Chi se l'è portata via, Dorian?» domandò Irene con fredda serenità. «Chi ha portato via mamma?»
Dorian li guardò entrambi e sorrise debolmente, come se la domanda che gli rivolgevano fosse assurda.
«L'ombra. .» rispose. «Se l'è portata via l'ombra.»
Gli sguardi di Irene e Ismael si incrociarono.
Lei respirò a fondo e posò le mani sulle braccia del fratello.
«Dorian, ti chiederò di fare qualcosa di molto importante. Mi capisci?»
Lui annuì.
«Devi andare di corsa in paese, alla polizia, e dire al commissario che è successo un incidente terribile a Cravenmoore. Che mamma è lì, ferita. Che vengano prima possibile. Hai capito?»
Dorian la osservò sconcertato.
«Non dire niente dell'ombra. Di' soltanto quello che ti ho detto io. È molto importante. . Se lo fai, nessuno ti crederà. Parla solo di un incidente.»
Ismael annuì.
«Devi fare questo per me, e per mamma. Ci riesci?»
Dorian guardò Ismael e poi la sorella.
«Mamma ha avuto un incidente ed è ferita a Cravenmoore. Ha bisogno urgente di aiuto» ripeté meccanicamente il ragazzo. «Ma sta bene, vero?»
Irene gli sorrise e lo abbracciò.
«Ti voglio bene» gli sussurrò.
Dorian baciò la sorella sulla guancia e, dopo aver rivolto un saluto cameratesco a Ismael, si mise a correre in cerca della sua bicicletta. La trovò accanto alla ringhiera della veranda. Il regalo di Lazarus era ridotto a una rete di fil di ferro e metallo contorto. Il ragazzo contemplò quei resti mentre Irene e Ismael si affacciavano e si accorgevano della macabra scoperta.
«Chi è in grado di fare una cosa simile?» chiese Dorian.
«È meglio che ti affretti, Dorian» gli ricordò Irene.
Lui annuì e partì a tutta birra. Non appena scomparve, Irene e Ismael uscirono in veranda. Il sole tramontava sulla baia, disegnando un globo di tenebre che sanguinava tra le nubi e tingeva il mare di rosso.
I due si guardarono e, senza bisogno di parole, capirono quello che li attendeva nel cuore dell'oscurità, al di là del bosco.
12. Doppelgänger
«Non c'è mai stata una sposa più bella ai piedi di un altare, né mai ci sarà» disse la maschera. «Mai.»
Simone poteva sentire il pianto silenzioso delle candele che ardevano nella penombra e, al di là delle pareti, il mormorio del vento che graffiava il bosco di gargolle che coronava Cravenmoore. La voce della notte.
«La luce che Alexandra portò nella mia vita cancellò tutti i ricordi e le miserie che avevano abitato la mia memoria fin dall'infanzia. Ancora oggi, penso che pochi mortali riescano a raggiungere quella soglia di felicità, di pace. In qualche modo smisi di essere quel ragazzo del quartiere più misero di Parigi.
Dimenticai quelle lunghe prigionie nell'oscurità. Mi lasciai per sempre alle spalle la cantina buia in cui credevo di sentire delle voci, dove la voce dei miei rimorsi mi diceva che era viva quell'ombra a cui la malattia di mia madre aveva aperto una porta dell'inferno. Dimenticai l'incubo che mi aveva perseguitato per anni. . In quel sogno, una scala scendeva dalle profondità della cantina di casa nostra in rue des Gobelins fino alle caverne della palude stigia. Tutto questo me lo lasciai alle spalle. E sa perché?
Perché Alexandra Alma Maltisse, il vero angelo della mia vita, mi insegnò che, al contrario di ciò che mia madre mi aveva ripetuto da quando avevo l'uso della ragione, io non ero cattivo. Capisce, Simone?
Non ero cattivo. Ero come gli altri, come chiunque altro.
Ero innocente.»
La voce di Lazarus si fermò per un istante.
Simone immaginò le lacrime che scivolavano in silenzio dietro la maschera.
«Insieme esplorammo Cravenmoore. Molte persone pensano che tutti i prodigi che contiene questa casa siano opera mia. Non è vero. Solo una piccola parte è scaturita dalle mie mani. Il resto, corridoi e corridoi di meraviglie che nemmeno io riesco a comprendere, c'era già quando entrai qui per la prima volta. Da quanto tempo fossero in questa casa, non lo saprò mai. C'è stato un periodo in cui ho pensato che altri, prima di me, avevano occupato il mio posto. A volte, di notte, se mi soffermo ad ascoltare in silenzio, credo di sentire l'eco di altre voci, di altri passi che popolano i corridoi di questo palazzo. Di tanto in tanto, penso che il tempo si sia fermato in ogni stanza, in ogni corridoio vuoto, e che tutte le creature che abitano questo luogo un giorno siano state di carne e ossa. Come me.
«Ho smesso di preoccuparmi per questi misteri da molto tempo, anche dopo aver visto che, nonostante i mesi trascorsi a Cravenmoore, scoprivo ancora nuove stanze in cui non ero mai stato, nuovi passaggi che portavano ad ali sconosciute. . Credo che alcuni luoghi, palazzi millenari che si possono contare sulle dita di una mano, siano molto più che semplici edifici; sono vivi. Hanno un'anima e un modo di comunicare con noi. Cravenmoore è uno di questi luoghi. Nessuno sa quando fu costruita. Né chi la costruì e perché. Ma quando questa casa mi parla, io ascolto. .
«Prima dell'estate del 1916, al vertice della nostra felicità, accadde qualcosa. In realtà era iniziato già un anno prima, senza che io lo sapessi. Il giorno dopo le nozze, Alexandra si alzò all'alba e andò nel grande salone ovale per contemplare le centinaia di regali che avevamo ricevuto. Fra tutti, a richiamare la sua attenzione fu un piccolo scrigno cesellato a mano.
Un gioiello. Alexandra, affascinata, lo aprì.
Conteneva un biglietto e una boccetta di vetro. Il biglietto, indirizzato a lei, diceva che quello era un regalo speciale. Una sorpresa. Spiegava che la boccetta conteneva il mio profumo preferito, il profumo che usava mia madre, e che Alexandra doveva conservarlo fino al giorno del nostro primo anniversario prima di usarlo. Però doveva essere un segreto tra lei e il firmatario, un mio vecchio amico d'infanzia, Daniel Hoffmann. .
«Seguendo coscienziosamente le istruzioni, convinta che in questo modo mi avrebbe fatto felice, Alexandra conservò la boccetta per dodici mesi, fino alla data indicata. Quel giorno la prese dallo scrigno e l'aprì. Non c'è bisogno di dirle che non conteneva profumo. Era la boccetta che avevo gettato in mare la vigilia del matrimonio. Dall'istante in cui Alexandra la stappò, la nostra vita si trasformò in un incubo. .
«Fu allora che iniziai a ricevere le lettere di Daniel Hoffmann. Stavolta mi scriveva da Berlino, dove mi spiegava di avere un gran lavoro da fare, un lavoro che avrebbe cambiato il mondo. Milioni di bambini stavano ricevendo le sue visite e i suoi regali.
Milioni di bambini che un giorno avrebbero formato il più grande esercito della Storia. Fino a oggi non ho ancora capito a cosa si riferisse con quelle parole. .
«Con una delle sue prime spedizioni mi regalò un libro, un tomo rilegato in pelle che sembrava più vecchio del mondo. Sulla copertina c'era una sola parola: Doppelgänger. Ha mai sentito parlare del Doppelgänger, cara amica? Certo che no. Le leggende e i vecchi trucchi di magia non interessano più a nessuno. È una parola di origine tedesca; designa l'ombra che si separa dal suo proprietario e gli si rivolge contro. Ma questo, naturalmente, non è che l'inizio.
Così è stato per me. Per sua informazione, le dirò che il libro era essenzialmente un manuale sulle ombre. Un pezzo da museo. Quando iniziai a leggerlo, era ormai tardi. Qualcosa cresceva in modo occulto, al riparo dell'oscurità di questa casa; mese dopo mese, come l'uovo di un serpente che aspetta il momento di schiudersi.
«Nel maggio del 1916 iniziò ad accadermi qualcosa. La luminosità di quel primo anno con Alexandra si smorzò lentamente. Cominciai a sospettare dell'esistenza dell'ombra poco tempo dopo. Ma quando lo feci non c'era già più scampo. I primi attacchi furono semplici spaventi. Trovavamo i vestiti di Alexandra stracciati. Le porte si chiudevano al suo passaggio e mani invisibili le scagliavano degli oggetti. Voci nel buio. Soltanto l'inizio. .
«Questa casa ha migliaia di angoli in cui un'ombra può nascondersi. Capii allora che era soltanto l'anima del suo creatore, Daniel Hoffmann, e che l'ombra vi sarebbe cresciuta, facendosi più forte giorno dopo giorno. Mentre io, al contrario, mi sarei trasformato in un essere più debole. Tutta la forza che era in me sarebbe passata a lui e, lentamente, mentre tornavo all'oscurità della mia infanzia a Les Gobelins, io sarei diventato l'ombra e lui il maestro.
