PARTE SECONDA NEL CALDO ALITO DI QUEI GIORNI

Quando muoiono i mendicanti, non si vedono comete —

Il firmamento stesso avvampa per la morte dei principi.

William Shakespeare

Fig. 11 — Colonia di Halley 2062
Edmund Hallay ormeggiata alla torra dal Polo Nord

VIRGINIA

La grande, ruzzolante montagna di ghiaccio sfrecciava verso l'esterno nel vuoto. Dietro di essa, sempre più piccolo e più debole col passare di ogni turno di guardia, il Caldo precipitava via nell'eterna oscurità.

Per un breve momento l'avvampante fornace del Sole aveva raschiato e scalfito e cotto quel minuscolo mondo innevato, aveva caricato e fatto crepitare la sua temporanea atmosfera, inviando ondeggianti bandiere di gas ionizzato a sbattere alla brezza interplanetaria. Ma poi quella fugace estate era passata. Le fiamme erano rimaste un'altra volta indietro, ancora luminose ma sempre più innocue, ora dopo ora. La selvaggia esuberanza del passaggio al perielio stava rapidamente svanendo nel ricordo. L'autunno fu contrassegnato da una leggera caduta di polvere. I minuscoli frammenti, trascinati via dalla superficie dal soffio sempre più debole del gas in perdita, non avevano mai raggiunto del tutto la velocità di fuga, neanche con una forza di attrazione così debole della cometa. Gradualmente erano ritornati indietro, coprendo d'una scura patina simile al talco i campi di ghiaccio e gli affioramenti rocciosi. Il guizzante serpente della coda di plasma era già scomparso e adesso l'accorciata coda di polvere, così simile a scintillanti vessilli angelici non molto tempo addietro, si stava dissipando a mano a mano che l'antica cometa superava sfrecciando Marte e proseguiva oltre, verso l'orbita di Giove.

Virginia lo trovava magnifico. Adesso qua e là la scura regolarità appariva spoglia, esponendo al vuoto un sonnacchioso substrato di ghiaccio. Malgrado una sottile chioma di scintillanti ioni rimanesse ancora tenacemente sospesa sopra di loro, la volta celeste mostrava già adesso più stelle di quante erano visibili durante le buie notti tropicali sulla Terra.

Scommetto che la vista è ancora più spettacolare di persona, pensò. Un giorno, io stessa devo salire davvero in superficie.

Sentiva la morbida ragnatela che la tratteneva al suo scheletro replicante, in una caverna-laboratorio situata in profondità sotto milioni di tonnellate di materia primeva. Ma per il resto, era come si trovasse di persona sulla superficie della cometa. Le immagini olografiche le comunicavano una sensazione quasi perfetta, di trovarsi fuori sul ghiaccio.

Indossava, e teleoperava, un mech da superficie di terza classe, muovendo le lunghe e affusolate zampe da ragno come avrebbe fatto con le proprie, guardando con i suoi occhi rotanti, percependo il lieve tocco delle molecole alla deriva come un vento sul proprio viso. La punta delle sue dita manovrava con delicatezza nelle tenaglie waldo del mech, mentre inviava una serie di comandi mentali all'ospite meccanico facendogli compiere evoluzioni sul ghiaccio.

La tecnica era stata tentata per la prima volta verso la fine del ventesimo secolo, e a quell'epoca era parsa molto promettente… fino a quando parecchi disastri, tristemente famosi, non avevano portato al quasi abbandono delle interfacce dirette mente-macchina. Era risultato che ci voleva un tipo tutto speciale di personalità per controllare un mech in quella maniera, senza permettere che pensieri casuali e un centinaio di riflessi umani interferissero, talvolta nel modo più catastrofico. Questo era stato scoperto nella maniera dura, durante quelle prime, ingenue applicazioni agli aerei e ai robot delle fabbriche. Anche oggi spaziali come Carl Osborn tendevano a non fidarsi di quella tecnica, preferendo i comandi a voce e al tatto.

Questo accadeva allora, comunque. Adesso è adesso.

Una delle ragioni della sua presenza in quella missione era il fatto che, per la prima volta dopo decenni, era stato fatto un uso così ampio di robot controllati mentalmente.

Vasha Rubenchik è un vero genio pensò Virginia, mentre guidava destramente il mech oltre una piccola altura. I russi sono stati degli idioti ad esiliarlo qua fuori, qualunque fossero le sue opinioni politiche. Mai prima d'oggi avevo sperimentato un collegamento così buono.

Peccato che Vasha fosse già in animazione sospesa, altrimenti Virginia l'avrebbe lodato per la bravura che aveva dimostrato mettendo a punto secondo le sue specifiche i contatti neuroelettrici e olografici. Era quasi certo che questo, da solo, avrebbe potuto assicurare ad entrambi le royalty sul brevetto, una volta che i dati fossero stati trasmessi a casa. Il gruzzolo si sarebbe accumulato nei loro conti in banca mentre dormivano per la maggior parte dei sette decenni e mezzo che li attendevano.

Malgrado i soldi non fossero la cosa più importante per lei, Virginia aveva visto quanto potevano esser utili, specialmente quando qualcuno voleva lavorare in settori disapprovati dalle autorità costituite.

Non vedeva l'ora che le cose si fossero un po' calmate, e ci fosse un po' di tempo libero per tentare alcune di quelle nuove tecniche, insieme a JonVon.

Quasi fosse stato chiamato, una voce ronzò lungo il suo nervo acustico:

SONO PRONTO A IMPEGNARMI IN NUOVI PROBLEMI TUTTE LE VOLTE CHE VUOI, VIRGINIA, IL MAINFRAME DELLA MISSIONE USA SOLTANTO IL 15% DELLA MIA CAPACITÀ, IN QUESTO MOMENTO… VUOI CHE ASSUMA UNA PERSONALITÀ SIMULATA?

Oh, magnifico pensò Virginia. Tutto quello che mi serve mentre controllo un mech, fuori in superficie, sarebbe proprio di lasciarti costruire Olivier, o O'Toole, o qualcuno di quegli altri rubacuori dei vecchi film… per poi farmeli caracollare intorno, a sbuffarmi nelle orecchie.

Aveva scelto di utilizzare attori pre-vid negli esperimenti di simulazione della personalità, in parte per atavismo romantico, e in parte perché al giorno d'oggi erano meno familiari al pubblico. Erano i migliori, per essere usati su soggetti che nulla sospettavano, per effettuare test di Turing alla cieca. Sulla Terra le simulazioni avevano ingannato quasi tutti anche se non erano ancora niente di simile a quello che — ne era più che convinta — avrebbe potuto essere.

OPPURE POTREI FAR RIVIVERE SHELLEY. LA SUA POESIA TI PIACE.

Virginia subvocalizzò con chiarezza e rapidità:

Non adesso, JonVon. Mamma ha da fare. Se tu non hai abbastanza da fare, aiutando il mainframe della colonia, occupati di alcuni di quei problemi secondari che ti ho assegnato.

MOLTO BENE. CONTINUERÒ A INFILTRARMI FRA GLI ARCHIVI DELLA COLONIA E FICCANASERÒ PER VEDERE COSA HA PORTATO LA GENTE COME BAGAGLIO PERSONALE. HAI ESPRESSO CURIOSITÀ IN PROPOSITO.

Virginia esitò, poi fu d'accordo: D'accordo. Fallo. Soltanto, non lasciare nessuna traccia.

Naturalmente, era un po' amorale servirsi dei suoi strumenti e delle sue speciali capacità per ficcare il naso nelle faccende private degli altri. Ma d'altronde Virginia aveva sempre creduto che la gente tendesse a conservare troppi segreti.

Comunque, serviva ad aumentare il numero di persone a cui fare attenzione. Quella dozzina di membri dell'equipaggio ancora caldi che si trovavano in giro non erano neanche sufficienti per un minimo di pettegolezzi durante i sedici mesi del Primo Turno di guardia. Vista la necessità di ridurre al minimo il consumo dei generi di prima necessità non rinnovabili, tutti gli altri erano già stati messi a sonno freddo, lasciando che quelli del Primo Turno dessero il tocco finale agli habitat e alle altre attrezzature.

Bene, Ginnie, ti sei offerta volontaria per il Primo Turno. Sapevi che sarebbe stato uno dei più impegnativi.

