L’ANELLO DI ERRETH-AKBE

Nel Grande Tesoro delle Tombe di Atuan, il tempo non passava. Non c’era luce, né vita, neppure il movimento di un ragno nella polvere o di un verme nella fredda terra. Pietra, e tenebra, e il tempo che non passava.

Il ladro venuto dalle Terre Interne giaceva sul coperchio di pietra di uno dei grandi scrigni, riverso come una figura scolpita su una tomba. La polvere sollevata dai suoi movimenti era ricaduta sui suoi panni. Non si muoveva.

La serratura sferragliò. La porta si aprì. La luce infranse la profonda tenebra e un soffio di corrente più pura agitò l’aria morta. L’uomo rimase a giacere, inerte.

Arha chiuse la porta e girò la chiave dall’interno; poi posò la lanterna su un cofano e si avvicinò lentamente alla figura immota. Si muoveva con timore e aveva gli occhi spalancati, con le pupille ancora dilatate per il lungo percorso attraverso la notte.

— Sparviero!

Gli toccò la spalla e pronunciò ancora il suo nome, e un’altra volta ancora.

Finalmente lui si mosse, con un gemito. Si sollevò a sedere, col volto tirato e gli occhi spenti. La guardò senza riconoscerla.

— Sono io, Arha… Tenar. Ti ho portato l’acqua. Ecco, bevi.

Lui afferrò la borraccia brancolando, come se avesse le mani intorpidite, e bevve, ma non molto.

— Quanto tempo è passato? — domandò. Parlava con difficoltà.

— Sono trascorsi due giorni da quando sei venuto in questa camera. È la terza notte. Non ho potuto venire prima. Ho dovuto rubare il cibo. Eccolo… — Arha estrasse una delle piatte pagnotte grige dal sacco che aveva portato, ma lui scosse la testa.

— Non ho fame. Questo… questo è un luogo mortale. — Si strinse la testa fra le mani e restò immobile.

— Hai freddo? Ho portato il mantello dalla Camera Dipinta.

L’uomo non rispose.

Lei depose il mantello e restò a guardarlo. Tremava un poco, e i suoi occhi erano ancora neri e spalancati.

All’improvviso si lasciò cadere in ginocchio sul pavimento, piegandosi su se stessa, e incominciò a piangere, con singhiozzi profondi che le squassavano tutto il corpo ma non portavano lacrime.

Il giovane scese dal cofano, con movimenti rigidi, e si chinò su di lei. — Tenar…

— Io non sono Tenar. Io sono Arha. Gli dèi sono morti, gli dèi sono morti.

Lui le posò le mani sulla testa, spingendo all’indietro il cappuccio. Cominciò a parlare. La sua voce era sommessa, e le parole appartenevano a una lingua che lei non aveva mai udito. Quel suono le scendeva nel cuore come una pioggia. Si calmò, per ascoltare.

Quando lei tacque, il giovane la sollevò come una bambina e la depose sul grande cofano di pietra su cui era stato a giacere. Mise una mano sulla mano di lei.

— Perché piangevi, Tenar?

— Te lo dirò. Ciò che ti dirò non ha importanza. Tu non puoi far nulla. Non puoi aiutarmi. Anche tu stai morendo, non è vero? Quindi non ha importanza. Nulla ha più importanza. Kossil, la sacerdotessa del re-dio, è sempre stata crudele, ha sempre cercato di costringermi a ucciderti. Come ho ucciso gli altri. E io non volevo. Che diritto ne ha, lei? E ha sfidato i Senza Nome e si è fatta beffe di loro, e io le ho scagliato una maledizione. E da allora ho paura di lei, perché è vero ciò che ha detto Manan: lei non crede negli dèi. Lei vuole che vengano dimenticati; e vorrebbe uccidermi nel sonno. Perciò non ho dormito. Non sono ritornata nella Casa Piccola. Sono rimasta nel palazzo tutta l’altra notte, in una delle soffitte, dove sono custoditi gli abiti della danza. Prima che facesse chiaro, sono andata alla Casa Grande e ho rubato un po’ di cibo in cucina, e poi sono ritornata nel palazzo e ci sono rimasta tutto il giorno. Cercavo di scoprire cosa dovevo fare. E questa notte… questa notte ero così stanca che ho pensato di andare in un luogo sacro per dormire, perché forse lei avrebbe avuto paura di venirci. Allora sono scesa nella cripta. La grande caverna dove ti ho visto per la prima volta. E… e lei era là. Doveva essere entrata dalla porta delle rocce rosse. Era là, con una lanterna. Raspava nella fossa che aveva scavato Manan, per vedere se dentro c’era un cadavere. Come un ratto in un cimitero, un grande ratto grasso, e scavava. E la luce ardeva nel Luogo Sacro, il luogo tenebroso. E i Senza Nome non hanno fatto nulla. Non l’hanno uccisa e non le hanno tolto la ragione. Sono vecchi, come ha detto lei. Sono morti. Sono spariti tutti. Non sono più sacerdotessa.