«Decisi di chiudere la fabbrica di giocattoli e concentrarmi sulla mia vecchia ossessione. Volli ridare vita a Gabriel, l'angelo custode che mi aveva protetto a Parigi. Nella mia regressione all'infanzia credevo che, se fossi stato in grado di ridargli vita, lui avrebbe protetto me e Alexandra dall'ombra. Fu così che progettai la creatura meccanica più potente che avessi mai sognato. Un colosso d'acciaio. Un angelo per liberarmi del mio incubo.
«Povero ingenuo! Appena quell'essere mostruoso fu in grado di alzarsi dal tavolo del mio laboratorio, svanì qualunque illusione di obbedienza avessi potuto albergare. Non era me che ascoltava, ma l'altro. Il suo maestro. E lui, l'ombra, non poteva esistere senza di me, perché io ero la fonte da cui assorbiva tutta la sua forza. Non solo l'angelo non mi liberò da quella vita miserevole, ma si trasformò nel peggiore dei guardiani. Il guardiano di quel terribile segreto che mi condannava per sempre, un guardiano che sarebbe intervenuto ogni volta che qualcosa o qualcuno avesse messo in pericolo quel segreto.
Senza pietà.
«Gli attacchi ad Alexandra si fecero più gravi. L'ombra adesso era più forte e la sua minaccia cresceva giorno dopo giorno. Aveva deciso di punirmi attraverso la sofferenza di mia moglie. Avevo consegnato ad Alexandra un cuore che non mi apparteneva più. Quell'errore sarebbe stato la nostra perdizione.
Quando ero sul punto di perdere la ragione, notai che l'ombra agiva soltanto quando io mi trovavo nelle vicinanze. Non poteva vivere lontano da me. Per questa ragione decisi di lasciare Cravenmoore e di rifugiarmi sull'isola del faro. Lì non avrebbe potuto fare del male a nessuno. Se qualcuno doveva pagare il prezzo del mio tradimento, quello ero io. Ma sottovalutai la forza di Alexandra. Il suo amore per me. Superando il terrore e la minaccia alla sua stessa vita, venne in mio aiuto la sera del ballo in maschera. Non appena la barca a vela sulla quale solcava la baia si avvicinò all'isolotto, l'ombra si scagliò su di lei e la trascinò in fondo al mare. Posso ancora sentire le sue risate nel buio quando emerse dalle onde. Il giorno dopo si rifugiò di nuovo in quella boccetta di vetro. Nei successivi vent'anni non la rividi più. .»
Simone si alzò tremando dalla sedia e indietreggiò passo dopo passo finché la sua schiena non toccò la parete della stanza. Non poteva continuare a sentire nemmeno una parola dalle labbra di quell'uomo, di quel. . malato. Dopo aver ascoltato il suo racconto, solo una cosa la teneva in piedi e le impediva di arrendersi al panico che le ispirava quella figura mascherata: l'ira.
«Amica mia, no, no. . Non commetta questo errore. . Non capisce cosa sta succedendo? Quando è arrivata con la sua famiglia, non sono riuscito a evitare che il mio cuore si accorgesse di lei. Non l'ho fatto consapevolmente. Non mi sono nemmeno reso conto di quanto stava accadendo se non quando era tardi. Ho cercato di sfuggire a quel sortilegio costruendo una macchina a sua immagine e somiglianza. .»
«Cosa?»
«Credevo. . Poco dopo che la sua presenza ridesse vita a questa casa, l'ombra che era rimasta per altri vent'anni sopita in quella maledetta boccetta si è svegliata dal suo limbo. Non ci ha messo molto a trovare una vittima designata che la liberasse di nuovo. .»
«Hannah. .» mormorò Simone.
«So cosa deve sentire e pensare adesso, mi creda. Ma non c'è via di scampo. Ho fatto quel che ho potuto. . Deve credermi.»
La maschera si alzò e andò verso di lei.
«Non faccia neppure un altro passo!» esplose Simone.
Lazarus si fermò.
«Non voglio farle del male, Simone. Sono suo amico. Non mi volti le spalle.»
La donna avvertì un'ondata di odio che nasceva dalle profondità del suo spirito.
«Lei ha assassinato Hannah. .»
«Simone. .»
«Dove sono i miei figli?»
«Hanno scelto il loro destino. .»
Un pugnale di ghiaccio le squarciò l'anima.
«Cosa. . Cosa ne ha fatto?»
Lazarus sollevò le mani guantate
«Sono morti. .»
Prima che potesse finire la frase, Simone lanciò un urlo furioso, prese dal tavolo un candelabro e si scagliò contro l'uomo che aveva di fronte. Con la base del candelabro colpì con tutta la sua forza il centro della maschera. Il volto di porcellana si infranse in mille pezzi e il candelabro precipitò nella penombra. Non c'era nulla dietro quella maschera.
Simone, paralizzata, concentrò lo sguardo sulla massa nera che fluttuava davanti a lei. La figura si tolse i guanti bianchi, rivelando soltanto oscurità.
Solo allora Simone riuscì a intravedere il volto demoniaco che le si formava davanti, una nube di ombre che acquistava lentamente volume e sibilava come un serpente, furiosa. Un urlo infernale le lacerò le orecchie, un grido che spense tutte le fiamme che ardevano nella stanza. Per la prima e ultima volta Simone sentì la vera voce dell'ombra. Poi gli artigli l'afferrarono e la trascinarono nell'oscurità.
Via via che si addentravano nel bosco, Ismael e Irene notarono che la nebbiolina che ricopriva la vegetazione si andava a poco a poco trasformando in un manto di incandescente chiarore. La nebbia assorbiva le luci tremolanti di Cravenmoore e le espandeva in un'illusione spettrale, una vera e propria selva di vapore dorato. Appena oltrepassato il limitare del bosco, la spiegazione di quello strano fenomeno si rivelò sconcertante e, in qualche modo, minacciosa.
Tutte le luci della villa brillavano con grande intensità dietro i finestroni, conferendo alla gigantesca struttura l'aspetto di una nave fantasma che emergeva dalle profondità.
I due ragazzi si fermarono davanti alla cancellata appuntita che impediva l'ingresso nel giardino, contemplando quella visione ipnotica. Avvolta in quel manto di luce, la sagoma di Cravenmoore sembrava ancora più sinistra che nell'oscurità. I volti di decine di gargolle affioravano adesso come sentinelle da incubo. Ma non fu quella visione a fermarli.
Qualcos'altro fluttuava nell'aria, una presenza invisibile e infinitamente più spaventosa. Il rumore di decine, centinaia di automi che si muovevano e si aggiravano all'interno della dimora s'insinuava nel vento; la musica dissonante di una giostra e le risate meccaniche di un branco di creature nascoste.
Ismael e Irene ascoltarono paralizzati la voce di Cravenmoore per qualche secondo, cercando di risalire all'origine di quella cacofonia infernale fino alla grande porta principale. L'ingresso, ora spalancato, emanava un fiotto di luce dorata dietro il quale le ombre palpitavano e danzavano al suono di quella melodia che gelava il sangue. Irene strinse istintivamente la mano di Ismael, che le rivolse uno sguardo impenetrabile.
«Sei sicura di voler entrare?» domandò.
La sagoma di una ballerina che ruotava su se stessa si stagliò in una delle finestre. Irene distolse lo sguardo.
«Non devi venire per forza. In fin dei conti, è mia madre. .»
«È un'offerta tentatrice. Non ripeterla due volte» disse Ismael.
«D'accordo» annuì lei. «E succeda quel che succeda. .»
«Succeda quel che succeda.»
Cercando di non pensare alle risate, alla musica, alle luci e alla macabra sfilata di sagome che popolavano quel luogo, i due ragazzi imboccarono la scalinata di Cravenmoore. Non appena Ismael avvertì lo spirito della casa che li avvolgeva, capì che quanto avevano visto fino a quel momento era solo il prologo. Non erano l'angelo e le altre macchine di Lazarus a spaventarlo. C'era qualcosa in quella casa.
Una presenza palpabile e poderosa. Una presenza che stillava odio e rabbia. E, in qualche modo, Ismael seppe che li stava aspettando.
Dorian bussò più volte alla porta della gendarmeria. Era senza fiato e le gambe sembravano sul punto di sciogliersi. Aveva corso come un ossesso attraverso il bosco, fino alla Spiaggia dell'Inglese, e poi lungo l'interminabile strada che costeggiava il litorale fino in paese, mentre il sole si nascondeva all'orizzonte.
Non si era fermato nemmeno un secondo, consapevole che, se si fosse preso una pausa, non avrebbe più fatto neanche un passo per dieci anni. Un solo pensiero lo spingeva: l'immagine di quella forma spettrale che portava via sua madre nelle tenebre. Gli bastava ricordarla per correre fino alla fine del mondo. Quando finalmente la porta della gendarmeria si aprì, la sagoma grassoccia dell'agente Jobart avanzò di un paio di passi. Gli occhietti del poliziotto esaminarono il ragazzo, che sembrava lì lì per crollare.