Sì, ma ci sono anche occasioni. Più tardi pensò, più tardi, una volta che le cose si saranno calmate, avrò la mia possibilità. Lunghi deliziosi periodi per poter lavorare.

Il suo mech terminò la lenta ispezione della superficie mentre l'imboccatura del Pozzo 2 compariva alla vista.

Piena di cicatrici, graffiata e cosparsa di spazzatura, la regione polare settentrionale non assomigliava per nulla ai resti originari della creazione. Casse di materiali di scorta giacevano ancorate al ghiaccio oppure legate sotto «tende» di fibratessuto, in attesa di venir utilizzate più avanti. I rottami erano sparpagliati dappertutto.

Più lontano, svettavano alte sei piramidi scure fatte dei residui estrattivi dagli scavi dei pozzi, sommariamente separati in mucchi di minerali grezzi di antichissima origine ricchi di ferro-nikel, platino e iridio, e di fanghiglie carbonacee… molto simili alle sabbie bituminose della provincia canadese di Alberta. A una certa epoca, molto più avanti, quando lei sarebbe già stata in animazione sospesa, l'equipaggio di turno avrebbe cominciato a trattare quei mucchi traendone delle cose utili, ad esempio gli alloggiamenti dei propulsori a gas cometario.

Per riportarci di nuovo a casa. Non per la prima o l'ultima volta si chiese come sarebbe stata la Terra al loro ritorno. Se tutti i loro grandiosi progetti sarebbero risultati validi. Le Hawaii, la Terra, sarebbero state riconoscibili? Più amichevoli? Oppure sarebbe stato un mondo alieno, alterato al punto da essere irriconoscibile?

Halley sfreccia

nei secoli,

a intervalli…

Ad una spanna umana di distanza

Halley raccatta

i tempi che cambiano

la vita delle nazioni…

in un battito del suo cuore.

Uhm. Grazie al cielo in questo momento aveva fin troppo da fare, altrimenti sarebbe stata tentata di registrare quei pochi versi scadenti. Comunque, forse, avrebbe potuto tirarne ugualmente fuori qualcosa.

DEVO IMMAGAZZINARLI O CANCELLARLI, VIRGINIA?

Trasalì, poi subvocalizzò in fretta, JonVon, pensavo che te ne fossi andato. Quelle erano riflessioni private.

RIFLESSIONI PRIVATE — MEDITAZIONI — FANTASIE…

Basta! E JonVon si azzitti subito.

Irritata, Virginia riprese il controllo dei propri pensieri e si concentrò per manovrare il mech e riportarlo verso il suo ambiente di lavoro. Le zampe da ragno ruotarono una per volta. Le vibrazioni superficiali si traducevano in suoni, cosicché lei «sentiva» i piedi del mech che calpestavano la polvere scura facendola scricchiolare.

Qui, durante le prime fasi del lavoro, era stato prodotto tanto di quel vapore che una consistente porzione si era nuovamente condensata, invece che sfuggire nello spazio. Una neve sfavillante si era ricongelata in pochi istanti intorno ai condotti di sfogo del calore e dei gas che uscivano dalla Centrale. Ampie colate iridescenti si erano riversate intorno all'imboccatura del Pozzo 2.

La stessa camera di equilibrio era qualcosa di più di una struttura tetra e funzionale. Ben lungi da questo, Virginia la vedeva come un'opera d'arte. Supporti strutturali erano stati modellati in pressofusione formando alti archi fatati. Gli ancoraggi alla base parevano pugni nodosi che rinserravano l'antichissima materia di cui era fatta Halley.

Soltanto poche parti essenziali erano costituite da prezioso metallo raffinato, recuperato dalle navi automatiche di trasporto. I supporti e il corpo dell'edificio erano stati abilmente scolpiti dalla cristallina acqua ricongelata.

Era uno dei motivi per cui a Virginia piaceva lavorar fuori, al Quadrante 2, dove Jim Vidor aveva avuto il comando della squadra da costruzione. Quell'uomo era un artista.

— Costruiamo meglio quando siamo costretti a improvvisare — disse sommessamente tra sé Virginia.

Un'onda portante si inserì, subito seguita dalla voce di una donna:

— Cos'era, Virginia? Hai detto qualcosa?

Virginia girò la testa un po' troppo in fretta, inducendo il mech a ruotare goffamente mentre si sforzava di seguire i suoi movimenti. Finalmente una figura magra, in tuta spaziale, comparve nel campo visivo di Virginia, in piedi sopra una fila di figure scure legate al ghiaccio.

— Oh, mi spiace, Lani: stavo soltanto ammirando quello che Jim e i suoi ragazzi hanno fatto, fondendo e scolpendo questa camera di equilibrio.

La tuta spaziale di Lani Nguyen era stata alleggerita dalla pesante armatura, adesso che l'estate era passata e non c'era più pericolo che improvvisi getti di gas scagliassero fuori con violenza schegge di roccia. Una sorta di cotta in panno bianco copriva la tuta all'altezza del petto riproducendo la testa d'un unicorno sorridente, un simbolo che avrebbe consentito a quelli che lavoravano troppo lontani e non potevano guardarla in viso d'identificare Lani. In quel momento, comunque, il sole a picco si rifletteva sul suo visore opaco nascondendo i suoi morbidi lineamenti afro-asiatici.

— Sì, è grazioso. Ma non del tutto sicuro, a mio avviso. Al prossimo turno, Jeffers dovrebbe tirar fuori i macchinari della fabbrica e cominciare a lavorare un po' di quel ferro e carbonio ammucchiati là. Dormirò assai più tranquilla nel mio loculo sapendo che c'è un'autentica fibra-antitensione quassù, che tiene dentro l'aria.

Virginia sospirò sommessamente. — Sì, suppongo che tu abbia ragione. Ma spero ugualmente che lascino qualcuna di queste strutture di cristallo al loro posto. Sarebbe un peccato se lasciassimo soltanto cicatrici su ogni centimetro di questo piccolo mondo.

Sentì Lani sbuffare, ma con cortesia, senza nessun altro commento.

Virginia sapeva che per uno spaziale i discorsi sulla «conservazione della natura» non erano altro che una forma di luddismo. Andava benissimo cercare di salvare quello che rimaneva sulla povera e svuotata Terra, ma applicare quelle idee alle vaste risorse che si trovavano là fuori per gli spaziali era segno di ottusità.

Stupidi o no che fossero, comunque, una grande maggioranza di terrestri la pensavano così. E Virginia non era ancora sicura se essere o no in disaccordo.

Riportò il suo mech accanto al mucchio di apparecchiature e aiutò la ragazza ameroasiatica a scaricare una nuova cassa di rivestimento per gallerie in fibratessuto. Carl Osborn sarebb; salito fin lassù tra non molto per lavorare insieme a Lani su un nuovo collegamento fra il Pozzo 2 e il Pozzo 1. Lani aveva chiesto a Virginia di salire, per mech interposto, naturalmente, per aiutarla a montare un voluminoso mech autonomo in vista dell'imminente operazione.

Questo mio mech funziona davvero benissimo pensò Virginia. Il modello era certamente in gamba quel che bastava ad eseguire gli ordini di Lani senza il mio controllo diretto. Mi chiedo quale sia stata la sua vera ragione per chiedermi di essere presente quassù.

Insieme spinsero la cassa verso il portello spalancato della camera di equilibrio, fornendo il sostegno della punta delle dita per quel voluminoso carico soggetto soltanto alla debole attrazione del nucleo di Halley. Fu allora che Lani parlò di nuovo, con voce volutamente disinvolta.

— Fintanto che sei quassù, Virginia, voglio ringraziarti per avermi aiutato a fare il Primo Turno.

Virginia trasalì, e fece quasi cadere la sua estremità della cassa mentre la stavano calando fino al pavimento della camera di equilibrio.

— Uhm… sei la benvenuta, Lani. Non… non credo di aver cambiato troppo le cose, comunque.

Questo era certamente vero. Tre settimane prima, mentre cento fra uomini e donne, temporaneamente risvegliati, si aggiravano intorno come formiche che si preparassero al lungo inverno, Lani aveva accennato qualcosa a Virginia circa la possibilità d'influenzare gli elenchi degli addetti ai vari turni. Lei avrebbe voluto rimanere sveglia per il primo periodo di un anno e mezzo, dopo che quasi tutti gli altri fossero stati raffreddati.