L’uomo ascoltava, con la mano ancora posata sulla mano di lei e la testa un po’ reclinata. Un certo vigore era ritornato nel suo volto e nel suo portamento, sebbene le cicatrici sulla guancia spiccassero di un grigiore livido e ci fosse ancora polvere sui suoi indumenti e sui suoi capelli.

— L’ho aggirata, passando attraverso la cripta. La sua candela gettava più ombre che luce, e non mi ha sentita. Volevo andare nel labirinto per allontanarmi da lei. Ma quando vi sono entrata, ho continuato ad avere la sensazione di udire i suoi passi che mi seguivano. Per tutti i corridoi ho continuato a sentire qualcuno dietro di me. E non sapevo dove andare. Pensavo che sarei stata al sicuro, qui, pensavo che i miei Padroni mi avrebbero protetta e difesa. Ma non lo fanno, non ci sono più, sono morti…

— Era per loro che piangevi… per la loro morte? Ma loro sono qui, Tenar, qui!

— E come puoi saperlo? — chiese lei, apatica.

— Perché in ogni istante, da quando ho messo piede nella caverna sotto le Pietre Tombali, ho lottato per tenerli immobili, per mantenerli ignari. Tutte le mie facoltà sono impegnate, e in questo ho consumato la mia forza. Ho riempito queste gallerie con una rete interminabile di incantesimi, incantesimi di sonno, di silenzio, di occultamento: eppure sono ancora consapevoli di me, semiconsapevoli. E anche così sono quasi completamente sfinito dalla lotta contro di loro. Questo è un luogo terribile. Un uomo solo, qui, non ha speranza. Io stavo morendo di sete, quando tu mi hai dato l’acqua, eppure non è stata soltanto l’acqua a salvarmi. È stata la forza delle mani che me la porgevano. — E mentre diceva questo, il giovane girò la mano di lei a palmo in su e la guardò; poi si scostò, percorse qualche passo nella camera, e tornò nuovamente a fermarsi davanti a lei. Lei non disse nulla.

— Pensi davvero che siano morti? In cuor tuo sai benissimo che non è così. Loro non muoiono. Sono tenebrosi e immortali, e odiano la luce: la breve, fulgida luce della nostra mortalità. Sono immortali, ma non sono dèi. Non lo sono mai stati. Non meritano la devozione di nessuna anima umana.

Lei ascoltava, con gli occhi pesanti e lo sguardo fisso sulla lanterna agonizzante.

— Cosa ti hanno mai dato, Tenar?

— Nulla — mormorò lei.

— Non hanno nulla da dare. Non hanno il potere di creare. Il loro potere consiste nell’ottenebrare e nel distruggere. Non possono lasciare questo luogo: loro sono questo luogo; e si dovrebbe lasciarlo a loro. Non si dovrebbe rinnegarli né dimenticarli, ma non si dovrebbe neppure adorarli. La terra è bellissima, e luminosa, e mite, ma non è tutto. La terra è anche terribile, e tenebrosa, e crudele. Il coniglio grida, morendo nei prati verdi. Le montagne contraggono le grandi mani piene di fuoco nascosto. Ci sono squali nel mare, e c’è crudeltà negli occhi degli uomini. E dove gli uomini venerano queste cose e si prosternano davanti a loro, là scaturisce il male: si creano nel mondo luoghi dove si addensa la tenebra, luoghi consegnati completamente a coloro che noi chiamiamo Senza Nome, le antiche e sacre Potenze della Terra prima che venisse la Luce, le potenze della tenebra, della rovina, della follia… Io credo che abbiano fatto impazzire la tua sacerdotessa Kossil già da molto tempo: credo che lei si aggiri in queste caverne come si aggira nei labirinti del suo io, e che ormai non possa più vedere la luce del giorno. Ti ha detto che i Senza Nome sono morti: soltanto un’anima perduta, perduta alla verità, può crederlo. Loro esistono. Ma non sono i tuoi padroni. Non lo sono mai stati. Tu sei libera, Tenar. Ti avevano insegnato a essere una schiava, ma ti sei liberata.

