INTRODUZZIONE DI MESSER GIORGIO VASARI PITTORE ARETINO ALLE TRE ARTI DEL DISEGNO CIOÈ ARCHITETTURA PITTURA E SCOLTURA E PRIMA DELL'ARCHITETTURA


DELL'ARCHITETTURA


Cap. I. Delle diverse pietre che servono agl'architetti per gl'ornamenti, e per le statue della scoltura.


Quanto sia grande l'utile che ne apporta l'architettura non accade a me raccontarlo, per trovarsi molti scrittori i quali diligentissimamente et a lungo n'hanno trattato. E per questo lasciando da una parte le calcine, le arene, i legnami, i ferramenti e 'l modo del fondare, e tutto quello che si adopera alla fabrica, e l'acque, le regioni e i siti largamente già descritti da Vitruvio e dal nostro Leon Batista Alberti, ragionerò solamente per servizio de' nostri artefici e di qualunque ama di sapere, come debbano essere universalmente le fabriche e quanto di proporzione unite e di corpi, per conseguire quella graziata bellezza che si desidera; brevemente raccorrò insieme tutto quello che mi parrà necessario a questo proposito.

Et acciò che più manifestamente apparisca la grandissima difficultà del lavorar delle pietre che son durissime e forti, ragioneremo distintamente ma con brevità, di ciascuna sorte di quelle che maneggiano i nostri artefici.

E primieramente del porfido. Questo è una pietra rossa con minutissimi schizzi bianchi, condotta nell'Italia già dall'Egitto, dove comunemente si crede che nel cavarla ella sia più tenera che quando ella è stata fuori della cava alla pioggia al ghiaccio e al sole, perché tutte queste cose la fanno più dura e più difficile a lavorarla. Di questa se ne veggono infinite opere lavorate, parte con gli scarpelli, parte segate, e parte con ruote e con smerigli consumate a poco a poco; come se ne vede in diversi luoghi diversamente più cose, cioè quadri, tondi, et altri pezzi spianati per far pavimenti, e così statue per gli edifici, et ancora grandissimo numero di colonne e picciole e grandi, e fontane con teste di varie maschere intagliate con grandissima diligenza. Veggonsi ancora oggi sepolture con figure di basso e mezzo rilievo, condotte con gran fatica: come al tempio di Bacco fuor di Roma, a S. Agnesa, la sepoltura che e' dicono di S. Gostanza figliuola di Gostantino imperadore, dove son dentro molti fanciulli con pampani et uve, che fanno fede della difficultà ch'ebbe chi la lavorò nella durezza di quella pietra. Il medesimo si vede in un pilo a S. Giovanni Laterano vicino alla Porta Santa ch'è storiato, et èvvi dentro gran numero di figure. Vedesi ancora sulla piazza della Ritonda una bellissima cassa fatta per sepoltura, la quale è lavorata con grande industria e fatica, et è per la sua forma di grandissima grazia e di somma bellezza, e molto varia dall'altre. Et in casa di Egidio e di Fabio Sasso ne soleva essere una figura a sedere di braccia tre e mezzo, condotta a' dì nostri con il resto de l'altre statue in casa Farnese. Nel cortile ancora di casa La Valle sopra una finestra una lupa molto eccellente, e nel lor giardino i due prigioni legati, del medesimo porfido, i quali son quattro braccia d'altezza l'uno, lavorati dagli antichi con grandissimo giudicio, i quali sono oggi lodati straordinariamente da tutte le persone eccellenti, conoscendosi la difficultà che hanno avuto a condurli per la durezza della pietra.

A' dì nostri non s'è mai condotto pietre di questa sorte a perfezzione alcuna, per avere gli artefici nostri perduto il modo del temperare i ferri, e così gli altri stormenti da condurle. Vero è che se ne va segando con lo smeriglio rocchi di colonne e molti pezzi per accomodarli in ispartimenti per piani, e così in altri varii ornamenti per fabriche, andandolo consumando a poco a poco con una sega di rame senza denti, tirata dalle braccia di due uomini; la quale con lo smeriglio ridotto in polvere e con l'acqua che continuamente la tenga molle, finalmente pur lo ricide. E sebbene si sono in diversi tempi provati molti begli ingegni per trovare il modo di lavorarlo che usarono gli antichi, tutto è stato invano; e Leon Battista Alberti, il quale fu il primo che cominciasse a far pruova di lavorarlo, non però in cose di molto momento, non truovò, fra molti che ne mise in pruova, alcuna tempera che facesse meglio che il sangue di becco, perché sebbene levava poco di quella pietra durissima nel lavorarla e sfavillava sempre fuoco, gli servì nondimeno di maniera che fece fare nella soglia della porta principale di S. Maria Novella di Fiorenza le diciotto lettere antiche, che assai grandi e ben misurate si veggono dalla parte dinanzi in un pezzo di porfido, le quali lettere dicono Bernardo Oricellario. E perché il taglio dello scarpello non gli faceva spigoli, né dava all'opera quel pulimento e quel fine che le era necessario, fece fare un mulinello a braccia con un manico a guisa di stidione, che agevolmente si maneggiava, apontandosi uno il detto manico al petto, e nella inginocchiatura mettendo le mani per girarlo; e nella punta dove era o scarpello o trapano, avendo messo alcune rotelline di rame, maggiori e minori secondo il bisogno, quelle imbrattate di smeriglio, con levare a poco a poco e spianare facevano la pelle e gli spigoli, mentre con la mano si girava destramente il detto mulinello. Ma con tutte queste diligenze non fece però Leon Batista altri lavori; perché era tanto il tempo che si perdeva che, mancando loro l'animo, non si mise altramente mano a statue, vasi o altre cose sottili.

Altri poi che si sono messi a spianare pietre e rapezzar colonne col medesimo segreto, hanno fatto in questo modo: fannosi per questo effetto alcune martella gravi e grosse con le punte d'acciaio temperato fortissimamente col sangue di becco, e lavorato a guisa di punte di diamanti, con le quali picchiando minutamente in sul porfido, e scantonandolo a poco a poco il meglio che si può si riduce pur finalmente o a tondo o a piano, come più aggrada all'artefice, con fatica e tempo non picciolo; ma non già a forma di statue, che di questo non abbiamo la maniera; e se gli dà il pulimento con lo smeriglio e col cuoio strofinandolo, che viene di lustro molto pulitamente lavorato e finito. Ed ancor che ogni giorno si vadino più assottigliando gl'ingegni umani, e nuove cose investigando, nondimeno anco i moderni che in diversi tempi hanno per intagliar il porfido provato nuovi modi, diverse tempre et acciai ben purgati, hanno, come si disse di sopra, infino a pochi anni sono faticato invano.

E pur l'anno 1553, avendo il signor Ascanio Colonna donato a papa Giulio III una tazza antica di porfido bellissima larga sette braccia, il Pontefice per ornarne la sua vigna ordinò, mancandole alcuni pezzi, che la fusse restaurata; per che, mettendosi mano all'opera e provandosi molte cose per consiglio di Michelagnolo Buonarroti e d'altri eccellentissimi maestri, dopo molta lunghezza di tempo fu disperata l'impresa, massimamente non si potendo in modo nessuno salvare alcuni canti vivi, come il bisogno richiedeva. E Michelagnolo, pur avvezzo alla durezza de' sassi, insieme con gli altri se ne tolse giù, né si fece altro.

Finalmente, poiché niuna altra cosa in questi nostri tempi mancava alla perfezione delle nostr'arti che il modo di lavorare perfettamente il porfido, acciò che né anco questo si abbia a disiderare, si è in questo modo ritrovato. Avendo l'anno 1555 il signor duca Cosimo condotto dal suo palazzo e giardino de' Pitti una bellissima acqua nel cortile del suo principale palazzo di Firenze, per farvi una fonte di straordinaria bellezza, trovati fra i suoi rottami alcuni pezzi di porfido assai grandi, ordinò che di quelli si facesse una tazza col suo piede per la detta fonte; e per agevolar al maestro il modo di lavorar il porfido, fece di non so che erbe stillar un'acqua di tanta virtù, che, spegnendovi dentro i ferri bollenti, fa loro una tempera durissima. Con questo segreto adunque, secondo 'l disegno fatto da me, condusse Francesco del Tadda, intagliator da Fiesole, la tazza della detta fonte, che è larga due braccia e mezzo di diametro, et insieme il suo piede, in quel modo che oggi ella si vede nel detto palazzo. Il Tadda, parendogli che il segreto datogli dal Duca fusse rarissimo, si mise a far prova d'intagliar alcuna cosa, e gli riuscì così bene, che in poco tempo ha fatto in tre ovati di mezzo rilievo grandi quanto il naturale il ritratto d'esso signor duca Cosimo, quello della duchessa Leonora, et una testa di Gesù Cristo con tanta perfezzione, che i capelli e le barbe che sono dificilissimi nell'intaglio, sono condotti di maniera che gl'antichi non stanno punto meglio. Di queste opere ragionando il signor Duca con Michelagnolo, quando sua Eccellenza fu in Roma, non volea creder il Buonarroto che così fusse; per che, avendo io d'ordine del Duca mandata la testa del Cristo a Roma, fu veduta con molta maraviglia da Michelagnolo, il quale la lodò assai e si rallegrò molto di veder ne' tempi nostri la scultura arricchita di questo rarissimo dono cotanto invano insino a oggi disiderato.

Ha finito ultimamente il Tadda la testa di Cosimo vecchio de' Medici in uno ovato come i detti di sopra, et ha fatto e fa continuamente molte altre somiglianti opere.

Restami a dire del porfido che per essersi oggi smarrite le cave di quello, è perciò necessario servirsi di spoglie e di frammenti antichi e di rocchi di colonne e altri pezzi; e che però bisogna a chi lo lavora avvertire se ha avuto il fuoco: perciò che quando l'ha avuto, sebbene non perde in tutto il color né si disfà, manca nondimeno pure assai di quella vivezza che è sua propria, e non piglia mai così bene il pulimento, come quando non l'ha avuto; e, che è peggio, quello che ha avuto il fuoco si schianta facilmente quando si lavora. È da sapere ancora, quanto alla natura del porfido, che messo nella fornace non si cuoce, e non lascia interamente cuocer le pietre che gli sono intorno: anzi, quanto a sé, incrudelisce; come ne dimostrano le due colonne che i Pisani l'anno 1117 donarono a' Fiorentini dopo l'acquisto di Maiolica, le quali sono oggi alla porta principale del tempio di S. Giovanni, non molto bene pulite e senza colore per avere avuto il fuoco, come nelle sue storie racconta Giovan Villani.

Succede al porfido il serpentino, il quale è pietra di color verde scuretta alquanto, con alcune crocette dentro giallette e lunghe per tutta la pietra della quale nel medesimo modo si vagliano gli artefici per far colonne e piani per pavimenti per le fabriche; ma di questa sorte non s'è mai veduto figure lavorate, ma sì bene infinito numero di base per le colonne e piedi di tavole et altri lavori più materiali, perché questa sorte di pietra si schianta ancorché sia dura più che 'l porfido, e riesce a lavorarla più dolce e men faticosa che il porfido, e cavasi in Egitto e nella Grecia, e la sua saldezza ne' pezzi non è molto grande. Conciò sia che di serpentino non si è mai veduto opera alcuna di maggior pezzo di braccia tre per ogni verso; e sono state tavole e pezzi di pavimenti. Si è trovato ancora qualche colonna, ma non molto grossa né larga, e similmente alcune maschere e mensole lavorate, ma figure non mai. Questa pietra si lavora nel medesimo modo che si lavora il porfido.

Più tenera poi di questa è il cipollaccio, pietra che si cava in diversi luoghi, il quale è di color verde acerbo e gialletto, et ha dentro alcune macchie nere quadre picciole e grandi, e così bianche, alquanto grossette; e si veggono di questa sorte in più luoghi colonne grosse e sottili, e porte et altri ornamenti, ma non figure. Di questa pietra è una fonte in Roma in Belvedere, cioè una nicchia in un canto del giardino, dove sono le statue del Nilo e del Tevere; la quale nicchia fece far papa Clemente Settimo col disegno di Michelagnolo per ornamento d'un fiume antico, acciò in questo campo fatto a guisa di scogli apparisce, come veramente fa, molto bello. Di questa pietra si fanno ancora, segandola, tavole, tondi, ovati et altre cose simili, che in pavimenti e altre forme piane fanno con l'altre pietre bellissima accompagnatura e molto vago componimento. Questa piglia il pulimento come il porfido et il serpentino, et ancora si sega come l'altre sorti di pietra dette di sopra, e se ne trovano in Roma infiniti pezzi sotterrati nelle ruine che giornalmente vengono a luce; e delle cose antiche se ne sono fatte opere moderne, porte, et altre sorti d'ornamenti, che fanno, dove elle si mettono, ornamento e grandissima bellezza.

Ècci un'altra pietra chiamata mischio dalla mescolanza di diverse pietre congelate insieme e fatte tutt'una dal tempo e dalla crudezza dell'acque. E di questa sorte se ne trova copiosamente in diversi luoghi, come ne' monti di Verona, in quelli di Carrara, et in quei di Prato in Toscana, e ne' monti dell'Imprunetta nel contado di Firenze. Ma i più begli e' migliori si sono trovati, non ha molto, a S. Giusto a Monterantoli lontano da Fiorenza cinque miglia; e di questi me n'ha fatto il signor duca Cosimo ornare tutte le stanze nuove del palazzo in porte e camini, che sono riusciti molto belli; e per lo giardino de' Pitti se ne sono dal medesimo luogo cavate colonne di braccia sette, bellissime: et io resto maravigliato che in questa pietra si sia trovata tanta saldezza. Questa pietra, perché tiene d'alberese, piglia bellissimo pulimento, e trae in colore di paonazzo rossigno, macchiato di vene bianche e giallicce. Ma le più fini sono nella Grecia e nell'Egitto, dove sono molto più duri che i nostri italiani; e di questa ragion pietra se ne trova di tanti colori, quanto la natura lor madre s'è di continuo dilettata e diletta di condurre a perfezione. Di questi sì fatti mischi se ne veggono in Roma ne' tempi nostri opere antiche e moderne, come colonne, vasi, fontane, ornamenti di porte, e diverse incrostature per gli edifici e molti pezzi ne' pavimenti. Se ne vede diverse sorti di più colori: chi tira al giallo et al rosso, alcuni al bianco et al nero, altri al bigio et al bianco pezzato di rosso e venato di più colori; così certi rossi, verdi, neri e bianchi che sono orientali. E di questa sorte pietra n'ha un pilo antichissimo, largo braccia quattro e mezzo, il signor Duca al suo giardino de' Pitti, che è cosa rarissima, per esser, come s'è detto, orientale, di mischio bellissimo e molto duro a lavorarsi. E cotali pietre sono tutte di specie più dura e più bella di colore e più fine, come ne fanno fede oggi due colonne di braccia dodici di altezza nella entrata di San Pietro di Roma, le quali reggono le prime navate: et una n'è da una banda, l'altra dall'altra. Di questa sorte, quella ch'è ne' monti di Verona è molto più tenera che l'orientale infinitamente, e ne cavano in questo luogo d'una sorte ch'è rossiccia, e tira in color ceciato, e queste sorti si lavorano tutte bene a' giorni nostri con le tempere e co' ferri sì come le pietre nostrali, e se ne fa e finestre e colonne, e fontane e pavimenti, e stipiti per le porte e cornici, come ne rende testimonianza la Lombardia, anzi tutta la Italia.

Trovasi un'altra sorte di pietra durissima, molto più ruvida e picchiata di neri e bianchi e talvolta di rossi, dal tiglio e dalla grana di quella comunemente detta granito; della quale si truova nello Egitto saldezze grandissime, e da cavarne altezze incredibili, come oggi si veggono in Roma negli obelischi, aguglie, piramidi, colonne, et in que' grandissimi vasi de' bagni che abbiamo a San Pietro in Vincola e a San Salvadore del Lauro e a San Marco, et in colonne quasi infinite che per la durezza e saldezza loro non hanno temuto fuoco né ferro; et il tempo istesso, che tutte le cose caccia a terra, non solamente non le ha distrutte, ma neppur cangiato loro il colore. E per questa cagione gli Egizzii se ne servivano per i loro morti, scrivendo in queste aguglie coi caratteri loro strani la vita de' grandi, per mantener la memoria della nobiltà e virtù di quegli.

Venivane d'Egitto medesimamente d'una altra ragione bigio, il quale trae più in verdiccio i neri et i picchiati bianchi; molto duro certamente, ma non sì che i nostri scarpellini per la fabrica di San Pietro non abbiano, delle spoglie che hanno trovato messe in opera, fatto sì che con le tempere de' ferri, che ci sono al presente, hanno ridotto le colonne e l'altre cose a quella sottigliezza ch'hanno voluto, e datoli bellissimo pulimento come al porfido. Di questo granito bigio è dotata la Italia in molte parti, ma le maggiori saldezze che si trovino sono nell'isola dell'Elba, dove i Romani tennero di continuo uomini a cavare infinito numero di questa pietra. E di questa sorte ne sono parte le colonne del portico della Ritonda, le quali son molto belle e di grandezza straordinaria, e vedesi che nella cava quando si taglia, è più tenero assai che quando è stato cavato, e che vi si lavora con più facilità. Vero è che bisogna per la maggior parte lavorarlo con martelline che abbiano la punta, come quelle del porfido, e nelle gradine una dentatura tagliente dall'altro lato. D'un pezzo della qual sorte pietra che era staccato dal masso, n'ha cavato il duca Cosimo una tazza tonda di larghezza di braccia dodici per ogni verso, et una tavola della medesima lunghezza per lo palazzo e giardino de' Pitti.

Cavasi del medesimo Egitto e di alcuni luoghi di Grecia ancora certa sorte di pietra nera detta paragone, la quale ha questo nome, perché volendo saggiar l'oro s'arruota su quella pietra, e si conosce il colore; e per questo, paragonandovi su, vien detto paragone. Di questa è un'altra specie di grana e di un altro colore, perché non ha il nero morato affatto e non è gentile: che ne fecero gli antichi alcune di quelle sfingi et altri animali, come in Roma in diversi luoghi si vede, e di maggior saldezza una figura in Parione d'uno Ermafrodito accompagnata da un'altra statua di porfido, bellissima. La qual pietra è dura a intagliarsi, ma è bella straordinariamente e piglia un lustro mirabile. Di questa medesima sorte se ne trova ancora in Toscana ne' monti di Prato, vicino a Fiorenza a X miglia, e così ne' monti di Carrara, della quale alle sepolture moderne se ne veggono molte casse e dipositi per i morti: come nel Carmine di Fiorenza alla capella maggiore, dove è la sepoltura di Piero Soderini (se bene non vi è dentro) di questa pietra, et un padiglione similmente di paragon di Prato, tanto ben lavorato e così lustrante, che pare un raso di seta e non un sasso intagliato e lavorato. Così ancora nella incrostatura di fuori del tempio di S. Maria del Fiore di Fiorenza per tutto lo edificio è un'altra sorte di marmo nero e marmo rosso, che tutto si lavora in un medesimo modo.

Cavasi alcuna sorte di marmi in Grecia e in tutte le parti d'Oriente che son bianchi e gialleggiano e traspaiono molto, i quali erano adoperati dagli antichi per bagni e per stufe e per tutti que' luoghi dove il vento potesse offendere gli abitatori; e oggi se ne veggono ancora alcune finestre nella tribuna di San Miniato a Monte, luogo de' monaci di Monte Oliveto, in su le porte di Fiorenza, che rendono chiarezza e non vento. E con questa invenzione riparavano al freddo e facevano lume alle abitazioni loro. In queste cave medesime cavavano altri marmi senza vene ma del medesimo colore, del quale eglino facevano le più nobili statue. Questi marmi di tiglio e di grana erano finissimi, e se ne servivano ancora tutti quelli che intagliavano capitegli, ornamenti, et altre cose di marmo per l'architettura. E vi eran saldezze grandissime di pezzi, come appare ne' Giganti di Montecavallo di Roma, e nel Nilo di Belvedere, e in tutte le più degne e celebrate statue. E si conoscono esser greche, oltra il marmo, alla maniera delle teste et alla acconciatura del capo et ai nasi delle figure, i quali sono dall'appiccatura delle ciglia alquanto quadri fino alle nare del naso: e questo si lavora coi ferri ordinari e coi trapani, e si gli dà il lustro con la pomice e col gesso di Tripoli, col cuoio e struffoli di paglia.

Sono nelle montagne di Carrara, nella Carfagnana vicino ai monti di Luni, molte sorti di marmi, come marmi neri, et alcuni che traggono in bigio, et altri che sono mischiati di rosso, et alcuni altri che son con vene bigie, che sono crosta sopra a' marmi bianchi; perché non son purgati, anzi offesi dal tempo, dall'acqua e dalla terra, pigliano quel colore. Cavansi ancora altre specie di marmi, che son chiamati cipollini e saligni e campanini e mischiati, e per lo più una sorte di marmi bianchissimi e lattati, che sono gentili et in tutta perfezzione per far le figure. E vi s'è trovato da cavare saldezze grandissime, e se n'è cavato ancora a' giorni nostri pezzi di nove braccia per far giganti, e d'un medesimo sasso ancora se ne sono cavati a' tempi nostri due, l'uno fu il Davitte che fece Michelagnolo Buonarroto, il quale è alla porta del palazzo del Duca di Fiorenza, e l'altro, l'Ercole e Cacco, che di mano del Bandinello sono, all'altro lato della medesima porta. Un altro pezzo ne fu cavato, pochi anni sono, di braccia nove, perché il detto Baccio Bandinello ne facesse un Nettuno per la fonte che il Duca fa fare in piazza. Ma essendo morto il Bandinello, è stato dato poi all'Ammannato, scultore eccellente, perché ne faccia similmente un Nettuno. Ma di tutti questi marmi quelli della cava detta del Polvaccio, ch'è nel medesimo luogo, sono con manco macchie e smerigli, e senza que' nodi e noccioli che il più delle volte sogliono esser nella grandezza de' marmi, e recar non piccola difficultà a chi gli lavora, e bruttezza nell'opere, finite che sono le statue.

Si sono ancora, dalle cave di Serravezza in quel di Pietrasanta, avute colonne della medesima altezza, come si può vedere una, di molte che avevano a essere, nella facciata di San Lorenzo di Firenze, quale è oggi abbozzata fuor della porta di detta chiesa, dove l'altre sono parte alla cava rimase e parte alla marina.

Ma tornando alle cave di Pietrasanta, dico che in quelle s'essercitarono tutti gli antichi, et altri marmi che questi non adoperarono, per fare que' maestri che furon sì eccellenti le loro statue; essercitandosi di continuo, mentre si cavavono le lor pietre per far le loro statue, in fare ne' sassi medesimi delle cave, bozze di figure; come ancora oggi se ne veggono le vestigia di molte in quel luogo. Di questa sorte, adunque, cavano oggi i moderni le loro statue, e non solo per il servizio della Italia, ma se ne manda in Francia, in Inghilterra, in Ispagna, e in Portogallo. Come appare oggi per la sepoltura fatta in Napoli da Giovan da Nola, scultore eccellente, a don Pietro di Toledo viceré di quel regno; che tutti i marmi gli furon donati e condotti in Napoli dal signor duca Cosimo de' Medici. Questa sorte di marmi ha in sé saldezze maggiori e più pastose e morbide a lavorarla, e se le dà bellissimo pulimento più ch'ad altra sorte di marmo. Vero è che si viene talvolta a scontrarsi in alcune vene domandate dagli scultori smerigli, i quali sogliono rompere i ferri. Questi marmi si abbozzano con una sorte di ferri chiamati subbie, che hanno la punta a guisa di pali a facce, e più grossi e sottili, e di poi seguitano con scarpelli detti calcagnuoli, i quali nel mezzo del taglio hanno una tacca, e così con più sottili di mano in mano che abbiano più tacche, e gl'intaccano, quando sono arruotati, con un altro scarpello. E questa sorte di ferri chiamano gradine, perché con esse vanno gradinando e riducendo a fine le lor figure; dove poi con lime di ferro diritte e torte vanno levando le gradine che son restate nel marmo; e così poi con la pomice arrotando a poco a poco gli fanno la pelle che vogliono. E tutti gli strafori che fanno, per non intronare il marmo, gli fanno con trapani di minore e di maggior grandezza, e di peso di dodici libre l'uno, e qualche volta venti; che di questi ne hanno di più sorte, per far maggiori e minori buche; e gli servon questi per finire ogni sorte di lavoro e condurlo a perfezzione. De' marmi bianchi venati di bigio gli scultori e gli architetti ne fanno ornamenti per porte e colonne per diverse case. Servonsene per pavimenti e per incrostatura nelle lor fabriche, e gli adoperano a diverse sorti di cose; similmente fanno di tutti i marmi mischiati.