Un certo numero di membri dell'equipaggio parevano condividere la convinzione che Virginia avesse una specie di ingresso segreto ai circuiti principali della missione a bordo della Edmund. Qualcuno le aveva perfino fatto delle richieste molto più esplicite. Cortesemente, lei non si era impegnata con nessuno di loro. La gente accettava quel genere di risposta assai meglio che un immediato rifiuto.

Ad essere onesta, con tutto quello che aveva dovuto fare, Virginia si era del tutto dimenticata, fino a quel momento, di quella timida preghiera di Lani.

Dovettero premere sulla cassa per sistemarla a ridosso dell'altro equipaggiamento. Adesso l'attrazione di Halley era come la melassa.

— Ti sono davvero grata. Non me la sentivo proprio di andare là sotto a dormire… a passare tutto quel tempo… con la mente che mi gira come una trottola. Ci sono cose… cose che devo risolvere con me stessa.

Malgrado avesse girato a metà la testa dall'altra parte mentre parlava, adesso il volto di Lani era visibile sotto il visore del suo casco. La giovane donna avrebbe facilmente potuto essere hawaiana, con i suoi lineamenti lievemente eurasiatici e la pelle sana e soda. In questo momento, però, la spaziale di seconda classe Lani Nguyen pareva turbata, la sua bocca si muoveva come se stesse cercando delle parole per esprimersi.

Oh, c'era da aspettarselo pensò Virginia. Sulla Terra ci avevano detto che a turno tutti avremmo dovuto fare da terapisti, sacerdoti, confidenti l'uno dell'altro. E poi hanno caricato la spedizione di esiliati, menomati e profughi.

Come me. Sospirò. Sii onesta con te stessa, Ginnie. Ti senti meno confusa di questa povera ragazza?

Aspettò, e alla fine Lani parlò di nuovo.

— Virginia, mi stavo chiedendo… uhm, cosa pensi delle leggi sulla Nascita e l'Infanzia?

Virginia fu lieta che il mech non potesse mostrare la sua viva sorpresa.

— Be', uhm, non mi sembra del tutto giusta… anche se immagino ci siano argomentazioni da entrambe le parti. Immagino che non ti piacciano molto, Lani. Dopotutto, tu sei una…

— Una spaziale, sì. — Lani annuì. — I miei genitori erano tecnoliberali della California. Mi hanno raccontato storie sin da quando ero bambina, su come il futuro dell'umanità sarebbe stato fuori, nello spazio. Come un giorno l'umanità avrebbe riacquistato nerbo e iniziativa qui fuori, ridiventando ricca, felice e generosa. Soltanto gli individui grigi e monotoni del tipo rimango-a-casa, avrebbero continuato a vivere sulla Terra.

A disagio, Virginia cambiò posizione. Il mech rispose con una nuova inclinazione del pelvi.

— I tuoi genitori avevano ragione, Lani. Lo spazio sta salvando l'umanità. Perfino i reazionari e gli archisti lo sanno. Perché pensi che le Hawai abbiamo investito così tanto in questa spedizione? Quei sogni diverranno realtà, un giorno.

«Immagino sia dovuto al fatto che il Secolo dell'Inferno è ancora fresco nei ricordi di tutti. È per questo che tanti paesi sono così sospettosi. Per prima cosa lo spazio dovrà servire la Terra fino a quando la ripresa non sarà stata completata. Non preoccuparti, comunque. Sono sicura che vivrai fino a vedere il Terzo Altopiano.

La vista del mech si adattò alle ombre. Attraverso la visiera dell'altra donna, Virginia la vide scuotere la testa.

— Sarà troppo tardi per me, probabilmente. Dovrò andare a vivere sulla Terra per avere i miei bambini, e nessuno spaziale maschio vorrà lasciare il Buio per restare al mio fianco, ridiventando un latoterra.

Eccolo, esposto come una ferita aperta. Virginia sentì il palmo delle sue mani diventare sudaticcio sui suoi comandi waldo. Se c'era un argomento del quale avrebbe preferito non discutere, era proprio questo.

Replicò, con finta leggerezza: — Non è una esagerazione?

Lani sollevò lo sguardo. I suoi occhi scuri erano tristi.

— Guarda le cifre, Virginia. Tutti gli spaziali hanno immagazzinato lo sperma e gli ovuli nelle banche sulla Terra. La maggior parte genera per interposta persona, salvo quelli che sono percell, che non riescono a trovare genitori surrogati per la loro prole. Stanno ancora peggio di noi ortho.

Virginia si sentì investire da una sferzata di selvaggia ironia. Per lo meno, quella ragazza aveva qualcosa da immagazzinare. Aveva un biglietto per il futuro.

Io che cos'ho, se non le mie macchine? pensò Virginia.

— I livelli radioattivi in cui vivete lo rendono necessario, non è vero, Lani? — Una verità lapalissiana, naturalmente.

Lani scrollò le spalle.

— Se ci avessero lasciato costruire delle vere colonie spaziali, invece di semplici fabbriche e capanne per la sopravvivenza in orbita, noi spaziali potremmo sposarci e metter su famiglia insieme. Così, invece, quelle spaziali che tornano a casa e chiedono di riavere il loro plasma, sono costrette a rimanere laggiù con i loro figli. La maggior parte di noi è costretta a sposare dei terricoli, dal momento che nessun uomo come Car… dal momento che nessun uomo dello spazio rinuncerebbe mai al Buio senza lottare.

Virginia cercò di riportare la conversazione sull'astratto, dove si trovava assai più a suo agio. — È una situazione dura, Lani, ma le stesse leggi…

— Le leggi sulla Nascita e sull'Infanzia sono un imbroglio! Tu sai che sono soltanto misure reazionarie contro qualunque cosa appaia nuova e faccia paura alle masse! Non vogliono perdere il controllo su di noi qua fuori! Hanno terrore dei cambiamenti!

Virginia soffocò la sua reazione impulsiva: si bloccò mentre era sul punto di dire alla ragazza di non insegnare a sua nonna come succhiare le uova. Cosa mai aveva da insegnare a lei una sana ragazza ortho sulla vita? Sull'amarezza e l'ombra cupa delle persecuzioni? C'era soltanto un uomo, là fuori, al quale Virginia era pronta a prestare ascolto, o che aveva il diritto di dire qualcosa su quelle faccende.

Qualcosa di tutto questo doveva essere stato trasmesso dalla posizione del mech ospite sulle sue sei gambe. La donna in tuta spaziale si raddrizzò e scosse la testa.

— Mi spiace di aver gridato, Virginia.

— Non è niente, Lani. Su, andiamo a prendere l'ultima cassa. Sai bene che l'inferno non è niente, paragonato al furore di un sottufficiale davanti ad un lavoro incompleto. Vogliamo finire prima che arrivi Sua Grazia, lo spaziale di prima classe Carl Osborn.

Lani scoppiò a ridere, ma terminò tirando su col naso e scuotendo la testa. Virginia allungò delicatamente un braccio manipolatore e toccò la manica isolata della tuta spaziale. L'altra donna annuì e uscirono di nuovo sotto le stelle a prendere l'ultima cassa.

Avevano trascinato il voluminoso contenitore fino a metà strada dalla struttura della camera di equilibrio, quando una sventagliata di luce uscì dalla porta dell'ascensore, subito dopo lo spruzzo color avorio del gas liberato.

Ne emerse una figura alta, voluminosa, in tuta spaziale. Virginia riconobbe Carl Osborn dai suoi languidi e fluidi movimenti lungo il cavo-guida ancora prima di riuscire a distinguere il disegno che codificava il suo nome sulla cotta.

— Ciao, Carl — trasmise Lani.

— In perfetto orario, a quanto vedo — aggiunse Virginia. Carl si fermò di colpo.

— Virginia! Sei qua sopra? Bene, bene, non riuscivi a star lontana da me, vero?

Rivolse un inchino al suo mech. — È una bella giornata per una passeggiata in superficie. Dovresti avvertirmi la prossima volta che hai intenzione di salire.