Lei ascoltava, sebbene la sua espressione non mutasse. L’uomo non disse altro. Rimasero in silenzio; ma non era il silenzio che c’era stato in quella camera prima che lei vi entrasse. Adesso c’era il loro respiro, e il movimento della vita nelle loro vene, e la candela che ardeva nella sua lanterna di stagno, un piccolo suono vitale.

— Come sai il mio nome?

L’uomo camminava avanti e indietro nella camera, sollevando la finissima polvere, stiracchiandosi le braccia e le spalle per liberarsi dal freddo che l’intorpidiva.

— Conoscere i nomi è il mio mestiere. La mia arte. Per intessere la magia di una cosa, vedi, è necessario scoprire il suo vero nome. Nelle mie terre teniamo segreto il nostro nome per tutta la vita, lo nascondiamo a tutti tranne a coloro di cui ci fidiamo completamente: perché in un nome ci sono un grande potere e un grande pericolo. Una volta, all’inizio del tempo, quando Segoy fece emergere le isole di Earthsea dalle profondità dell’oceano, tutte le cose portavano il loro vero nome. E tutte le opere della magia sono ancora imperniate sulla conoscenza (la riscoperta, il ricordo) di quell’antica e vera lingua della creazione. Ci sono da apprendere gli incantesimi, naturalmente, i modi di usare le parole; ed è necessario anche conoscere le conseguenze. Ma un mago dedica la vita a scoprire i nomi delle cose, e a scoprire i modi di scoprire quei nomi.

— Come hai scoperto il mio?

Lui la guardò per un momento, uno sguardo profondo e limpido attraverso le ombre. Esitò un istante. — Questo non posso dirtelo. Tu sei come una lanterna coperta e avviluppata, e nascosta in un luogo buio. Eppure la luce risplende: la luce non hanno potuto spegnerla. Non potevano nasconderti. Come conosco la luce, come conosco te, così conosco il tuo nome, Tenar. Questo è il mio dono, il mio potere. Non posso dirti altro. Ma tu dimmi: cosa farai, adesso?

— Non lo so.

— Ormai Kossil avrà trovato una fossa vuota. Cosa farà?

— Non lo so. Se ritorno lassù, lei mi farà uccidere. Per una somma sacerdotessa, mentire è la morte. Potrebbe farmi sacrificare sui gradini del trono, se volesse. E Manan dovrebbe mozzarmi davvero la testa, questa volta, invece di limitarsi ad alzare la spada e ad attendere che la Figura Tenebrosa lo arresti. Questa volta la spada non si fermerebbe: scenderebbe e mi taglierebbe la testa.

La voce di Arha era opaca e lenta. L’uomo aggrottò la fronte. — Se rimarremo qui a lungo — disse, — tu impazzirai. La collera dei Senza Nome pesa sulla tua mente. E sulla mia. Ora che tu sei qui è meglio, molto meglio. Ma è trascorso tanto tempo prima che tu tornassi, e io ho consumato gran parte della mia forza. Nessuno può resistere a lungo ai Tenebrosi, da solo. Sono fortissimi. — S’interruppe: aveva abbassato la voce, e sembrava che avesse perso il filo del discorso. Si passò le mani sulla fronte, e poco dopo andò a bere un altro sorso dalla borraccia. Spezzò un po’ di pane e si sedette, per mangiarlo, sul cofano di fronte.

Ciò che aveva detto era vero: lei sentiva un peso, un’oppressione nella mente che sembrava oscurare e confondere ogni pensiero e ogni sentimento. Eppure non era terrorizzata, come lo era stata quando aveva percorso da sola i corridoi. Soltanto il silenzio assoluto fuori dalla camera le sembrava terribile. Perché era così? Lei non aveva mai temuto il silenzio sotterraneo, prima. Ma prima non aveva mai disubbidito ai Senza Nome, non li aveva mai contrastati.

Alla fine proruppe in una piccola risata lamentosa. — Ce ne stiamo qui, seduti sul più grande tesoro dell’impero — disse. — Il re-dio darebbe tutte le sue mogli per averne uno scrigno. E noi non abbiamo neppure sollevato un coperchio per guardare.

— Io l’ho fatto — disse lo Sparviero, masticando.

— Al buio?