I marmi cipollini sono un'altra specie, di grana e colore differente, e di questa sorte n'è ancora altrove che a Carrara; e questi il più pendono in verdiccio, e son pieni di vene, che servono per diverse cose, e non per figure. Quegli che gli scultori chiamano saligni, che tengono di congelazione di pietra, per esservi que' lustri ch'appariscono nel sale e traspaiono alquanto, è fatica assai a farne le figure, perché hanno la grana della pietra ruvida e grossa, e perché ne' tempi umidi gocciano acqua di continuo, overo sudano. Quegli che si dimandano campanini son quella sorte di marmi che suonano quando si lavorano, et hanno un certo suono più acuto degli altri; questi son duri e si schiantano più facilmente che l'altre sorti su dette, e si cavano a Pietrasanta. A Seravezza ancora in più luoghi et a Campiglia si cavano alcuni marmi, che sono per la maggior parte buonissimi per lavoro di quadro, e ragionevoli ancora alcuna volta per statue; et in quel di Pisa al monte a San Giuliano si cava similmente una sorte di marmo bianco che tiene d'alberese, e di questi è incrostato di fuori il Duomo et il Camposanto di Pisa oltre a molti altri ornamenti che si veggono in quella città, fatti del medesimo.

E perché già si conducevano i detti marmi del monte a San Giuliano in Pisa con qualche incommodo e spesa, oggi avendo il duca Cosimo, così per sanare il paese come per agevolare il condurre i detti marmi et altre pietre che si cavano da que' monti, messo in canale diritto il fiume d'Osoli et altre molte acque, che sorgeano in que' piani con danno del paese, si potranno agevolmente per lo detto canale condurre i marmi o lavorati o in altro modo con picciolissima spesa, e con grandissimo utile di quella città che è poco meno che tornata nella pristina grandezza, mercé del detto signor duca Cosimo che non ha cura che maggiormente lo prema che d'aggrandire e rifar quella città, che era assai mal condotta, innanzi che ne fusse sua Eccellenza Signore.

Cavasi un'altra sorte di pietra chiamata trevertino, il quale serve molto per edificare e fare ancora intagli di diverse ragioni, che per Italia in molti luoghi se ne va cavando, come in quel di Lucca et a Pisa et in quel di Siena da diverse bande. Ma le maggiori saldezze e le migliori pietre, cioè quelle che son più gentili, si cavano in sul fiume del Teverone a Tigoli, ch'è tutta specie di congelazione d'acque e di terra, che per la crudezza e freddezza sua non solo congela e petrifica la terra, ma i ceppi, i rami e le fronde degli alberi. E per l'acqua che riman dentro non si potendo finire di asciugare, quando elle son sotto l'acqua, vi rimangono i pori della pietra cavati, che pare spugnosa e buccheraticcia egualmente di dentro e di fuori. Gli antichi di questa sorte pietra fecero le più mirabili fabriche et edifici che facessero, come sono i Colisei e l'Erario da San Cosmo e Damiano, e molti altri edifici; e ne mettevano ne' fondamenti delle lor fabriche infinito numero, e lavorandoli non furon molto curiosi di farli finire, ma se ne servivano rusticamente: e questo forse facevano, perché hanno in sé una certa grandezza e superbia. Ma ne' giorni nostri s'è trovato chi gli ha lavorati sottilissimamente, come si vide già in quel tempio tondo che cominciarono e non finirono, salvo che tutto il basamento, in sulla piazza di San Luigi i Francesi in Roma. Il quale fu condotto da un francese chiamato maestro Gian, che studiò l'arte dello intaglio in Roma, e divenne tanto raro, che fece il principio di questa opera, la quale poteva stare al paragone di quante cose eccellenti antiche e moderne che si sian viste, d'intaglio di tal pietra, per aver straforato sfere di astrologi, et alcune salamandre nel fuoco, imprese reali, et in altre libri aperti con le carte, lavorati con diligenza, trofei e maschere; le quali rendono, dove sono, testimonio della eccellenza e bontà da poter lavorarsi questa pietra simile al marmo, ancor che sia rustica. E reca sì in sé una grazia per tutto, vedendo quella spugnosità de' buchi unitamente, che fa bel vedere. Il qual principio di tempio, essendo imperfetto, fu levato dalla nazione francese, e le dette pietre et altri lavori di quello posti nella facciata della chiesa di San Luigi, e parte in alcune capelle, dove stanno molto bene accomodati e riescono bellissimi.

Questa sorte di pietra è bonissima per le muraglie, avendo sotto squadratola o scorniciata; perché si può incrostarla di stucco, con coprirla con esso et intagliarvi ciò ch'altri vuole; come fecero gli antichi nell'entrate publiche del Culiseo et in molti altri luoghi, e come ha fatto a' giorni nostri Antonio da San Gallo nella sala del palazzo del Papa dinanzi alla capella, dove ha incrostato di trevertini con stucco con vari intagli eccellentissimamente. Ma più d'ogni altro maestro ha nobilitata questa pietra Michelangelo Buonaroti nell'ornamento del cortile di casa Farnese, avendovi con maraviglioso giudizio fatto d'essa pietra far finestre, maschere, mensole, e tante altre simili bizzarrie, lavorate tutte come si fa il marmo, che non si può veder alcuno altro simile ornamento più bello. E se queste cose son rare, è stupendissimo il cornicione maggiore del medesimo palazzo nella faciata dinanzi, non si potendo alcuna cosa né più bella né più magnifica disiderare.

Della medesima pietra ha fatto similmente Michilagnolo nel difuori della fabrica di San Piero certi tabernacoli grandi, e dentro la cornice che gira intorno alla tribuna, con tanta pulitezza, che non si scorgendo in alcun luogo le commettiture, può conoscer ognuno agevolmente quanto possiamo servirci di questa sorte pietra. Ma quello che trapassa ogni maraviglia è, che avendo fatto di questa pietra la volta d'una delle tre tribune del medesimo San Pietro, sono commessi i pezzi di maniera, che non solo viene collegata benissimo la fabrica con varie sorti di commettiture, ma pare, a vederla da terra, tutta lavorata d'un pezzo.

Ècci un'altra sorte di pietre che tendono al nero, e non servono agli architettori se non a lastricare tetti. Queste sono lastre sottili prodotte a suolo a suolo dal tempo e dalla natura per servizio degli uomini, che ne fanno ancora pile, murandole talmente insieme, che elle commettino l'una ne l'altra, e le empiono d'olio secondo la capacità de' corpi di quelle e sicurissimamente ve lo conservano. Nascono queste nella riviera di Genova in un luogo detto Lavagna, e se ne cavano pezzi lunghi X braccia; e i pittori se ne servono a lavorarvi su le pitture a olio; perché elle vi si conservano su molto più lungamente che nelle altre cose, come al suo luogo si ragionerà ne' capitoli della pittura.

Aviene questo medesimo de la pietra detta piperno, da molti detta preperigno; pietra nericcia e spugnosa come il trevertino, la quale si cava per la campagna di Roma, e se ne fanno stipiti di finestre e porte in diversi luoghi, come a Napoli et in Roma; e serve ella ancora a' pittori a lavorarvi su a olio, come al suo luogo racconteremo. È questa pietra alidissima et ha anzi dell'arsiccio che no.

Cavasi ancora in Istria una pietra bianca livida, la quale molto agevolmente si schianta; e di questa sopra di ogni altra si serve non solamente la città di Vinegia, ma tutta la Romagna ancora, facendone tutti i loro lavori e di quadro e d'intaglio; e con sorte di stromenti e ferri più lunghi che gli altri la vanno lavorando, massimamente con certe martelline andando secondo la falda della pietra, per essere ella molto frangibile. E di questa sorte pietra ne ha messo in opera una gran copia messer Iacopo Sansovino, il quale ha fatto in Vinegia lo edificio dorico della Panatteria, et il toscano alla Zecca in sulla piazza di San Marco. E così tutti i lor lavori vanno facendo per quella città, e porte, finestre, cappelle et altri ornamenti che lor viene comodo di fare, non ostante che da Verona per il fiume dello Adige abbiano comodità di condurvi i mischi et altra sorte di pietre, delle quali poche cose si veggono, per aver più in uso questa, nella quale spesso vi commettono dentro porfidi, serpentini et altre sorti di pietre mischie, che fanno, accompagnate con essa, bellissimo ornamento. Questa pietra tiene d'alberese come la pietra da calcina d'i nostri paesi, e, come si è detto, agevolmente si schianta.

Restaci la pietra serena, e la bigia detta macigno, e la pietra forte che molto s'usa in Italia, dove son monti, e massimamente in Toscana, per lo più in Fiorenza e nel suo dominio. Quella ch'eglino chiamano pietra serena, è quella sorte che trae in azzurrigno overo tinta di bigio; della quale n'è ad Arezzo cave in più luoghi, a Cortona, a Volterra, e per tutti gli Appennini; e ne' monti di Fiesole è bellissima, per esservisi cavato saldezze grandissime di pietre: come veggiamo in tutti gli edifici che sono in Firenze fatti da Filippo di ser Brunellesco, il quale fece cavare tutte le pietre di San Lorenzo e di Santo Spirito et altre infinite che sono in ogni edificio per quella città. Questa sorte di pietra è bellissima a vedere, ma dove sia umidità e vi piove su, o abbia ghiacciati addosso, si logora e si sfalda, ma al coperto ella dura in infinito.

Ma molto più durabile di questa e di più bel colore è una sorte di pietra azzurrigna, che si dimanda oggi la pietra del fossato, la quale quando si cava, il primo filare è ghiaioso e grosso, il secondo mena nodi e fessure, il terzo è mirabile, perché è più fine. Della qual pietra Michelagnolo s'è servito nella libreria e sagrestia di San Lorenzo, per papa Clemente, per esser gentile di grana, et ha fatto condurre le cornici, le colonne et ogni lavoro con tanta diligenza, che d'argento non resterebbe sì bella. E questa piglia un pulimento bellissimo, e non si può desiderare in questo genere cosa migliore. E perciò fu già in Fiorenza ordinato per legge, che di questa pietra non si potesse adoperare se non in fare edifizi publici, o con licenza di chi governasse. Della medesima n'ha fatto assai mettere in opera il duca Cosimo, così nelle colonne et ornamenti della loggia di Mercato Nuovo, come nell'opera dell'udienza cominciata nella sala grande del Palazzo dal Bandinello, e nell'altra che è a quella dirimpetto; ma gran quantità, più che in alcuno altro luogo sia stato fatto già mai, n'ha fatto mettere Sua Eccellenza nella strada de' Magistrati che fa condurre col disegno et ordine di Giorgio Vasari Aretino. Vuole questa sorte di pietra il medesimo tempo a esser lavorata che il marmo; et è tanto dura, che ella regge all'acqua e si difende assai dall'altre ingiurie del tempo.

Fuor di questa n'è un'altra specie ch'è detta pietra serena, per tutto il monte, ch'è più ruvida e più dura e non è tanto colorita, che tiene di specie di nodi della pietra, la quale regge all'acqua, al ghiaccio, e se ne fa figure et altri ornamenti intagliati. E di questa n'è la Dovizia, figura di man di Donatello in su la colonna di Mercato Vecchio in Fiorenza; così molte altre statue fatte da persone eccellenti non solo in quella città ma per il dominio.

Cavasi per diversi luoghi la pietra forte, la qual regge all'acqua, al sole, al ghiaccio, et a ogni tormento e vuol tempo a lavorarla, ma si conduce molto bene, e non v'è molte gran saldezze. Della qual se n'è fatto e per i Gotti e per i moderni i più belli edifici che siano per la Toscana, come si può vedere in Fiorenza nel ripieno de' due archi che fanno le porte principali dell'oratorio d'Orsanmichele, i quali sono veramente cose mirabili e con molta diligenza lavorate. Di questa medesima pietra sono similmente per la città, come s'è detto, molte statue et armi, come intorno alla fortezza et in altri luoghi si può vedere. Questa ha il colore alquanto gialliccio con alcune vene di bianco sottilissime che le danno grandissima grazia; e così se n'è usato fare qualche statua ancora, dove abbiano a essere fontane, perché reggano all'acqua. E di questa sorte pietra è murato il palagio de' Signori, la Loggia, Orsanmichele, et il didentro di tutto il corpo di S. Maria del Fiore, e così tutti i ponti di quella città, il palazzo de' Pitti e quello degli Strozzi. Questa vuol esser lavorata con le martelline, perch'è più soda; e così l'altre pietre su dette vogliono esser lavorate nel medesimo modo che s'è detto del marmo e dell'altre sorti di pietre. Imperò, non ostante le buone pietre e le tempere de' ferri, è di necessità l'arte, intelligenza e giudicio di coloro che le lavorano; perché è grandissima differenza negli artefici, tenendo una misura medesima da mano a mano, in dar grazia e bellezza all'opere che si lavorano. E questo fa discernere e conoscere la perfezzione del fare da quegli che sanno a quei che manco sanno.

Per consistere, adunque, tutto il buono e la bellezza delle cose estremamente lodate negli estremi della perfezzione che si dà alle cose, che tali son tenute da coloro che intendono, bisogna con ogni industria ingegnarsi sempre di farle perfette e belle, anzi bellissime e perfettissime.


Cap. II. Che cosa sia il lavoro di quadro semplice et il lavoro di quadro intagliato.


Avendo noi ragionato così in genere di tutte le pietre, che o per ornamenti o per iscolture servono agli artefici nostri ne' loro bisogni, diciamo ora che quando elle si lavorano per la fabrica, tutto quello dove si adopera la squadra e le seste e che ha cantoni, si chiama lavoro di quadro. E questo cognome deriva dalle facce e dagli spigoli che son quadri, perché ogni ordine di cornici, o cosa che sia diritta o vero risaltata et abbia cantonate, è opera che ha il nome di quadro; e però volgarmente si dice fra gli artefici, lavoro di quadro. Ma s'ella non resta così pulita, ma si intagli in tai cornici, fregi, fogliami, uovoli, fusaruoli, dentelli, guscie, et altre sorte d'intagli, in que' membri che sono eletti a intagliarsi da chi le fa, ella si chiama opra di quadro intagliata o vero lavoro d'intaglio. Di questa sorte opra di quadro e d'intaglio si fanno tutte le sorti ordini: rustico, dorico, ionico, corinto e composto; e così se ne fece al tempo de' Goti il lavoro tedesco. E non si può lavorare nessuna sorte d'ornamenti, che prima non si lavori di quadro e poi d'intaglio, così pietre mischie e marmi e d'ogni sorte pietra, così come ancora di mattoni, per avervi a incrostar su opra di stucco intagliata; similmente di legno di noce e d'albero e d'ogni sorte legno. Ma perché molti non sanno conoscere le differenze che sono da ordine e ordine, ragioneremo distintamente nel capitolo che segue di ciascuna maniera o modo più brevemente che noi potremo.


Cap. III. De' cinque ordini d'architettura: rustico, dorico, ionico, corinto, composto, e del lavoro tedesco.


Il lavoro chiamato rustico è più nano e di più grossezza che tutti gl'altri ordini, per essere il principio e fondamento di tutti, e si fa nelle modanature delle cornici più semplici, e per conseguenza più bello, così ne' capitelli e base come in ogni suo membro. I suoi zoccoli, o piedistalli che gli vogliam chiamare, dove posano le colonne, sono quadri di proporzione, con l'avere da piè la sua fascia soda, e così un'altra di sopra che lo ricinga in cambio di cornice. L'altezza della sua colonna si fa di sei teste, a imitazione di persone nane ed atte a regger peso; e di questa sorte se ne vede in Toscana molte logge pulite et alla rustica con bozze e nicchie fra le colonne, e senza, e così molti portichi, che gli costumarono gli antichi nelle lor ville; et in campagna se ne vede ancora molte sepolture, come a Tigoli et a Pozzuolo. Servironsi di questo ordine gli antichi per porte, finestre, ponti, acquidotti, erarii, castelli, torri, e rocche da conservar munizioni et artiglieria, e porti di mare, prigioni e fortezze, dove si fa cantonate a punte di diamanti et a più faccie, bellissime. E queste si fanno spartite in vari modi, cioè o bozze piane per non far con esse scala alle muraglie, perché agevolmente si salirebbe quando le bozze avesseno, come diciamo noi, troppo aggetto, o in altre maniere, come si vede in molti luoghi e massimamente in Fiorenza nella facciata dinanzi e principale della cittadella maggiore, che Alessandro primo duca di Fiorenza fece fare; la quale per rispetto dell'impresa de' Medici è fatta a punte di diamante e di palle schiacciate, e l'una e l'altra di poco rilievo. Il qual composto tutto di palle e di diamanti, uno allato all'altro, è molto ricco e vario, e fa bellissimo vedere. E di questa opera n'è molto per le ville de' Fiorentini, portoni, entrate, e case e palazzi dove e' villeggiono, che non solo recano bellezza et ornamento infinito a quel contado, ma utilità e commodo grandissimo ai cittadini. Ma molto più è dotata la città di fabriche stupendissime, fatte di bozze, come quella di casa Medici, la facciata del palazzo de' Pitti, quello degli Strozzi, et altri infiniti. Questa sorte di edificii tanto quanto più sodi e semplici si fanno e con buon disegno, tanto più maestria e bellezza vi si conosce dentro, et è necessario che questa sorte di fabrica sia più eterna e durabile di tutte l'altre, avvenga che sono i pezzi delle pietre maggiori, e molto migliori le commettiture dove si va collegando tutta la fabrica con una pietra che lega l'altra pietra. E perché elle son pulite e sode di membri, non hanno possanza i casi di fortuna o del tempo nuocergli tanto rigidamente, quanto fanno alle altre pietre intagliate e traforate, o, come dicono i nostri, campate in aria dalla diligenza degli intagliatori.

L'ordine dorico fu il più massiccio ch'avesser i Greci e più robusto di fortezza e di corpo, e molto più degl'altri loro ordini collegato insieme; e non solo i Greci, ma i Romani ancora dedicarono questa sorte di edificii a quelle persone che erano armigeri, come imperatori d'eserciti, consoli e pretori; ma agli Dei loro molto maggiormente, come a Giove, Marte, Ercole et altri, avendo sempre avvertenza di distinguere, secondo il lor genere, la differenza della fabrica o pulita o intagliata, o più semplice o più ricca, acciò che si potesse conoscere dagli altri il grado e la differenza fra gl'imperatori, o di chi faceva fabricare. E perciò si vede all'opere che feciono gl'antichi essere stata usata molta arte ne' componimenti delle loro fabriche, e che le modanature delle cornici doriche hanno molta grazia, e ne' membri unione e bellezza grandissima. E vedesi ancora che la proporzione ne' fusi delle colonne di questa ragione è molto ben intesa, come quelle che non essendo né grosse grosse né sottili sottili hanno forma somigliante, come si dice, alla persona d'Ercole, mostrando una certa sodezza molto atta a regger il peso degli architravi, fregi, cornici, e il rimanente di tutto l'edificio che va sopra.

E perché quest'ordine, come più sicuro e più fermo degl'altri, è sempre piaciuto molto al signor duca Cosimo, egli ha voluto che la fabrica, che mi fa far con grandissimo ornamento di pietra per tredici magistrati civili della sua città e dominio, accanto al suo palazzo insino al fiume d'Arno, sia di forma dorica. Onde per ritornare in uso il vero modo di fabricare, il quale vuole che gl'architravi spianino sopra le colonne, levando via la falsità de girare gli archi delle logge sopra i capitelli, nella facciata dinanzi ho seguitato il vero modo che usarono gli antichi, come in questa fabrica si vede. E perché questo modo di fare è stato dagl'architetti passati fuggito, perciò che gli architravi di pietra, che d'ogni sorte si trovano, antichi e moderni, si veggono tutti, o la maggior parte, essere rotti nel mezzo, non ostante che sopra il sodo delle colonne, dell'architrave, fregio, e cornice siano archi di mattoni piani che non toccano e non aggravano; io, dopo molto avere considerato il tutto, ho finalmente trovato un modo bonissimo di mettere in uso il vero modo di far con sicurezza degl'architravi detti, che non patiscono in alcuna parte, e rimane il tutto saldo e sicuro quanto più non si può desiderare, sì come la sperienza ne dimostra. Il modo dunque è questo che qui di sotto si dirà a beneficio del mondo e degl'artefici.

Messe su le colonne e sopra i capitelli gl'architravi, che si stringono nel mezzo del diritto della colonna l'un l'altro, si fa un dado quadro; essempigrazia se la colonna è un braccio grossa e l'architrave similmente largo et alto, facciasi simile il dado del fregio, ma dinanzi gli resti nella faccia un ottavo per la commettitura del piombo, ed un altro ottavo o più sia intaccato di dentro il dado a quartabuono da ogni banda. Partito poi nell'intercolonnio il fregio in tre parti, le due dalle bande si augnino a quartabuono in contrario, che ricresca di dentro, acciò si stringa nel dado e serri a guisa d'arco; e dinanzi la grossezza dell'ottavo vada a piombo, et il simile faccia l'altra parte di là, all'altro dado. E così si faccia sopra la colonna, che il pezzo del mezzo di detto fregio stringa di dentro e sia intaccato a quartabuono infino a mezzo; l'altra mezza sia squadrata e diritta e messa a cassetta, perché stringa a uso d'arco, mostrando di fuori essere murata diritta. Facciasi poi che le pietre di detto fregio non posino sopra l'architrave, e non s'accostino un dito, perciò che facendo arco, viene a reggersi da sé e non caricar l'architrave. Facciasi poi dalla parte di dentro, per ripieno di detto fregio, un arco piano di mattoni alto quanto il fregio, che stringa fra dado e dado sopra le colonne. Facciasi di poi un pezzo di cornicione largo quanto il dado sopra le colonne, il quale abbia le commettiture dinanzi come il fregio; e di dentro sia detta cornice come il dado a quartabuono, usando diligenza che si faccia, come il fregio, la cornice di tre pezzi, de' quali due dalle bande stringhino di dentro a cassetta il pezzo di mezzo della cornice sopra il dado del fregio. E avertasi che il pezzo di mezzo della cornice vada per canale a cassetta in modo che stringa i due pezzi dalle bande e serri a guisa d'arco. Et in questo modo di fare può veder ciascuno che il fregio si regge da sé, e così la cornice, la quale posa quasi tutta in sull'arco di mattoni. E così, aiutandosi ogni cosa da per sé, non viene a regger l'architrave altro che il peso di se stesso, senza pericolo di rompersi già mai per troppo peso. E perché la sperienza ne dimostra questo modo esser sicurissimo, ho voluto farne particolare menzione a commodo e beneficio universale; e massimamente conoscendosi che il mettere, come gl'antichi fecero, il fregio e la cornice sopra l'architrave, che egli si rompe in spazio di tempo e forse per accidente di terremuoto o d'altro, non lo defendendo a bastanza l'arco che si fa sopra il detto cornicione. Ma girando archi sopra le cornici fatte in questa forma, incatenandolo al solito di ferri, assicura il tutto da ogni pericolo e fa eternamente durar l'edificio.

Diciamo, adunque, per tornar a proposito, che questa sorte di lavoro si può usare solo da sé, et ancora metterlo nel secondo ordine da basso sopra il rustico, et alzando mettervi sopra un altro ordine variato, come ionico, o corinto o composto, nella maniera che mostrarono gli antichi nel Culiseo di Roma, nel quale ordinatamente usarono arte e giudizio. Perché avendo i Romani trionfato non solo de' Greci ma di tutto il mondo, misero l'opera composta in cima, per averla i Toscani composta di più maniere; e la misero sopra tutte, come superiore di forza, grazia e bellezza, e come più apparente dell'altre, avendo a far corona all'edificio; che per essere ornata di be' membri fa nell'opra un finimento onoratissimo e da non desiderarlo altrimenti.