Finalmente Carl si girò e salutò la sua compagna di squadra con un cenno del capo.

— Ciao, Lani. Fai attenzione con quella estremità. Sta scivolando.

— Oh, scusa, Carl. La prendo…

In effetti Carl avrebbe dovuto rivolgersi alla persona in carne e ossa prima di parlare con quella presente soltanto in waldo. Il casco di Lani Nguyen si era opacizzato sotto il vivido bagliore del sole, così Virginia non era riuscita a cogliere la reazione della ragazza. Ma aveva i propri sospetti.

— Ti lascio qui con il Dono del Cielo per le spaziali alla deriva, Lani — trasmise Virginia. — Sono sicura che è capace di fare un ottimo lavoro se lo si sorveglia con cura.

Carl volgeva la schiena al sole, così la visiera del suo casco era trasparente. Virginia lo vide sbattere le palpebre mentre si affrettava a interloquire:

— Perché non vieni anche tu, Virginia? Siamo incappati in alcune interessanti formazioni sintetizzate e ricristallizzate, scavando sempre più in profondità dentro il nucleo. Sono diverse da qualunque altra cosa abbiamo incontrato fino ad ora.

Virginia dovette ammettere che, malgrado le trovasse eccessive e imbarazzanti, le attenzioni di Carl le facevano tuttavia piacere. Quell'uomo era così maledettamente attraente… alla maniera di un eroe cinematografico, in un certo qual modo.

Se fosse stato quello il tipo di eroe che cercava… ma no, non lo era. Non in questa vita. Non adesso.

Fece eseguire al mech l'imitazione di un inchino. — Sembra una prospettiva eccitante, Carl. Informerò Saul Lintz. Lui e Joao Quiverian sono i cometologi di servizio durante questo turno. Sono sicuro che saranno entusiasti di vedere le tue fotografie e di ricevere i tuoi campioni.

Sulla fronte di Carl si disegnò una piega amara. Ovviamente non era questo che aveva in mente.

— Ci vediamo, Carl. Buona fortuna, Lani.

Attivò la procedura di disimpegno, lasciando che il sistema a bordo del mech prendesse il controllo mentre la sua presenza teleportata rifluiva nel laboratorio sepolto nel sottosuolo, là dove giaceva il suo corpo. Le immagini svanirono, ma prima che sparissero del tutto, e le luci si accendessero, vide che Carl «la» stava osservando ancora… e Lani Nguyen stava osservando Carl.

CARL

Le loro torce erano lame di luce azzurra che tagliavano la nebbia ribollente.

— Tienti salda. Si schiarirà fra un minuto — trasmise Carl.

Leni Nguyen affondò un bastone appuntito dentro una crosta di acqua ghiacciata per mantenere l'equilibrio. — Che eruzione! Doveva essere imbottigliato là dentro da un miliardo d'anni.

Avevano appena terminato una nuova galleria. I mech avevano fatto il lavoro iniziale una settimana prima, con uno scavo grezzo; ma era opportuno che fossero gli umani a occuparsi delle rifiniture, i mech avevano una loro strana maniera di lasciare dei pericolosi solchi dai bordi affilati come coltelli.

Entrambi avevano usato il proprio laser a ventaglio e a potenza ridotta, spuntando e raschiando via ogni sporgenza del ghiaccio. Ogni occasionale macigno doveva venire scalpellato tutt'intorno, oppure il ghiaccio in cui era incastonato doveva venir vaporizzato dal laser sul raggio ristretto, perché poi fosse possibile rimuoverlo dalla sua sede. Infine, veniva spinto fino al più vicino incrocio, dove un mech lo aggiungeva al mucchio dei detriti.

Leni stava cercando di far leva sotto una roccia grossa quanto una sedia quando Carl commentò, sbrigativo: — Ricordati di Umolanda. — Lani annuì, muovendosi con cautela, tirando, e d'un tratto il blocco roccioso mollò l'incastro, spinto dalla pressione che agiva da dietro. Schizzò fuori una nebbia perlacea.

Lani cercò di sbattere via il vapore agitando le braccia, senza risultato. — Pensi che sia un'altra cavità con alluminio fuso?

Finora la spedizione aveva trovato quattordici sacche, ognuna contenente vapore e perfino un po' di liquido. Carl sbirciò attraverso il foro.

Una pozza gorgogliante bolliva lentamente in fondo ad un'ampia camera naturale sferica. Una nebbia si alzava da essa a raffiche e a spruzzi. Un vapore multicolore ne sgorgava spumeggiando. — Dannazione, pare che ci sia della minestra sul fuoco!

Lani corrugò graziosamente la fronte: — La zuppa primordiale, già. Lintz e Malenkov vanno in solluchero al solo pensarci.

— Così non li abbiamo tra i piedi.

— Scommetto che Quiverian soffre di incubi con quei due che scoprono ogni genere di roba succosa sulla sua cometa.

Mentre guardava, Lani si pulì una chiazza appiccicosa e purpurea dalla manica. — Ecco. Dio soltanto sa che razza di roba sia questa.

Carl sogghignò. Lani preferiva l'austera semplicità del lavoro nello spazio, la meccanica newtoniana delle linee diritte e dei vettori conosciuti; dell'acciaio lisciato dal sole e delle superficie spoglie e pulite. Non il buio e gli schizzi provocati dal lavoro nelle gallerie.

— Non è meraviglioso, quello che può fare la creazione con poche, semplici molecole soltanto? — Mantenne un volto impassibile. Si era sentito un po' strano da quando aveva incontrato il mech di Virginia sulla superficie soltanto poche ore prima. Il mech e Lani erano parsi impegnati in un colloquio molto intimo, azzittendosi immediatamente al suo arrivo. Forse avrebbe potuto indurre Lani a dirgli cosa tormentava Virginia.

Non è divertente, Carl. Questa poltiglia potrebbe entrare in un'articolazione, irrigidirla.

— Evaporerà.

— Ma davvero? E allora, come mai non è bollita via quattro miliardi di anni fa?

— È rimasta sotto pressione.

— Ma ogni cosa dev'essersi congelata subito dopo i primi giorni.

— Probabilmente. Questo è stato soltanto un iceberg volante per miliardi di anni, fuori, al di là di Nettuno. Ma all'inizio, quando il sistema solare si è condensato, c'era parecchio alluminio 26 su Halley: la Sezione Chimica ha riferito di aver trovato i prodotti del decadimento, ricordi?

— Oh, già. I residui della stessa supernova che hanno attivato i residui del sistema solare.

— Così dicono. Comunque, il decadimento dell'isotopo 26 dell'alluminio ha fuso queste cavità. Potrebbero aver continuato a far distillare la brodaglia abbastanza a lungo da cucinare quelle sostanze chimiche esotiche e quelle forme di pre-vita che Lintz ha scoperto. Non so.

Lani allargò l'apertura con un piccone. — Allora, quando Halley è stata sbattuta nella sua orbita attuale, il Sole ha riscaldato di nuovo queste sacche calde? Ondate di calore ad ogni estate al perielio?

Carl scrollò le spalle. — Dev'essere stato così. — Non riusciva a pensare a un modo per manovrare quella conversazione così che Lani fosse indotta a parlare dei segreti di Virginia.

— Il calore del Sole dell'anno scorso, quello deve ancora filtrare giù attraverso il ghiaccio, raggiungendone quel tanto che basta per mantenere liquidi questi punti caldi locali.

— Esatto. Malenkov e Vidor hanno misurato l'onda termica.

La fontana si sbriciolò in gocce separate, cessò. Nubi colorate turbinarono, si assottigliarono, fuggirono via lungo il corridoio alle loro spalle, sparendo nell'oblìo dello spazio.

— Andiamo a dare un'occhiata. — Carl abbatté l'ultimo ostacolo di roccia e contorcendosi s'infilò nella cavità più oltre. Sventagliò tutt'intorno la luce della torcia… e rimase a bocca aperta.

Sfaccettature cristalline germogliavano dappertutto. Le punte luccicavano rosso rubino, smeraldo, arancio bruciato. Dovunque rivolgesse la lampada del suo casco, la luce veniva riflessa e rifratta in schegge brillanti.

— Un palazzo di cristallo — disse Lani con voce sommessa, quando lo ebbe raggiunto. — È magnifico.