— Ho acceso una piccola luce. La luce incantata. È stato difficile, qui. Sarebbe stato difficile anche se avessi avuto il mio bastone; e senza quello è stato come cercare di accendere un fuoco con legna bagnata, sotto la pioggia. Ma alla fine ci sono riuscito. E ho trovato ciò che cercavo.

Lei alzò il volto, lentamente, per guardarlo. — L’anello?

— Il mezzo anello. Tu hai l’altra metà.

— Io? L’altra metà andò perduta…

— Ed è stata ritrovata. Io la portavo al collo, appesa a una catena. Tu me l’hai presa, e mi hai chiesto se non potevo permettermi un talismano migliore. L’unico talismano migliore della metà dell’Anello di Erreth-Akbe è l’Anello intero. Ma del resto, come dicono, mezza pagnotta è meglio che niente. Perciò ora tu hai la mia metà, e io ho la tua. — Lui le sorrise, attraverso le ombre della tomba.

— Quando l’ho preso, tu mi hai detto che non avrei saputo cosa farne.

— Era vero.

— E tu lo sai?

Lui annuì.

— Dimmi. Dimmi cos’è l’anello, e come hai trovato la metà perduta, e come sei venuto qui, e perché. Devo sapere tutto questo: forse allora capirò cosa devo fare.

— Forse. Sta bene. Cos’è l’Anello di Erreth-Akbe? Ecco, puoi vedere che non sembra un oggetto prezioso e non è neppure un anello. È troppo grande. Forse è un bracciale, eppure sembra troppo piccolo per esserlo. Nessuno sa perché venne fabbricato. Una volta lo portò Elfarran la Bionda, prima che l’isola di Soléa sprofondasse nel mare; ed era già antico quando lei lo portava. Alla fine pervenne nelle mani di Erreth-Akbe. Il metallo è argento duro, trapassato da nove fori. All’esterno c’è un disegno graffito, come un motivo di onde, e all’interno ci sono nove simboli del Potere. La metà che hai tu ne porta quattro e un frammento di un quinto; e anche la mia metà. La frattura spezzò quel simbolo e lo distrusse. Da allora viene chiamato il Simbolo Perduto. Gli altri otto sono noti ai maghi: Pirr che protegge dalla follia e dal vento e dal fuoco, Ges che dona costanza, e così via. Ma il simbolo spezzato era quello che legava le terre. Era la Runa del Vincolo, il segno del dominio, il segno della pace. Nessun re poteva regnare bene se non governava sotto quel segno. Nessuno sa come sia scritto. Da quando è andato perduto, ad Havnor non ci sono più stati grandi re. Ci sono stati principi e tiranni, e guerre e conflitti tra tutte le isole di Earthsea.

«Perciò i saggi nobili e i maghi dell’arcipelago volevano l’Anello di Erreth-Akbe, per ricostruire il simbolo perduto. Ma alla fine rinunciarono a inviare i loro uomini a cercarlo, poiché nessuno poteva prendere una metà dalle Tombe di Atuan; e l’altra metà, che Erreth-Akbe aveva donato a un re di Kargad, era andata perduta da molto tempo. Dicevano che era inutile cercarla. Questo avveniva molti secoli fa.

«A questo punto, entro in scena io. Quando ero un poco più vecchio di quanto sia tu ora, ero impegnato in un… inseguimento, una specie di caccia attraverso il mare. Ciò che inseguivo mi sfuggì con l’inganno, e venni gettato su un’isola deserta, non lontano dalle coste di Karego-At e di Atuan, a sudovest di qui. Era un’isoletta, non molto più grande di una barena di sabbia, con lunghe dune erbose al centro e una fonte d’acqua salmastra, e null’altro.

«Eppure vi vivevano due persone. Un vecchio e una vecchia: fratello e sorella, credo. Avevano terrore di me. Non vedevano una faccia umana da… da quanto tempo? Anni, decine di anni. Ma io avevo bisogno di aiuto e furono buoni con me. Avevano una capanna costruita col legno gettato a riva dal mare, e un fuoco. La vecchia mi diede da mangiare i mitili che strappava dalle pietre alla bassa marea e la carne secca degli uccelli marini che loro uccidevano scagliando sassi. La vecchia aveva paura di me, ma mi diede da mangiare. Poi, quando vide che non facevo nulla di spaventoso, finì col fidarsi di me e mi mostrò il suo tesoro. Anche lei aveva un tesoro… Era un vestitino. Tutto di seta, ricamato di perle. Un vestito da bimba, l’abito di una principessina. E lei era vestita di pelli di foca non conciate.