E per tornare al lavoro dorico, dico che la colonna si fa di sette teste d'altezza et il suo zoccolo ha da essere poco manco d'un quadro e mezzo di altezza, e larghezza un quadro, facendoli poi sopra le sue cornici e di sotto la sua fascia col bastone e due piani, secondo che tratta Vitruvio; e la sua base e capitello tanto d'altezza una quanto l'altra, computando del capitello dal collarino in su; la cornice sua col fregio et architrave appiccata, risaltando a ogni dirittura di colonna con que' canali che gli chiamano tigrifi ordinariamente, che vengono partiti fra un risalto e l'altro un quadro, dentrovi o teste di buoi secche o trofei o maschere o targhe o altre fantasie. Serra l'architrave, risaltando con una lista, i risalti, e da piè fa un pianetto sottile, tanto quanto tiene il risalto; a piè del quale fanno sei campanelle per ciascuno, chiamate gocce dagli antichi. E se si ha da vedere la colonna accanalata nel dorico, vogliono essere venti facce in cambio de' canali, e non rimanere fra canale e canale altro che il canto vivo.

Di questa ragione opera n'è in Roma al Foro Boario ch'è ricchissima; e d'un'altra sorte le cornici e gli altri membri al teatro di Marcello, dove oggi è la piazza Montanara; nella quale opera non si vede base, e quelle che si veggono son corinte. Et è openione che gli antichi non le facessero, et in quello scambio vi mettessero un dado tanto grande, quanto teneva la base. E di questo n'è il riscontro a Roma al carcere Tulliano, dove son capitelli ricchi di membri più che gli altri che si sian visti nel dorico. Di questo ordine medesimo n'ha fatto Antonio da San Gallo il cortile di casa Farnese in campo di Fiore a Roma, il quale è molto ornato e bello; benché continuamente si veda di questa maniera tempii antichi e moderni, e così palazzi, i quali per la sodezza e collegazione delle pietre son durati e mantenuti più che non hanno fatto tutti gli altri edifici.

L'ordine ionico per esser più svelto del dorico fu fatto dagli antichi a imitazione delle persone che sono fra il tenero et il robusto; e di questo rende testimonio l'averlo essi adoperato e messo in opera ad Apolline, a Diana, e a Bacco, e qualche volta a Venere. Il zoccolo che regge la sua colonna lo fanno alto un quadro e mezzo e largo un quadro, e le cornici sue di sopra e di sotto secondo questo ordine. La sua colonna è alta otto teste, e la sua base è doppia con due bastioni, come la descrive Vitruvio al terzo libro al terzo capo, et il suo capitello sia ben girato con le sue volute, o cartocci o viticci che ognun se li chiami, come si vede al teatro di Marcello in Roma sopra l'ordine dorico: così la sua cornice adorna di mensole e di dentelli, et il suo fregio con un poco di corpo tondo. E volendo accanalare le colonne, vogliono essere il numero de' canali ventiquattro, ma spartiti talmente, che ci resti fra l'un canale e l'altro la quarta parte del canale che serva per piano. Questo ordine ha in sé bellissima grazia e leggiadria, e se ne costuma molto fra gli architetti moderni.

Il lavoro corinto piacque universalmente molto a' Romani; e se ne dilettarono tanto ch'e' fecero di questo ordine le più ornate et onorate fabriche per lasciar memoria di loro; come appare nel tempio di Tigoli in sul Teverone, e le spoglie del Tempio della Pace, e l'arco di Pola, e quel del porto d'Ancona: ma molto più è bello il Pantheon, cioè la Ritonda di Roma, il quale è il più ricco e 'l più ornato di tutti gli ordini detti di sopra. Fassi il zoccolo, che regge la colonna, di questa maniera: largo un quadro e due terzi, e la cornice di sopra e di sotto a proporzione, secondo Vitruvio; fassi l'altezza della colonna nove teste con la sua basa e capitello, il quale sarà d'altezza tutta la grossezza della colonna da piè, e la sua base sarà la metà di detta grossezza, la quale usarono gli antichi intagliare in diversi modi. E l'ornamento del capitello sia fatto co' suoi vilucchi e le sue foglie, secondo che scrive Vitruvio nel quarto libro, dove egli fa ricordo essere stato tolto questo capitello dalla sepoltura d'una fanciulla corinta. Sèguitisi il suo architrave, fregio e cornice con le misure descritte da lui, tutte intagliate con le mensole et uovoli et altre sorti d'intagli sotto il gocciolatoio. E i fregi di quest'opera si possono fare intagliati tutti con fogliami, et ancora farne de' puliti o vero con lettere dentro, come erano quelle al portico della Ritonda, di bronzo commesso nel marmo. Sono i canali nelle colonne di questa sorte a numero ventisei benché n'è di manco ancora; et è la quarta parte del canale fra l'uno e l'altro che resta piano, come benissimo appare in molte opere antiche e moderne misurate da quelle.

L'ordine composto, se ben Vitruvio non ne ha fatto menzione, non facendo egli conto d'altro, che dell'opera dorica, ionica, corintia e toscana, tenendo troppo licenziosi coloro, che pigliando di tutt'e quattro quegli ordini, ne facessero corpi che gli rappresentassero piuttosto mostri che uomini; per averlo costumato molto i Romani et a loro imitazione i moderni, non mancherò di questo ancora, acciò se n'abbia notizia, dichiarare e formare il corpo di questa proporzione di fabrica. Credendo questo, che se i Greci e i Romani formarono que' primi quattro ordini e gli ridussero a misura e regola generale, che ci possino essere stati di quegli che abbino fin qui fatto nell'ordine composto, e componendo da sé delle cose, che apportino molto più grazia che non fanno le antiche. E che questo sia vero, ne fanno fede l'opere che Michelagnolo Buonarroti ha fatto nella sagrestia e libreria di San Lorenzo di Firenze: dove le porte, i tabernacoli, le base, le colonne, i capitelli, le cornici, le mensole, et insomma ogni altra cosa, hanno del nuovo e del composto da lui, e nondimeno sono meravigliose, non che belle. Il medesimo e maggiormente dimostrò lo stesso Michelagnolo nel secondo ordine del cortile di casa Farnese, e nella cornice ancora che regge di fuori il tetto di quel palazzo. E chi vuol veder quanto in questo modo di fare abbia mostrato la virtù di questo uomo, - veramente venuta dal cielo, - arte, disegno, e varia maniera, consideri quello che ha fatto nella fabbrica di San Piero, nel riunire insieme il corpo di quella machina, e nel far tante sorti di vari e stravaganti ornamenti, tante belle modanature di cornici, tanti diversi tabernacoli, et altre molte cose tutte trovate da lui e fatte variatamente dall'uso degli antichi. Perché niuno può negare che questo nuovo ordine composto, avendo da Michelagnolo tanta perfezzione ricevuto, non possa andar al paragone degli altri. E di vero la bontà e virtù di questo veramente eccellente scultore, pittore et architetto ha fatto miracoli dovunque egli ha posto mano, oltre all'altre cose che sono manifeste e chiare come la luce del sole, avendo siti storti dirizzati facilmente, e ridotti a perfezione molti edifici et altre cose di cattivissima forma, ricoprendo con vaghi e capricciosi ornamenti i difetti dell'arte e della natura. Le quali cose non considerando con buon giudicio e non le immitando, hanno a' tempi nostri certi architetti plebei, prosontuosi e senza disegno, fatto quasi a caso, senza servar decoro, arte o ordine nessuno, tutte le cose loro mostruose e peggio che le tedesche.

Ma tornando a proposito di questo modo di lavorare è scorso l'uso, che già è nominato questo ordine da alcuni composto, da altri latino, e per alcuni altri italico. La misura dell'altezza di questa colonna vuole essere dieci teste, la base sia per la metà della grossezza della colonna, e misurata simile alla corinta, come ne appare in Roma all'arco di Tito Vespasiano. E chi vorrà far canali in questa colonna, può fargli simili alla ionica, o come la corinta, o come sarà l'animo di chi farà l'architettura di questo corpo ch'è misto con tutti gli ordini. I capitelli si posson fare simili ai corinti, salvo che vuole essere più la cimasa del capitello, e le volute o viticci alquanto più grandi, come si vede all'arco suddetto. L'architrave sia tre quarti della grossezza della colonna, et il fregio abbia il resto pien di mensole e la cornice quanto l'architrave, che l'aggetto la fa diventar maggiore; come si vede nell'ordine ultimo del Culiseo di Roma; et in dette mensole si possono far canali a uso di tigrifi, e altri intagli secondo il parere dell'architetto; et il zoccolo, dove posa su la colonna, ha da essere alto due quadri, e così le sue cornici a sua fantasia o come gli verrà in animo di farle.

Usavano gli antichi o per porte, o sepolture, o altre specie d'ornamenti, in cambio di colonne, termini di varie sorti: chi una figura ch'abbia una cesta in capo per capitello, altri una figura fino a mezzo, et il resto verso la base piramide, overo bronconi d'alberi; e di questa sorte facevano vergini, satiri, putti, et altre sorti di mostri o bizzarrie che veniva lor comodo, e secondo che nasceva loro nella fantasia le mettevano in opera.

Ècci un'altra specie di lavori che si chiamano tedeschi, i quali sono di ornamenti e di proporzione molto differenti dagli antichi e da' moderni; né oggi s'usano per gli eccellenti, ma son fuggiti da loro come mostruosi e barbari, mancando ogni lor cosa di ordine, che più tosto confusione o disordine si può chiamare: avendo fatto nelle lor fabriche, che son tante ch'hanno ammorbato il mondo, le porte ornate di colonne sottili et attorte a uso di vite, le quali non possono aver forza a reggere il peso di che leggerezza si sia. E così per tutte le facce et altri loro ornamenti facevano una maledizione di tabernacolini l'un sopra l'altro, con tante piramidi e punte e foglie, che non ch'elle possano stare, pare impossibile ch'elle si possino reggere; et hanno più il modo da parer fatte di carta che di pietre o di marmi. Et in queste opere facevano tanti risalti, rotture, mensoline e viticci, che sproporzionavano quelle opere che facevano, e spesso con mettere cosa sopra cosa andavano in tanta altezza, che la fine d'una porta toccava loro il tetto. Questa maniera fu trovata dai Gotti, che per aver ruinate le fabriche antiche, e morti gli architetti per le guerre, fecero dopo coloro che rimasero, le fabriche di questa maniera; le quali girarono le volte con quarti acuti, e riempierono tutta Italia di questa maledizione di fabriche, che per non averne a far più, s'è dismesso ogni modo loro. Iddio scampi ogni paese da venir tal pensiero, et ordine di lavori, che per esser eglino talmente difformi alla bellezza delle fabriche nostre, meritano che non se ne favelli più che questo.

E però passiamo a dire delle volte.


Cap. IV. Del fare le volte di getto, che vengano intagliate; quando si disarmino, e d'impastar lo stucco.


Quando le mura son arrivate al termine che le volte s'abbino a voltare o di mattoni o di tufi o di spugna, bisogna sopra l'armadura de' correnti o piane voltare di tavole in cerchio serrato, che commettino secondo la forma della volta, o a schifo; e l'armadura della volta, in quel modo che si vuole, con buonissimi puntelli fermare, che la materia di sopra del peso non la sforzi; e da poi saldissimamente turare ogni pertugio nel mezzo, ne' cantoni, e per tutto con terra, acciò che la mistura non coli sotto, quando si getta. E così armata, sopra quel piano di tavole si fanno casse di legno che in contrario siano lavorate: dov'è un cavo, rilievo; e così le cornici e i membri che far ci vogliamo, siano in contrario; acciò, quando la materia si getta, venga, dov'è cavo, di rilievo, e dove è rilievo, cavo; e così similmente vogliono essere tutti i membri delle cornici al contrario scorniciati. Se si vuol fare pulita o intagliata, medesimamente è necessario aver forme di legno che formino di terra le cose intagliate in cavo, e si faccin d'essa terra le piastre quadre di tali intagli, e quelle si commettino l'una all'altra su' piani o gola o fregi, che far si vogliano diritto per quella armadura. E finita di coprir tutta degli intagli di terra formati in cavo e commessi, già di sopra detti, si debbe poi pigliare la calce con pozzolana o rena vagliata sottile, stemperata, liquida et alquanto grassa, e di quella fare egualmente una incrostatura per tutte, finché tutte le forme sian piene. Et appresso sopra coi mattoni far la volta, alzando quegli et abbassando, secondo che la volta gira, e di continuo si conduca con essi crescendo, sino ch'ella sia serrata. E finita tal cosa, si debbe poi lasciare far presa e assodare, finché tale opra sia ferma e secca. E da poi, quando i puntelli si levano, e la volta si disarma, facilmente la terra si leva e tutta l'opera resta intagliata e lavorata, come se di stucco fosse condotta; e quelle parti che non son venute, si vanno con lo stucco ristaurando, tanto che si riducano a fine. E così si sono condotte negli edifici antichi tutte l'opre, le quali hanno poi di stucco lavorate sopra a quelle. Così hanno ancora oggi fatto i moderni nelle volte di San Pietro, e molti altri maestri per tutta Italia.

Ora, volendo mostrare come lo stucco s'impasti, si fa con un edificio in uno mortaio di pietra pestare la scaglia di marmo; né si toglie per quell'altro che la calce che sia bianca, fatta o di scaglia di marmo o di trevertino; et in cambio di rena si piglia il marmo pesto e si staccia sottilmente ed impastasi con la calce, mettendo due terzi calce et un terzo marmo pesto, e se ne fa del più grosso e sottile, secondo che si vuol lavorare grossamente o sottilmente. E degli stucchi ci basti or questo, perché il restante si dirà poi, dove si tratterà del mettergli in opra tra le cose della scultura. Alla quale prima che noi passiamo, diremo brevemente delle fontane che si fanno per le mura, e degli ornamenti varii di quelle.


Cap. V. Come di tartari e di colature d'acqua si conducono le fontane rustiche, e come nello stucco si murano le telline e le colature delle pietre cotte.


Sì come le fontane che nei loro palazzi, giardini et altri luoghi fecero gl'antichi, furono di diverse maniere, - cioè alcune isolate con tazze e vasi d'altre sorti, altre allato alle mura con nicchie, maschere o figure et ornamenti di cose maritime, altre poi per uso delle stufe più semplici e pulite, et altre, finalmente, simili alle salvatiche fonti che naturalmente surgono nei boschi - così parimente sono di diverse sorti quelle che hanno fatto e 'l fanno tuttavia i moderni; i quali, variandole sempre, hanno alle invenzioni degli antichi aggiunto componimenti di opera toscana, coperti di colature d'acqua pietrificate, che pendono a guisa di radicioni, fatti col tempo d'alcune congelazioni d'esse acque ne' luoghi dove elle son crude e grosse: come non solo a Tigoli, dove il fiume Teverone petrifica i rami degl'alberi et ogni altra cosa che se gli pone inanzi, facendone di queste gromme e tartari; ma ancora al lago di Piè di Lupo che le fa grandissime, et in Toscana al fiume d'Elsa, l'acqua del quale le fa in modo chiare, che paiono di marmi, di vitrioli e d'allumi. Ma bellissime e bizzarre sopra tutte l'altre si sono trovate dietro Monte Morello pure in Toscana, vicino otto miglia a Fiorenza. E di questa sorte ha fatti fare il duca Cosimo nel suo giardino dell'Olmo a Castello gli ornamenti rustici delle fontane fatte dal Tribolo scultore. Queste, levate donde la natura l'ha prodotte, si vanno accomodando nell'opera che altri vuol fare con spranghe di ferro, con rami impiombati, o in altra maniera, e s'innestano nelle pietre in modo che sospesi pendino; e, murando quelli addosso all'opera toscana, si fa che essa in qualche parte si veggia. Accommodando poi fra essi canne di piombo ascose, e spartiti per quelle i buchi, versano zampilli d'acque, quando si volta una chiave ch'è nel principio di detta cannella; e così si fanno condotti d'acque e diversi zampilli, dove poi l'acqua piove per le colature di questi tartari, e colando fa dolcezza nell'udire e bellezza nel vedere.

Se ne fa ancora d'un'altra specie di grotte, più rusticamente composte, contrafacendo le fonti alla salvatica in questa maniera. Pigliansi sassi spugnosi, e, commessi che sono insieme, si fa nascervi erbe sopra, le quali, con ordine che paia disordine e salvatico, si rendon molto naturali e più vere. Altri ne fanno di stucco più pulite e lisce, nelle quali mescolano l'uno e l'altro, e mentre quello è fresco mettono fra esso per fregi e spartimenti gongole, telline, chiocciole maritime, tartarughe, e nicchi grandi e piccoli, chi a ritto e chi a rovescio. E di questi fanno vasi e festoni, in che cotali telline figurano le foglie, et altre chiocciole, e i nicchi fanno le frutte; e scorze di testuggini d'acqua vi si pone, come si vede alla vigna che fece fare papa Clemente Settimo quando era cardinale, a piè di Monte Mario per consiglio di Giovanni da Udine.

Così si fa ancora in diversi colori un musaico rustico e molto bello, pigliando piccoli pezzi di colature di mattoni, disfatti e troppo cotti nella fornace, et altri pezzi di colature di vetri, che vengono fatte quando pel troppo fuoco scoppiano le padelle de' vetri nella fornace; si fa, dico, murando i detti pezzi, fermandogli nello stucco, come s'è detto di sopra, e facendo nascere tra essi coralli et altri ceppi maritimi, i quali recano in sé grazia e bellezza grandissima. Così si fanno animali e figure, che si cuoprono di smalti in varii pezzi posti alla grossa e con le nicchie su dette; le quali sono bizzarra cosa a vederle. E di questa specie n'è a Roma fatte moderne di molte fontane, le quali hanno desto l'animo d'infiniti a essere per tal diletto vaghi di sì fatto lavoro.

È oggi similmente in uso un'altra sorte d'ornamento per le fontane, rustico affatto, il quale si fa in questo modo: fatte di sotto l'ossature delle figure o d'altro che si voglia fare e coperte di calcina o di stucco, si ricuopre il difuori a guisa di musaico di pietre di marmo bianco o d'altro colore, secondo quello che si ha da fare, overo di certe piccole pietre di ghiaia di diversi colori; e queste, quando sono con diligenza lavorate, hanno lunga vita. E lo stucco con che si murano e lavorano queste cose è il medesimo che inanzi abbiamo ragionato, e per la presa fatta con essa rimangono murate. A queste tali fontane di frombole, cioè sassi di fiumi tondi e stiacciati, si fanno pavimenti murando quelli per coltello e a onde a uso d'acque, che fanno benissimo. Altri fanno alle più gentili pavimenti di terra cotta a mattoncini con varii spartimenti et invetriati a fuoco, come in vasi di terra, dipinti di varii colori e con fregi e fogliami dipinti; ma questa sorte di pavimenti più conviene alle stufe et a' bagni che alle fonti.


Cap. VI. Del modo di fare i pavimenti di commesso.


Tutte le cose che trovar si poterono, gli antichi, ancora che con difficultà, in ogni genere o le ritrovarono o di ritrovarle cercarono: quelle, dico, ch'alla vista degli uomini vaghezza e varietà indurre potessero. Trovarono, dunque, fra l'altre cose belle i pavimenti di pietre ispartiti con varii misti di porfidi, serpentini, e graniti, con tondi e quadri, et altri spartimenti, onde s'imaginarono che fare si potessero fregi, fogliami et altri andari di disegni e figure. Onde, per poter meglio ricevere l'opera tal lavoro, tritavano i marmi, acciò che essendo quelli minori, potessero per lo campo e piano con essi rigirare in tondo e diritto et a torto, secondo che veniva lor meglio; e dal commettere insieme questi pezzi lo dimandarono musaico, e nei pavimenti di molte loro fabriche se ne servirono; come ancora veggiamo all'Antoniano di Roma et in altri luoghi, dove si vede il musaico lavorato con quadretti di marmo piccioli, conducendo fogliami, maschere et altre bizzarrie; e con quadri di marmo bianchi et altri quadretti di marmo nero fecero il campo di quegli. Questi, dunque, si lavoravano in tal modo: facevasi sotto un piano di stucco fresco di calce e di marmo, tanto grosso che bastasse per tenere in sé i pezzi commessi fermamente, sin che, fatto presa, si potessero spianar di sopra: per che facevano nel seccarsi una presa mirabile et uno smalto maraviglioso, che né l'uso del caminare né l'acqua non gl'offendeva. Onde, essendo questa opera in grandissima considerazione venuta, gli ingegni loro si misero a speculare più alto, essendo facile a una invenzione trovata, aggiugner sempre qualcosa di bontà. Per che fecero poi i musaici di marmi più fini, e per bagni e per stufe i pavimenti di quelli, e con più sottile magistero e diligenza quei lavoravano sottilissimamente, facendosi pesci variati et imitando la pittura con varie sorti di colori, atti a ciò, con più specie di marmi, mescolando anco fra quegli alcuni pezzi triti di quadretti di musaico di ossa di pesce, ch'hanno la pelle lustra. E così vivamente gli facevano, che l'acqua postavi di sopra velandogli, pur che chiara fosse, gli faceva parere vivissimi nei pavimenti; come se ne vede in Parione in Roma in casa di messer Egidio e Fabio Sasso. Per che parendo loro questa una pittura da poter reggere all'acque et ai venti et al sole per l'eternità sua, e pensando che tale opra molto meglio di lontano che d'appresso ritornerebbe, perché così non si scorgerebbono i pezzi che il musaico d'appresso fa vedere, ordinarono per ornar le volte e le pareti dei muri, dove tai cose si avevano a veder di lontano. E perché lustrassero e dagli umidi et acque si difendessero, pensarono tal cosa doversi fare di vetri, e così gli misero in opra; e facendo ciò bellissimo vedere, ne ornarono i tempii loro et altri luoghi, come veggiamo oggi ancora a Roma il tempio di Bacco et altri. Talché da quegli di marmo derivano questi, che si chiamano oggi musaico di vetri, e da quel di vetri s'è passato al musaico di gusci d'uovo, e da questi al musaico del far le figure e le storie di chiaroscuro, pur di commessi, che paiono dipinte; come tratteremo, al suo luogo, nella pittura.


Cap. VII. Come si ha a conoscere uno edificio proporzionato bene, e che parti generalmente se li convengono.


Ma perché il ragionare delle cose particulari mi farebbe deviar troppo dal mio proposito, lasciata questa minuta considerazione agli scrittori dell'architettura, dirò solamente in universale come si conoscano le buone fabriche e quello che si convenga alla forma loro per essere insieme et utili e belle. Quando s'arriva, dunque, a uno edificio, chi volesse vedere s'egli è stato ordinato da uno architettore eccellente e quanta maestria egli ha avuto, e sapere s'egli ha saputo accomodarsi al sito e alla volontà di chi l'ha fatto fabricare, egli ha a considerare tutte queste parti. In prima, se chi lo ha levato dal fondamento ha pensato se quel luogo era disposto e capace a ricevere quella qualità e quantità di ordinazione, così nello spartimento delle stanze come negli ornamenti che per le mura comporta quel sito, o stretto o largo, o alto o basso; e se è stato spartito con grazia e conveniente misura, dispensando e dando la qualità e quantità di colonne, finestre, porte e riscontri delle facce fuori e dentro nelle altezze o grossezze de' muri, e in tutto quello che c'intervenga a luogo per luogo. È di necessità che si distribuischino che lo edificio le stanze, ch'abbino le lor corrispondenze di porte, finestre, camini, scale segrete, anticamere, destri, scrittoi, senza che vi si vegga errori: come saria una sala grande, un portico picciolo e le stanze minori; le quali per esser membra dell'edificio, è di necessità ch'elle siano, come i corpi umani, egualmente ordinate e distribuite secondo le qualità e varietà delle fabriche: come tempii tondi, [in] otto facce, in sei facce, in croce, e quadri, e gli ordini varii secondo chi et i gradi in che si trova chi le fa fabricare. Perciò che quando son disegnati da mano che abbia giudicio, con bella maniera mostrano l'eccellenza dell'artefice e l'animo dell'auttor della fabrica.

Perciò figureremo, per meglio esser intesi, un palazzo qui di sotto, e questo ne darà lume agli altri edifici, per modo di poter conoscere, quando si vede, se è ben formato o no. In prima, chi considererà la facciata dinanzi, lo vedrà levato da terra o in su ordine di scalee o di muricciuoli, tanto che quello sfogo lo faccia uscir di terra con grandezza, e serva che le cucine o cantine sotto terra siano più vive di lumi e più alte di sfogo; il che anco molto difende l'edificio da' terremuoti e altri casi di fortuna. Bisogna poi che rappresenti il corpo dell'uomo nel tutto e nelle parti similmente, e che per avere egli a temere i venti, l'acque e l'altre cose della natura, egli sia fognato con ismaltitoi che tutti rispondino a un centro che porti via tutte insieme le bruttezze et i puzzi che gli possano generare infermità. Per l'aspetto suo primo, la facciata vuole avere decoro e maestà et essere compartita come la faccia dell'uomo: la porta da basso et in mezzo, così come nella testa ha l'uomo la bocca, donde nel corpo passa ogni sorte di alimento; le finestre per gli occhi, una di qua e l'altra di là, servando sempre parità, che non si faccia se non tanto di qua quanto di là negli ornamenti o d'archi, o colonne, o pilastri, o nicchie, o finestre inginocchiate, o vero altra sorte d'ornamento, con le misure et ordini che già s'è ragionato, o dorici, o ionici, o corinti, o toscani. Sia il suo cornicione che regge il tetto fatto con proporzione della facciata, secondo ch'egli è grande, e che l'acqua non bagni la facciata e chi sta nella strada a sedere. Sia di sporto secondo la proporzione dell'altezza e della larghezza di quella facciata.