— I colori!

— Concentrazione di metalli? Magnesio? Noduli di platino? Cobalto? I rosa, i porpora!

— Ecco, fai delle fotografie. Il solo calore delle nostre torce potrebbe scioglierlo.

— Lo credi? — Lani gli porse la sua torcia e si allontanò sganciando la sua macchina fotografica. — Guarda, posso vedere le immagini di me stessa in quei grossi cristalli. È facile… devono avere un metro di diametro.

Carl si fece strada con cautela, camminando sulla punta dei piedi. Le svettanti piramidi d'un delicato azzurro-arsenico avevano un aspetto particolarmente pericoloso. Loro lavoravano in pelle-tuta, guaine sottili e sufficientemente flessibili per i lavori difficili: derivavano dallo stesso tessuto di catene molecolari dei rivestimenti dei corridoi. Ma un orlo davvero aguzzo avrebbe potuto benissimo tagliarle.

Carl guardò davanti a sé, strizzando gli occhi per proteggerli dagli arcobaleni di luce che come tanti nastri parevano concentrarsi su di lui. Ricordò un problema di ottica dai tempi del Caltech, più di dieci anni prima. Se vi foste trovati all'interno di una sfera riflettente, cosa avreste visto? Quante immagini? L'impulso naturale era quello di mettersi a sommare i riflessi dei riflessi dei riflessi all'infinito. La vera risposta era che avreste visto un'immagine soltanto.

Non qui, però. Ogni riflessione ne alimentava altre, producendo una miriade di sciami di minuscoli Carl in technicolor. Si muovevano come lui, insetti di ogni colore, sospesi in una nube al di là della loro portata.

Faceva venire le vertigini. Migliaia di Lani, ognuna seriamente impegnata a fare fotografie. Fra esse c'era una macchia scura. Carl si diede una piccola spinta e planò fino a quell'ombra.

— Ehi, qui c'è una specie di frattura.

— Fai attenzione agli orli aguzzi, Carl.

— Sì.

Girò lentamente e calò la testa dentro il foro. — Pare che prosegua.

— Molto lontano?

— Non lo so. C'è una specie di roba marrone semiliquida qui dentro. Qualcosa di umido, comunque.

— Già. Lasciala ai ragazzi della squadra biologica.

— D'accordo. — Carl si raddrizzò, planando pigramente alla deriva sopra un campo di luccicanti cuspidi di cristallo. — Ehi, è ora di pranzo.

— Mangiamo qui.

— Potremmo avere della buona roba calda vicino al primo gruppo di loculi.

Lani fece una smorfia — E toglierci la tuta soltanto per entrare? Il fagiano arrosto con la salsa di castagne non vale il tempo che ci toccherà perdere per ripulirci da questo pasticcio.

S'impastoiarono alla parete che nominalmente faceva da soffitto e tirarono fuori i tubetti alimentari. — Anche autoriscaldata, questa roba è proprio orrenda — brontolò Carl.

— Per me vale senz'altro la pena, non fosse altro che per restare lontana dagli altri.

— Già. So cosa vuoi dire.

Le loro razioni erano contenute negli zaini, riscaldate là dentro e disponibili attraverso un tubicino che emergeva accanto al mento. Mangiare non era un procedimento elegante. Lani aveva una curiosa ricercatezza naturale che la induceva a voltare la testa ad ogni sorsata di quella leggera brodaglia aromatizzata. Fluttuava con le braccia e le ginocchia ripiegata in una graziosa posizione seduta di tipo asiatico ad arti incrociati, d'una economicità estrema, assai più elegante del solito modo di rannicchiarsi degli spaziali. Carl sorrise. Era una lavoratrice indefessa, sottile e agile, con un'energia costante e spietata.

— Mi piace, quando ci troviamo soli.

— Uh, uhm.

— Specialmente in un posto così delizioso, così bene… ingioiellato.

— Giusto. Così dannatamente grazioso. — Carl s'interrogò vagamente su Virginia.

— Dobbiamo parlarne con qualcuno?

— Uh?

— Questo non potrebbe essere un posto… soltanto per noi?

— Ma… perché?

— Per stare soli. Potremmo venire qui e crogiolarci alla luce e… be', per avere il tempo di parlare.

Quella piega della conversazione non faceva sentire Carl a suo agio. — Ascolta, qualcuno finirà per trovarlo abbastanza presto. Voglio dire, dovremmo comunque lasciare un boccaporto di uscita, per poter tornare qua dentro.

— No, se lo mimetizzassimo in qualche modo.

Carl lottò per trovare una risposta, qualche ragione tecnica per la quale la cosa non avrebbe funzionato. — Vuoi dire, contrassegnarlo come uno sportello per la pressione? Qualcosa di simile?

— Suppongo di sì. — Lo studiò con attenzione, ma non disse altro.

Dopo un breve silenzio, Carl riprese: — Qualcuno comunque se ne accorgerebbe. Sarebbe proprio da Samuelson venire a controllare il nostro lavoro. Farebbe scattare il sigillo, e lui stesso farebbe la scoperta.

— Lo pensi?

— Sicuro. Samuelson è un tipo… sì… rigoroso. — Si era trattenuto appena in tempo dal dire, Un ortho rigoroso, di quelli pignoli attaccati al regolamento. Anche Lani era un ortho, ma di quelli buoni.

— Suppongo che dovremo riferirlo al Planetario.

— Sì. Quiverian non vedrà l'ora di buttarsi sui pulsanti.

— Comunque… mi piacerebbe molto avere, sai che cosa?, un posto tutto per me.

— C'è un sacco di volume in Halley, quasi trecento chilometri cubi. — Non poteva assolutamente immaginare se stesso a desiderare di trascorrere il tempo accovacciato dentro un buco dalle pareti di ghiaccio, anche se fosse servito a tenersi appartati dalle altre dodici persone del Primo Turno. Meglio andar fuori, se proprio si voleva qualcosa del genere, avrebbero avuto l'intero sistema solare da contemplare.

— Be', forse più tardi, allora. Potremmo fare tutto da soli senza i mech. — Lani lo fissò con lo sguardo speranzoso di una cerbiatta. Carl guardò altrove, innervosito.

— Non so. Forse dovremo isolarlo.

A meno che non riuscisse a guidare la conversazione su Virginia, voleva deviare il dialogo lontano dalle questioni personali, per mantenere il loro rapporto amichevole ma su un piano strettamente professionale. Cominciò a parlare dell'isolamento, e quanto qui la situazione fosse peggiore che su Encke.

Agli esseri umani piacevano temperature intorno ai trecento gradi assoluti, ma alcuni dei gas ghiacciati ribollivano d'una furiosa trasformazione già intorno ai cento gradi assoluti. Anche se appena sfiorati da una pelle-tuta, avrebbero prodotto uno sbuffo improvviso di gas in risposta. Mantenere quel differenziale di duecento gradi aveva significato sviluppare degli isolanti flessibili a strati. Il minimo soffio d'aria avrebbe fatto evaporare le stesse pareti in una camera non isolata.

Ci sarebbe sempre stata qualche vaporizzazione, cosicché il sistema di gallerie doveva lasciare che il vapore sfuggisse verso la superficie, dove veniva sfiatato verso lo spazio aperto. Allo stesso tempo la raccolta controllata del ghiaccio rappresentava la chiave per il successo della spedizione. La biosfera aveva bisogno d'un flusso d'acqua, di gas, perfino dei metalli e della graniglia che contaminavano la cometa. Poi, una parte dell'evaporazione veniva recuperata, filtrata per tenere basso il livello dei cianuri, per essere riciclata negli habitat.

Senza un sistema del tutto automatizzato per fornire liquidi e gas, dovevano esserci più persone sveglie e operanti. Ciò, a sua volta, avrebbe aumentato le esigenze della biomatrice, il che avrebbe alimentato la spirale dei costi. Questa era la ragione fondamentale per cui era necessario vivere all'interno del nucleo di Halley. Come al solito, i profitti e le perdite avevano l'ultima parola.

Impedire che i portelli e gli oblò disperdessero calore sul vicino ghiaccio era un lavoro delicato e tedioso che a Carl non piaceva. Si diffuse su questo per parecchi minuti, non perché fosse portato a esprimere rimostranze, ma perché non riusciva a pensare a nessun'altra maniera per mantenere il controllo della conversazione. Finalmente, arrivò alla conclusione. Vi fu un lungo e scomodo silenzio.