Dorian credette di vedere un rinoceronte. Il poliziotto sorrise sardonico e, affondando professionalmente i pollici nelle tasche dell'uniforme, brandì la sua smorfia da ti-sembra-questa-l'ora-di-dare-fastidio. Dorian sospirò e cercò di deglutire un po' di saliva, ma non gliene rimaneva neppure una goccia.
«E allora?» sbottò Jobart.
«Acqua. .»
«Questo non è un bar, collega Sauvelle.»
La sottile dimostrazione di ironia probabilmente voleva mettere in evidenza le invidiabili doti di riconoscimento e l'istinto da segugio del pachidermico poliziotto. Eppure, Jobart fece entrare il ragazzo e gli servì un bicchiere d'acqua del distributore.
Dorian non avrebbe mai sospettato che l'acqua potesse essere tanto deliziosa.
«Ancora.»
Jobart gliene diede un altro bicchiere, stavolta rivolgendogli il suo sguardo da Sherlock Holmes.
«Prego.»
Dorian lo vuotò fino all'ultima goccia e affrontò il poliziotto. Le istruzioni di Irene gli ritornarono alla memoria, fresche e senza lacune.
«Mia madre ha avuto un incidente ed è ferita. È grave. A Cravenmoore.»
Jobart ebbe bisogno di qualche secondo per elaborare informazioni.
«Che tipo di incidente?» indagò in un tono da fine osservatore.
«Si muova!» sbottò Dorian.
«Sono solo. Non posso lasciare il comando.»
Il ragazzo sospirò. Fra tutti i cretini che c'erano sul pianeta, si era imbattuto in un esemplare da museo.
«Chiami con la radio! Faccia qualcosa! Subito!»
Il tono e lo sguardo di Dorian comunicarono un certo allarme in grado di far spostare a Jobart il suo considerevole deretano verso la radio e di fargli accendere l'apparecchio. Per un istante si girò a guardare il ragazzo con aria sospettosa.
«Chiami! Adesso!» gridò Dorian.
Lazarus recuperò bruscamente i sensi, avvertendo un dolore lancinante alla nuca. Si portò la mano alla testa e tastò la ferita aperta. Ricordò vagamente il volto di Christian nel corridoio dell'ala ovest.
L'automa l'aveva colpito e l'aveva trascinato fin lì. Lazarus si guardò intorno. Si trovava in una delle tante stanze non utilizzate di Cravenmoore.
A poco a poco si alzò e cercò di fare ordine nei pensieri. Una profonda stanchezza l'assalì non appena si rimise in piedi. Chiuse gli occhi e respirò forte. Quando li riaprì, notò un piccolo specchio appeso a un muro. Si avvicinò ed esaminò il proprio riflesso. Poi, andando verso una finestrella che dava sulla facciata, vide due sagome attraversare il giardino dirette alla porta principale.
Irene e Ismael oltrepassarono la soglia e penetrarono nel fascio di luce che emergeva dalle profondità della casa. L'eco della giostra e il tramestio metallico di migliaia di ingranaggi ritornati in vita scesero su di loro come un fiato gelido. Centinaia di minuscoli meccanismi si muovevano nei muri. Un mondo di creature impossibili si agitava nelle teche, nei congegni sospesi in aria. Era impossibile rivolgere lo sguardo in qualche punto e non trovare una delle creature di Lazarus in movimento. Orologi dotati di faccia, fantocci che camminavano come sonnambuli, volti spettrali che sorridevano come lupi affamati. .
«Stavolta non allontanarti da me» disse Irene.
«Non pensavo di farlo» replicò Ismael, intimorito da quel mondo di esseri che palpitavano attorno a lui.
Avevano percorso solo un paio di metri quando la porta principale si chiuse con forza alle loro spalle.
Irene urlò e si afferrò al ragazzo. La sagoma di un uomo gigantesco si erse davanti a loro. Il volto era coperto da una maschera che rappresentava un pagliaccio demoniaco. Due pupille verdi si allargarono dietro la maschera. I ragazzi indietreggiarono mentre quell'apparizione avanzava. Un coltello le brillò nella mano. L'immagine del maggiordomo meccanico che aveva aperto loro la porta in occasione della prima visita a Cravenmoore balenò nella mente di Irene. Christian. Così si chiamava. L'automa brandì il coltello in aria.
«Christian, no!» urlò Irene. «No!»
Il maggiordomo si fermò. Il coltello gli cadde di mano. Ismael guardò la ragazza senza capire nulla. La figura, immobile, li osservava.
«Svelto» ordinò la ragazza, addentrandosi nella casa.
Ismael le corse dietro, non senza aver prima raccolto il coltello caduto a Christian. Raggiunse Irene all'altezza della fuga verticale che saliva verso la cupola. La ragazza si guardò attorno e cercò di orientarsi.
«Da che parte adesso?» chiese Ismael, senza smettere di guardarsi alle spalle.
Lei esitò, incapace di scegliere una strada attraverso la quale inoltrarsi nel labirinto di Cravenmoore.
Improvvisamente, da uno dei corridoi li investì un soffio di aria gelida e sentirono il suono metallico di una voce cavernosa.
«Irene. .» sussurrò la voce.
I nervi della ragazza si intrecciarono in una rete di ghiaccio. La voce si fece sentire di nuovo. Irene fissò gli occhi sull'estremità del corridoio. Ismael seguì il suo sguardo e la vide. Fluttuando sul pavimento, avvolta in un manto di nebbia, Simone avanzava verso di loro con le braccia tese. Un luccichio diabolico le danzava negli occhi. Le fauci solcate da canini d'acciaio le spuntarono dietro le labbra incartapecorite.
«Mamma» gemette Irene.
«Quella non è tua madre. .» disse Ismael, allontanando la ragazza dalla traiettoria della creatura.
La luce la colpì in volto e lo svelò in tutto il suo orrore. Ismael si lanciò su Irene per schivare gli artigli dell'automa. La creatura girò su se stessa e li affrontò di nuovo. Solo mezza faccia era stata completata.
L'altra metà era una maschera di metallo.
«È il fantoccio che avevamo visto. Non è tua madre» disse il ragazzo, che cercava di strappare l'amica dalla trance in cui quella visione l'aveva sprofondata.
«Quella cosa li muove come se fossero marionette. .»
Il meccanismo che faceva funzionare l'automa emise un cigolio. Ismael vide gli artigli viaggiare di nuovo, a tutta velocità, verso di loro. Afferrò Irene e si diede alla fuga senza sapere dove si dirigeva.
Corsero più in fretta che poterono lungo un corridoio fiancheggiato da porte che si aprivano al loro passaggio e sagome che si staccavano dal soffitto.
«Svelta!» gridò Ismael, sentendo il martellio dei cavi di sospensione alle loro spalle.
Irene si voltò a guardare indietro. Le fauci canine di quella mostruosa replica di sua madre si chiusero a venti centimetri dal suo viso. Le cinque punte dei suoi artigli si lanciarono contro il suo volto. Ismael la strattonò e la spinse all'interno di quella che sembrava una grande sala in penombra.
La ragazza cadde a terra bocconi e lui chiuse la porta dietro di loro. Gli artigli dell'automa si conficcarono nel legno, come letali punte di frecce.
«Mio dio. .» sospirò. «Basta. .»
Irene alzò lo sguardo. La sua pelle era del colore della carta.
«Stai bene?» le chiese Ismael.
La ragazza annuì vagamente e poi si guardò attorno. Pareti di libri salivano all'infinito. Migliaia e migliaia di volumi formavano una spirale babilonica, un labirinto di scale e corridoi.
«Siamo nella biblioteca di Lazarus.»
«Allora spero che abbia un'altra uscita, perché non penso di guardare di nuovo lì dietro. .» disse Ismael, indicando alle sue spalle.
«Deve esserci. Credo di sì, però non so dov'è» disse lei, andando verso il centro della grande sala mentre il ragazzo bloccava la porta con una sedia.
Se quella difesa avesse resistito per più di due minuti, si disse, lui avrebbe cominciato a credere ciecamente ai miracoli. La voce di Irene mormorò qualcosa alle sue spalle. Il ragazzo si voltò e la vide accanto a un tavolo da lettura, intenta a esaminare un libro dall'aspetto centenario.
«Qui c'è qualcosa» disse lei.
Un oscuro presentimento si risvegliò dentro di lui.
«Lascia stare quel libro.»
«Perché?» chiese Irene, senza capire.
«Lascialo stare.»
La ragazza chiuse il volume e fece quello che le aveva detto l'amico. Le lettere dorate in copertina brillarono alla luce del camino che riscaldava la biblioteca: Doppelgänger.
Irene si era allontanata solo di pochi passi dalla scrivania quando avvertì un'intensa vibrazione attraversare la sala sotto i suoi piedi. Le fiamme nel camino impallidirono e alcuni volumi nelle interminabili file di scaffali iniziarono a tremare. La ragazza corse verso Ismael.