Entrando dentro, nel primo ricetto sia magnifico, e unitamente corrisponda all'appiccatura della gola ove si passa, e sia svelto e largo, acciò che le strette o de' cavalli o d'altre calche che spesso v'intervengono, non faccino danno a lor medesimi nell'entrata o di feste o d'altre allegrezze. Il cortile, figurato per il corpo, sia quadro et uguale, o vero un quadro e mezzo, come tutte le parti del corpo, e sia ordinato di porte e di parità di stanze dentro con belli ornamenti. Vogliono le scale publiche esser commode e dolci al salire, di larghezza spaziose e d'altezza sfogate, quanto però comporta la proporzione de' luoghi. Vogliono oltre acciò, essere ornate e copiose di lumi, et almeno sopra ogni pianerottolo, dove si volta, avere finestre o altri lumi; et insomma vogliono le scale in ogni sua parte avere del magnifico, attesoché molti veggiono le scale e non il rimanente della casa. E si può dire che elle sieno le braccia e le gambe di questo corpo; onde, sì come le braccia stanno dagli lati dell'uomo, così deono queste stare dalle bande dell'edificio. Né lascerò di dire che l'altezza degli scaglioni vuole essere un quinto almeno, e ciascuno scaglione largo due terzi, cioè come si è detto, nelle scale degli edifici publici, e negli altri a proporzione; perché quando sono ripide non si possono salire né da' putti né da' vecchi, e rompono le gambe. E questo membro è più difficile a porsi nelle fabriche, e per essere il più frequentato che sia e più comune, avviene spesso, che per salvar le stanze le guastiamo. E bisogna che le sale con le stanze di sotto faccino un appartamento commune per la state, e diversamente le camere per più persone; e sopra siano salotti, sale e diversi appartamenti di stanze che rispondino sempre nella maggiore; e così faccino le cucine e l'altre stanze; ché, quando non ci fosse quest'ordine et avesse il componimento spezzato, et una cosa alta e l'altra bassa, e chi grande e chi picciola, rappresenterebbe uomini zoppi, travolti, biechi e storpiati: le quali opre fanno che si riceve biasimo e non lode alcuna. Debbono i componimenti dove s'ornano le facce o fuori o dentro, aver corrispondenza nel seguitar gli ordini loro nelle colonne, e che i fusi di quelle non siano lunghi o sottili, o grossi o corti, servando sempre il decoro degli ordini suoi. Né si debbe a una colonna sottile metter capitel grosso né base simili, ma secondo il corpo le membra, le quali abbino leggiadra e bella maniera e disegno. E queste cose son più conosciute da un occhio buono, il quale, se ha giudicio, si può tenere il vero compasso e l'istessa misura, perché da quello saranno lodate le cose e biasimate.

E tanto basti aver detto generalmente dell'architettura, perché il parlarne in altra maniera non è cosa da questo luogo.


DELLA SCULTURA


Cap. VIII. Che cosa sia la scultura, e come siano fatte le sculture buone, e che parti elle debbino avere per essere tenute perfette.


La scultura è una arte che levando il superfluo dalla materia suggetta, la riduce a quella forma di corpo che nella idea dello artefice è disegnata. Et è da considerare che tutte le figure, di qualunque sorte si siano, o intagliate ne' marmi o gittate di bronzi o fatte di stucco o di legno, avendo ad essere di tondo rilievo, e che girando intorno si abbino a vedere per ogni verso, è di necessità che a volerle chiamar perfette ell'abbino di molte parti.

La prima è che, quando una simil figura ci si presenta nel primo aspetto alla vista, ella rappresenti e renda somiglianza a quella cosa per la quale ella è fatta, o fiera o umile o bizzarra o allegra o malenconica, secondo chi si figura; e che ella abbia corrispondenza di parità di membra: cioè non abbia le gambe longhe, il capo grosso, le braccia corte e disformi; ma sia ben misurata, et ugualmente a parte a parte concordata dal capo a' piedi. E similmente, se ha la faccia di vecchio, abbia le braccia, il corpo, le gambe, le mani et i piedi di vecchio, unitamente ossuta per tutto, musculosa, nervuta, e le vene poste a' luoghi loro. E se arà la faccia di giovane, debbe parimente esser ritonda, morbida e dolce nell'aria, e per tutto unitamente concordata. Se ella non arà ad essere ignuda, facciasi che i panni ch'ella arà ad aver addosso, non siano tanto triti ch'abbino del secco, né tanto grossi che paino sassi; ma siano con il loro andar di pieghe girati talmente, che scuoprino lo ignudo di sotto, e con arte e grazia talora lo mostrino e talora lo ascondino, senza alcuna crudezza che offenda la figura. Siano i suoi capegli e la barba lavorati con una certa morbidezza, svellati e ricciuti, che mostrino di essere sfilati, avendoli data quella maggior piumosità e grazia che può lo scarpello: ancora che gli scultori in questa parte non possino così bene contraffare la natura, facendo essi le ciocche de' capelli sode e ricciute, più di maniera che di immitazione naturale. Et ancora che le figure siano vestite, è necessario di fare i piedi e le mani che siano condotte di bellezza e di bontà come l'altre parti. E per essere tutta la figura tonda, è forza che in faccia, in profilo e di dietro ella sia di proporzione uguale, avendo ella a ogni girata e veduta a rappresentarsi ben disposta per tutto. È necessario adunque che ella abbia corrispondenza, e che ugualmente ci sia per tutto attitudine, disegno, unione, grazia e diligenza; le quali cose, tutte insieme, dimostrino l'ingegno et il valore dell'artefice.

Debbono le figure così di rilievo come dipinte, esser condotte più con il giudicio che con la mano, avendo a stare in altezza dove sia una gran distanza; perché la diligenza dell'ultimo finimento non si vede da lontano, ma si conosce bene la bella forma delle braccia e delle gambe, et il buon giudicio nelle falde de' panni con poche pieghe: perché nella semplicità del poco si mostra l'acutezza dell'ingegno. E per questo le figure di marmo o di bronzo, che vanno un poco alte, vogliono esser traforate gagliarde acciò che il marmo, che è bianco, et il bronzo, che ha del nero, piglino all'aria della oscurità, e per quella apparisca da lontano il lavoro esser finito, e d'appresso si vegga lasciato in bozze. La quale avvertenza ebbero grandemente gli antichi, come nelle lor figure tonde e di mezzo rilievo che negli archi e nelle colonne veggiamo di Roma, le quali mostrano ancora quel gran giudicio che egli ebbero; et infra i moderni si vede essere stato osservato il medesimo grandemente nelle sue opere da Donatello. Debbeno oltra di questo considerare, che quando le statue vanno in un luogo alto, e che a basso non sia molta distanza da potersi discostare a giudicarle da lontano, ma che s'abbia quasi a star loro sotto, che così fatte figure si debbon fare di una testa o due più d'altezza. E questo si fa, perché quelle figure che son poste in alto si perdono nello scorto della veduta stando di sotto e guardando allo in su; onde, ciò che si dà di accrescimento viene a consumarsi nella grossezza dello scorto, e tornano poi di proporzione, nel guardarle, giuste e non nane, ma con bonissima grazia. E quando non piacesse far questo, si potrà mantenere le membra della figura sottilette e gentili, che questo ancora torna quasi il medesimo.

Costumasi per molti artefici fare la figura di nove teste, la quale vien partita in otto teste tutta, eccetto la gola, il collo e l'altezza del piede, che con queste torna nove; perché due sono gli stinchi, due dalle ginocchia a membri genitali, e tre il torso fino alla fontanella della gola, et un'altra dal mento all'ultimo della fronte, et una ne fanno la gola e quella parte ch'è dal dosso del piede alla pianta: che sono nove. Le braccia vengono appiccate alle spalle, e dalla fontanella all'appiccatura da ogni banda è una testa, et esse braccia sino a la appiccatura delle mani sono tre teste, et allargandosi l'uomo con le braccia, apre appunto tanto quanto egli è alto. Ma non si debbe usare altra miglior misura che il giudicio dello occhio, il quale sebbene una cosa sarà benissimo misurata, et egli ne rimanghi offeso, non resterà per questo di biasimarla. Però diciamo che sebbene la misura è una retta moderazione da ringrandire le figure talmente, che le altezze e le larghezze, servato l'ordine, faccino l'opera proporzionata e graziosa, l'occhio, nondimeno, ha poi con il giudicio a levare et ad aggiugnere, secondo che vedrà la disgrazia dell'opera, talmente che e' le dia giustamente proporzione, grazia, disegno e perfezzione, acciò che ella sia in sé tutta lodata da ogni ottimo giudicio. E quella statua o figura che avrà queste parti, sarà perfetta di bontà, di bellezza, di disegno e di grazia. E tali figure chiameremo tonde, purché si possino vedere tutte le parti finite, come si vede nell'uomo girandolo attorno, e similmente poi l'altre che da queste dipendono. Ma e' mi pare oramai tempo da venire alle cose più particulari.


Cap. IX. Del fare i modelli di cera e di terra, e come si vestino, e come a proporzione si ringrandischino poi nel marmo; come si subbino e si gradinino e pulischino e impomicino e si lustrino e si rendino finiti.


Sogliono gli scultori, quando vogliono lavorare una figura di marmo, fare per quella un modello, che così si chiama, cioè uno esemplo, che è una figura di grandezza di mezzo braccio o meno o più, secondo che gli torna comodo, o di terra o di cera o di stucco, perché e' possin mostrar in quella l'attitudine e la proporzione che ha da essere nella figura che e' voglion fare, cercando accomodarsi alla larghezza et all'altezza del sasso che hanno fatto cavare per farvela dentro.

Ma per mostrarvi come la cera si lavora, diremo del lavorar la cera, e non la terra. Questa per renderla più morbida, vi si mette dentro un poco di sevo e di trementina e di pece nera, delle quali cose il sevo la fa più arrendevole, e la trementina tegnente in sé, e la pece le dà il colore nero e le fa una certa sodezza, da poi ch'è lavorata, nello stare fatta, che ella diventa dura. E chi volesse anco farla d'altro colore, può agevolmente, perché mettendovi dentro terra rossa, o vero cinabrio o minio, la farà giuggiolina o di somigliante colore, se verderame, verde, et il simile si dice degli altri colori. Ma è bene da avvertire che i detti colori vogliono esser fatti in polvere e stiacciati, e così fatti essere poi mescolati con la cera, liquefatta che sia. Fassene ancora per le cose piccole e per fare medaglie, ritratti e storiette, et altre cose di basso rilievo, della bianca. E questa si fa mescolando con la cera bianca biacca in polvere, come si è detto di sopra. Non tacerò ancora che i moderni artefici hanno trovato il modo di fare nella cera le mestiche di tutte le sorti colori; onde nel fare ritratti di naturale di mezzo rilievo, fanno le carnagioni, i capegli, i panni e tutte l'altre cose in modo simili al vero, che a cotali figure non manca, in un certo modo, se non lo spirito e le parole.

Ma per tornare al modo di fare la cera, acconcia questa mistura e insieme fonduta, fredda ch'ella è, se ne fa i pastelli i quali, nel maneggiarli, dalla caldezza delle mani si fanno come pasta, e con essa si crea una figura a sedere, ritta, o come si vuole, la quale abbia sotto un'armadura, per reggerla in se stessa, o di legni, o di fili di ferro, secondo la volontà dell'artefice; et ancor si può far con essa e senza, come gli torna bene. Et a poco a poco, col giudicio e le mani lavorando, crescendo la materia, con i stecchi d'osso, di ferro o di legno si spinge in dentro la cera, e con mettere dell'altra sopra si aggiugne e raffina finché con le dita si dà a questo modello l'ultimo pulimento. E finito ciò, volendo fare di quegli che siano di terra, si lavora a similitudine della cera, ma senza armadura di sotto, o di legno o di ferro, perché li farebbe fendere e crepare; e mentre che quella si lavora, perché non fenda, con un panno bagnato si tien coperta fino che resta fatta.

Finiti questi piccioli modelli o figure di cera o di terra, si ordina di fare un altro modello che abbia ad essere grande quanto quella stessa figura che si cerca di fare di marmo; nel che fare, perché la terra che si lavora umida, nel seccarsi, rientra, bisogna mentre che ella si lavora fare a bell'agio e rimetterne su di mano in mano, e nell'ultima fine mescolare con la terra farina cotta, che la mantiene morbida e lieva quella secchezza; e questa diligenza fa che il modello, non rientrando, rimane giusto e simile alla figura che s'ha da lavorare di marmo. E perché il modello di terra grande si abbia a reggere in sé, e la terra non abbia a fendersi, bisogna pigliare della cimatura o borra che si chiami, o pelo, e nella terra mescolare quella; la quale la rende in sé tegnente e non la lascia fendere. Armasi di legni sotto e di stoppa stretta, o fieno, con lo spago, e si fa l'ossa della figura e se le fa fare quella attitudine che bisogna, secondo il modello picciolo, diritto o a sedere che sia, e cominciando a coprirla di terra, si conduce ignuda lavorandola insino al fine. La qual condotta, se se le vuol poi fare panni addosso che siano sottili, si piglia pannolino che sia sottile, e se grosso, grosso, e si bagna; e bagnato, con la terra s'interra, non liquidamente, ma di un loto che sia alquanto sodetto, et attorno alla figura si va acconciandolo che faccia quelle pieghe et ammaccature che l'animo gli porge; di che secco verrà a indurarsi e manterrà di continuo le pieghe. In questo modo si conducono a fine i modelli e di cera e di terra.

Volendo ringrandirlo a proporzione nel marmo, bisogna che nella stessa pietra onde s'ha da cavare la figura, sia fatta fare una squadra, che un dritto vada in piano a' piè della figura, e l'altro vada in alto e tenga sempre il fermo del piano, e così il dritto di sopra; e similmente un'altra squadra o di legno o d'altra cosa sia al modello, per via della quale si piglino le misure da quella del modello, quanto sportano le gambe fora e così le braccia; e si va spignendo la figura in dentro con queste misure, riportandole sul marmo dal modello; di maniera che, misurando il marmo et il modello a proporzione, viene a levare della pietra con li scarpelli; e la figura a poco a poco misurata viene a uscire di quel sasso, nella maniera che si caverebbe d'una pila d'acqua, pari e diritta, una figura di cera: ché prima verrebbe il corpo e la testa e [le] ginocchia, et a poco a poco, scoprendosi et in su tirandola, si vedrebbe poi la ritondità di quella fin passato il mezzo, e in ultimo la ritondità dell'altra parte. Perché quelli che hanno fretta a lavorare e che bucano il sasso da principio e levano la pietra dinanzi e di dietro risolutamente, non hanno poi luogo dove ritirarsi, bisognandoli; e di qui nascono molti errori che sono nelle statue; ché per la voglia ch'ha l'artefice del vedere le figure tonde fuor del sasso a un tratto, spesso se gli scuopre un errore che non può rimediarvi se non vi si mettono pezzi commessi, come abbiamo visto costumare a molti artefici moderni; il quale rattoppamento è da ciabattini e non da uomini eccellenti o maestri rari, et è cosa vilissima e brutta e di grandissimo biasimo.

Sogliono gli scultori nel fare le statue di marmo, nel principio loro abozzare le figure con le subbie - che sono una specie di ferri da loro così nominati, i quali sono appuntati e grossi -, e andare levando e subbiando grossamente il loro sasso; e poi con altri ferri, detti calcagnuoli, ch'hanno una tacca in mezzo e sono corti, andare quella ritondando per fino ch'eglino venghino a un ferro piano più sottile del calcagnuolo, che ha due tacche, et è chiamato gradina: col quale vanno per tutto con gentilezza gradinando la figura colla proporzione de' muscoli e delle pieghe; e la tratteggiano di maniera per la virtù delle tacche o denti predetti, che la pietra mostra grazia mirabile. Questo fatto, si va levando le gradinature con un ferro pulito; e per dare perfezione alla figura, volendole aggiugnere dolcezza, morbidezza e fine, si va con lime torte levando le gradine. Il simile si fa con altre lime sottili e scuffine diritte, limando che resti piano, e da poi con punte di pomice si va impomiciando tutta la figura, dandole quella carnosità che si vede nell'opere maravigliose della scultura. Adoperasi ancora il gesso di Tripoli, acciò che l'abbia lustro e pulimento; similmente con paglia di grano facendo struffoli, si stropiccia, talché finite e lustrate si rendono agl'occhi nostri bellissime.


Cap. X. De' bassi e de' mezzi rilievi, la difficultà del fargli, et in che consista il condurgli a perfezzione.


Quelle figure che gli scultori chiamano mezzi rilievi furono trovate già dagli antichi per fare istorie da adornare le mura piane, e se ne servirono ne' teatri e negl'archi per le vittorie; perché volendole fare tutte tonde, non le potevano situare, se non facevano prima una stanza o vero una piazza che fusse piana. Il che volendo sfuggire, trovarono una specie che mezzo rilievo nominarono, et è da noi così chiamato ancora: il quale, a similitudine d'una pittura, dimostra prima l'intero delle figure principali, o mezze tonde, o più come sono; e le seconde occupate dalle prime, e le terze dalle seconde, in quella stessa maniera che appariscono le persone vive quando elle sono ragunate e ristrette insieme. In questa specie di mezzo rilievo, per la diminuzione dell'occhio, si fanno l'ultime figure di quello basse, come alcune teste bassissime, e così i casamenti et i paesi, che sono l'ultima cosa.

Questa specie di mezzi rilievi da nessuno è mai stata meglio né con più osservanza fatta, né più proporziona[ta]mente diminuita o allontanata le sue figure l'una dall'altra, che dagli antichi. Come quelli che, imitatori del vero et ingegnosi, non hanno mai fatto le figure in tali storie che abbino piano, che scorti o fugga, ma l'hanno fatte co' proprii piedi che posino su la cornice di sotto: dove alcuni de' nostri moderni, animosi più del dovere, hanno fatto nelle storie loro di mezzo rilievo posare le prime figure nel piano che è di basso rilievo e sfugge, e le figure di mezzo sul medesimo, in modo che stando così non posano i piedi con quella sodezza che naturalmente doverebbono; laonde spesse volte si vede le punte de' piè di quelle figure che voltano il di dietro, toccarsi gli stinchi delle gambe, per lo scorto che è violento. E di tali cose se ne vede in molte opere moderne, et ancora nelle porte di S. Giovanni et in più luoghi di quella età. E per questo i mezzi rilievi che hanno questa proprietà sono falsi: perché, se la metà della figura si cava fuor del sasso, avendone a fare altre dopo quelle prime, vogliono avere regola dello sfuggire e diminuire, e co' piedi in piano, che sia più innanzi il piano che i piedi, come fa l'occhio e la regola nelle cose dipinte; e conviene che elle si abbassino di mano in mano a proporzione, tanto che venghino a rilievo stiacciato e basso; e per questa unione che in ciò bisogna, è difficile dar loro perfezzione e condurgli; atteso che nel rilievo ci vanno scorti di piedi e di teste, ch'è necessario avere grandissimo disegno a volere in ciò mostrare il valore dello artefice. E [a] tanta perfezzione si recano in questo grado le cose lavorate di terra e di cera, quanto quelle di bronzo e di marmo. Per che in tutte l'opere che aranno le parti ch'io dico, saranno i mezzi rilievi tenuti bellissimi e dagli artefici intendenti sommamente lodati.

La seconda specie, che bassi rilievi si chiamano, sono di manco rilievo assai ch'il mezzo, e si dimostrano almeno per la metà di quegli che noi chiamiamo mezzo rilievo; e in questi si può con ragione fare il piano, i casamenti, le prospettive, le scale, et i paesi: come veggiamo ne' pergami di bronzo in S. Lorenzo di Firenze et in tutti i bassi rilievi di Donato, il quale in questa professione lavorò veramente cose divine con grandissima osservazione. E questi si rendono a l'occhio facili e senza errori o barbarismi, perché non sportano tanto in fuori che possino dare causa di errori o di biasimo.

La terza specie si chiamano bassi e stiacciati rilievi; i quali non hanno altro in sé, che 'l disegno della figura con ammaccato e stiacciato rilievo. Sono difficili assai, atteso che e' ci bisogna disegno grande e invenzione, avvenga che questi sono faticosi a dargli grazia per amor de' contorni; et in questo genere ancora Donato lavorò meglio d'ogni artefice con arte, disegno et invenzione. Di questa sorte se n'è visto ne' vasi antichi aretini assai figure, maschere, et altre storie antiche, e similmente ne' cammei antichi, e nei conii da stampare le cose di bronzo per le medaglie, e similmente nelle monete.

E questo fecero, perché, se fossero state troppo di rilievo, non arebbono potuto coniarle, ch'al colpo del martello non sarebbono venute l'impronte, dovendosi imprimere i conii nella materia gittata, la quale, quando è bassa, dura poca fatica a riempire i cavi del conio. Di questa arte vediamo oggi molti artefici moderni che l'hanno fatta divinissimamente, e più che essi antichi, come si dirà nelle vite loro pienamente. Imperò chi conoscerà ne' mezzi rilievi la perfezzione delle figure fatte diminuire con osservazione, e ne' bassi la bontà del disegno per le prospettive et altre invenzioni, e nelli stiacciati la nettezza, la pulitezza, e la bella forma delle figure che vi si fanno, gli farà eccellentemente per queste parti tenere o lodevoli o biasimevoli, et insegnerà conoscerli altrui.


Cap. XI. Come si fanno i modelli per fare di bronzo le figure grandi e picciole, e come le forme per buttarle; come si armino di ferri e come si gettino di metallo, e di tre sorti bronzo; e come, gittate, si ceselino e si rinettino; e come, mancando pezzi che non fussero venuti, s'innestino e commettino nel medesimo bronzo.


Usano gl'artefici eccellenti quando vogliono gittare o [di] metallo o bronzo figure grandi, fare nel principio una statua di terra tanto grande, quanto quella che e' vogliono buttare di metallo, e la conducono di terra a quella perfezzione ch'è concessa dall'arte e dallo studio loro. Fatto questo che si chiama da loro modello e condotto a tutta la perfezione dell'arte e del saper loro, cominciano poi con gesso da fare presa a formare sopra questo modello, parte per parte, facendo addosso a quel modello i cavi d'i pezzi; e sopra ogni pezzo si fanno riscontri, che un pezzo con l'altro si commettano segnandoli o con numeri o con alfabeti o altri contrassegni, e che si possino cavare e reggere insieme. Così a parte per parte lo vanno formando et ungendo con olio fra gesso e gesso, dove le commettiture s'hanno a congiugnere; e così di pezzo in pezzo la figura si forma, e la testa, le braccia, il torso, e le gambe per fin all'ultima cosa, di maniera che il cavo di quella statua, cioè la forma incavata, viene improntata nel cavo con tutte le parti et ogni minima cosa che è nel modello. Fatto ciò, quelle forme di gesso si lasciano assodare e riposare; poi pigliano un palo di ferro che sia più lungo di tutta la figura che vogliono fare e che si ha a gettare, e sopra quello fanno un'anima di terra, la quale morbidamente impastando, vi mescolano sterco di cavallo e cimatura; la quale anima ha la medesima forma che la figura del modello, et a suolo a suolo si cuoce per cavare la umidità della terra: e questa serve poi alla figura; perché, gittando la statua, tutta questa anima, ch'è soda, vien vacua né si riempie di bronzo, che non si potrebbe muovere per lo peso. Così ingrossano tanto e con pari misure quest'anima, che scaldando e cocendo i suoli, come è detto, quella terra vien cotta bene, e così priva in tutto dell'umido, che gittandovi poi sopra il bronzo, non può schizzare o fare nocumento, come si è visto già molte volte con la morte de' maestri e con la rovina di tutta l'opera. Così vanno bilicando questa anima et assettando e contrapesando i pezzi, finché la riscontrino e riprovino, tanto ch'eglino vengono a fare, che si lasci appunto la grossezza del metallo o la sottilità di che vuoi che la statua sia.