«Non potevamo parlarci. Allora io non conoscevo la lingua di Kargad, e loro non conoscevano nessuna delle lingue dell’arcipelago e sapevano ben poco anche la loro. Dovevano essere stati portati lì da bambini, e abbandonati a morire. Non so perché, e credo che neppure loro lo sapessero. Non conoscevano altro che l’isola e il vento e il mare. Ma quando me ne andai, la vecchia mi fece un dono. Mi diede la metà perduta dell’Anello di Erreth-Akbe». Tacque per qualche istante.

— Allora non sapevo cosa fosse, come non lo sapeva lei. Il più grande dono di quest’epoca del mondo, ed era stato dato da una povera vecchia sciocca vestita di pelli di foca a uno stupido che se lo cacciò in tasca, disse «Grazie!» e se ne andò… Ebbene, proseguii il mio viaggio e feci ciò che dovevo fare. E poi avvennero altre cose, e io andai alle isole dei Draghi, a occidente, e così via. Ma continuai a tenere l’oggetto, perché provavo gratitudine per la vecchia che mi aveva dato l’unico dono che aveva da dare. Infilai una catenina attraverso uno dei fori, e la portai senza pensarci più. E poi un giorno, a Selidor, l’Isola Estrema, la terra dove Erreth-Akbe morì combattendo con il drago Orm… a Selidor parlai con un drago, un discendente di Orm. E lui mi disse cosa portavo sul petto.

«Gli sembrava molto buffo che io non lo sapessi. I draghi ci giudicano divertenti. Ma ricordano Erreth-Akbe: parlano di lui come se fosse stato un drago, non un uomo.

«Quando ritornai alle Isole Interne, mi recai finalmente a Havnor. Sono nato su Gont, che si trova non molto lontano dalle vostre terre di Kargad, verso occidente, e avevo viaggiato molto, ma non ero mai stato a Havnor. Era tempo che mi recassi là. Vidi le bianche torri, e parlai con gli uomini importanti, i mercanti e i principi e i nobili di quegli antichi dominii. Dissi loro cos’avevo con me. Dissi che, se volevano, sarei andato a cercare l’altra metà dell’anello nelle Tombe di Atuan, per trovare la Prima Runa, la chiave della pace. Perché al mondo abbiamo un disperato bisogno di pace. Quelli mi fecero grandi lodi; e uno mi fornì perfino il denaro per approvvigionare la mia barca. Perciò imparai la vostra lingua e venni ad Atuan».

Il giovane tacque, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, nelle ombre.

— Ma gli abitanti delle nostre città non ti hanno riconosciuto per occidentale dal colore della pelle e dal modo di parlare?

— Oh, è facile ingannare la gente — disse lui, in tono quasi distratto. — Basta saper come fare. Si possono operare mutamenti illusori, e nessuno, eccettuato un altro mago, li riconoscerà per ciò che sono. E qui, nelle terre di Kargad, voi non avete né maghi né incantatori. È strano. Avete bandito tutti i vostri maghi tanto tempo fa, e avete vietato l’esercizio dell’arte magica; e ormai, quasi non ci credete più.

— A me è stato insegnato a non crederci. È contrario agli insegnamenti dei re-sacerdoti. Ma io so che soltanto la magia poteva portarti alle tombe e aiutarti ad entrare dalla porta delle rocce rosse.

— Non soltanto la magia, ma anche le informazioni utili. Noi ci serviamo della scrittura molto più di voi, credo. Tu sai leggere?

— No. È una delle arti nere.

Lui annuì. — Ma è utile — disse. — Un antico ladro sfortunato lasciò certe descrizioni delle Tombe di Atuan, e le istruzioni per entrare, per chi fosse stato in grado di usare uno dei Grandi Incantesimi d’Apertura. Tutto questo era scritto in un libro conservato nel tesoro di un principe di Havnor. Lui mi permise di leggerlo. Perciò sono arrivato fino alla grande caverna…

— La cripta.

— Il ladro che descrisse il modo per entrare era convinto che il tesoro si trovasse nella cripta. Perciò avevo cercato lì, ma avevo la sensazione che dovesse essere nascosto meglio, più lontano, in quei meandri. Sapevo dov’era l’ingresso del labirinto, e quando ti ho vista sono andato là, pensando di nascondermi nel dedalo e di perlustrarlo. È stato un errore, naturalmente. I Senza Nome mi avevano già in pugno, e avevano confuso la mia mente. E da allora sono diventato sempre più debole e più stupido. Non ci si deve sottomettere a loro, si deve resistere, mantenere sempre forte e sicuro il proprio spirito. Questo l’ho imparato molto tempo fa. Ma è molto difficile riuscirci, qui, dove loro sono tanto potenti. Non sono dèi, Tenar. Ma sono più forti di qualunque uomo.