«Che diavolo. .?» disse lui, percependo anch'egli l'intenso mormorio che sembrava provenire dalle profondità della casa.
In quel momento il libro che Irene aveva lasciato sulla scrivania si aprì con violenza. Le fiamme del camino si spensero, annichilite da un soffio gelido.
Ismael abbracciò la ragazza e la strinse a sé. Spinto da mani invisibili, qualche libro cominciò a cadere nel vuoto dall'alto.
«C'è qualcun altro qui» sussurrò Irene. «Posso sentirlo. .»
Le pagine del libro iniziarono a girare lentamente al vento, una dopo l'altra. Ismael osservò i fogli del vecchio volume che brillavano di luce propria, e notò per la prima volta che le lettere sembravano evaporare a una a una, condensandosi in una nube di gas nero che prendeva forma sopra il libro. Quella sagoma informe assorbì ogni parola, ogni frase.
Adesso era più densa e gli suggerì l'immagine di uno spettro di inchiostro nero sospeso nel vuoto. La nube si espanse e le forme di due mani, due braccia e un tronco sorsero dal nulla. Un volto impenetrabile emerse dall'ombra.
Ismael e Irene, paralizzati dal terrore, osservarono elettrizzati l'apparizione, e come, attorno a lei, altre forme prendevano vita dalle pagine dei libri caduti.
Lentamente, un esercito di ombre si schierò di fronte ai loro occhi increduli. Ombre di bambini, di anziani, di signore che indossavano strani vestiti sfarzosi. . Sembravano tutti spiriti imprigionati, troppo deboli per acquisire consistenza e volume. Volti in agonia, trasognati e privi di volontà. Guardandoli, Irene sentì di trovarsi davanti alle anime perdute di decine di esseri prigionieri di un terribile maleficio.
Li vide tendere le mani verso di loro, supplicando aiuto, ma le loro dita svanivano in miraggi di vapore.
Poteva sentire l'orrore del loro incubo, del nero sonno che li attanagliava.
Nei pochi secondi che durò quella visione, si domandò chi fossero e come fossero arrivati fin lì.
Erano forse stati, come lei, incauti visitatori di Cravenmoore? Per un attimo sperò di riconoscere sua madre tra quegli spiriti maledetti, figli della notte. Però, a un semplice gesto dell'ombra, i loro corpi vaporosi si fusero in un vortice di oscurità che attraversò la stanza. L'ombra spalancò le fauci e assorbì tutte quelle anime, strappando loro la poca forza che ancora conservavano. Un silenzio mortale seguì alla loro scomparsa. Poi l'ombra aprì gli occhi e il suo sguardo proiettò un alone sanguigno nelle tenebre. Irene cercò di urlare, ma la sua voce si perse nel fragore brutale che scosse Cravenmoore. Tutte le finestre e le porte della casa si stavano sigillando a una a una come lapidi. Ismael avvertì quell'eco cavernosa percorrere le centinaia di corridoi e sentì che le sue speranze di uscirne vivo evaporavano nell'oscurità.
Soltanto uno spiraglio di chiarore tracciava una lama di luce attraverso la volta del soffitto, una corda floscia sospesa in cima a quel sinistro tendone da circo. La luce si impresse nello sguardo di Ismael che, senza aspettare un secondo, prese la mano di Irene e la guidò a tentoni verso l'estremità della stanza.
«Magari l'altra uscita è lì» sussurrò.
Irene seguì la traiettoria segnalata dall'indice dell'amico. I suoi occhi riconobbero il filamento di luce che sembrava emergere dal buco di una serratura. La biblioteca era organizzata in corone ovali concentriche percorse da uno stretto corridoio che ascendeva a spirale lungo il muro e dal quale si diramavano vari corridoi. Simone gliene aveva parlato commentando quello strano capriccio architettonico: seguendo quel corridoio fino alla fine, si arrivava quasi fino al terzo piano della casa. Una specie di torre di Babele rivolta all'interno, aveva immaginato Irene. Stavolta fu lei a guidare Ismael fino al corridoio e, una volta lì, si affrettò a salire.
«Sai dove stai andando?» chiese il ragazzo.
«Fidati di me.»
Ismael le corse dietro, sentendo il pavimento che saliva lentamente sotto i piedi via via che percorrevano il corridoio. Una corrente di aria fredda gli accarezzò la nuca e Ismael vide la spessa macchia nera che si espandeva sul pavimento alle sue spalle.
L'ombra era quasi solida e solo il suo contorno sembrava fondersi con l'oscurità. La massa spettrale si spostava come una macchia d'olio, densa e brillante. Nel giro di qualche secondo quell'entità di nerume liquido raggiunse i suoi piedi. Ismael sentì uno spasmo gelido, come quando si cammina nelle acque gelate.
«Svelta!» esclamò.
L'origine della linea di luce si trovava, come avevano immaginato, nella serratura di una porta a pochi metri da loro. Ismael affrettò il passo e riuscì a superare per qualche istante la traccia dell'ombra sotto i suoi piedi. Pensò che le probabilità che quella porta fosse aperta erano nulle. Non sarebbe servito a niente raggiungerla, se non conduceva da nessuna parte.
Irene tastò la serratura nella penombra, in cerca di un meccanismo che permettesse di aprirla. Il ragazzo si voltò per verificare dove si trovava l'ombra e i suoi occhi scoprirono il manto corvino che si ergeva di fronte a lui, una scultura di gas denso che lentamente prendeva forma. Un volto di catrame si materializzò. Un volto familiare. Ismael credette che gli occhi lo stessero ingannando e sbatté le palpebre. Il volto era ancora lì. Il suo stesso volto. Il suo oscuro riflesso gli sorrise malevolo e una lingua da rettile gli spuntò fra le labbra.
Istintivamente, Ismael estrasse il coltello che aveva preso all'automa nell'ingresso e lo brandì davanti all'ombra. La sagoma esalò il suo gelido fiato sull'arma e una rete di brina e schegge di ghiaccio salì dalla punta della lama fino all'impugnatura. Il metallo congelato gli trasmise una forte sensazione di bruciore sul palmo della mano. Il freddo, un freddo intenso, bruciava quanto o più del fuoco.
Ismael fu sul punto di mollare l'arma, ma resistette allo spasmo muscolare che gli irrigidì l'avambraccio e cercò di affondare il coltello nel volto dell'ombra, la cui lingua si staccò al contatto con la lama e gli cadde su un piede. Istantaneamente, la piccola massa nera gli circondò la caviglia come una seconda pelle e cominciò a salire. Il contatto viscoso e gelido di quella materia gli fece venire la nausea.
In quel momento sentì il cigolio della serratura che Irene stava forzando alle sue spalle e un tunnel di luce si spalancò davanti a loro. La ragazza corse in quella direzione e Ismael la seguì, richiudendo la porta e lasciando dall'altra parte il loro inseguitore. La parte staccatasi dall'ombra s'inerpicò lungo la sua coscia e acquisì la forma di un grande ragno. Una fitta di dolore gli percorse la gamba. Ismael gridò e Irene cercò di scacciare quel mostruoso aracnide. Il ragno si scagliò contro la ragazza e le saltò addosso.
Irene si lasciò sfuggire un urlo di terrore.
«Toglimelo!»
Ismael, sconcertato, si guardò intorno e scoprì la fonte della luce che li aveva guidati fin lì. Una fila di candele si perdeva nella penombra, in una processione spettrale.
Il ragazzo afferrò una delle candele e avvicinò la fiamma al ragno, che cercava la gola di Irene. Al solo contatto con il fuoco, quell'essere emise un sibilo di rabbia e di dolore e si scompose in una pioggia di gocce nere che caddero a terra. Ismael lasciò cadere la candela e allontanò Irene da quei frammenti. Le gocce, scivolando gelatinosamente sul pavimento, si unirono in un solo corpo che strisciò fino alla porta e s'infilò nello spiraglio, scomparendo dall'altro lato.
«Il fuoco. Il fuoco la spaventa. .» disse Irene.
«E allora è questo che le daremo.»
Ismael raccolse la candela e la mise ai piedi della porta mentre Irene dava un'occhiata alla stanza in cui si trovavano. Sembrava un'anticamera spoglia, senza mobili e ricoperta da secoli di polvere.
Probabilmente quella stanza era servita un tempo da magazzino o deposito supplementare della biblioteca.
Un'analisi più attenta, però, rivelava forme sul soffitto. Piccoli tubi. Irene prese una candela e, sollevandola sopra la testa, esaminò la stanza. Il luccichio delle piastrelle e dei mosaici sulle pareti brillò alla fiamma.
«Dove diavolo siamo?» chiese Ismael.
«Non lo so. . Sembrano. . sembrano docce. .»
La luce della candela rivelò gli aspersori metallici, reti di centinaia di fori a forma di campana che pendevano dai tubi. Le bocche erano arrugginite e coperte da una cittadella di ragnatele.