Armano spesso questa anima per traverso con perni di rame e con ferri che si possino cavare e mettere, per tenerla con sicurtà e forza maggiore. Questa anima, quando è finita, nuovamente ancora si ricuoce con fuoco dolce, e cavatane interamente l'umidità, se pur ve ne fusse restata punto, si lascia poi riposare. E ritornando a' cavi del gesso, si formano quelli pezzo per pezzo con cera gialla, che sia stata in molle e sia incorporata con un poco di trementina e di sevo. Fondutala dunque al fuoco, la gettano a metà per metà ne' pezzi di cavo, di maniera che l'artefice fa venire la cera sottile secondo la volontà sua per il getto. E tagliati i pezzi secondo che sono i cavi addosso all'anima che già di terra s'è fatta, gli commettono et insieme gli riscontrano e innestano, e con alcuni brocchi di rame sottili fermano sopra l'anima cotta i pezzi della cera, confitti da detti brocchi, e così a pezzo a pezzo la figura innestano e riscontrono, e la rendono del tutto finita. Fatto ciò vanno levando tutta la cera dalle bave delle superfluità de' cavi, conducendola il più che si può a quella finita bontà e perfezione che si desidera che abbia il getto. Et avanti che e' proceda più innanzi, rizza la figura e considera diligentemente se la cera ha mancamento alcuno, e la va racconciando e riempiendo o rinalzando o abbassando dove mancasse.

Appresso, finita la cera e ferma la figura, mette l'artefice su due alari, o di legno o di pietra o di ferro, come un arrosto, al fuoco la sua figura, con commodità che ella si possa alzare e abbassare; e con cenere bagnata, appropriata a quell'uso, con un pennello tutta la figura va ricoprendo che la cera non si vegga, e per ogni cavo e pertugio la veste bene di questa materia. Dato la cenere, rimette i perni a traverso, che passano la cera e l'anima, secondo che gl'ha lasciati nella figura; perciò che questi hanno a reggere l'anima di dentro, e la cappa di fuori, che è la incrostatura del cavo fra l'anima e la cappa dove il bronzo si getta. Armato ciò, l'artefice comincia a tôrre della terra sottile con cimatura e sterco di cavallo, come dissi, battuta insieme, e con diligenza fa una incrostatura per tutto sottilissima, e quella lascia seccare; e così volta per volta si fa l'altra incrostatura con lasciare seccare di continuo, finché viene interrando et alzando alla grossezza di mezzo palmo il più. Fatto ciò, que' ferri che tengono l'anima di dentro, si cingono con altri ferri che tengono di fuori la cappa, ed a quelli si fermano; e l'un l'altro incatenati e serrati fanno reggimento l'uno all'altro: l'anima di dentro regge la cappa di fuori, e la cappa di fuori regge l'anima di dentro. Usasi fare certe cannelle fra l'anima e la cappa, le quali si dimandano venti, che sfiatano all'insù, e si mettono, verbigrazia, da un ginocchio a un braccio che alzi; perché questi danno la via al metallo di soccorrere quello che per qualche impedimento non venisse; e se ne fanno pochi et assai, secondo che è difficile il getto. Ciò fatto, si va dando il fuoco a tale cappa ugualmente per tutto, tal che ella venga unita et a poco a poco a riscaldarsi, rinforzando il fuoco sino a tanto che la forma si infuochi tutta, di maniera che la cera che è nel cavo di dentro venga a struggersi, tale che ella esca tutta per quella banda per la quale si debbe gittare il metallo, senza che ve ne rimanga dentro niente. Et a conoscere ciò, bisogna, quando i pezzi s'innestano su la figura, pesarli pezzo per pezzo; così poi, nel cavare la cera, ripesarla; e facendo il calo di quella, vede l'artefice se n'è rimasta fra l'anima e la cappa, e quanta n'è uscita. E sappi che qui consiste la maestria e la diligenza dell'artefice a cavare tal cera; dove si mostra la difficultà di fare i getti, che venghino begli e netti; atteso che, rimanendoci punto di cera, ruinarebbe tutto il getto, massimamente in quelle parti dove essa rimane.

Finito questo, l'artefice sotterra questa forma vicino alla fucina dove il bronzo si fonde, e puntella sì che il bronzo non la sforzi, e li fa le vie che possa buttarsi, et al sommo lascia una quantità di grossezza, che si possa poi segare il bronzo che avanza di questa materia; e questo si fa perché venga più netta. Ordina il metallo che vuole, e per ogni libra di cera ne mette dieci di metallo. Fassi la lega del metallo statuario di due terzi rame et un terzo ottone, secondo l'ordine italiano. Gli Egizi, da' quali quest'arte ebbe origine, mettevano nel bronzo i due terzi ottone e un terzo rame. Del metallo elletro, che è degl'altri più fine, si mette due parti rame e la terza argento; nelle campane per ogni cento di rame XX di stagno - et a l'artiglierie per ogni cento di rame dieci di stagno -, acciò che il suono di quelle sia più squillante et unito.

Restaci ora ad insegnare, che venendo la figura con mancamento, perché fosse il bronzo cotto o sottile o mancasse in qualche parte, il modo dell'innestarvi un pezzo. Et in questo caso lievi l'artefice tutto quanto il tristo che è in quel getto, e facciavi una buca quadra cavandola sotto squadra; di poi le aggiusti un pezzo di metallo attuato a quel pezzo, che venga in fuora quanto gli piace; e commesso appunto in quella buca quadra, col martello tanto lo percuota che lo saldi, e con lime e ferri faccia sì che lo pareggi e finisca in tutto.

Ora, volendo l'artefice gettare di metallo le figure picciole, quelle si fanno di cera o, avendone, di terra o d'altra materia, vi fa sopra il cavo di gesso come alle grandi, e tutto il cavo si empie di cera. Ma bisogna che il cavo sia bagnato, perché buttandovi detta cera, ella si rappiglia per la freddezza dell'acqua e del cavo. Di poi, sventolando e diguazzando il cavo, si vòta la cera che è in mezzo del cavo, di maniera che il getto resta vòto nel mezzo; il qual vòto o vano riempie l'artefice poi di terra e vi mette perni di ferro. Questa terra serve poi per anima, ma bisogna lasciarla seccar bene. Da poi fa la cappa come all'altre figure grandi, armandola e mettendovi le cannelle per i venti; la cuoce di poi, e ne cava la cera, e così il cavo si resta netto, sì che agevolmente si possono gittare. Il simile si fa de' bassi e de' mezzi rilievi e d'ogni altra cosa di metallo.

Finiti questi getti, l'artefice di poi con ferri appropriati, cioè bulini, ciappole, strozzi, ceselli, puntelli, scarpelli, e lime lieva dove bisogna; e dove bisogna spigne all'indietro e rinetta le bave, e con altri ferri che radono raschia e pulisce il tutto con diligenza, et ultimamente con la pomice gli dà il pulimento. Questo bronzo piglia col tempo per se medesimo un colore che trae in nero, e non in rosso come quando si lavora. Alcuni con olio lo fanno venire nero, altri con l'aceto lo fanno verde, et altri con la vernice li danno il colore di nero, tale che ognuno lo conduce come più gli piace. Ma quello che veramente è cosa maravigliosa, è venuto a' tempi nostri questo modo di gettar le figure, così grandi come picciole, in tanta eccellenza, che molti maestri le fanno venire nel getto in modo pulite, che non si hanno a rinettare con ferri, e tanto sottili quanto è una costola di coltello. E, quello che è più, alcune terre e ceneri che a ciò s'adoperano, sono venute in tanta finezza, che si gettano d'argento e d'oro le ciocche della ruta, e ogni altra sottile erba o fiore agevolmente e tanto bene, che così belli riescono come il naturale. Nel che si vede questa arte essere in maggior eccellenza che non era al tempo degli antichi.


Cap. XII. De' conii d'acciaio per fare le medaglie di bronzo o d'altri metalli, e come elle si fanno di essi metalli, di pietre orientali e di cammei.


Volendo fare le medaglie di bronzo, d'argento o d'oro come già le fecero gli antichi, debbe l'artefice primieramente con punzoni di ferro intagliare di rilievo i punzoni nell'acciaio indolcito a fuoco, a pezzo per pezzo, come per esemplo la testa sola di rilievo ammaccato in un punzone solo d'acciaio, e così l'altre parti che si commettono a quella; fabbricati così d'acciaio tutti i punzoni che bisognano per la medaglia, si temprano col fuoco, et in sul conio dell'acciaio stemperato, che debbe servire per cavo e per madre della medaglia, si va improntando a colpi di martello e la testa e l'altre parti a' luoghi loro. E dopo l'avere improntato il tutto, si va diligentemente rinettando e ripulendo e dando fine e perfezione al predetto cavo, che ha poi a servire per madre. Hanno tuttavolta usato molti artefici d'incavare con le ruote le dette madri in quel modo che si lavorano d'incavo i cristalli, i diaspri, i calcidonii, le agate, gli ametisti, i sardonii, i lapislazuli, i crisoliti, le corniuole, i cammei, e l'altre pietre orientali; et il così fatto lavoro fa le madri più pulite, come ancora le pietre predette. Nel medesimo modo si fa il rovescio della medaglia; e con la madre della testa e con quella del rovescio si stampano medaglie di cera o di piombo, le quali si formano di poi con sottilissima polvere di terra atta a ciò; nelle quali forme, cavatane prima la cera o il piombo predetto, serrate dentro a le staffe, si getta quello stesso metallo che ti aggrada per la medaglia. Questi getti si rimettono nelle loro madri d'acciaio, e per forza di viti o di lieve et a colpi di martello si stringono talmente, che elle pigliano quella pelle dalla stampa che elle non hanno presa dal getto. Ma le monete e l'altre medaglie più basse si improntano senza viti, a colpi di martello con mano; e quelle pietre orientali che noi dicemmo di sopra, si intagliano di cavo con le ruote per forza di smeriglio, che con la ruota consuma ogni sorte di durezza di qualunque pietra si sia. E l'artefice va spesso improntando con cera quel cavo che e' lavora, et in questo modo va levando dove più giudica di bisogno, e dando fine alla opera. Ma i cammei si lavorano di rilievo, perché essendo questa pietra faldata, cioè bianca sopra e sotto nera, si va levando del bianco tanto, che o testa o figura resti di basso rilievo bianca nel campo nero. Et alcuna volta, per accomodarsi che tutta la testa o figura venga bianca in sul campo nero, si usa di tignere il campo, quando e' non è tanto scuro quanto bisogna. E di questa professione abbiamo viste opere mirabili e divinissime antiche e moderne.


Cap. XIII. Come di stucco si conducono i lavori bianchi, e del modo del fare la forma di sotto murata, e come si lavorano.


Solevano gl'antichi, nel volere fare volte o incrostature o porte o finestre o altri ornamenti di stucchi bianchi, fare l'ossa di sotto di muraglia, che sia o di mattoni cotti o vero di tufi, cioè sassi che siano dolci e si possino tagliare con facilità; e di questi murando, facevano l'ossa di sotto, dandoli o forma di cornice o di figure o di quello che fare volevano, tagliando de' mattoni o delle pietre, le quali hanno a essere murate con la calce. Poi con lo stucco che nel capitolo IIII dicemmo impastato di marmo pesto e di calce di trevertino, debbano fare sopra l'ossa predette la prima bozza di stucco ruvido, cioè grosso e granelloso, acciò vi si possi mettere sopra il più sottile, quando quel di sotto ha fatto la presa, e che sia fermo, ma non secco affatto. Perché lavorando la massa della materia in su quel che è umido, fa maggior presa, bagnando di continuo dove lo stucco si mette, acciò si renda più facile a lavorarlo. E volendo fare cornici o fogliami intagliati, bisogna avere forme di legno, intagliate nel cavo di quegli stessi intagli che tu vuoi fare.

E si piglia lo stucco che sia non sodo sodo, né tenero tenero, ma di una maniera tegnente; e si mette su l'opra alla quantità della cosa che si vuol formare, e vi si mette sopra la predetta forma intagliata, impolverata di polvere di marmo; e picchiandovi su con un martello, che il colpo sia uguale, resta lo stucco improntato: il quale si va rinettando e pulendo poi, acciò venga il lavoro diritto et uguale. Ma volendo che l'opera abbia maggior rilievo allo infuori, si conficcano, dove ell'ha da essere, ferramenti o chiodi o altre armadure simili che tenghino sospeso in aria lo stucco, che fa con esse presa grandissima: come negli edificii antichi si vede, ne' quali si truovano ancora gli stucchi et i ferri conservati sino al dì d'oggi. Quando vuole, adunque, l'artefice condurre in muro piano un'istoria di basso rilievo, conficca prima in quel muro i chiovi spessi, dove meno e dove più in fuori, secondo che hanno a stare le figure, e tra quegli serra pezzami piccoli di mattoni o di tufi, a cagione che le punte o capi di quegli tenghino il primo stucco grosso e bozzato; et appresso lo va finendo con pulitezza e con pacienza, che e' si rassodi. E mentre che egli indurisce, l'artefice lo va diligentemente lavorando e ripulendolo di continovo co' pennelli bagnati, di maniera che e' lo conduce a perfezzione come se e' fusse di cera o di terra. Con questa maniera medesima di chiovi e di ferramenti fatti a posta, e maggiori e minori secondo il bisogno, si adornano di stucchi le volte, gli spartimenti e le fabbriche vecchie, come si vede costumarsi oggi per tutta Italia da molti maestri che si son dati a questo esercizio. Né si debbe dubitare di lavoro così fatto come di cosa poco durabile, perché e' si conserva infinitamente, et indurisce tanto nello star fatto, che e' diventa col tempo come marmo.


Cap. XIIII. Come si conducono le figure di legno, e che legno sia buono a farle.


Chi vuole che le figure del legno si possino condurre a perfezzione, bisogna che e' ne faccia prima il modello di cera o di terra, come dicemmo. Questa sorte di figure si è usata molto nella cristiana religione, atteso che infiniti maestri hanno fatto molti crocifissi e diverse altre cose. Ma invero non si dà mai al legno quella carnosità o morbidezza, che al metallo et al marmo et all'altre sculture che noi veggiamo, e di stucchi o di cera o di terra. Il migliore, nientedimanco, tra tutti i legni che si adoperano alla scultura, è il tiglio, perché egli ha i pori uguali per ogni lato, et ubbidisce più agevolmente alla lima et allo scarpello. Ma perché l'artefice, essendo grande la figura che e' vuole, non può fare il tutto d'un pezzo solo, bisogna ch'egli lo commetta di pezzi, e l'alzi et ingrossi secondo la forma che e' lo vuol fare. E per appiccarlo insieme in modo che e' tenga, non tolga mastrice di cacio, perché non terrebbe, ma colla di spicchi, con la quale, strutta, scaldati i predetti pezzi al fuoco, gli commetta e gli serri insieme, non con chiovi di ferro, ma del medesimo legno. Il che fatto, lo lavori et intagli secondo la forma del suo modello. E degli artefici di così fatto mestiero si sono vedute ancora opere di bossolo lodatissime et ornamenti di noce bellissimi, i quali quando sono di bel noce, che sia nero, appariscono quasi di bronzo. Et ancora abbiamo veduto intagli in noccioli di frutte, come di cirege e meliache, di mano di tedeschi molto eccellenti, lavorati con una pacienza e sottigliezza grandissima. E sebbene e' non hanno gli stranieri quel perfetto disegno che nelle cose loro dimostrano gl'italiani, hanno nientedimeno operato et operano continovamente in guisa, che riducono le cose a tanta sottigliezza, che elle fanno stupire il mondo; come si può vedere in un'opera, o per meglio dire, in un miracolo di legno di mano di maestro Ianni franzese, il quale abitando nella città di Firenze, - la quale egli si aveva eletta per patria -, prese in modo nelle cose del disegno, del quale gli dilettò sempre, la maniera italiana, che con la pratica che aveva nel lavorar il legno fece di tiglio una figura d'un S. Rocco grande quanto il naturale, e condusse con sottilissimo intaglio tanto morbidi e traforati i panni che la vestono et in modo cartosi, e con bello andar l'ordine delle pieghe, che non si può veder cosa più maravigliosa. Similmente condusse la testa, la barba, le mani, e le gambe di quel Santo con tanta perfezzione, che ella ha meritato e meriterà sempre lode infinita da tutti gli uomini; e, che è più, acciò si veggia in tutte le sue parti l'eccellenza dell'artefice, è stata conservata insino a oggi questa figura nella Nunziata di Firenze sotto il pergamo, senza alcuna coperta di colori o di pitture, nello stesso color del legname, e con la sola pulitezza, e perfezzione che maestro Ianni le diede, bellissima sopra tutte l'altre che si veggia intagliata in legno.

E questo basti brevemente aver detto delle cose della scultura. Passiamo ora alla pittura.


DELLA PITTURA


Cap. XV. Che cosa sia disegno, e come si fanno e si conoscono le buone pitture, et a che; e dell'invenzione delle storie.


Perché il disegno, padre delle tre arti nostre, architettura, scultura e pittura, procedendo dall'intelletto, cava di molte cose un giudizio universale, simile a una forma o vero idea di tutte le cose della natura, la quale è singolarissima nelle sue misure, di qui è che non solo nei corpi umani e degl'animali, ma nelle piante ancora, e nelle fabriche e sculture e pitture cognosce la proporzione che ha il tutto con le parti, e che hanno le parti fra loro e col tutto insieme. E perché da questa cognizione nasce un certo concetto e giudizio che si forma nella mente quella tal cosa, che poi espressa con le mani si chiama disegno, si può conchiudere che esso disegno altro non sia che una apparente espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell'animo, e di quello che altri si è nella mente imaginato e fabricato nell'idea. E da questo per avventura nacque il proverbio de' Greci "Dell'ugna un leone", quando quel valente uomo vedendo scolpita in un masso l'ugna sola d'un leone, comprese con l'intelletto da quella misura e forma le parti di tutto l'animale, e dopo il tutto insieme, come se l'avesse avuto presente e dinanzi agl'occhi.

Credono alcuni che il padre del disegno e dell'arti fusse il caso, e che l'uso e la sperienza, come balia e pedagogo, lo nutrissero con l'aiuto della cognizione e del discorso; ma io credo che con più verità si possa dire il caso aver più tosto dato occasione, che potersi chiamar padre del disegno. Ma sia come si voglia, questo disegno ha bisogno, quando cava l'invenzione d'una qualche cosa dal giudizio, che la mano sia, mediante lo studio et essercizio di molti anni, spedita et atta a disegnare et esprimere bene qualunche cosa ha la natura creato, con penna, con stile, con carbone, con matita o con altra cosa; perché quando l'intelletto manda fuori i concetti purgati e con giudizio, fanno quelle mani, che hanno molti anni essercitato il disegno, conoscere la perfezione et eccellenza dell'arti, et il sapere dell'artefice insieme. E perché alcuni scultori talvolta non hanno molta pratica nelle linee e ne' dintorni, onde non possono disegnare in carta, eglino in quel cambio con bella proporzione e misura facendo con terra o cera uomini, animali, et altre cose di rilievo, fanno il medesimo che fa colui il quale perfettamente disegna in carta o in su altri piani.

Hanno gli uomini di queste arti chiamato o vero distinto il disegno in varii modi, e secondo le qualità de' disegni che si fanno. Quelli che sono tocchi leggermente et apena accennati con la penna o altro si chiamano schizzi, come si dirà in altro luogo. Quegli, poi, che hanno le prime linee intorno intorno sono chiamati profili, dintorni, o lineamenti. E tutti questi o profili o altrimenti che vogliam chiamarli servono così all'architettura e scultura come alla pittura, ma all'architettura massimamente; perciò che i disegni di quella non sono composti se non di linee, il che non è altro quanto all'architettore, ch'il principio e la fine di quell'arte, perché il restante, mediante i modelli di legname tratti dalle dette linee, non è altro che opera di scarpellini e muratori. Ma nella scultura serve il disegno di tutti i contorni, perché a veduta per veduta se ne serve lo scultore quando vuol disegnare quella parte che gli torna meglio, o che egli intende di fare per ogni verso o nella cera o nella terra o nel marmo o nel legno o altra materia.

Nella pittura servono i lineamenti in più modi, ma particolarmente a dintornare ogni figura, perché quando eglino sono ben disegnati e fatti giusti, et a proporzione, l'ombre, che poi vi si aggiungono, et i lumi sono cagione che i lineamenti della figura che si fa, ha grandissimo rilievo, e riesce di tutta bontà e perfezzione. E di qui nasce, che chiunque intende e maneggia bene queste linee sarà in ciascuna di queste arti, mediante la pratica et il giudizio, eccellentissimo. Chi dunque vuole bene imparare a esprimere disegnando i concetti dell'animo e qualsivoglia cosa, fa di bisogno, poi che averà alquanto assuefatta la mano, che per divenir più intelligente nell'arti si eserciti in ritrarre figure di rilievo o di marmo, o di sasso, o vero di quelle di gesso formate sul vivo, o vero sopra qualche bella statua antica, o sì veramente rilievi di modelli fatti di terra o nudi o con cenci interrati addosso, che servono per panni e vestimenti; perciò che tutte queste cose essendo immobili e senza sentimento, fanno grande agevolezza stando ferme a colui che disegna, il che non avviene nelle cose vive, ché si muovono. Quando poi averà in disegnando simili cose fatto buona pratica et assicurata la mano, cominci a ritrarre cose naturali, et in esse faccia con ogni possibile opera e diligenza una buona e sicura pratica; perciò che le cose che vengono dal naturale sono veramente quelle che fanno onore a chi si è in quelle affaticato, avendo in sé, oltre a una certa grazia e vivezza, di quel semplice, facile, e dolce che è proprio della natura, e che dalle cose sue s'impara perfettamente, e non dalle cose dell'arte abbastanza già mai. E tengasi per fermo, che la pratica che si fa con lo studio di molti anni in disegnando, come si è detto di sopra, è il vero lume del disegno, e quello che fa gli uomini eccellentissimi. Ora avendo di ciò ragionato a bastanza, seguita che noi veggiamo che cosa sia la pittura.

Ell'è dunque un piano coperto di campi di colori in superficie o di tavola o di muro o di tela, intorno a' lineamenti detti di sopra, i quali per virtù di un buon disegno di linee girate circondano la figura. Questo sì fatto piano, dal pittore con retto giudizio mantenuto nel mezzo chiaro e negli estremi e ne' fondi scuro, et accompagnato tra questi e quello da colore mezzano fra il chiaro e lo scuro, fa che, unendosi insieme questi tre campi, tutto quello che è tra l'uno lineamento e l'altro si rilieva et apparisce tondo e spiccato, come s'è detto. Bene è vero che questi tre campi non possono bastare ad ogni cosa minutamente, atteso che egli è necessario dividere qualunche di loro almeno in due spezie, faccendo in quel chiaro due mezzi, e di quello scuro due più chiari, e di quel mezzo due altri mezzi che pendino l'uno nel più chiaro e l'altro nel più scuro. Quando queste tinte d'un color solo, qualunche egli si sia, saranno stemperate, si vedrà a poco a poco cominciare il chiaro, e poi meno chiaro, e poi un poco più scuro, di maniera ch'a poco a poco troverremo il nero schietto.