— Speravo che potessimo trovare un po' di tempo per rimanere soli insieme — dichiarò Lani, in tutta semplicità. Anche se sbatté le palpebre parecchie volte.

— Sì… già, l'avevo capito.

— L'hai sentito?

— Be'…

— Sono tre anni che ti conosco, ormai. Abbastanza da capire quanto tu sia speciale. — I suoi occhi erano grandi, neri e profondi come uno stagno. Era franca, chiara, ed era ovvio che le era necessario uno sforzo per non guardare altrove. Carl si rese conto che doveva aver ripassato tra sé più volte questa parte.

— Non… non c'è niente di così speciale in me. Mi piaceva lavorare nello spazio. È la mia vita. Proprio come per te.

— Abbiamo molto in comune.

— Sì, è vero.

— Durante i lunghi turni che passeremo insieme, forse… — Il suo sguardo ondeggiò.

— Senti, penso un gran bene di te, Lani.

— Ne sono felice. — Ma il suo volto aveva perso la sua espressione pensosa, concentrata. La sua certezza stava svanendo. E non c'è una sola maledetta cosa che tu possa fare in proposito pensò Carl. Non c'è niente che mi consenta di darle la risposta che vuole.

— Ma, voglio dire, io non… davvero… non penso a te in quel modo.

Lei s'irrigidì. — Oh.

Non è che riesca a parlare di questo meglio di me. Non afferra le mie allusioni, è così devo usare un'estrema franchezza, e questo le fa male, dannazione. — Sei una splendida compagna di squadra, è sicuro come l'inferno che lo sei.

Le sue lunghe ciglia sbatterono parecchie volte. L'ampia bocca sottile si torse addolorata. — Grazie.

— Oh, Dio, non intendo… non intendo respingerti, o qualcosa del genere.

— No, non devi preoccuparti. Stai dicendo la verità, come devi fare.

— Sei anche attraente, sul serio. Non intendo niente del genere.

Adesso che ci pensava, Lani era davvero bella. Con un turno di dodici mesi davanti a sé, pensa di accoppiarsi. Tutti ci avrebbero pensato. Comunque, lui aveva sempre pensato a lei come a una compagna di lavoro, e niente più. Perché?

Per qualche motivo lei, semplicemente, non era il suo tipo. Nessuna attrazione immediata, nessun lampo.

Oppure si trattava di un'abitudine che aveva preso, di respingere quasi tutte le donne, se non lo colpivano immediatamente? Carl evitò lo sguardo di Lani, tirò una succhiata dal suo tubo di alimentazione. Perfino durante le sue vacanze sulla Terra aveva sempre cercato di mantenere i suoi affari sentimentali chiaramente definiti. Ai terricoli piacevano i «cafoni» dello spazio; c'erano un sacco di farfalline pronte a precipitarsi, d'intromettitori e così via… Era facile far sapere in giro che eri interessato a un paio di settimane di sesso e di risate e di divertimento al sole. E basta. Qualche volta, sì, era stato tentato di conservare il numero di una donna, per darle un colpo di telefono la volta successiva che si fosse trovato giù… Ma una volta tornato in orbita, e riafferrato dall'ambizione, non ne aveva più fatto niente. Non aveva mai telefonato.

L'occasione favoriva la mente preparata, come diceva il vecchio cliché, ma l'occasione nello spazio favoriva anche l'anima senza impegni. Se si presentava la possibilità di una lunga missione, quelli che avevano famiglia trovavano difficile andarci. E il Consiglio per l'Analisi Psicologica prendeva questo in considerazione, abbassando il vostro punteggio. Anche se sostenevano che non era così, tutti conoscevano la verità. Tutto questo entrava nei loro calcoli. E infatti, Halley, la grande possibilità, si era presentata, confermando quella strategia.

Inoltre Lani era una ortho. Gli uguali avrebbero dovuto sposare gli uguali.

E Virginia… lei era intelligente, sexy, e una percell. Piena di vitalità, se era per questo. Meglio rimanere con quelli della propria razza. Salvo per le vacanze sulla Terra, aveva seguito questa politica da quando la sua libidine adolescenziale si era esaurita e aveva avuto effettivamente il tempo di pensare. C'erano abbastanza donne percell nello spazio da tenerlo occupato.

Per quanto avesse cercato di porsi in posizione intermedia nel conflitto ortho-percell, la sua vita personale era qualcos'altro. E pur essendo avveduto da parte di un percell sostenere che erano tutti uguali, ciò non significava che lui potesse ignorare la natura umana. Era sicuro che, anche dopo che la stupidità dei governi ortho sulla Terra avesse fatto il suo tempo, alla fine la razza umana avrebbe dovuto dividersi. Gli ortho sarebbero sempre stati con i nervi a fior di pelle nei confronti dei percell, questo era naturale. Meglio che le due razze tenessero le distanza, facendo dello spazio un dominio riservato soprattutto ai percell. Gli incroci non avrebbero risolto niente, sarebbero serviti soltanto a peggiorare le cose.

— Non c'è nessuna ragione per cui non possiamo lavorare insieme, essere amici. — Le porse una mano guantata.

Lei l'afferrò stringendola con forza. Attraverso al sua pelle-tuta azzurra avvertì in lei un intenso, struggente desiderio. Il suo corpo rivelava ciò che il suo volto aveva nascosto. Delicatamente, si liberò dalla stretta della sua mano.

— Io… avevo sperato.

— Ca… capisco…

— Non saremo in molti svegli durante ciascun turno.

Carl corrugò la fronte. — Già. Dovremo decidere la rotazione.

— Sì, sarà necessaria… una discussione pubblica. — Tirò su col naso, fece per sfregarselo con la mano, e si fermò quando il guanto toccò il casco. Dovette usare il pigliagocce dietro alla piastrina di glassite. — Io…

Carl si sentì infelice. Che lei si mettesse a piangere per causa sua, quando lui non aveva mai neppure pensato a lei in quel senso. Odiava cose del genere, quando scopriva di essere stato stupido senza neanche saperlo. Come se la gente fosse sintonizzata su frequenze che voi non ricevete.

Al di sotto di questa costernazione c'era anche una piccola corrente di orgoglio deliziato. I vecchi comportamenti erano ancora abbastanza forti da indurre un uomo a provare una piacevole sorpresa davanti a una dichiarazione inaspettata. Non l'avrebbe mai detto a nessuno, naturalmente, ma forse, fra molti anni, avrebbe potuto accennarne a Virginia…

Lani tirò su un'altra volta col naso. Chiuse gli occhi e sternuti con forza, il tciùuuu! trasmesso all'esterno gli tuonò quasi dolorosamente negli orecchi.

Si riprese, sbatté le palpebre, e fissò con sguardo ottenebrato il suo sfavillante palazzo di cristallo, indifferente adesso alla sua bellezza.

Addolorato, Carl si rese conto che non aveva affatto pianto per lui. Aveva già accantonato il suo approccio fallito e si stava concentrando su faccende più immediate.

Lani, semplicemente, era raffreddata.

SAUL

Saul si soffiò il naso e mise via rapidamente il fazzoletto.

Le frenetiche settimane dell'insediamento della base si erano smorzate in quelle lunghe, vuote e tranquille attese del Primo Turno di guardia. E mentre quel suo dannato raffreddore non accennava a volersene andare, si trovò ad evitare sempre più Nicholas Malenkov e gli scettici esami medici del grosso russo. Saul sapeva che era soltanto questione di tempo prima che Malenkov dicesse qualcosa sul suo perpetuo tirare su con il naso.

Non era certo di ciò che Nick avrebbe fatto se non fosse guarito presto, ma Saul non aveva nessuna intenzione di farsi cacciare in qualche loculo. Almeno, non per un bel pezzo ancora. C'era, semplicemente, troppo da fare.

Si pizzicò la radice del naso. In quel periodo, quelle momser di antistamine lo tenevano in uno stato di perpetuo ottundimento, ma lui, in realtà, non poteva farci proprio niente.