«Qualunque cosa siano, da secoli nessuno li. .»
Non aveva finito di pronunciare la frase che si sentì un gemito metallico, il suono inconfondibile di un rubinetto ossidato che girava. Lì dentro, accanto a loro.
Irene rivolse la candela verso la parete piastrellata ed entrambi videro due rubinetti girare lentamente.
Una profonda vibrazione percorreva i muri. Poi, dopo qualche secondo di silenzio, i ragazzi poterono scovare l'origine di quel rumore, il rumore di qualcosa che si trascinava lungo i tubi, sopra le loro teste.
Qualcuno si stava aprendo il cammino nelle strette tubature.
«È qui!» urlò Irene.
Lui annuì, senza staccare gli occhi dalle docce. Nel giro di pochi secondi una massa impenetrabile iniziò a colare lentamente dai fori. Irene e Ismael indietreggiarono piano, senza distogliere lo sguardo dall'ombra che si formava a poco a poco davanti a loro, come i granelli di sabbia in una clessidra che cadono formando una montagnola.
Due occhi si disegnarono nell'oscurità. Il volto di Lazarus, affabile, sorrise. Una visione tranquillizzante, se non avessero saputo che ciò che avevano di fronte non era Lazarus. Irene avanzò di un passo verso di lui.
«Dov'è mia madre?» chiese, con aria di sfida.
Si sentì una voce profonda, inumana.
«È con me.»
«Allontanati» disse Ismael.
L'ombra fissò gli occhi su di lui e il ragazzo sembrò entrare in trance. Irene scosse l'amico e cercò di allontanarlo dall'ombra, ma lui restò sotto l'influsso di quella presenza, incapace di reagire. La ragazza si piazzò tra loro e diede uno schiaffo a Ismael, riuscendo così a farlo tornare in sé. Il volto dell'ombra si scompose in una maschera di rabbia e due lunghe braccia si protesero verso di loro. Irene spinse Ismael contro il muro e cercò di schivare la presa di quegli artigli.
In quel momento, una porta si aprì nell'oscurità e dall'altra parte della stanza apparve un alone di luce.
La sagoma di un uomo che reggeva una lampada a olio si stagliò sulla soglia.
«Fuori di qui!» gridò, permettendo a Irene di riconoscere la sua voce: era Lazarus Jann, l'inventore di giocattoli.
L'ombra emise un urlo di odio e a una a una le fiamme delle candele si spensero. Lazarus avanzò verso di lei. Il suo volto sembrava quello di un uomo molto più anziano di quanto Irene ricordasse. I suoi occhi, iniettati di sangue, rivelavano una terribile stanchezza, gli occhi di un uomo divorato da una crudele malattia.
«Fuori di qui!» gridò di nuovo.
L'ombra lasciò intravedere un volto demoniaco e si trasformò in una nube di gas, infiltrandosi nelle fessure del pavimento per fuggire attraverso una crepa nel muro. Un rumore simile a quello del vento che sibila dietro le finestre accompagnò la sua fuga.
Lazarus rimase a osservare la crepa per diversi secondi e alla fine rivolse verso di loro il suo sguardo penetrante.
«Cosa credete di fare qui?» chiese senza nascondere l'ira.
«Sono venuta a cercare mia madre e non me ne andrò senza di lei» dichiarò Irene, sostenendo senza battere ciglio lo sguardo intenso che la scrutava.
«Non sai cosa stai affrontando. .» disse Lazarus.
«Svelti, da questa parte. Tornerà presto.»
Poi li guidò dall'altro lato della porta.
«Che cos'è? Che cos'è quello che abbiamo visto?» chiese Ismael.
Lazarus lo guardò a lungo.
«Sono io. Quello che hai visto sono io. .»
Lazarus li condusse attraverso un intricato labirinto di tunnel che sembrava percorrere le viscere di Cravenmoore: una sorta di angusti condotti paralleli a gallerie e corridoi. Il cammino era fiancheggiato su entrambi i lati da numerose porte chiuse, doppi ingressi alle decine di stanze e sale della dimora.
L'eco dei loro passi restava confinata in quello stretto passaggio e dava la sensazione che un esercito invisibile li stesse seguendo.
La lanterna di Lazarus effondeva un anello di luce ambrata sulle pareti. Ismael osservò la propria ombra e quella di Irene che camminavano accanto a loro lungo il muro. Lazarus non ne proiettava nessuna. L'inventore di giocattoli si fermò davanti a una porta alta e stretta, poi prese una chiave con cui aprì il catenaccio. Scrutò l'estremità del corridoio dal quale erano venuti e fece segno ai due ragazzi di entrare.
«Da questa parte» disse nervosamente. «Non tornerà qui, almeno per qualche minuto. .»
Ismael e Irene si scambiarono un'occhiata sospettosa.
«Non avete alternativa. Dovete fidarvi di me» aggiunse Lazarus.
Il ragazzo sospirò ed entrò nella stanza. Irene e Lazarus lo seguirono e lui richiuse la porta. La luce della lanterna rivelò una parete coperta di fotografie e ritagli di giornale. A un'estremità si vedevano un lettino e una scrivania spoglia. Lazarus posò la lanterna a terra e osservò i ragazzi che esaminavano tutti quei pezzi di carta attaccati alla parete.
«Dovete assolutamente lasciare Cravenmoore finché siete in tempo.»
Irene si voltò verso di lui.
«Non è voi che vuole» aggiunse l'inventore di giocattoli. «Vuole Simone.»
«Perché? Cosa vuole farle?»
Lazarus abbassò gli occhi.
«Vuole distruggerla. Per punirmi. E farà la stessa cosa con voi se vi metterete sulla sua strada.»
«Cosa significa tutto questo? Cosa vuole dirci?» domandò Ismael.
«Quello che dovevo dirvi ve l'ho appena detto. Dovete uscire da qui. Prima o poi tornerà, e allora io non potrò fare niente per proteggervi.»
«Ma chi tornerà?»
«L'hai visto con i tuoi occhi.»
In quel momento si sentì un fracasso lontano, proveniente da qualche angolo della casa. Si stava avvicinando. Irene deglutì e guardò Ismael. Passi. Uno dopo l'altro, esplosivi come spari, sempre più vicini.
Lazarus sorrise debolmente.
«Eccolo» annunciò. «Non vi resta molto tempo.»
«Dov'è mia madre? Dove l'ha portata?» protestò la ragazza.
«Non lo so, ma anche se lo sapessi non servirebbe a niente.»
«È lei che ha costruito quella macchina con la sua faccia. .» l'accusò Ismael.
«Credevo che sarebbe bastato, ma voleva di più. Voleva lei.»
In quel momento si sentirono i passi infernali che imboccavano la galleria.
«Oltre quella porta» spiegò Lazarus «c'è un corridoio che conduce alla scala principale. Se vi resta un briciolo di buon senso, correte e allontanatevi per sempre da questa casa.»
«Non andremo da nessuna parte» disse Ismael. «Non senza Simone.»
La porta da cui erano entrati venne scossa con forza. Un attimo dopo una macchia nera s'infiltrò sotto la soglia.
«Usciamo» incalzò Ismael.
L'ombra circondò la lanterna e spaccò il vetro. Un'esalazione di aria gelata spense la fiamma.
Dall'oscurità Lazarus vide i ragazzi uscire dall'altra porta. Accanto a lui si ergeva una sagoma nera e insondabile.
«Lasciali in pace» mormorò. «Sono soltanto due ragazzi. Lasciali andare via. Prendi me, una volta per tutte. Non è questo che vuoi?»
L'ombra sorrise.
Il corridoio in cui si trovavano attraversava l'asse centrale di Cravenmoore. Irene lo riconobbe e guidò Ismael fino alla base della cupola. Dalle vetrate si potevano scorgere le nubi in transito, grandi giganti di ovatta nera che solcavano il cielo. Il lucernario, una sorta di pistone che coronava la cuspide della cupola, sprigionava un ipnotico alone di riflessi caleidoscopici.
«Da questa parte» indicò la ragazza.
«Da questa parte, dove?» chiese nervosamente Ismael.
«Credo di sapere dove la tiene nascosta.»
Lui si guardò alle spalle. Il corridoio era ancora immerso nell'oscurità, senza segni apparenti di movimento, ma il ragazzo capì che l'ombra poteva avanzare in quella direzione senza che loro fossero in grado di accorgersene.
«Spero che tu sappia quello che stai facendo» disse, ansioso di allontanarsi da lì al più presto.
«Seguimi.»
Irene si addentrò in una delle ali che si srotolavano nella penombra e Ismael le andò dietro.
Lentamente, il chiarore del lucernario si smorzò e le sagome delle creature meccaniche ai loro lati divennero semplici profili oscillanti. Le voci, le risate e il martellio di centinaia di meccanismi coprivano il rumore dei loro passi. Il ragazzo si guardò di nuovo alle spalle, scrutando l'imboccatura del tunnel in cui si erano avventurati. Uno sbuffo di aria fredda penetrò nel corridoio. Guardandosi attorno, Ismael riconobbe le tende di garza che ondeggiavano davanti a lui, ricamate con quell'iniziale che oscillava piano.