Fatte dunque le mestiche, cioè mescolati insieme questi colori, volendo lavorare o a olio o a tempera o in fresco, si va coprendo il lineamento, e mettendo a' suoi luoghi i chiari e gli scuri et i mezzi e gli abbagliati de' mezzi e de' lumi, che sono quelle tinte mescolate de' tre primi, chiaro, mezzano e scuro, i quali chiari e mezzani e scuri et abbagliati si cavano dal cartone o vero altro disegno che per tal cosa è fatto per porlo in opra; il qual'è necessario che sia condotto con buona collocazione e disegno fondato, e con giudizio et invenzione, atteso che la collocazione non è altro nella pittura, che avere spartito in quel loco dove si fa una figura, che gli spazii siano concordi al giudizio dell'occhio, e non siano disformi; che il campo sia in un luogo pieno e nell'altro vòto: la qual cosa nasca dal disegno, e dall'avere ritratto o figure di naturale vive o da' modelli di figure fatte per quello che si voglia fare. Il qual disegno non può avere buon'origine, se non s'ha dato continuamente opera a ritrarre cose naturali, e studiato pitture d'eccellenti maestri, e di statue antiche di rilievo, come s'è tante volte detto. Ma sopra tutto il meglio è gl'ignudi degli uomini vivi e femine, e da quelli avere preso in memoria per lo continovo uso i muscoli del torso, delle schiene, delle gambe, delle braccia, delle ginocchia e l'ossa di sotto, e poi avere sicurtà per lo molto studio, che senza avere i naturali inanzi si possa formare di fantasia, da sé, attitudini per ogni verso; così aver veduto degli uomini scorticati, per sapere come stanno l'ossa sotto et i muscoli et i nervi con tutti gli ordini e' termini della notomia, per potere con maggior sicurtà, e più rettamente situare le membra nell'uomo, e porre i muscoli nelle figure. E coloro che ciò sanno, forza è che faccino perfettamente i contorni delle figure; le quali, dintornate come elle debbono, mostrano buona grazia e bella maniera. Perché chi studia le pitture e sculture buone, fatte con simil modo, vedendo et intendendo il vivo, è necessario che abbi fatto buona maniera nell'arte. E da ciò nasce l'invenzione, la quale fa mettere insieme in istoria le figure a quattro, a sei, a dieci, a venti, talmente che si viene a formare le battaglie e l'altre cose grandi dell'arte. Questa invenzione vuol in sé una convenevolezza formata di concordanza e d'obedienza: ché, s'una figura si muove per salutare un'altra, non si faccia la salutata voltarsi indietro, avendo a rispondere; e con questa similitudine tutto il resto.

La istoria sia piena di cose variate e differenti l'una da l'altra, ma a proposito sempre di quello che si fa, e che di mano in mano figura lo artefice, il quale debbe distinguere i gesti e l'attitudini, facendo le femmine con aria dolce e bella, e similmente i giovani; ma i vecchi gravi sempre d'aspetto, et i sacerdoti massimamente, e le persone di autorità; avvertendo però sempremai che ogni cosa corrisponda ad un tutto dell'opera, di maniera che quando la pittura si guarda, vi si conosca una concordanza unita, che dia terrore nelle furie e dolcezza negli effetti piacevoli, e rappresenti in un tratto la intenzione del pittore, e non le cose che e' non pensava. Conviene adunque per questo che e' formi le figure che hanno ad essere fiere con movenzia e con gagliardia, e sfugga quelle che sono lontane dalle prime con l'ombre e con i colori appoco appoco dolcemente oscuri: di maniera che l'arte sia accompagnata sempre con una grazia di facilità e di pulita leggiadria di colori, e condotta l'opera a perfezzione, non con uno stento di passione crudele, che gl'uomini che ciò guardano abbino a patire pena della passione che in tal'opera veggono sopportata dallo artefice, ma da ralegrarsi della felicità che la sua mano abbia avuto dal cielo quella agilità, che renda le cose finite con istudio e fatica sì, ma non con istento; tanto che, dove elle sono poste, non siano morte, ma si appresentino vive e vere a chi le considera. Guardinsi da le crudezze, e cerchino che le cose che di continuo fanno, non paiono dipinte, ma si dimostrino vive e di rilievo fuor della opera loro.

E questo è il vero disegno fondato e la vera invenzione, che si conosce esser data da chi le ha fatte alle pitture che si conoscono e giudicano come buone.


Cap. XVI. Degli schizzi, disegni, cartoni et ordine di prospettive: e per quel che si fanno, et a quello che i pittori se ne servono.


Gli schizzi, de' quali si è favellato di sopra, chiamiamo noi una prima sorte di disegni che si fanno per trovar il modo delle attitudini, et il primo componimento dell'opra, e sono fatti in forma di una macchia e accennati solamente da noi in una sola bozza del tutto; e perché dal furor dello artefice sono in poco tempo con penna o con altro disegnatoio o carbone espressi solo per tentare l'animo di quel che gli sovviene, perciò si chiamano schizzi. Da questi dunque vengono poi rilevati in buona forma i disegni, nel far de' quali con tutta quella diligenza che si può, si cerca vedere dal vivo se già l'artefice non si sentisse gagliardo in modo che da sé li potesse condurre. Appresso, misuratili con le seste o a occhio, si ringrandiscono dalle misure piccole nelle maggiori, secondo l'opera che si ha da fare.

Questi si fanno con varie cose, cioè o con lapis rosso che è una pietra la qual viene da' monti di Alamagna, che, per esser tenera, agevolmente si sega e riduce in punte sottili da segnare con esse in sui fogli come tu vuoi; o con la pietra nera che viene da' monti di Francia, la qual'è similmente come la rossa; altri di chiaro e scuro si conducono su fogli tinti, che fanno un mezzo, e la penna fa il lineamento, cioè il dintorno o profilo, e l'inchiostro poi con un poco d'acqua fa una tinta dolce che lo vela et ombra; di poi con un pennello sottile intinto nella biacca stemperata con la gomma si lumeggia il disegno; e questo modo è molto alla pittoresca e mostra più l'ordine del colorito. Molti altri fanno con la penna sola, lasciando i lumi della carta; che è difficile, ma molto maestrevole; et infiniti altri modi ancora si costumano nel disegnare, de' quali non accade fare menzione, perché tutti rappresentano una cosa medesima, cioè il disegnare.

Fatti così i dissegni, chi vuole lavorar in fresco, cioè in muro, è necessario che faccia i cartoni, ancora ch'e' si costumi per molti di fargli per lavorar anco in tavola. Questi cartoni si fanno così: impastansi fogli con colla di farina e acqua cotta al fuoco; fogli, dico, che siano squadrati, e si tirano al muro con l'incollarli attorno due dita verso il muro con la medesima pasta. E si bagnano spruzzandovi dentro per tutto acqua fresca, e così molli si tirano, acciò nel seccarsi vengano a distendere il molle delle grinze. Da poi quando sono secchi si vanno, con una canna lunga che abbia in cima un carbone, riportando sul cartone per giudicar da discosto tutto quello che nel disegno piccolo è disegnato con pari grandezza; e così a poco a poco quando a una figura, e quando all'altra dànno fine. Qui fanno i pittori tutte le fatiche dell'arte, del ritrarre dal vivo ignudi e panni di naturale, e tirano le prospettive con tutti quelli ordini che piccoli si sono fatti in su' fogli, ringrandendoli a proporzione. E se in quegli fussero prospettive o casamenti, si ringrandiscono con la rete; la qual'è una graticola di quadri piccoli ringrandita nel cartone, che riporta giustamente ogni cosa. Perché chi ha tirate le prospettive ne' disegni piccoli, cavate di su la pianta, alzate col profilo e con la intersecazione e col punto fatte diminuire e sfuggire, bisogna che le riporti proporzionate in sul cartone. Ma del modo del tirarle, perché ella è cosa fastidiosa e difficile a darsi ad intendere, non voglio io parlare altrimenti. Basta, che le prospettive son belle tanto, quanto elle si mostrano giuste alla loro veduta, e sfuggendo si allontanano dall'occhio, e quando elle sono composte con variato e bello ordine di casamenti. Bisogna poi che 'l pittore abbia risguardo a farle con proporzione sminuire con la dolcezza de' colori, la qual'è nell'artefice una retta discrezione et un giudicio buono; la causa del quale si mostra nella difficultà delle tante linee confuse colte dalla pianta, dal profilo, et intersecazione, che ricoperte dal colore restano una facillissima cosa, la qual fa tenere l'artefice dotto, intendente et ingegnoso nell'arte. Usano ancora molti maestri, innanzi che faccino la storia nel cartone, fare un modello di terra in su un piano, con situar tonde tutte le figure per vedere gli sbattimenti, cioè l'ombre che da un lume si causano addosso alle figure, che sono quell'ombra tolta dal sole il quale, più crudamente che il lume, le fa in terra, nel piano, per l'ombra della figura. E di qui ritraendo il tutto della opra, hanno fatto l'ombre che percuotono adosso all'una e l'altra figura: onde ne vengono i cartoni e l'opera, per queste fatiche, di perfezzione e di forza più finiti, e da la carta si spiccano per il rilievo; il che dimostra il tutto più bello e maggiormente finito.

E quando questi cartoni al fresco o al muro s'adoprano, ogni giorno nella commettitura se ne taglia un pezzo, e si calca sul muro, che sia incalcinato di fresco e pulito eccellentemente. Questo pezzo del cartone si mette in quel luogo dove s'ha a fare la figura, e si contrassegna; perché l'altro dì che si voglia rimettere un altro pezzo, si riconosca il suo luogo a punto e non possa nascere errore. Appresso per i dintorni del pezzo detto, con un ferro si va calcando in su l'intonaco della calcina; la quale, per essere fresca, acconsente alla carta, e così ne rimane segnata. Per il che si lieva via il cartone, e per que' segni che nel muro sono calcati si va con i colori lavorando, e così si conduce il lavoro in fresco o in muro. Alle tavole et alle tele si fa il medesimo calcato, ma il cartone d'un pezzo, salvo che bisogna tingere di dietro il cartone con carboni o polvere nera, acciò che segnando poi col ferro, egli venga profilato e disegnato nella tela o tavola. E per questa cagione i cartoni si fanno per compartire, che l'opra venga giusta e misurata. Assai pittori sono che per l'opre a olio sfuggono ciò, ma per il lavoro in fresco non si può sfuggire che non si faccia. Ma certo chi trovò tal'invenzione ebbe buona fantasia, atteso che ne' cartoni si vede il giudizio di tutta l'opra insieme, e si acconcia e guasta, finché stiano bene, il che nell'opra poi non può farsi.


Cap. XVII. De li scorti delle figure al di sotto in su, e di quelli in piano.


Hanno avuto gli artefici nostri una grandissima avvertenza nel fare scortare le figure, cioè nel farle apparire di più quantità che elle non sono veramente, essendo lo scorto a noi una cosa disegnata in faccia corta, che all'occhio venendo innanzi non ha la lunghezza o l'altezza che ella dimostra. Tuttavia la grossezza, i dintorni, l'ombre et i lumi fanno parere che ella venga innanzi; e per questo si chiama scorto. Di questa specie non fu mai pittore o disegnatore che facesse meglio, che s'abbia fatto il nostro Michelangelo Buonarroti: et ancora nessuno meglio gli poteva fare, avendo egli divinamente fatto le figure di rilievo. Egli, prima, di terra o di cera ha per questo uso fatti i modelli, e da quegli, ché più del vivo restano fermi, ha cavato i contorni, i lumi e l'ombre. Questi dànno a chi non intende grandissimo fastidio, perché non arrivano con l'intelletto a la profondità di tale difficultà, la qual'è la più forte a farla bene, che nessuna che sia nella pittura. E certo i nostri vecchi, come amorevoli dell'arte, trovarono il tirarli per via di linee in prospettiva, il che non si poteva fare prima, e li ridussero tanto inanzi, che oggi s'ha la vera maestria di farli. E quegli che li biasimano (dico delli artefici nostri) sono quelli che non li sanno fare, e che per alzare se stessi vanno abassando altrui. Et abbiamo assai maestri pittori i quali ancora che valenti, non si dilettano di fare scorti; e, nientedimeno, quando gli veggono belli e difficili non solo non gli biasimano, ma gli lodano sommamente.

Di questa specie ne hanno fatto i moderni alcuni che sono a proposito e difficili, come sarebbe a dir, in una volta, le figure che guardando in su, scortano e sfuggono, e questi chiamiamo al di sotto in su, ch'hanno tanta forza ch'eglino bucano le volte. E questi non si possono fare se non si ritraggono dal vivo, o con modelli in altezze convenienti non si fanno fare loro le attitudini e le movenzie di tali cose. E certo in questo genere si recano in quella difficultà una somma grazia e molta bellezza, e mostrasi una terribilissima arte. Di questa specie troverrete che gli artefici nostri nelle vite loro hanno dato grandissimo rilievo a tali opere e condottele a una perfetta fine, onde hanno conseguito lode grandissima. Chiamansi scorti di sotto in su, perché il figurato è alto e guardato dall'occhio per veduta in su, e non per la linea piana dell'orizzonte. Laonde, alzandosi la testa a volere vederlo, e scorgendosi prima le piante de' piedi e l'altre parti di sotto, giustamente si chiama col detto nome.


Cap. XVIII. Come si debbino unire i colori a olio, a fresco o a tempera, e come le carni, i panni e tutto quello che si dipigne venga nell'opera a unire in modo, che le figure non venghino divise, et abbino rilievo e forza, e mostrino l'opera chiara et aperta.


L'unione nella pittura è una discordanza di colori diversi accordati insieme; i quali, nella diversità di più divise mostrano differentemente distinte l'una dall'altra le parti delle figure; come le carni dai capelli, et un panno diverso di colore da l'altro. Quando questi colori son messi in opera accesamente e vivi con una discordanza spiacevole, talché siano tinti e carichi di corpo sì come usavano di fare già alcuni pittori, il disegno ne viene ad essere offeso di maniera che le figure restano più presto dipinte dal colore, che dal pennello che le lumeggia e adombra, fatte apparire di rilievo e naturali.

Tutte le pitture, adunque, o a olio o a fresco o a tempera si debbon fare talmente unite ne' loro colori, che quelle figure che nelle storie sono le principali venghino condotte chiare chiare, mettendo i panni di colore non tanto scuro addosso a quelle dinanzi, ché quelle che vanno dopo gli abbino più chiari che le prime; anzi, a poco a poco, tanto quanto elle vanno diminuendo a lo indentro, divenghino anco parimente, di mano in mano, e nel colore delle carnagioni e nelle vestimenta, più scure. E principalmente si abbia grandissima avvertenza di mettere sempre i colori più vaghi, più dilettevoli e più belli nelle figure principali et in quelle massimamente che nella istoria vengono intere e non mezze, perché queste sono sempre le più considerate, e quelle che sono più vedute che l'altre, le quali servono quasi per campo nel colorito di queste; et un colore più smorto fa parere più vivo l'altro che gli è posto accanto, et i colori maninconici e pallidi fanno parere più allegri quelli che li sono accanto, e quasi d'una certa bellezza fiameggianti. Né si debbono vestire gli ignudi di colori tanto carichi di corpo, che dividino le carni da' panni, quando detti panni atraversassino detti ignudi; ma i colori de' lumi di detti panni siano chiari, simili alle carni, o gialletti o rossigni o violati o pagonazzi, con cangiare i fondi scuretti o verdi o azzurri o pagonazzi o gialli, purché tragghino a lo oscuro, e che unitamente si accompagnino nel girare delle figure con le lor ombre, in quel medesimo modo che noi veggiamo nel vivo; ché quelle parti che ci si apresentano più vicine all'occhio, più hanno di lume, e l'altre, perdendo di vista, perdono ancora del lume e del colore.

Così nella pittura si debbono adoperare i colori con tanta unione, che e' non si lasci uno scuro et un chiaro sì spiacevolmente ombrato e lumeggiato, che e' si faccia una discordanza et una disunione spiacevole, salvo che negli sbattimenti, che sono quell'ombre che fanno le figure adosso l'una all'altra, quando un lume solo percuote adosso a una prima figura, che viene ad ombrare col suo sbattimento la seconda. E questi ancora, quando accaggiono, voglion esser dipinti con dolcezza et unitamente, perché chi gli disordina viene a fare che quella pittura par più presto un tappeto colorito o un paro di carte da giocare, che carne unita o panni morbidi o altre cose piumose, delicate e dolci. Che sì come gli orecchi restano offesi da una musica che fa strepito o dissonanza o durezza (salvo però in certi luoghi e a' tempi, sì come io dissi degli sbattimenti), così restano offesi gli occhi da' colori troppo carichi o troppo crudi. Conciò sia che il troppo acceso offende il disegno, e lo abbacinato, smorto, abbagliato e troppo dolce pare una cosa spenta, vecchia ed affumicata; ma lo unito che tenga in fra lo acceso e lo abbagliato è perfettissimo e diletta l'occhio, come una musica unita et arguta diletta lo orecchio.

Debbonsi perdere negli scuri certe parti delle figure, e nella lontananza della istoria; perché oltre che, se elle fussono nello apparire troppo vive et accese, confonderebbono le figure, elle dànno ancora, restando scure et abbagliate quasi come campo, maggiore forza alle altre che vi sono inanzi. Né si può credere quanto nel variare le carni con i colori, faccendole a' giovani più fresche che a' vecchi, et ai mezzani tra il cotto et il verdiccio e gialliccio, si dia grazia e bellezza alla opera, e quasi in quello stesso modo che si faccia nel disegno, l'aria delle vecchie accanto alle giovani et alle fanciulle et a' putti; dove veggendosene una tenera e carnosa, l'altra pulita e fresca, fa nel dipinto una discordanza accordatissima. Et in questo modo si debbe nel lavorare metter gli scuri, dove meno offendino e faccino divisione, per cavare fuori le figure; come si vede nelle pitture di Rafaello da Urbino e di altri pittori eccellenti che hanno tenuto questa maniera. Ma non si debbe tenere questo ordine nelle istorie dove si contrafacessino lumi di sole e di luna, o vero fuochi o cose notturne; perché queste si fanno con gli sbattimenti crudi e taglienti, come fa il vivo. E nella sommità dove sì fatto lume percuote, sempre vi sarà dolcezza et unione. Et in quelle pitture che aranno queste parti, si conoscerà che la intelligenza del pittore arà con la unione del colorito campata la bontà del disegno, dato vaghezza alla pittura, e rilievo e forza terribile alle figure.


Cap. XIX. Del dipingere in muro: come si fa e perché si chiama lavorare in fresco.


Di tutti gl'altri modi che i pittori faccino, il dipignere in muro è più maestrevole e bello, perché consiste nel fare in un giorno solo quello che nelli altri modi si può in molti ritoccare sopra il lavorato. Era dagli antichi molto usato il fresco, et i vecchi moderni ancora l'hanno poi seguitato. Questo si lavora su la calce che sia fresca, né si lascia mai sino a che sia finito quanto per quel giorno si vuole lavorare. Perché allungando punto il dipignerla, fa la calce una certa crosterella pel caldo, pel freddo, pel vento e pe' ghiacci, che muffa e macchia tutto il lavoro. E per questo vuole essere continovamente bagnato il muro che si dipigne, et i colori che vi si adoperano, tutti di terre e non di miniere, et il bianco di trevertino, cotto. Vuole ancora una mano destra resoluta e veloce, ma sopra tutto un giudizio saldo et intero; perché i colori, mentre che il muro è molle, mostrano una cosa in un modo, che poi secco non è più quella. E però bisogna che in questi lavori a fresco giuochi molto più nel pittore il giudizio che il disegno, e che egli abbia per guida sua una pratica più che grandissima, essendo sommamente difficile il condurlo a perfezione. Molti de' nostri artefici vagliono assai negl'altri lavori, cioè a olio o a tempera, et in questo poi non riescono, per essere egli veramente il più virile, più sicuro, più resoluto e durabile di tutti gli altri modi, e quello che, nello stare fatto, di continuo acquista di bellezza e di unione più degl'altri infinitamente. Questo all'aria si purga, e dall'acqua si difende, e regge di continuo a ogni percossa. Ma bisogna guardarsi di non avere a ritoccarlo co' colori che abbino colla di carnicci, o rosso d'uovo o gomma o draganti, come fanno molti pittori; perché, oltra che il muro non fa il suo corso di mostrare la chiarezza, vengono i colori apannati da quello ritoccar di sopra, e con poco spazio di tempo diventano neri. Però quegli che cercano lavorar in muro, lavorino virilmente a fresco, e non ritocchino a secco; perché, oltre l'esser cosa vilissima, rende più corta vita alle pitture, come in altro luogo s'è detto.


Cap. XX. Del dipignere a tempera o vero a uovo su le tavole o tele; e come si può usare sul muro che sia secco.


Da Cimabue in dietro, e da lui in qua s'è sempre veduto opre lavorate da' Greci a tempera in tavola et in qualche muro. Et usavano, nello ingessare delle tavole questi maestri vecchi, dubitando che quelle non si aprissero in su le commettiture, mettere per tutto con la colla di carnicci tela lina, e poi sopra quella ingessavano per lavorarvi sopra, e temperavano i colori da condurle col rosso dell'uovo o tempera, la qual'è questa: toglievano un uovo e quello dibattevano, e dentro vi tritavano un ramo tenero di fico, acciò che quel latte con quell'uovo facesse la tempera de' colori, i quali con essa temperando, lavoravano l'opere loro. E toglievano per quelle tavole i colori ch'erano di miniere, i quali son fatti parte dagli alchimisti, e parte trovati nelle cave. Et a questa specie di lavoro ogni colore è buono, salvo ch'il bianco che si lavora in muro fatto di calcina, perch'è troppo forte; così venivano loro condotte con questa maniera le opere e le pitture loro, e questo chiamavono colorire a tempera. Solo gli azzurri temperavono con colla di carnicci; perché la giallezza dell'uovo gli faceva diventar verdi, ove la colla li mantiene nell'essere loro, e 'l simile fa la gomma. Tiensi la medesima maniera su le tavole o ingessate o senza, e così su' muri che siano secchi si dà una o due mani di colla calda, e dipoi con colori temperati con quella si conduce tutta l'opera; e chi volesse temperare ancora i colori a colla, agevolmente gli verrà fatto, osservando il medesimo che nella tempera si è raccontato. Né saranno peggiori per questo; poiché anco de' vecchi maestri nostri si sono vedute le cose a tempera conservate centinaia d'anni con bellezza e freschezza grande. E certamente e' si vede ancora delle cose di Giotto, che ce n'è pure alcuna in tavola, durata già dugento anni e mantenutasi molto bene. È poi venuto il lavorar a olio, che ha fatto per molti mettere in bando il modo della tempera, sì come oggi veggiamo che nelle tavole e nelle altre cose d'importanza si è lavorato e si lavora ancora del continovo.


Cap. XXI. Del dipingere a olio in tavola e su tele.


Fu una bellissima invenzione et una gran commodità all'arte della pittura il trovare il colorito a olio, di che fu primo inventore in Fiandra Giovanni da Bruggia, il quale mandò la tavola a Napoli al re Alfonso et al duca d'Urbino Federico II la stufa sua; e fece un S. Gironimo che Lorenzo de' Medici aveva, e molte altre cose lodate. Lo seguitò poi Rugieri da Bruggia suo discipolo, et Ausse creato di Rugieri, che fece a' Portinari in S. Maria Nuova di Firenze un quadro picciolo, il qual è oggi apresso al duca Cosimo, et è di sua mano la tavola di Careggi, villa fuori di Firenze della illustrissima casa de' Medici. Furono similmente de' primi Lodovico da Luano e Pietro Crista, e maestro Martino e Giusto da Guanto, che fece la tavola della comunione del duca d'Urbino et altre pitture, et Ugo d'Anversa, che fe' la tavola di S. Maria Nuova di Fiorenza. Questa arte condusse poi in Italia Antonello da Messina che molti anni consumò in Fiandra, e nel tornarsi di qua da' monti, fermatosi ad abitare in Venezia, la insegnò ad alcuni amici. Uno de' quali fu Domenico Veniziano che la condusse poi in Firenze, quando dipinse a olio la capella de' Portinari in S. Maria Nuova, dove la imparò Andrea dal Castagno, che la insegnò agli altri maestri, con i quali si andò ampliando l'arte et acquistando sino a Pietro Perugino, a Lionardo da Vinci et a Rafaello da Urbino, talmente che ella s'è ridotta a quella bellezza che gli artefici nostri mercé loro l'hanno acquistata.

Questa maniera di colorire accende più i colori, né altro bisogna che diligenza et amore, perché l'olio in sé si reca il colorito più morbido, più dolce e dilicato e di unione e sfumata maniera più facile che li altri; e mentre che fresco si lavora, i colori si mescolano e si uniscono l'uno con l'altro più facilmente; et insomma gli artefici danno in questo modo bellissima grazia e vivacità e gagliardezza alle figure loro, talmente che spesso ci fanno parere di rilievo le loro figure e che ell'eschino della tavola, e massimamente quando elle sono continovate di buono disegno con invenzione e bella maniera.