Saul sbatté gli occhi guardando le pareti color pastello del salone privo di gravità, concepito per accrescere le anguste attrezzature ricreative della ruota centrifuga. Era una scena vuota e spoglia. Salvo per poche sedie e armadi, l'unica area completata di trovava là, accanto all'autobar. Ci sarebbero voluti anni prima che il salone assomigliasse in qualche modo al progetto previsto dal Grande Disegno.

Dei sottilissimi readout erano sparpagliati sul tavolo grafico davanti a lui, salvo là dove una unità oloportatile proiettava uno spaccato dello sferoide allungato del diametro massimo di sei miglia che era il nucleo di Halley.

Soltanto in cima all'illustrazione, vicino al polo Nord, c'era un rado intreccio di gallerie simile a un piatto di spaghetti, dove gli esseri umani si erano aperti la strada.

Una tenuta troppo vasta per riuscire mai a conoscerla tutta. Eppure troppo piccola per riuscire a farne una casa.

L'uomo sul lato opposto al tavolo diede in un cortese colpetto di tosse.

— Scusa, Joao — disse Saul.

L'alto brasiliano, esperto di comete, riprese quello che stava dicendo prima di venire interrotto dal momento di stordimento di Saul.

— Sono queste caverne, Saul. — Inserì la mano nell'immagine generata dal computer ed eseguì un piccolo guizzo intricato con il pollice. Malgrado non ci fosse niente di solido in quello spazio, a mezz'aria, la macchina lesse le sue intenzioni come se stesse voltando pagina. Gli strati dello spaccato si sfogliarono, rivelando le tracce di nuove gallerie a nord e a est, che collegavano un certo numero di cavità oblunghe.

— Credo di aver capito come le cavità abbiano finito per trovarsi qui — annunciò Quiverian.

Saul spostò lo sguardo avanti e indietro dall'immagine ai lineamenti patrizi e olivastri di Quiverian. Il suo naso romano accentuava l'impressione di un uccello da preda. L'immagine gli andava a pennello, quell'uomo era così imprevedibile, eccitabile. Saul scelse le parole con cautela.

— Credevo che fosse già stato deciso, Joao. La cometa si è formata dalla nebulosa solare primordiale, mitragliata da una grande quantità di sostanze radioattive a vita breve piovute da una vicina supernova. Il decadimento beta ha riscaldato parte dell'interno, formando le cavità, mentre il guscio esterno, esposto allo spazio, è rimasto freddo, un manto protettivo intorno alle regioni fuse.

Quiverian agitò la mano con impazienza. — Sì, sì, quella vecchia teoria. L'alluminio 26 e quegli altri elementi a vita breve devono aver creato certamente dei canali fusi, per un certo tempo.

— Ho incominciato a sviluppare un modello di biogenesi basato su quell'idea. Ma adesso dici che non vale più?

Quiverian si spostò avanti con fervore. — Gli elementi radioattivi non possono aver fornito calore sufficiente per tutta la fusione che abbiamo osservato! E non spiegano neppure la vastità del frazionamento che abbiamo trovato!

— Frazionamento?

— Il grado secondo il quale gli elementi e i minerali sono stati separati gli uni dagli altri a causa di qualche processo dinamico, formando questi corpi che abbiamo trovato dappertutto. Saul, questo non può essere affatto spiegato dalla teoria radioattiva! Capisci? È per questo che ho cominciato a scavare nella documentazione disponibile per trovare un altro meccanismo, un altro sistema grazie al quale ciò può essere avvenuto.

Saul si avvicinò di più al tavolo. — Be', sicuro, sembra interessante, Joao. Stavo giusto dicendo a Nick Malenkov che non pareva fossero abbastanza…

— Aspetta un momento, Saul. — Quiverian sollevò una mano mentre scorreva una pila di dati. — C'è qualcosa che voglio mostrarti. Ce l'ho qui da qualche parte.

— Fai pure con calma, Joao. — Saul scrollò le spalle. Per ora era contento di godere d'una momentanea schiarita alla testa, una volta tanto l'aria aromatizzata alle mandorle appariva fresca alle sue narici. Osservò il computer che faceva ruotare lentamente la raffigurazione del nucleo della cometa.

Le analisi sismiche avevano riempito la maggior parte della mappa tridimensionale con vaghe tracce grigie e bianche, mostrando con contorni offuscati i luoghi dove si trovavano la maggior parte delle faglie e delle cavità. Comunque, escludendo soltanto una frazione minima, quasi tutto quel ruvido globo rimaneva misterioso, un regno da esplorare durante i lunghi e tranquilli turni di guardia che li attendevano. Meno del cinque per cento del volume, accentrato intorno al polo Nord, era ben conosciuto.

L'asse di rotazione all'estremità nord era trafitto da una stretta linea arancione contrassegnata POZZO 1, che scendeva giù dritta per un chilometro fino a un formicaio di camere contrassegnato COMPLESSO DEL COMANDO CENTRALE, compresa quella stessa sala e la maggior parte dei laboratori scientifici. Quel pozzo continuava verso l'interno per un altro chilometro circa, terminando infine quasi a metà strada dal centro del nucleo di Halley.

Lungo il percorso il Pozzo 1 incontrava una serie di gallerie orizzontali, a partire da quella in color rosso, «A», vicino alla superficie, passando accanto alla verde «F» in cui si trovavano adesso, e terminando con la gialla «N».

Altrove, il disegno era molto meno preciso. Parecchie gallerie sbucavano dentro grandi caverne che gli spaziali avevano scoperto alla maniera dura. Adesso tre gigantesche cavità contenevano le sezioni prodiere delle chiatte Sekanina, Whipple e Delsemme, e la maggioranza dei coloni addormentati. Un'altra, accanto alla superficie, conteneva adesso al ruota gravitazionale della Edmund Halley quasi completamente rimontata.

Il grafico generato dal computer era eccellente, mostrando perfino il campo di tende-magazzino sparpagliate fra le gibbosità del terreno su al polo Nord. Un modello finemente dettagliato d'una nave-razzo in parte smantellata era appeso in miniatura accanto alla minuscola e scintillante camera di equilibrio del Pozzo 1, legato a tre torri d'ormeggio.

Saul si spostò in avanti e vide che due minuscoli punti si muovavano vicino alla Edmund Halley, forme umane infinitesime… il capitano Cruz e il tecnico spaziale Vidor stavano facendo l'inventario redigendo un elenco d'incarichi per i turni dei prossimi dodici anni e mezzo. Il computer li mostrava intenti al loro lavoro, mentre esaminavano la nave nei dettagli.

Immaginò che se fosse salito sopra il tavolo e avesse sbirciato più da vicino, sarebbe stato in grado di distinguere il marchio col nome sulle cotte delle tute dei due spaziali, e forse li avrebbe visti gesticolare fra loro.

Saul nel suo lavoro era abituato alle raffigurazioni computerizzate. Si «tuffava» abitualmente dentro le forme di vita cellulari che studiava. Comunque, trovava ugualmente meraviglioso quel display. Dovunque si trovasse l'analizzatore principale del computer, era possibile fare una zoomata e vedere versioni animate di una dozzina di membri dell'equipaggio in attività… ridotti a stereotipi dal censore automatico. Allo stesso modo gli alloggi privati erano cubi neri disposti in fila lungo le Gallerie E, F e G, impenetrabili a quella perfetta simulazione.

Gli spaziali erano abituati a vivere fra quattro pareti. In effetti, per loro tutto quello spazio doveva sembrare meraviglioso. Ma per i civili, come Saul, la colonia assomigliava più a un formicaio.

Bel mucchio di trogloditi, siamo diventati. Coboldi fatti e finiti.

Eppure non riesco a trovare niente di sbagliato nelle disposizioni di Miguel. Ogni cosa procede secondo i piani.

Tocca ferro. Saul si batté leggermente le dita sul lato della testa, e sorrise.

Perfino il prevedibile entusiasmo suscitato dalla sua scoperta gli aveva causato meno fastidi del previsto. L'intervallo necessario per le comunicazioni dalla Terra gli aveva permesso di ammucchiare insieme le interviste dei media. Le domande più ostili o sensazionaliste potevano semplicemente venir «perse in trasmissione». Saul vedeva dei vantaggi ben definiti nel poter fare importanti scoperte molto lontano dalla pazza folla.