«Sono sicura che la tiene lì» disse Irene.
Oltre le tende, all'estremità del corridoio, c'era la porta di legno intarsiato. Un nuovo sbuffo di aria fredda li avvolse, agitando le tendine. Ismael si fermò e fissò lo sguardo nel buio. Teso come un cavo d'acciaio, cercava di scrutare nella penombra.
«Che c'è?» domandò Irene, avvertendo lo sconcerto che si era impossessato di lui. Ismael aprì le labbra per rispondere, ma si fermò.
Lei guardò il corridoio dietro di loro. Un semplice punto di luce all'estremità del tunnel. Il resto, tenebre.
«È lì» disse il ragazzo. «E ci osserva.»
Irene si aggrappò a lui.
«Non lo senti?»
«Non fermiamoci qui, Ismael.»
Lui annuì, ma i suoi pensieri erano altrove. Irene lo prese per mano e lo guidò fino alla porta della stanza.
Per tutto il tragitto il ragazzo non staccò gli occhi dal corridoio alle sue spalle. Alla fine, quando lei si fermò davanti all'entrata, si scambiarono uno sguardo. Senza una parola, Ismael appoggiò la mano sulla maniglia e l'abbassò lentamente. La serratura cedette con un debole schiocco metallico e il peso stesso della spessa tavola di legno fece ruotare la porta sui cardini, spingendola verso l'interno. Una bruma impregnata di azzurro evanescente velava la stanza, trafitta soltanto dai barbagli scarlatti che provenivano dal fuoco.
Irene avanzò di qualche passo. Era tutto come lo ricordava. Il grande ritratto di Alma Maltisse brillava sul camino e i suoi riflessi si sparpagliavano nella densa atmosfera della stanza, suggerendo i contorni delle tende di seta trasparente che circondavano il baldacchino del letto. Ismael chiuse con attenzione la porta dietro di loro e seguì Irene.
Il braccio della ragazza lo fermò. Indicò una poltrona orientata verso il fuoco, con la spalliera rivolta a loro. Da uno dei braccioli pendeva una mano pallida, che giaceva sul pavimento come un fiore avvizzito. Accanto, su una macchia liquida, brillavano i frammenti di un bicchiere, perle roventi sopra uno specchio. Irene sentì il cuore batterle più forte nel petto. Lasciò la mano di Ismael e si avvicinò passo dopo passo alla poltrona. Il chiarore danzante delle fiamme illuminò un volto trasognato: Simone.
Irene si accovacciò accanto alla madre e le prese la mano. Per qualche secondo non fu in grado di sentire il battito del polso.
«Mio Dio. .»
Ismael andò verso la scrivania e prese un piccolo vassoio d'argento, poi corse da Simone e glielo mise davanti alla bocca. Una tenue nube di vapore ricoprì la superficie. Irene respirò a fondo.
«È viva» disse Ismael, osservando il volto incosciente della donna, nel quale credette di scorgere una Irene matura e saggia.
«Bisogna portarla via da qui. Aiutami.»
Si misero ai fianchi di Simone e, circondandola con le braccia, cercarono di sollevarla dalla poltrona.
L'avevano issata solo di pochi centimetri quando nella stanza si sentì un sussurro profondo, spaventoso.
I due si fermarono e si guardarono attorno. Il fuoco proiettava molteplici visioni fugaci delle loro ombre sulle pareti.
«Non perdiamo tempo» lo incalzò Irene.
Ismael sollevò di nuovo Simone, ma stavolta il rumore si sentì più vicino e i suoi occhi ne scoprirono l'origine. Il ritratto! In un attimo, il velo che ricopriva il dipinto a olio s'incurvò in una lastra di oscurità liquida, acquisendo volume e dispiegando due lunghe braccia che terminavano con artigli affilati come stiletti.
Ismael cercò di arretrare, ma l'ombra saltò dal muro come un felino, tracciando una traiettoria nella penombra e posandosi sulla sua schiena. Per un secondo l'unica cosa che il ragazzo riuscì a vedere fu la sua stessa ombra che lo guardava. Poi, dal contorno del suo profilo ne emerse un altro che crebbe gelatinosamente fino a inghiottire del tutto la sua vera ombra. Il ragazzo sentì il corpo di Simone scivolargli dalle braccia. Un potente artiglio di gas gelato lo afferrò al collo e lo scagliò contro la parete con una forza incontenibile.
«Ismael!» urlò Irene.
L'ombra si voltò verso la ragazza, che corse all'altra estremità della stanza. Le ombre ai suoi piedi si richiusero su di lei disegnando un fiore letale. Irene sentì il contatto gelato, da brivido, dell'ombra che le avvolgeva il corpo e le paralizzava i muscoli. Cercò inutilmente di liberarsi mentre vedeva terrorizzata un manto di oscurità che si staccava dal tetto e assumeva la forma del volto familiare di Hannah. La replica spettrale le rivolse uno sguardo d'odio e le sue labbra di vapore lasciarono scorgere lunghi canini umidi e lucenti.
«Tu non sei Hannah» disse Irene, con un filo di voce.
L'ombra le diede uno schiaffo, aprendole un taglio sulla guancia. In un attimo le gocce di sangue che affioravano dalla ferita vennero assorbite dall'ombra, come aspirate da una forte corrente d'aria. Irene avvertì uno spasmo di nausea. L'ombra le si avvicinò e brandì due dita lunghe e aguzze come daghe davanti alla faccia.
Ismael sentì quella voce roca e malefica mentre si rialzava, stordito dal colpo. L'ombra teneva Irene sollevata al centro della stanza, pronta a farla fuori.
Il ragazzo gridò e si scagliò contro quella massa. Il suo corpo l'attraversò e l'ombra si scompose in migliaia di minuscole gocce che caddero a terra in una pioggia di carbone liquido. Ismael sollevò Irene e l'allontanò dall'ombra. Sul pavimento i frammenti si unirono in un vortice che fece tremare i mobili da cui erano circondati e li spinse contro pareti e finestre, trasformati in proiettili mortali.
Ismael e Irene si gettarono a terra. La scrivania attraversò una delle cristalliere e la ridusse in frantumi.
Ismael rotolò sopra Irene, riparandola dall'impatto. Quando rialzò gli occhi, il vortice di oscurità si stava solidificando. Due grandi ali nere si spiegarono e l'ombra emerse più grande e potente di prima. Sollevò un artiglio e mostrò il palmo aperto, sul quale si disegnarono due occhi e due labbra.
Ismael estrasse il coltello e lo brandì, tenendo Irene alle proprie spalle. L'ombra si alzò e si mosse verso di loro. Il suo artiglio afferrò la lama del coltello.
Ismael avvertì la corrente gelida che gli risaliva lungo le dita e la mano, paralizzandogli il braccio.
L'arma gli cadde a terra e l'ombra avvolse il ragazzo. Irene cercò inutilmente di afferrarlo. L'ombra portava Ismael verso il fuoco. Proprio in quel momento la porta della stanza si aprì e la sagoma di Lazarus apparve sulla soglia.
La luce spettrale che emergeva dal bosco si rifletté sul parabrezza dell'auto della gendarmeria, che apriva il corteo. Dietro la prima vettura, la macchina del dottor Giraud e un'ambulanza chiamata dall'ospedale di La Rochelle percorrevano a tutta velocità la strada della Spiaggia dell'Inglese.
Dorian, seduto accanto al commissario capo, Henri Faure, fu il primo a notare l'alone dorato che faceva capolino tra gli alberi. Oltre il bosco, intravidero la sagoma di Cravenmoore, una gigantesca giostra fantasma nella nebbia. Il commissario si accigliò e osservò quella visione che non aveva mai visto in cinquantadue anni di vita nel paese.
«Più in fretta!» insisté Dorian.
Il commissario guardò il ragazzo e, mentre accelerava, iniziò a chiedersi se nella storia di quel presunto incidente ci fosse qualcosa di vero.
«C'è qualcosa che non ci hai detto?»
Dorian non rispose e si limitò a guardare davanti a sé. Il commissario premette l'acceleratore a fondo.
L'ombra si voltò. Quando vide Lazarus, lasciò cadere Ismael come un peso morto. Il ragazzo sbatté con violenza sul pavimento ed emise un urlo soffocato di dolore. Irene corse a soccorrerlo.
«Portalo via» disse Lazarus, avanzando lentamente verso l'ombra che indietreggiava.
Ismael avvertì una fitta alla spalla e gemette.
«Stai bene?» chiese la ragazza.
Il ragazzo balbettò qualcosa di incomprensibile, ma si alzò e annuì. Lazarus gli rivolse uno sguardo impenetrabile.
«Portatevela via e andatevene» disse.
L'ombra sussurrava davanti a lui come un serpente in agguato. Di colpo saltò verso il muro e il ritratto l'assorbì di nuovo.
«Ho detto di andarvene!» gridò Lazarus.