Ma per mettere in opera questo lavoro si fa così: quando vogliono cominciare, cioè ingessato che hanno le tavole o' quadri, gli radono, e datovi di dolcissima colla quattro o cinque mani con una spugna, vanno poi macinando i colori con olio di noce o di seme di lino (benché il noce è meglio, perché ingialla meno) e così macinati con questi olii, che è la tempera loro, non bisogna altro, quanto a essi, che distenderli col pennello. Ma conviene far prima una mestica di colori seccativi, come biacca, giallo-lino, terra da campane, mescolati tutti in un corpo e d'un color solo, e quando la colla è secca, impiastrarla su per la tavola e poi batterla con la palma della mano, tanto ch'ella venga egualmente unita e distesa per tutto, il che molti chiamano l'imprimatura. Dopo, distesa detta mestica o colore per tutta la tavola, si metta sopra essa il cartone che averai fatto con le figure e invenzioni a tuo modo; e sotto questo cartone se ne metta un altro tinto da un lato di nero, cioè da quella parte che va sopra la mestica; apuntati poi con chiodi piccoli l'uno e l'altro, piglia una punta di ferro o vero d'avorio o legno duro, e va' sopra i profili del cartone segnando sicuramente, perché così facendo non si guasta il cartone, e nella tavola o quadro vengono benissimo proffilate tutte le figure e quello che è nel cartone sopra la tavola. E chi non volesse far cartone, disegni con gesso da sarti bianco sopra la mestica, o vero con carbone di salcio, perché l'uno e l'altro facilmente si cancella. E così si vede che seccata questa mestica, lo artefice, o calcando il cartone o con gesso bianco da sarti disegnando, l'abozza; il che alcuni chiamano imporre. E finita di coprire tutta, ritorna con somma politezza lo artefice da capo a finirla; e qui usa l'arte e la diligenza per condurla a perfezione; e così fanno i maestri in tavola a olio le loro pitture.


Cap. XXII. Del pingere a olio nel muro che sia secco.


Quando gli artefici vogliono lavorare a olio in sul muro secco, due maniere possono tenere: una con fare che il muro, se vi è dato su il bianco o a fresco o in altro modo, si raschi, o se egli è restato liscio senza bianco ma intonacato, vi si dia su due o tre mani di olio bollito e cotto, continoando di ridarvelo su, sino a tanto che non voglia più bere; e poi, secco, si gli dà di mestica o imprimatura, come si disse nel capitolo avanti a questo. Ciò fatto e secco, possono gli artefici calcare o disegnare, e tale opera come la tavola condurre al fine, tenendo mescolato continuo nei colori un poco di vernice, perché facendo questo non accade poi vernicarla.

L'altro modo è che l'artefice di stucco di marmo e di matton pesto finissimo fa un arricciato che sia pulito, e lo rade col taglio della cazzuola, perché il muro ne resti ruvido; appresso gli dà una man d'olio di seme di lino, e poi fa in una pignatta una mistura di pece greca e mastico e vernice grossa, e quella bollita, con un pennel grosso si dà nel muro; poi si distende per quello con una cazzuola da murar che sia di fuoco; questa intasa i buchi dell'arricciato, e fa una pelle più unita per il muro. E poi ch'è secca, si va dandole d'imprimatura o di mestica, e si lavora nel modo ordinario dell'olio, come abbiamo ragionato. E perché la sperienza di molti anni mi ha insegnato come si possa lavorar a olio in sul muro, ultimamente ho seguitato nel dipigner le sale, camere et altre stanze del palazzo del duca Cosimo, il modo che in questo ho per l'adietro molte volte tenuto; il qual modo, brevemente, è questo: facciasi l'arricciato, sopra il quale si ha da far l'intonaco di calce, di matton pesto e di rena, e si lasci seccar bene affatto; ciò fatto, la materia del secondo intonaco sia calce, matton pesto stiacciato bene, e schiuma di ferro, perché tutte e tre queste cose, cioè di ciascuna il terzo, incorporate con chiara d'uova battute quanto fa bisogno, et olio di seme di lino, fanno uno stucco tanto serrato, che non si può disiderar in alcun modo migliore. Ma bisogna bene avvertire di non abbandonare l'intonaco mentre la materia è fresca, perché fenderebbe in molti luoghi; anzi è necessario, a voler che si conservi buono, non se gli levar mai d'intorno con la cazzuola o vero mestola o cucchiara che vogliam dire, insino a che non sia del tutto pulitamente disteso come ha da stare. Secco poi che sia questo intonaco, e datovi sopra d'imprimatura o mestica, si condurranno le figure e le storie perfettamente, come l'opere del detto palazzo e molte altre possono chiaramente dimostrare a ciascuno.


Cap. XXIII. Del dipignere a olio su le tele.


Gli uomini per potere portare le pitture di paese in paese, hanno trovato la comodità delle tele dipinte, come quelle che pesano poco, et avvolte sono agevoli a trasportarsi. Queste a olio, perch'elle siano arrendevoli, se non hanno a stare ferme non s'ingessano, atteso che il gesso vi crepa su arrotolandole; però si fa una pasta di farina con olio di noce, et in quello si metteno due o tre macinate di biacca; e quando le tele hanno avuto tre o quattro mani di colla, che sia dolce, ch'abbia passato da una banda all'altra, con un coltello si dà questa pasta, e tutti i buchi vengono con la mano dell'artefice a turarsi. Fatto ciò, se le dà una o due mani di colla dolce, e da poi la mestica o imprimatura; et a dipignervi sopra si tiene il medesimo modo che agl'altri di sopra racconti. E perché questo modo è paruto agevole e commodo, si sono fatti non solamente quadri piccioli per portare attorno, ma ancora tavole da altari et altre opere di storie, grandissime, come si vede nelle sale del palazzo di S. Marco di Vinezia, et altrove, avenga che dove non arriva la grandezza delle tavole, serve la grandezza e 'l commodo delle tele.


Cap. XXIV. Del dipingere in pietra a olio, e che pietre siano buone.


È cresciuto sempre lo animo a' nostri artefici pittori, faccendo che il colorito a olio, oltra l'averlo lavorato in muro, si possa volendo lavorare ancora su le pietre; delle quali hanno trovato nella riviera di Genova quella spezie di lastre che noi dicemmo nella architettura che sono attissime a questo bisogno; perché per esser serrate in sé e per avere la grana gentile pigliano il pulimento piano. In su queste hanno dipinto modernamente quasi infiniti e trovato il modo vero da potere lavorarvi sopra. Hanno provate poi le pietre più fine, come mischi di marmo, serpentini e porfidi, et altre simili, che sendo liscie e brunite, vi si attacca sopra il colore. Ma nel vero, quando la pietra sia ruvida et arida, molto meglio inzuppa e piglia l'olio bollito et il colore dentro; come alcuni piperni o vero piperigni gentili, i quali quando siano battuti col ferro e non arrenati con rena o sasso di tufi, si possono spianare con la medesima mistura che dissi nell'arricciato, con quella cazzuola di ferro infocata. Perciò che a tutte queste pietre non accade dar colla in principio, ma solo una mano d'imprimatura di colore a olio, cioè mestica; e secca che ella sia, si può cominciare il lavoro a suo piacimento. E chi volesse fare una storia a olio su la pietra, può tôrre di quelle lastre genovesi e farle fare quadre, e fermarle nel muro co' perni sopra una incrostatura di stucco, distendendo bene la mestica in su le commettiture, di maniera che e' venga a farsi per tutto un piano di che grandezza l'artefice ha bisogno. E questo è il vero modo di condurre tali opre a fine; e, finite, si può a quelle fare ornamenti di pietre fini, di misti e d'altri marmi; le quali si rendono durabili in infinito, purché con diligenza siano lavorate; e possonsi e non si possono vernicare, come altrui piace, perché la pietra non prosciuga, cioè non sorbisce quanto fa la tavola e la tela, e si difende da' tarli, il che non fa il legname.


Cap. XXV. Del dipignere nelle mura di chiaro e scuro di varie terrette; e come si contrafanno le cose di bronzo; e delle storie di terretta per archi o per feste, a colla, che è chiamato a guazzo et a tempera.


Vogliono i pittori che il chiaroscuro sia una forma di pittura che tragga più al disegno che al colorito, perché ciò è stato cavato dalle statue di marmo contrafacendole, e dalle figure di bronzo et altre varie pietre; e questo hanno usato di fare nelle faciate de' palazzi e case in istorie, mostrando che quelle siano contrafatte, e paino di marmo o di pietra con quelle storie intagliate; o veramente contrafacendo quelle sorti di spezie di marmo e porfido, e di pietra verde, e granito rosso e bigio, o bronzo, o altre pietre, come par loro meglio, si sono accommodati in più spartimenti di questa maniera; la qual'è oggi molto in uso per fare le facce delle case e de' palazzi, così in Roma come per tutta Italia.

Queste pitture si lavorano in due modi, prima in fresco, che è la vera, o in tele per archi, che si fanno nell'entrate de' principi nelle città e ne' trionfi, o negli apparati delle feste e delle comedie, perché in simili cose fanno bellissimo vedere. Trattaremo prima della spezie e sorte del fare in fresco, poi diremo de l'altra. Di questa sorte di terretta si fanno i campi con la terra da fare i vasi, mescolando quella con carbone macinato o altro nero per far l'ombre più scure, e bianco di trevertino con più scuri e più chiari, e si lumeggiano col bianco schietto, e con ultimo nero a ultimi scuri finite. Vogliono avere tali specie fierezza, disegno, forza, vivacità e bella maniera, et essere espresse con una gagliardezza che mostri arte e non stento, perché si hanno a vedere et a conoscere di lontano. E con queste ancora s'imitino le figure di bronzo, le quali col campo di terra gialla e rossa s'abbozzano, e con più scuri di quello nero e rosso e giallo si sfondano, e con giallo schietto si fanno i mezzi, e con giallo e bianco si lumeggiano. E di queste hanno i pittori le facciate e le storie di quelle con alcune statue tramezzate, che in questo genere hanno grandissima grazia.

Quelle poi che si fanno per archi, comedie, o feste, si lavorano poi che la tela sia data di terretta, cioè di quella prima terra schietta da far vasi temperata con colla; e bisogna che essa tela sia bagnata di dietro mentre l'artefice la dipigne, acciò che con quel campo di terretta unisca meglio li scuri et i chiari della opera sua; e si costuma temperare i neri di quelle con un poco di tempera; e si adoperano biacche per bianco, e minio per dar rilievo alle cose che paiono di bronzo, e giallolino per lumeggiare sopra detto minio; e per i campi e per gli scuri le medesime terre gialle e rosse, et i medesimi neri che io dissi nel lavorare a fresco, i quali fanno mezzi et ombre. Ombrasi ancora con altri diversi colori altre sorte di chiari e scuri; come con terra d'ombra, alla quale si fa la terretta di verde terra e gialla e bianco; similmente con terra nera, che è un'altra sorte di verde terra e nera, che la chiamano verdaccio.


Cap. XXVI. Degli sgraffiti delle case che reggono a l'acqua, quello che si adoperi a fargli, e come si lavorino le grottesche nelle mura.


Hanno i pittori un'altra sorte di pittura che è disegno e pittura insieme, e questo si domanda sgraffito, e non serve ad altro che per ornamenti di facciate, di case e palazzi, che più brevemente si conducono con questa spezie, e reggono all'acque sicuramente; perché tutt'i lineamenti invece di essere disegnati con carbone o con altra materia simile, sono tratteggiati con un ferro dalla mano del pittore; il che si fa in questa maniera: pigliano la calcina mescolata con la rena, ordinariamente, e con paglia abbruciata la tingono d'uno scuro che venga in un mezzo colore che trae in argentino, e verso lo scuro un poco più che tinta di mezzo, e con questa intonacano la facciata. E fatto ciò e pulita, col bianco della calce di trevertino, l'imbiancano tutta, et imbiancata ci spolverano su i cartoni, o vero disegnano quel che ci vogliono fare; e di poi aggravando col ferro, vanno dintornando e tratteggiando la calce; la quale essendo sotto di corpo nero, mostra tutti i graffi del ferro come segni di disegno. E si suole ne' campi di quegli radere il bianco, e poi avere una tinta d'acquerello scuretto molto acquidoso, e di quello dare per gli scuri, come si desse a una carta; il che di lontano fa un bellissimo vedere: ma il campo, se ci è grottesche o fogliami, si sbattimenta, cioè ombreggia con quello acquerello. E questo è il lavoro, che per esser dal ferro graffiato, hanno chiamato i pittori sgraffito.

Restaci or a ragionare delle grottesche che si fanno sul muro, dunque, quelle che vanno in campo bianco. Non ci essendo il campo di stucco per non essere bianca la calce, si dà per tutto sottilmente il campo di bianco, e fatto ciò, si spolverano e si lavorano in fresco di colori sodi, perché non arebbono mai la grazia ch'hanno quelle che si lavorano su lo stucco. Di questa spezie possono essere grottesche grosse e sottili, le quali vengono fatte nel medesimo modo che si lavorano le figure a fresco o in muro.


Cap. XXVII. Come si lavorino le grottesche su lo stucco.


Le grottesche sono una spezie di pitture licenziose e ridicole molto, fatte dagl'antichi per ornamenti di vani, dove in alcuni luoghi non stava bene altro che cose in aria; per il che facevano in quelle tutte sconciature di mostri, per strattezza della natura e per gricciolo e ghiribizzo degli artefici; i quali fanno in quelle, cose senza alcuna regola, apiccando a un sottilissimo filo un peso che non si può reggere, a un cavallo le gambe di foglie, e a un uomo le gambe di gru, e infiniti sciarpelloni e passerotti; e chi più stranamente se gli immaginava, quello era tenuto più valente. Furono poi regolate, e per fregi e spartimenti fatto bellissimi andari; così di stucchi mescolarono quelle con la pittura. E sì innanzi andò questa pratica, che in Roma e in ogni luogo dove i Romani risedevano, ve n'è ancora conservato qualche vestigio. E nel vero tocche d'oro et intagliate di stucchi, elle sono opera allegra e dilettevole a vedere.

Queste si lavorano di quattro maniere: l'una lavora lo stucco schietto; l'altra fa gli ornamenti soli di stucco, e dipigne le storie ne' vani e le grottesche ne' fregi; la terza fa le figure parte lavorate di stucco e parte dipinte di bianco e nero, contrafacendo cammei e altre pietre. E di questa spezie grottesche e stucchi se n'è visto e vede tante opere lavorate da' moderni, i quali con somma grazia e bellezza hanno adornato le fabbriche più notabili di tutta l'Italia, che gli antichi rimangono vinti di grande spacio. L'ultima, finalmente, lavora d'acquerello in su lo stucco, campando il lume con esso, et ombrandolo con diversi colori.

Di tutte queste sorti che si difendono assai dal tempo, se ne veggono delle antiche in infiniti luoghi a Roma et a Pozzuolo vicino a Napoli. E questa ultima sorte si può anco benissimo lavorare con colori sodi a fresco, lasciando lo stucco bianco per campo a tutte queste, che nel vero hanno in sé bella grazia; e fra esse si mescolano paesi che molto dànno loro de l'allegro, e così ancora storiette di figure piccole colorite. E di questa sorte oggi in Italia ne sono molti maestri che ne fanno professione, et in esse sono eccellenti.


Cap. XXVIII. Del modo del mettere d'oro a bolo et a mordente, et altri modi.


Fu veramente bellissimo segreto et investigazione sofistica il trovar modo che l'oro si battesse in fogli sì sottilmente che per ogni migliaio di pezzi battuti, grandi un ottavo di braccio per ogni verso, bastasse fra l'artificio e l'oro il valore solo di sei scudi. Ma non fu punto meno ingegnosa cosa il trovar modo a poterlo talmente distendere sopra il gesso, che il legno, od altro ascostovi sotto, paresse tutto una massa d'oro; il che si fa in questa maniera: ingessasi il legno con gesso sottilissimo, impastato con la colla più tosto dolce che cruda, e vi si dà sopra grosso più mani, secondo che il legno è lavorato bene o male; inoltre raso il gesso e pulito, con la chiara dell'uovo schietta, sbattuta sottilmente con l'acqua, dentrovi si tempera il bolo armeno macinato ad acqua sottilissimamente, e si fa il primo acquidoso, o vogliamo dirlo liquido e chiaro, e l'altro appresso più corpulento. Poi si dà con esso almanco tre volte sopra il lavoro, fino a che e' lo pigli per tutto bene; e bagnando di mano in mano con un pennello con acqua pura dove è dato il bolo, vi si mette su l'oro in foglia il quale subito si appicca a quel molle; e quando egli è soppasso, non secco, si brunisce con una zanna di cane o di lupo, sinché e' diventi lustrante e bello. Dorasi ancora in un'altra maniera che si chiama a mordente, il che si adopera ad ogni sorte di cose, pietre, legni, tele, metalli d'ogni spezie, drappi e corami, e non si brunisce come quel primo. Questo mordente che è la maestra che lo tiene, si fa di colori seccaticci a olio di varie sorti, e di olio cotto con la vernice dentrovi, e dassi in sul legno che ha avuto prima due mani di colla. E poi che il mordente è dato così, non mentre che egli è fresco ma mezzo secco, vi si mette su l'oro in foglie. Il medesimo si può fare ancora con l'orminiaco quando s'ha fretta, atteso che, mentre si dà, è buono; e questo serve più a fare selle, arabeschi et altri ornamenti, che ad altro. Si macina ancora di questi fogli in una tazza di vetro con un poco di mèle e di gomma, che serve ai miniatori, et a infiniti che col pennello si dilettano fare proffili e sottilissimi lumi nelle pitture. E tutti questi sono bellissimi segreti, ma per la copia di essi non se ne tiene molto conto.


Cap. XXIX. Del musaico de' vetri, et a quello che si conosce il buono e lodato.


Essendosi assai largamente detto di sopra nel VI capitolo che cosa sia il musaico, e come e' si faccia, continuandone qui quel tanto che è proprio della pittura, diciamo che egli è maestria veramente grandissima condurre i suoi pezzi cotanto uniti, che egli apparisca di lontano per onorata pittura e bella; atteso che in questa spezie di lavoro bisogna e pratica e giudizio grande con una profondissima intelligenza nell'arte del disegno, perché chi offusca ne' disegni il musaico con la copia et abbondanza delle troppe figure nelle istorie e con le molte minuterie de' pezzi, le confonde. E però bisogna che il disegno de' cartoni che per esso si fanno sia aperto, largo, facile, chiaro e di bontà e bella maniera continuato. E chi intende nel disegno la forza degli sbattimenti e del dare pochi lumi et assai scuri, con fare in quelli certe piazze o campi, costui sopra d'ogni altro lo farà bello e bene ordinato.

Vuole avere il musaico lodato chiarezza in sé con certa unita scurità verso l'ombre, e vuole essere fatto con grandissima discrezione lontano dall'occhio, acciò che lo stimi pittura e non tarsia commessa. Laonde, i musaici che aranno queste parti saranno buoni e lodati da ciascheduno; e certo è che il musaico è la più durabile pittura che sia. Imperò che l'altra col tempo si spegne, e questa nello stare fatta di continuo s'accende; et inoltre la pittura manca e si consuma per se medesima, ove il musaico per la sua lunghissima vita si può quasi chiamare eterno. Per lo che scorgiamo noi in esso non solo la perfezione de' maestri vecchi, ma quella ancora degli antichi, mediante quelle opere che oggi si riconoscono dell'età loro; come nel tempio di Bacco a S. Agnesa fuor di Roma, dove è benissimo condotto tutto quello che vi è lavorato; similmente a Ravenna n'è del vecchio bellissimo in più luoghi, et a Vinezia in S. Marco, a Pisa nel Duomo, et a Fiorenza in S. Giovanni, la tribuna: ma il più bello di tutti è quello di Giotto nella nave del portico di S. Piero di Roma, perché veramente in quel genere è cosa miracolosa; e ne' moderni quello di Domenico del Ghirlandaio sopra la porta di fuori di Santa Maria del Fiore che va alla Nunziata.

Preparansi adunque i pezzi da farlo in questa maniera: quando le fornaci de' vetri sono disposte e le padelle piene di vetro, se li vanno dando i colori, a ciascuna padella il suo; avvertendo sempre che da un chiaro bianco che ha corpo e non è trasparente si conduchino i più scuri di mano in mano, in quella stessa guisa che si fanno le mestiche de' colori per dipignere ordinariamente. Appresso, quando il vetro è cotto e bene stagionato, e le mestiche sono condotte e chiare e scure e d'ogni ragione, con certe cucchiaie lunghe di ferro si cava il vetro caldo e si mette in su uno marmo piano, e sopra con un altro pezzo di marmo si schiaccia pari, e se ne fanno rotelle che venghino ugualmente piane, e restino di grossezza la terza parte dell'altezza d'un dito. Se ne fa poi con una bocca di cane di ferro pezzetti quadri tagliati, et altri col ferro caldo lo spezzano, inclinandolo a loro modo. I medesimi pezzi diventano lunghi e con uno smeriglio si tagliano: il simile si fa di tutti i vetri che hanno di bisogno, e se n'empiono le scatole, e si tengono ordinati come si fa i colori quando si vuole lavorare a fresco, che in vari scodellini si tiene separatamente la mestica delle tinte più chiare e più scure per lavorare.

Ècci un'altra spezie di vetro che si adopra per lo campo e per i lumi de' panni che si mette d'oro. Questo quando lo vogliano dorare, pigliano quelle piastre di vetro che hanno fatto, e con acqua di gomma bagnano tutta la piastra del vetro, e poi vi mettono sopra i pezzi d'oro; fatto ciò, mettono la piastra su una pala di ferro, e quella nella bocca della fornace, coperta prima con un vetro sottile tutta la piastra di vetro che hanno messa d'oro, e fanno questi coperchi o di bocce o a modo di fiaschi spezzati, di maniera che un pezzo cuopra tutta la piastra; e lo tengono tanto nel fuoco, che vien quasi rosso, ed in un tratto cavandolo, l'oro viene con una presa mirabile a imprimersi nel vetro e fermarsi, e regge all'acqua et a ogni tempesta: poi questo si taglia et ordina come l'altro di sopra. E per fermarlo nel muro usano di fare il cartone colorito et alcuni altri senza colore; il quale cartone calcano o segnano a pezzo a pezzo in su lo stucco, e di poi vanno commettendo appoco appoco quanto vogliono fare nel musaico. Questo stucco per esser posto grosso in su l'opera, gli aspetta duoi dì e quattro, secondo la qualità del tempo, e fassi di trevertino, di calce, mattone pesto, draganti e chiara d'uovo; e fattolo, tengono molle con pezze bagnate. Così dunque pezzo per pezzo tagliano i cartoni nel muro, e lo disegnano su lo stucco calcando; finché poi con certe mollette si pigliano i pezzetti degli smalti, e si commettono nello stucco, e si lumeggiano i lumi, e dassi mezzi a' mezzi, e scuri agli scuri, contrafacendo l'ombre, i lumi et i mezzi minutamente come nel cartone; e così lavorando con diligenza si conduce a poco a poco a perfezione. E chi più lo conduce unito, sì che e' torni pulito e piano, colui è più degno di loda e tenuto da più degli altri. Imperò sono alcuni tanto diligenti al musaico che lo conducono di maniera che egli apparisce pittura a fresco. Questo, fatta la presa, indura talmente il vetro nello stucco, che dura in infinito come ne fanno fede i musaici antichi che sono in Roma e quelli che sono vecchi; et anco nell'una e nell'altra parte i moderni ai dì nostri n'hanno fatto del maraviglioso.


Cap. XXX. Dell'istorie e delle figure che si fanno di commesso ne' pavimenti, ad imitazione delle cose di chiaro e scuro.


Hanno aggiunto i nostri moderni maestri al musaico di pezzi piccoli un'altra specie di musaici di marmi commessi, che contrafanno le storie dipinte di chiaroscuro; e questo ha causato il desiderio ardentissimo di volere che e' resti nel mondo a chi verrà dopo, se pure si spegnessero l'altre spezie della pittura, un lume che tenga accesa la memoria de' pittori moderni; e così hanno contrafatto con mirabile magisterio storie grandissime, che non solo si potrebbono mettere ne' pavimenti dove si camina, ma incrostarne ancora le facce delle muraglie e d'i palazzi, con arte tanto bella e meravigliosa, che pericolo non sarebbe, ch'el tempo consumasse il disegno di coloro che sono rari in questa professione; come si può vedere nel Duomo di Siena cominciato prima da Duccio Sanese e poi da Domenico Beccafumi a' dì nostri seguitato et augumentato.