Rimasero a lungo in silenzio.

— Cos’altro hai trovato nei cofani del tesoro? — chiese lei, con voce spenta.

— Cianfrusaglie. Oro, gemme, corone, spade. Nulla che possa essere rivendicato da un uomo vivente… Dimmi una cosa, Tenar: come sei stata scelta per diventare Sacerdotessa delle Tombe?

— Quando muore la Prima Sacerdotessa, vanno a cercare in tutto Atuan una bambina nata la notte in cui la sacerdotessa è morta. E la trovano sempre, perché è la sacerdotessa rinata. Quando la bambina compie cinque anni la conducono qui, al Luogo. E quando compie sei anni viene data ai Tenebrosi, che divorano la sua anima. Perciò appartiene a loro, come è sempre appartenuta a loro fin dall’inizio del tempo. E non ha nome.

— Tu lo credi?

— L’ho sempre creduto.

— Lo credi anche ora?

Lei non disse nulla.

Ancora una volta, scese tra loro il silenzio carico d’ombre. Dopo molto tempo, lei disse: — Parlami… parlami dei draghi che vivono a occidente.

— Tenar, cosa vuoi fare? Non possiamo rimanere qui a raccontarci storie fino a quando la candela si consumerà completamente e ritornerà la tenebra.

— Non so cosa fare. Ho paura. — Lei sedeva eretta sul cofano di pietra, con le mani strette convulsamente una nell’altra, e parlava a voce alta, sofferente. Disse: — Ho paura dell’oscurità.

Lui replicò a bassa voce: — Devi compiere una scelta. O mi lasci, chiudi la porta, risali ai tuoi altari e mi consegni ai tuoi Padroni, e poi vai dalla sacerdotessa Kossil e ti riconcili con lei… e tutto finisce. Oppure apri la porta e ne esci insieme a me. Lasci le Tombe, lasci Atuan, e vieni con me oltremare. E tutto incomincia. Devi essere Arha o Tenar. Non puoi essere l’una e l’altra.

La sua voce profonda era gentile e sicura. Lei guardò attraverso le ombre quel volto, che era duro e sfigurato ma che non esprimeva crudeltà né inganno.

— Se lascio il servizio dei Tenebrosi, loro mi uccideranno. Se lascio questo luogo, morirò.

— Non morirai. Morirà Arha.

— Non posso…

— Per rinascere bisogna morire, Tenar. Non è tanto difficile come sembra, quando si guarda dall’altra parte.

— Loro non mi lascerebbero uscire. Mai.

— Forse no. Tuttavia vale la pena di tentare. Tu possiedi la conoscenza e io possiedo l’arte, e io e te abbiamo… — Lui indugiò.

— L’Anello di Erreth-Akbe.

— Sì, l’Anello. Ma io pensavo anche a una cosa che esiste tra noi. Chiamala fiducia… È uno dei suoi nomi. È una cosa molto grande. Sebbene ognuno di noi, da solo, sia debole, insieme siamo forti, più forti delle Potenze delle Tenebre. — Gli occhi dell’uomo erano limpidi e fulgidi nel volto sfigurato. — Ascolta, Tenar! — disse. — Sono venuto qui come un ladro, un nemico, armato contro di te; e tu hai avuto misericordia, e ti sei fidata di me. E io mi sono fidato di te fin dalla prima volta che ho scorto il tuo volto, per un momento, nelle grotte sotto le tombe, bellissimo nell’oscurità. Tu hai dimostrato di avere fiducia in me. Io non ti ho ricambiata. Ti darò ciò che ho da dare. Il mio vero nome è Ged. E questo è tuo, perché tu lo tenga. — Si era alzato: le porse un semicerchio d’argento scolpito e traforato. — Ricongiungiamo l’anello — disse.

Lei lo prese. Si sfilò dal collo la catena d’argento cui era appesa l’altra metà, e la staccò. Posò i due pezzi nel palmo della mano, in modo che gli orli frantumati si toccassero, e l’Anello sembrò intatto.

Non alzò il volto.

— Verrò con te — disse.

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