Ismael e Irene presero Simone e la trascinarono verso la soglia. Appena prima di uscire, Irene si voltò a guardare Lazarus e lo vide avvicinarsi al letto protetto dai veli e scostarli con tenerezza infinita.
La sagoma di una donna si profilò dietro le tende.
«Aspetta. .» mormorò Irene con il cuore in una morsa.
Doveva essere Alma. Fu percorsa da un brivido quando vide le lacrime sul volto di Lazarus.
L'inventore di giocattoli abbracciò la donna. Irene non aveva mai visto nessuno abbracciare un'altra persona con tanta dedizione. Ogni gesto, ogni movimento di Lazarus denotavano un affetto e una delicatezza che potevano derivare soltanto da una vita intera di venerazione. Anche Alma lo abbracciò e, per un magico istante, restarono uniti nella penombra, al di là di questo mondo. Senza sapere perché, Irene ebbe voglia di piangere, però una nuova visione, terribile e minacciosa, glielo impedì.
La macchia stava scivolando sinuosamente dal ritratto al letto. Una fitta di panico invase la ragazza.
«Lazarus, attento!»
L'inventore di giocattoli si voltò e vide l'ombra che si ergeva davanti a lui, ruggendo di rabbia. Per un secondo sostenne lo sguardo di quell'essere infernale, senza mostrare alcun timore. Poi guardò i due ragazzi; i suoi occhi sembravano trasmettere parole che loro non riuscivano a comprendere.
Improvvisamente Irene capì quello che Lazarus stava per fare.
«No!» gridò, sentendo che Ismael la tratteneva.
L'inventore di giocattoli si avvicinò all'ombra.
«Non te la porterai via di nuovo. .»
L'ombra sollevò un artiglio, pronta ad attaccare il proprio padrone. Lazarus infilò la mano nella tasca della giacca ed estrasse un oggetto brillante. Una pistola.
La risata dell'ombra risuonò nella stanza come l'ululato di una iena.
Lazarus mise il dito sul grilletto. Ismael lo guardò senza capire. Allora l'inventore di giocattoli gli sorrise appena e la pistola gli cadde di mano. Una macchia scura si stava spargendo sul suo petto.
Sangue.
L'ombra emise un urlo che fece tremare tutta la casa. Un urlo di terrore.
«Oh, Dio. .» gemette Irene.
Ismael corse a soccorrere Lazarus, che però sollevò una mano per fermarlo.
«No. Lasciatemi con lei. E andatevene. .» mormorò, mentre un filo di sangue gli colava dalle labbra.
Ismael lo prese tra le braccia e lo avvicinò al letto. Mentre lo faceva, la vista di un volto pallido e triste lo colpì come una pugnalata. Ismael osservò da vicino Alma Maltisse. I suoi occhi tristi lo fissarono, perduti in un sonno da cui mai si sarebbe potuta svegliare. Una macchina.
Per tutti quegli anni Lazarus aveva vissuto con una macchina per tenere vivo il ricordo della moglie, il ricordo che l'ombra gli aveva strappato.
Ismael, paralizzato, fece un passo indietro.
Lazarus lo guardò, supplichevole.
«Lasciami solo con lei. . Per favore.»
«Ma. . è soltanto. .» iniziò Ismael.
«Lei è tutto quello che ho. .»
Il ragazzo allora capì perché non era mai stato trovato il corpo della donna annegata all'isolotto del faro. Lazarus l'aveva strappato alle acque e gli aveva ridato la vita, una vita inesistente, meccanica.
Incapace di affrontare la solitudine e la perdita della moglie, aveva creato un fantasma a partire dal suo corpo, un triste riflesso con cui aveva convissuto per vent'anni. E guardando i suoi occhi agonizzanti Ismael seppe anche che, in fondo al suo cuore, in un modo che non riusciva a comprendere, Alma Maltisse era ancora viva.
L'inventore di giocattoli gli rivolse un ultimo sguardo pieno di dolore. Il ragazzo annuì lentamente e tornò accanto a Irene. Lei notò il suo viso bianco, come se avesse visto la morte.
«Cosa. .?»
«Andiamocene. Presto» intimò Ismael.
«Ma. .»
«Ho detto di andarcene!»
Insieme trascinarono Simone in corridoio. La porta si chiuse con violenza alle loro spalle, sigillando Lazarus nella stanza. Irene e Ismael corsero come poterono verso la scala principale, cercando di ignorare le urla inumane che provenivano da dietro quella porta. Era la voce dell'ombra.
Lazarus Jann si alzò dal letto e affrontò l'ombra barcollando. Lo spettro gli rivolse uno sguardo disperato. Il minuscolo foro della pallottola si stava allargando, divorando pian piano anche lei ogni secondo che passava. L'ombra spiccò un altro salto per rifugiarsi nel quadro, ma stavolta Lazarus prese un tizzone e diede fuoco al ritratto. Le fiamme si propagarono sulla tela come onde in uno stagno.
L'ombra ululò e, nelle tenebre della biblioteca, le pagine di quel libro nero iniziarono a sanguinare fino a prendere fuoco.
Lazarus si trascinò di nuovo verso il letto, ma l'ombra, gonfia d'ira, si lanciò dietro di lui, lasciando una scia di fuoco al suo passaggio. Le tende del baldacchino si incendiarono e le lingue ardenti si propagarono al soffitto e al pavimento, divorando rabbiosamente tutto ciò che incontravano. In pochi secondi la stanza si trasformò in un inferno asfissiante.
Le fiamme si affacciarono a una finestra e il fuoco fece saltare in aria i pochi vetri rimasti intatti, risucchiando con forza insaziabile l'aria notturna. La porta della stanza in fiamme fu scaraventata verso il corridoio e, lentamente ma in modo inesorabile, il fuoco, come un'epidemia, s'impadronì di tutta la casa.
Camminando in mezzo alle fiamme, Lazarus estrasse la boccetta di vetro che aveva ospitato per anni l'ombra e la sollevò tra le mani. Con un urlo disperato, l'ombra vi si introdusse. Le pareti di vetro si scheggiarono in una ragnatela di ghiaccio. Lazarus tappò la boccetta e, guardandola per l'ultima volta, la gettò nel fuoco, dove esplose in mille pezzi. Come il respiro moribondo di una maledizione, l'ombra si spense per sempre. E, insieme a lei, l'inventore di giocattoli sentì che la vita lo abbandonava a poco a poco attraverso quella ferita fatale.
Quando Irene e Ismael emersero dalla porta principale con Simone incosciente tra le braccia, le fiamme ormai si affacciavano dai finestroni del terzo piano. In pochi secondi le vetrate esplosero una dopo l'altra, scatenando una tempesta di vetro ardente sul giardino. I ragazzi corsero fino al limitare del bosco e solo quando furono al riparo degli alberi si fermarono per guardarsi indietro.
Cravenmoore bruciava.
13. Le luci di settembre
A una a una, tutte le meravigliose creature che avevano popolato l'universo di Lazarus Jann furono distrutte dalle fiamme quella notte del 1937. Gli orologi parlanti videro le loro lancette piegarsi in filamenti di piombo incandescente. Ballerine e orchestre, maghi, streghe e giocatori di scacchi, prodigi che non avrebbero più visto la luce del giorno: non ci fu pietà per nessuno. Piano dopo piano, stanza dopo stanza, lo spirito della distruzione cancellò per sempre tutto ciò che conteneva quel luogo magico e terribile.
Decenni di fantasia scomparvero, lasciandosi alle spalle solo una scia di cenere. In qualche parte di quell'inferno, senza altri testimoni che le fiamme, si consumarono le fotografie e i ritagli accumulati da Lazarus Jann, e mentre le auto della polizia giungevano ai piedi di quel fantasmagorico falò che accendeva l'alba a mezzanotte, gli occhi di quel bambino tormentato si chiusero per sempre in una stanza in cui non c'erano mai stati, né ci sarebbero stati mai, giocattoli.
Ismael non avrebbe più dimenticato gli ultimi istanti di Lazarus e della sua compagna. L'ultima cosa che era riuscito a vedere era stata il bacio che le aveva dato sulla fronte. Allora giurò a se stesso che avrebbe serbato quel segreto fino alla fine dei suoi giorni.
Le prime luci del giorno avrebbero rivelato una nube di cenere che cavalcava verso l'orizzonte sopra la baia purpurea. Lentamente, mentre l'alba spargeva la bruma sulla Spiaggia dell'Inglese, le rovine di Cravenmoore si disegnarono sulle cime degli alberi, al di là del bosco. La scia di spirali evanescenti di fumo smorto saliva verso il cielo, tracciando sentieri di velluto nero sulle nubi, sentieri interrotti soltanto da stormi di uccelli che volavano verso ovest.
Il sipario della notte si rifiutava di aprirsi e la nebbiolina ramata che velava l'isolotto del faro in lontananza si andò diradando in un miraggio di ali nivee che spiccavano il volo nella brezza dell'alba.