Questa arte ha tanto del buono e del nuovo e del durabile, che per pittura commessa di bianco e nero poco più si puote desiderare di bontà e di bellezza. Il componimento suo si fa di tre sorte marmi che vengono de' monti di Carrara; l'uno de' quali è bianco finissimo e candido, l'altro non è bianco, ma pende in livido, che fa mezzo a quel bianco; et il terzo è un marmo bigio di tinta che trae in argentino, che serve per iscuro. Di questi volendo fare una figura, se ne fa un cartone di chiaro e scuro con le medesime tinte; e ciò fatto, per i dintorni di que' mezzi e scuri e chiari, a' luoghi loro si commette nel mezzo con diligenza il lume di quel marmo candido, e così i mezzi, e gli scuri allato a quei mezzi, secondo i dintorni stessi che nel cartone ha fatto l'artefice. E quando ciò hanno commesso insieme, e spianato di sopra tutti i pezzi de' marmi così chiari, come scuri e come mezzi, piglia l'artefice che ha fatto il cartone un pennello di nero temperato, quando tutta l'opra è insieme commessa in terra, e tutta sul marmo la tratteggia e proffila dove sono gli scuri, a guisa che si contorna, tratteggia e proffila con la penna una carta che avesse disegnata di chiaroscuro. Fatto ciò lo scultore viene incavando coi ferri tutti quei tratti e proffili che il pittore ha fatti, e tutta l'opra incava dove ha disegnato di nero il pennello. Finito questo, si murano ne' piani a pezzi a pezzi; e finito, con una mistura di pegola nera bollita o asfalto e nero di terra, si riempiono tutti gli incavi che ha fatti lo scarpello; e poi che la materia è fredda et ha fatto presa, con pezzi di tufo vanno levando e consumando ciò che sopra avanza, e con rena, mattoni e acqua si va arrotando e spianando tanto, che il tutto resti ad un piano, cioè il marmo stesso et il ripieno: il che fatto, resta l'opera in una maniera ch'ella pare veramente pittura in piano, et ha in sé grandissima forza con arte e con maestria.

Laonde è ella molto venuta in uso per la sua bellezza et ha causato ancora che molti pavimenti di stanze oggi si fanno di mattoni, che siano una parte di terra bianca, cioè di quella che trae in azzurrino quando ella è fresca e cotta diventa bianca, e l'altra della ordinaria da fare mattoni, che viene rossa quando ella è cotta. Di queste due sorti si sono fatti pavimenti commessi di varie maniere a spartimenti; come ne fanno fede le sale papali a Roma al tempo di Raffaello da Urbino, et ora ultimamente molte stanze in Castello S. Agnolo, dove si sono con i medesimi mattoni fatte imprese di gigli commessi di pezzi, che dimostrano l'arme di papa Paulo, e molte altre imprese: et in Firenze il pavimento della libreria di S. Lorenzo fatta fare dal duca Cosimo, e tutte sono state condotte con tanta diligenza, che più di bello non si può desiderare in tale magisterio: e di tutte queste cose commesse fu cagione il primo musaico.

E perché dove si è ragionato delle pietre e marmi di tutte le sorte, non si è fatto menzione d'alcuni misti nuovamente trovati dal signor duca Cosimo, dico che l'anno 1563 sua Eccellenza ha trovato nei monti di Pietrasanta presso alla villa di Stazzema un monte che gira 2 miglia et altissimo, la cui prima scorza è di marmi bianchi ottimi per fare statue. Il disotto è un mischio rosso e gialliccio, e quello che è più a dentro è verdiccio, nero, rosso e giallo con altre varie mescolanze di colori, e tutti sono in modo duri, che quanto più si va a dentro si trovano maggiori saldezze, et insino a ora vi si vede da cavar colonne di quindici in venti braccia. Non se n'è ancor messo in uso, perché si va tuttavia facendo d'ordine di sua Eccellenza una strada di tre miglia, per potere condurre questi marmi dalle dette cave alla marina, i quali mischi saranno, per quello che si vede, molto a proposito per pavimenti.


Cap. XXXI. Del musaico di legname, cioè delle tarsie; e dell'istorie che si fanno di legni tinti e commessi a guisa di pitture.


Quanto sia facil cosa l'aggiugnere all'invenzioni de' passati qualche nuovo trovato sempre assai chiaro ce lo dimostra non solo il predetto commesso de' pavimenti, che senza dubbio vien dal musaico, ma le stesse tarsie ancora, e le figure di tante varie cose, che a similitudine pur del musaico e della pittura sono state fatte da' nostri vecchi di piccoli pezzetti di legno commessi et uniti insieme nelle tavole del noce e colorati diversamente; il che i moderni chiamano lavoro di commesso, benché a' vecchi fosse tarsia. Le miglior cose che in questa spezie già si facessero furono in Firenze nei tempi di Filippo di ser Brunellesco e poi di Benedetto da Maiano; il quale, nientedimanco, giudicandole cosa disutile, si levò in tutto da quelle, come nella vita sua si dirà. Costui, come gli altri passati, le lavorò solamente di nero e di bianco; ma fra' Giovanni Veronese, che in esse fece gran frutto, largamente le migliorò dando vari colori a' legni con acque e tinte bollite e con olii penetrativi, per avere di legname i chiari e gli scuri variati diversamente, come nella arte della pittura, e lumeggiando con bianchissimo legno di silio sottilmente le cose sue.

Questo lavoro ebbe origine primieramente nelle prospettive, perché quelle avevano termine di canti vivi, che commettendo insieme i pezzi facevano il profilo, e pareva tutto d'un pezzo il piano dell'opra loro, sebbene e' fosse stato di più di mille. Lavorarono però di questo gli antichi ancora nelle incrostature delle pietre fini, come apertamente si vede nel portico di S. Pietro, dove è una gabbia con un uccello in un campo di porfido e d'altre pietre diverse, commesse in quello con tutto il resto degli staggi e delle altre cose. Ma per essere il legno più facile e molto più dolce a questo lavoro, hanno potuto i maestri nostri lavorarne più abbondantemente et in quel modo che hanno voluto. Usarono già per far l'ombre abbronzarle col fuoco da una banda, il che bene imitava l'ombra; ma gli altri hanno usato di poi olio di zolfo et acque di solimati e di arsenichi, con le quali cose hanno dato quelle tinture che eglino stessi hanno voluto, come si vede nell'opre di fra' Damiano in S. Domenico di Bologna. E perché tale professione consiste solo ne' disegni che siano atti a tale esercizio, pieni di casamenti e di cose che abbino i lineamenti quadrati, e si possa per via di chiari e di scuri dare loro forza e rilievo, hannolo fatto sempre persone che hanno avuto più pacienza che disegno. E così s'è causato che molte opere vi si sono fatte, e si sono in questa professione lavorate storie di figure, frutti et animali, che in vero alcune cose sono vivissime, ma per essere cosa che tosto diventa nera e non contrafà se non la pittura, essendo da meno di quella, e poco durabile per i tarli e per il fuoco, è tenuto tempo buttato invano, ancora che e' sia pure lodevole e maestrevole.


Cap. XXXII. Del dipignere le finestre di vetro, e come elle si conduchino co' piombi e co' ferri da sostenerle senza impedimento delle figure.


Costumarono già gl'antichi, ma per gli uomini grandi o almeno di qualche importanza, di serrare le finestre in modo che, senza impedire il lume, non vi entrassero i venti o il freddo; e questo solamente ne' bagni loro, ne' sudatoi, nelle stufe e negli altri luoghi riposti, chiudendo le aperture o vani di quelle con alcune pietre trasparenti, come sono le agate, gli alabastri et alcuni marmi teneri che sono mischi o che traggono al gialliccio. Ma i moderni che in molto maggior copia hanno avuto le fornaci de' vetri, hanno fatto le finestre di vetro, di occhi, e di piastre, a similitudine od imitazione di quelle che gli antichi fecero di pietra; e con i piombi accanalati da ogni banda le hanno insieme serrate e ferme, e ad alcuni ferri messi nelle muraglie a questo proposito, o veramente ne' telai di legno, le hanno armate e ferrate, come diremo. E dove elle si facevano nel principio semplicemente d'occhi bianchi, e con angoli bianchi oppur colorati, hanno poi imaginato gli artefici fare un musaico de le figure di questi vetri diversamente colorati e commessi ad uso di pittura. E talmente si è assottigliato l'ingegno in ciò, che e' si vede oggi condotta questa arte delle finestre di vetro a quella perfezzione, che nelle tavole si conducono le belle pitture unite di colori e pulitamente dipinte; sì come nella vita di Guglielmo da Marzille franzese largamente dimostrerremo.

Di questa arte hanno lavorato meglio i Fiaminghi et i Franzesi, che l'altre nazioni; atteso che eglino, come investigatori delle cose del fuoco e de' colori, hanno ridotto a cuocere a fuoco i colori che si pongono in sul vetro, a cagione che il vento l'aria e la pioggia non le offenda in maniera alcuna; dove già costumavano dipigner quelle di colori velati con gomme et altre tempere che col tempo si consumavano; et i venti le nebbie e l'acque se le portavano di maniera, che altro non vi restava che il semplice colore del vetro. Ma nella età presente veggiamo noi condotta questa arte a quel sommo grado, oltra il quale non si può appena desiderare perfezione alcuna di finezza, di bellezza e di ogni particularità che a questo possa servire; con una delicata e somma vaghezza, non meno salutifera, per assicurare le stanze da' venti e dall'arie cattive, che utile e comoda, per la luce chiara e spedita che per quella ci si appresenta. Vero è che, per condurle che elle siano tali, bisognano primieramente tre cose, cioè: una luminosa trasparenza ne' vetri scelti, un bellissimo componimento di ciò che vi si lavora et un colorito aperto senza alcuna confusione. La trasparenza consiste nel saper fare elezione di vetri che siano lucidi per se stessi; et in ciò meglio sono i franzesi, fiaminghi et inghilesi, che i veniziani; perché i fiaminghi sono molto chiari, et i veniziani molto carichi di colore; e quegli che son chiari, adombrandoli di scuro, non perdono il lume del tutto, tale che e' non traspaino nell'ombre loro; ma i veniziani, essendo di loro natura scuri, et oscurandoli di più con l'ombre, perdono in tutto la trasparenza. Et ancora che molti si dilettino d'averli carichi di colori artifiziatamente soprapostivi, che sbattuti dall'aria e dal sole mostrano non so che di bello, più che non fanno i colori naturali, meglio è nondimeno aver i vetri di loro natura chiari che scuri, acciò che dalla grossezza del colore non rimanghino offuscati.

A condurre questa opera bisogna avere un cartone disegnato con profili, dove siano i contorni delle pieghe de' panni e delle figure, i quali dimostrino dove si hanno a commettere i vetri; di poi si pigliano i pezzi de' vetri rossi, gialli, azzurri e bianchi e si scompartiscono secondo il disegno, per panni o per carnagioni, come ricerca il bisogno. E per ridurre ciascuna piastra di essi vetri alle misure disegnate sopra il cartone, si segnano detti pezzi in dette piastre, posate sopra il detto cartone, con un pennello di biacca, et a ciascun pezzo s'assegna il suo numero per ritrovargli più facilmente nel commettergli; i quali numeri, finita l'opera, si scancellano. Fatto questo, per tagliargli a misura si piglia un ferro appuntato affocato, con la punta del quale avendo prima con una punta di smeriglio intaccata alquanto la prima superficie dove si vuole cominciare, e con un poco di sputo bagnatovi, si va con esso ferro lungo que' dintorni, ma alquanto discosto: et a poco a poco muovendo il predetto ferro, il vetro si inclina e si spicca dalla piastra. Di poi con una punta di smeriglio si va rinettando detti pezzi e levandone il superfluo, e con un ferro, che e' chiamano grisatoio o vero topo, si vanno rodendo i dintorni disegnati, tale ch'e' venghino giusti da poterli commettere per tutto.

Così, dunque, commessi i pezzi di vetro, in su una tavola piana si distendono sopra il cartone e si comincia a dipignere per i panni l'ombra di quegli la quale vuol essere di scaglia di ferro macinata, e d'un'altra ruggine che alle cave del ferro si trova, la quale è rossa, o vero matita rossa e dura macinata, e con queste si ombrano le carni, cangiando quelle col nero e rosso, secondo che fa bisogno. Ma prima è necessario alle carni velare con quel rosso tutti i vetri, e con quel nero fare il medesimo a' panni con temperargli con la gomma, a poco a poco dipignendoli et ombrandoli come sta il cartone. Et appresso dipinti che e' sono, volendoli dare lumi fieri si ha un pennello di setole corto e sottile, e con quello si graffiano i vetri in su il lume, e levasi di quel panno che aveva dato per tutto il primo colore, e con l'asticciuola del pennello si va lumeggiando i capegli, le barbe, i panni, i casamenti e' paesi come tu vuoi.

Sono però in questa opera molte difficultà, e chi se ne diletta può mettere varii colori sul vetro; perché segnando su un colore rosso un fogliame o cosa minuta, volendo che a fuoco venga colorito d'altro colore, si può squamare quel vetro quanto tiene il fogliame, con la punta d'un ferro che levi la prima scaglia del vetro, cioè il primo suolo, e non la passi; perché faccendo così, rimane il vetro di color bianco, e se gli dà poi quel rosso fatto di più misture, che nel cuocere mediante lo scorrere diventa giallo. E questo si può fare su tutti i colori; ma il giallo meglio riesce sul bianco che in altri colori, l'azzurro a campirlo divien verde nel cuocerlo, perché il giallo e l'azzurro mescolati fanno color verde. Questo giallo non si dà mai se non dietro dove non è dipinto, perché mescolandosi e scorrendo guasterebbe e si mescolarebbe con quello, il quale cotto rimane sopra grosso il rosso, che raschiato via con un ferro vi lascia giallo. Dipinti che sono i vetri, vogliono esser messi in una tegghia di ferro con un suolo di cenere stacciata e calcina cotta mescolata, et a suolo a suolo i vetri parimente distesi e ricoperti dalla cenere istessa, poi posti nel fornello, il quale a fuoco lento a poco a poco riscaldati, venga a infocarsi la cenere e i vetri, perché i colori che vi sono su infocati inrugginiscono e scorrono, e fanno la presa sul vetro. Et a questo cuocere bisogna usare grandissima diligenza, perché il troppo fuoco violento li farebbe crepare, et il poco non li cocerebbe; né si debbono cavare, finché la padella o tegghia dove e' sono non si vede tutta di fuoco, e la cenere con alcuni saggi sopra, che si vegga quando il colore è scorso.

Fatto ciò, si buttano i piombi in certe forme di pietra o di ferro, i quali hanno due canali, cioè da ogni lato uno, dentro al quale si commette e serra il vetro, e si piallano e dirizzano, e poi su una tavola si conficcano et a pezzo per pezzo s'impiomba tutta l'opera in più quadri, e si saldano tutte le commettiture de' piombi con saldatoi di stagno, et in alcune traverse dove vanno i ferri si mette fili di rame impiombati, acciò che possino reggere e legare l'opra; la quale s'arma di ferri che non siano al dritto delle figure, ma torti secondo le commettiture di quelle, a cagione che e' non impedischino il vederle. Questi si mettono con inchiovature ne' ferri che reggono il tutto, e non si fanno quadri ma tondi, acciò impedischino manco la vista; e dalla banda di fuori si mettono alle finestre, e ne' buchi delle pietre s'impiombano, e con fili di rame, che ne' piombi delle finestre saldati siano a fuoco, si legano fortemente. E perché i fanciulli o altri impedimenti non le guastino, vi si mette dietro una rete di filo di rame sottile. Le quali opre se non fossero in materia troppo frangibile, durerebbono al mondo infinito tempo. Ma per questo non resta che l'arte non sia difficile, artificiosa, e bellissima.


Cap. XXXIII. Del niello e come per quello abbiamo le stampe di rame; e come s'intaglino gl'argenti, per fare gli smalti di basso rilievo, e similmente si ceselino le grosserie.


Il niello, il quale non è altro che un disegno tratteggiato e dipinto su lo argento, come si dipigne e tratteggia sottilmente con la penna, fu trovato dagli orefici sino al tempo degli antichi, essendosi veduti cavi co' ferri ripieni di mistura negli ori et argenti loro. Questo si disegna con lo stile su lo argento che sia piano e s'intaglia col bulino, che è un ferro quadro tagliato a unghia dall'uno degli angoli all'altro per isbieco, che così calando verso uno de' canti, lo fa più acuto e tagliente da' due lati, e la punta di esso scorre e sottilissimamente intaglia. Con questo si fanno tutte le cose che sono intagliate ne' metalli per riempierle o per lasciarle vòte secondo la volontà dell'artefice. Quando hanno dunque intagliato e finito col bulino, pigliano argento e piombo, e fanno di esso al fuoco una cosa, che incorporata insieme è nera di colore e frangibile molto e sottilissima a scorrere. Questa si pesta e si pone sopra la piastra dell'argento dov'è l'intaglio, il qual è necessario che sia bene pulito; et accostatolo a fuoco di legne verdi, soffiando co' mantici, si fa che i raggi di quello percuotino dove è il niello; il quale per la virtù del calore fondendosi e scorrendo, riempie tutti gl'intagli che aveva fatti il bulino. Appresso quando l'argento è raffreddo, si va diligentemente co' raschiatoi levando il superfluo, e con la pomice appoco appoco si consuma fregandolo e con le mani e con un cuoio, tanto che e' si truovi il vero piano e che il tutto resti pulito. Di questo lavorò mirabilissimamente Maso Finiguerra fiorentino, il quale fu raro in questa professione, come ne fanno fede alcune paci di niello in S. Giovanni di Fiorenza, che sono tenute mirabili. Da questo intaglio di bulino son derivate le stampe di rame, onde tante carte e italiane e tedesche veggiamo oggi per tutta Italia; che sì come negli argenti s'improntava, anzi che fussero ripieni di niello, di terra, e si buttava di zolfo, così gli stampatori trovarono il modo del fare le carte su le stampe di rame col torculo, come oggi abbiam veduto da essi imprimersi.

Ècci un'altra sorte di lavori in argento o in oro, comunemente chiamata smalto, che è spezie di pittura mescolata con la scultura; e serve dove si mettono l'acque, sì che gli smalti restino in fondo. Questa dovendosi lavorare in su l'oro ha bisogno d'oro finissimo et in su l'argento, argento almeno a lega di giulii; et è necessario questo modo, perché lo smalto ci possa restare e non iscorrere altrove che nel suo luogo: bisogna lasciarli i profili di argento, che di sopra sian sottili e non si vegghino. Così si fa un rilievo piatto, et in contrario all'altro, acciò che mettendovi gli smalti, pigli gli scuri e' chiari di quello dall'altezza e dalla bassezza dell'intaglio. Pigliasi poi smalti di vetri di varii colori che diligentemente si fermino col martello, e si tengono negli scodellini con acqua chiarissima, separati e distinti l'uno dall'altro. E quegli che si adoperano all'oro sono differenti da quelli che servono per l'argento, e si conducono in questa maniera: con una sottilissima palettina d'argento si pigliano separatamente gli smalti, e con pulita pulitezza si distendono a' luoghi loro, e vi se ne mette e rimette sopra, secondo che ragnano, tutta quella quantità che fa di mestiero. Fatto questo, si prepara una pignatta di terra fatta aposta, che per tutto sia piena di buchi et abbia una bocca dinanzi, e vi si mette dentro la mufola, cioè un coperchietto di terra bucato, che non lasci cadere i carboni a basso, e dalla mufola in su si empie di carboni di cerro, e si accende ordinariamente. Nel vòto che è restato sotto il predetto coperchio, in su una sottilissima piastra di ferro si mette la cosa smaltata a sentire il caldo a poco a poco, e vi si tiene tanto, che, fondendosi, gli smalti scorrino per tutto quasi come acqua. Il che fatto, si lascia rafreddare, e poi con una frassinella, ch'è una pietra da dare filo ai ferri, e con rena da bicchieri si sfrega, e con acqua chiara, finché si truovi il suo piano. E quando è finito di levare il tutto, si rimette nel fuoco medesimo, acciò il lustro nello scorrere l'altra volta vada per tutto. Fassene d'un'altra sorte a mano, che si pulisce con gesso di Tripoli e con un pezzo di cuoio, del quale non accade fare menzione; ma di questo l'ho fatta, perché essendo opra di pittura, come le altre, m'è paruto a proposito.


Cap. XXXIIII. Della tausìa, cioè lavoro alla damaschina.


Hanno ancora i moderni ad imitazione degli antichi rinvenuto una spezie di commettere ne' metalli intagliati d'argento o d'oro, facendo in essi lavori piani o di mezzo o di basso rilievo, et in ciò grandemente gli hanno avanzati. E così abbiamo veduto nello acciaio l'opere intagliate a la tausìa, altrimenti detta a la damaschina, per lavorarsi di ciò in Damasco e per tutto il Levante eccellentemente. Laonde, veggiamo oggi di molti bronzi et ottoni e rami commessi di argento et oro con arabeschi, venuti di que' paesi: e negli antichi abbiamo veduto anelli d'acciaio con mezze figure e fogliami molto belli. E di questa spezie di lavoro se ne son fatte a' dì nostri armadure da combattere, lavorate tutte d'arabeschi d'oro commessi, e similmente staffe, arcioni di selle e mazze ferrate; et ora molto si costumano i fornimenti delle spade, de' pugnali, de' coltelli e d'ogni ferro che si voglia riccamente ornare e guernire; e si fa così: cavasi il ferro in sotto squadra, e per forza di martello si commette l'oro in quello, fattovi prima sotto una tagliatura a guisa di lima sottile, sì che l'oro viene a entrare ne' cavi di quella et a fermarvesi. Poi con ferri si dintorna o con garbi di foglie o con girare di quel che si vuole, e tutte le cose co' fili d'oro passati per filiera si girano per il ferro, e col martello s'amaccano e fermano nel modo di sopra. Avvertiscasi nientedimeno che i fili siano più grossi et i proffili più sottili, acciò si fermino meglio in quelli. In questa professione infiniti ingegni hanno fatto cose lodevoli, e tenute maravigliose; e però non ho voluto mancare di farne ricordo, dependendo dal commettersi, et essendo scultura e pittura, cioè cosa che deriva dal disegno.


Cap. XXXV. De le stampe di legno e del modo di farle e del primo inventor loro, e come con tre stampe si fanno le carte che paiono disegnate, e mostrano il lume, il mezzo e l'ombre.


Il primo inventore delle stampe di legno di tre pezzi, per mostrare oltra il disegno l'ombre, i mezzi et i lumi ancora, fu Ugo da Carpi; il quale a imitazione delle stampe di rame ritrovò il modo di queste, intagliandole in legname di pero o di bossolo, che in questo sono eccellenti sopra tutti gli altri legnami. Fecele dunque di tre pezzi, ponendo nella prima tutte le cose proffilate e tratteggiate, nella seconda tutto quello che è tinto accanto al proffilo con lo acquerello per ombra, e nella terza i lumi et il campo, lasciando il bianco della carta in vece di lume, e tingendo il resto per campo. Questa, dove è il lume et il campo, si fa in questo modo: pigliasi una carta stampata con la prima, dove sono tutte le proffilature et i tratti, e così fresca fresca si pone in su l'asse del pero, et agravandola sopra con altri fogli che non siano umidi, si strofina in maniera, che quella che è fresca lascia su l'asse la tinta di tutti i proffili delle figure; e allora il pittore piglia la biacca a gomma, e dà in su 'l pero i lumi; i quali dati, lo intagliatore gli incava tutti co' ferri, secondo che sono segnati. E questa è la stampa che primieramente si adopera, perché ella fa i lumi et il campo, quando ella è imbrattata di colore ad olio, e per mezzo della tinta lascia per tutto il colore, salvo che dove ella è incavata, che ivi resta la carta bianca. La seconda poi è quella delle ombre, che è tutta piana e tutta tinta di acquerello, eccetto che dove le ombre non hanno ad essere, che quivi è incavato il legno. E la terza, che è la prima a formarsi, è quella dove il proffilato del tutto è incavato per tutto, salvo che dove e' non ha i proffili tocchi dal nero della penna. Queste si stampano al torculo, e vi si rimettono sotto tre volte, cioè una volta per ciascuna stampa, sì che elle abbino il medesimo riscontro. E certamente che ciò fu bellissima invenzione.

Tutte queste professioni ed arti ingegnose si vede che derivano dal disegno, il quale è capo necessario di tutte; e, non l'avendo, non si ha nulla; perché sebbene tutti i segreti et i modi sono buoni, quello è ottimo, per lo quale ogni cosa perduta si ritrova, et ogni difficil cosa per esso diventa facile; come si potrà vedere nel leggere le vite degl'artefici, i quali dalla natura e dallo studio aiutati, hanno fatto cose sopra umane per il mezzo solo del disegno.

E così, faccendo qui fine alla introduzzione delle tre arti, troppo più lungamente forse trattate che nel principio non mi pensai, me ne passo a scrivere le Vite.


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