Seduti sul manto di sabbia bianca, a metà strada verso nessun luogo, Irene e Ismael contemplavano gli ultimi minuti di quella lunga notte dell'estate del 1937. In silenzio, unirono le mani e lasciarono che i primi riflessi rosati del sole che si affacciava tra le nubi disegnassero un sentiero di perle ardenti verso il largo. La torre del faro si erse in mezzo alla nebbia, oscura e solitaria. Un debole sorriso affiorò sulle labbra di Irene quando capì che, in qualche modo, quelle luci che gli abitanti del luogo avevano visto brillare nella nebbia adesso si sarebbero spente per sempre. Le luci di settembre erano sparite insieme all'alba.
Più nulla, nemmeno il ricordo degli eventi di quell'estate, avrebbe potuto trattenere sospesa nel tempo l'anima perduta di Alma Maltisse. Mentre questi pensieri si perdevano nella marea, Irene guardò Ismael.
L'avvisaglia di una lacrima le spuntò negli occhi, ma la ragazza seppe che non l'avrebbe mai versata.
«Torniamo a casa» disse lui.
Irene annuì e insieme presero la via del ritorno verso la Casa del Capo, camminando lungo la riva. Un solo pensiero attraversò la mente della ragazza. In un mondo di luci e ombre, ciascuno di noi doveva trovare la propria strada.
Alcuni giorni dopo, quando Simone le avrebbe rivelato le parole dell'ombra, la vera storia di Lazarus Jann e Alma Maltisse, tutte le tessere del rompicapo avrebbero iniziato ad andare al loro posto.
Tuttavia, il fatto di poter gettare luce su ciò che era davvero accaduto non avrebbe cambiato il corso degli eventi. La maledizione aveva perseguitato Lazarus Jann dalla sua tragica infanzia fino alla morte.
Una morte che lui stesso, nell'ultimo istante, aveva scelto come unica via d'uscita. Non gli restava ormai altro da fare se non quell'ultimo viaggio per riunirsi con Alma sfuggendo all'ombra e al maleficio di quello sconosciuto imperatore delle tenebre che si nascondeva dietro il nome di Daniel Hoffmann.
Nemmeno lui, con tutto il suo potere e i suoi inganni, avrebbe mai potuto distruggere il legame che univa Lazarus e Alma, al di là della vita e della morte.
Parigi, 26 maggio 1947
Caro Ismael,
è passato molto tempo dal 'ultima volta che ti ho scritto. Troppo. Al a fine, solo una settimana fa, è successo il miracolo.
Tutte le lettere che in questi anni avevi spedito al mio vecchio indirizzo mi sono arrivate grazie al a bontà di una vicina, una povera anziana di novant'anni!, che le ha conservate per tutto questo tempo, sperando che un giorno qualcuno andasse a ritirarle.
In questi giorni le ho lette, rilette e poi ancora rilette, fino a non poterne più. Le ho conservate come il più prezioso dei miei tesori. Le ragioni del mio silenzio, di questa lunga assenza, mi risultano difficili da spiegare. Specialmente a te, Ismael. Specialmente a te.
Quei due ragazzi sul a spiaggia non immaginavano che, la mattina in cui l'ombra di Lazarus Jann si spense per sempre, un'ombra molto più terribile incombesse sul mondo. L'ombra dell'odio. Presumo che tutti abbiamo pensato a quelle parole riguardo a Daniel Hoffmann e al suo "lavoro" a Berlino.
Quando, durante i terribili anni di guerra, ho perso i contatti con te, ti ho scritto centinaia di lettere che non sono mai arrivate da nessuna parte. Mi chiedo ancora dove si trovino, dove siano andate a finire tante parole, tante cose che avevo da dirti. Voglio che tu sappia che, durante quei terribili tempi di oscurità, il tuo ricordo, la memoria di quell'estate a Baia Azzurra, è stata la fiamma che mi ha tenuta in vita, la forza che mi ha aiutato a sopravvivere giorno dopo giorno.
Saprai che Dorian si è arruolato e ha combattuto per due anni nell'Africa del Nord, da dove è tornato con un mucchio di assurde medaglie di latta e con una ferita che lo farà zoppicare per il resto dei suoi giorni. È stato uno dei fortunati. È
tornato. Ti ral egrerà sapere che, al a fine, ha trovato lavoro nel dipartimento di cartografia della marina mercantile e che, nei momenti che la sua fidanzata Michelle (dovresti vederla. .) gli lascia liberi, percorre il mondo da cima a fondo con il suo compasso.
Di Simone, cosa ti posso raccontare? Invidio la sua forza e quel a sua integrità che tante volte ci ha permesso di tirare avanti. Gli anni della guerra sono stati duri per lei, forse più che per noi. Non ne parla mai, ma a volte, quando la vedo silenziosa, accanto al a finestra, a guardare la gente che passa, mi chiedo quali siano i suoi pensieri.
Non vuole più uscire di casa e trascorre le ore con l'unica compagnia di un libro. È come se fosse passata dal 'altra parte di un ponte, dove non so come arrivare.. A volte, la sorprendo a osservare vecchie foto di papà e a piangere in silenzio.
Quanto a me, sto bene. Un mese fa ho lasciato l'ospedale di Saint-Bernard, dove ho lavorato in questi anni. Lo abbatteranno. Spero che, con il vecchio edificio, scompaiano anche tutti i ricordi delle sofferenze e dell'orrore a cui ho assistito nei giorni della guerra. Credo che nemmeno io sono più la stessa, Ismael. Qualcosa è successo dentro di me.
Ho visto tante cose che non avrei mai immaginato potessero accadere.. Ci sono ombre nel mondo, Ismael. Ombre molto peggiori di qualunque cosa contro la quale tu e io abbiamo combattuto quella notte a Cravenmoore. Ombre al cui paragone Daniel Hoffmann è solo un gioco da bambini. Ombre che provengono dal 'interno di ognuno di noi.
A volte mi ral egro del fatto che papà non sia qui a vederle. Ma penserai che sono diventata una nostalgica. Per nul a.
Non appena letta la tua ultima lettera, ho sentito un tuffo al cuore. Era come se il sole fosse spuntato dopo dieci anni di giornate nere e piovose. Ho ripercorso la Spiaggia dell'Inglese, l'isola del faro, e ho solcato di nuovo la baia a bordo del Kyaneos. Ricorderò sempre quei giorni come i più meravigliosi della mia vita.
Ti confesserò un segreto. Molte volte, nelle lunghe notti degli inverni di guerra, mentre gli spari e le urla risuonavano nel buio, lasciavo che i pensieri mi portassero ancora lì, accanto a te, al giorno che trascorremmo sul 'isolotto del faro. Magari non fossimo mai andati via da lì. Magari quel giorno non fosse mai finito.
Immagino che ti chiederai se mi sono sposata. La risposta è no. Non mi sono mancati pretendenti, non credere. Sono ancora una ragazza che ha un certo successo. Ci sono stati dei fidanzati. Meteore. I giorni di guerra erano molto duri da passare in solitudine, e io non sono forte quanto Simone.
Ma niente di più. Ho imparato che a volte la solitudine è un sentiero che conduce al a pace. E per mesi non ho desiderato altro: pace.
E questo è tutto. O nul a. Come spiegarti tutti i miei sentimenti, tutti i miei ricordi durante questi anni? Preferirei cancellarli d'un colpo. Vorrei che il mio ultimo ricordo fosse quell'alba sul a spiaggia e scoprire che tutto questo tempo non è stato altro che un lungo incubo. Vorrei essere di nuovo una ragazza di quindici anni e non capire il mondo che mi circonda, ma non è possibile. Non voglio più continuare a scrivere. Voglio che la prossima volta che parleremo sia faccia a faccia.
Tra una settimana Simone andrà a passare un paio di mesi con sua sorel a ad Aix-en-Provence. Quel giorno stesso tornerò al a stazione di Austerlitz e prenderò il treno per la Normandia, come dieci anni fa. So che mi aspetterai e so che ti riconoscerò tra la gente, come ti riconoscerei anche se fossero passati mil e anni. Lo so da molto tempo.
Un'eternità fa, nei peggiori giorni della guerra, ho fatto un sogno. Tornavo a camminare sul a Spiaggia dell'Inglese con te. Il sole tramontava e fra la bruma si scorgeva l'isolotto del faro. Tutto era come prima: la Casa del Capo, la baia. .
perfino le rovine di Cravenmoore oltre il bosco. Tutto tranne noi. Eravamo due vecchietti. Tu non ce la facevi più ad andare per mare e io avevo i capelli così bianchi che sembravano cenere. Ma eravamo insieme.
Da quella notte ho saputo che un giorno, non importava quando, sarebbe giunto il nostro momento. Che in un luogo lontano le luci di settembre si sarebbero accese per noi e che, stavolta, non ci sarebbero più state ombre sul a nostra strada.
Stavolta sarebbe stato per sempre.
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Questo volume è stato stampato
presso Mondadori Printing S.p.A.
Stabilimento Nuova Stampa Mondadori - Cles (TN).
Stampato in Italia - Printed in Italy.