Adesso, se soltanto fosse riuscito a capire com'era successo che dei primitivi organismi procariotici fossero stati trovati congelati sotto la superficie d'una palla di ghiaccio! Nessuno aveva la più pallida idea di come quelle minuscole creature fossero arrivate fin là, per non parlare di come avevano fatto a vivere…

— Trovato! — annunciò Quiverian. Ghermì un foglio sottile. — Come dicevo, non riuscivo proprio a spiegarmi tutti i segni delle passate fusioni che troviamo qui… fino a quando non sono arrivato a un'intera serie di citazioni che avevamo a che fare con il calore induttivo durante la fase T Tauri del Sole!

— Scusa? — Saul si bilanciò in avanti sulla punta dei piedi, appoggiandosi leggermente al tavolo.

Quiverian contrasse la labbra. — Oh, non possono aver incluso molta fisica stellare nel tuo addestramento di secondo grado, vero? Bene, vedo se posso spiegartelo. T Tauri è il nome di una certa stella di formazione molto recente nella costellazione del Toro; un'intera classe di oggetti celesti ha preso il nome da essa. È da un secolo che gli scienzati li stanno studiando. In effetti rappresentano una fase di sviluppo di una stella giovane. Il nostro Sole dev'essere passato attraverso quello stadio ai primi tempi della formazione del sistema solare.

Quiveran intrecciò le lunghe dita e guardò nel vuoto, come se stesse recitando a memoria. — La caratteristica più interessante di una stella T Tauri è costituita dai suoi venti stellari davvero incredibili: flussi di protoni ed elettroni caldi, soffiati via da una stella da tremendi impulsi d'energia elettrica e ultra…

— So cos'è il vento solare, Joao — l'interruppe Saul in tono pacato.

Gli occhi dell'altro parvero lampeggiare. — Bene! Ma quello che probabilmente non sai è che durante il periodo T Tauri del nostro Sole i venti devono essere stati migliaia di volte più intensi di quelli più violenti che registriamo oggi. E questa corrente di particelle trasportava un campo magnetico eccezionalmente intenso.

Quiverian lo fissò speranzoso. Ma Saul poté soltanto scuotere la testa: — Mi spiace, non capisco.

Il brasiliano scosse la testa, frustrato. — Biologo ignorante! Non riesci a capire? I primi protopianeti e le comete sono tutti passati attraverso questo grande flusso magnetico mentre ruotavano intorno al Sole appena nato. Come circuiti in un grande generatore! Le correnti indotte! La resistenza!

— Ah, mazel! — Saul batté le mani. — Così ottieni del calore indotto.

Quiverian tirò su ostentamente col naso. — Allora ti hanno insegnato qualcosa ad Haifa, dopotutto. Ci sei, adesso. Capisci?

Saul annuì. La sua mente stava già correndo avanti. — La superficie della cometa appena formata, esposta allo spazio, sarebbe rimasta fredda… una specie di coperta isolante. Anche se la maggior parte dell'interno fosse stato costituito da acqua fusa, il calore non sarebbe sfuggito.

— Esatto! Naturalmente, funziona soltanto in certe condizioni. Hai bisogno di una cometa molto grande, come Halley, e parecchi sali e altri elettroliti liberi come quelli che abbiamo trovato qui.

Inconsciamente, Saul sollevò tutto il suo leggero peso dal pavimento stendendo le mani contro il tavolo. Il suo corpo era teso per il troppo lavoro di laboratorio e la troppo poca ginnastica. Forse avrebbe dovuto accettare ben presto l'offerta di Miguel Cruz, d'insegnargli a giocare a palla spaziale.

— Quanto tempo dura questa fase T Tauri?

— Qualche milione di anni. Non molto a lungo. Ma abbastanza a lungo da creare queste profonde cavità che abbiamo trovato! E con tutta quella elettricità in giro, è facile capire come mai tanti composti si siano separati in vene sottili che corrono per tutto il nucleo!

Quiverian aveva chiaramente il diritto di essere euforico. Quell'uomo aveva invidiato la scoperta fatta da Saul e l'attenzione che la stampa della Terra gli aveva riservato, ma adesso aveva riferito di un proprio successo. Avrebbe certamente fatto sensazione, soprattutto sui giornali brasiliani.

— Congratulazioni, Joao — disse Saul in tutta sincerità. — Questo è davvero formidabile. Posso avere la copia della tua lista di riferimento, a cui dare un'occhiata?

— Prendila, prendila pure. Ho già mandato una relazione preliminare.

Le idee spumeggiavano come bollicine di gas nella testa di Saul. — Credo che questo mi aiuterà nei miei studi, Joao.

— Ne sono lieto. Ma sai, ci sarà bisogno di una simulazione al computer estremamente complessa. Non voglio chiedere l'assistenza della Terra fino a quando la cosa non sarà stata sviluppata meglio.

«Puoi aiutarmi, Saul? Tu sei in gamba in questo genere di cose.

Saul scrollò le spalle. — Da dilettante, immagino. Ma uno dei più grandi esperti si trova proprio in questo stesso turno, Joao. Perché non chiederlo a Virginia Herbert?

Quiverian parve a disagio. — Non credo che questa donna, questa Herbert, sia molto disposta a collaborare. I tipi come lei… — Scosse la testa, lasciando taciuti i sottintesi.

Saul era certo di sapere cosa quell'uomo intendeva dire. L'aveva sentito altre volte:

La loro razza ha sempre rappresentato un problema.

La loro razza…

Quiverian si mosse, innervosito. — Questi percell sono un branco chiuso, poco propensi a collaborare, Saul. Non credo che lei sia disposta ad aiutare uno scienzato del mio paese.

Saul non poté far altro che scuotere la testa. — Le parlerò e ti farò sapere, Joao. Che ne dici d'incontrarci di nuovo qui per il pranzo domani? E comprenderemo Nicholas nella discussione.

Fu grato quando Quiverian si limitò soltanto ad annuire di cattivo umore, rispondendo con un sospiro: — Ci sarò.

Quando Saul se ne andò, il planetologo stava fissando quel chiarore olografico in lenta rotazione, i suoi lineamenti marcati erano inondati da ombre colorate. Allora Saul si rese conto che Quiverian non aveva un aspetto particolarmente sano.

Dovrebbe davvero dormire un po' di più. Potrebbe migliorare la sua visione della vita.


Un'ora più tardi Saul era al lavoro davanti al proprio display, borbottando istruzioni dentro un microfono subvocalico e armeggiando con le prese del computer, lottando per tenersi su.

Le idee gli venivano troppo in fretta, e quasi non riusciva a tener loro dietro per annotarle, per non parlare d'integrarle nel nuovo modello. Tutte le volte che esplorava un particolare aspetto, gli balzava davanti un intero panorama di diramazioni inaspettate.

Era il vero processo creativo, una specie di divino trasporto nervoso, tanto doloroso quanto esaltante.

Ma riusciva quasi a vederlo. Era là che guizzava come un fuoco fatuo, una luce intravista attraverso una palude invasa da turbini di nebbia. Una teoria. Un'ipotesi.

Un modo che aveva permesso ad un mistero di accedere alla cometa di Halley.

Saul aveva vagliato tutta la gran quantità di dati grezzi che la spedizione aveva accumulato sulla cometa, rintracciando gli ingredienti nella prima dispensa del Sole. Erano tutti là, ma quello che mancava era la cucina giusta.

I riferimenti di Joao Quiverian parevano offrire a Saul il crogiolo che aveva cercato.

La fase T Tauri… Saul rifletté. Nella sua infanzia il Sole era stato un bambino disordinato. In quei giorni l'alito della stella era stato carico e rovente.

Così, c'era stata l'elettricità… magnifico. Ma quanta, e per quanto tempo?

C'erano acido cianidrico e anidride carbonica e acqua, come quelli che dovevano aver saturato l'atmosfera primitiva della Terra, così gli amminoacidi fondamentali si sarebbero formati in fretta. Ma il passo successivo sarebbe stato più difficile.

La rete tridimensionale di relazioni correlate sul suo display centrale stava diventando sempre meno maneggevole, un torreggiante e traballante edificio costruito con supposizioni appiccicate insieme.

— Ach! Possa la tua capra masticare la cordite e poi darti latte copioso!

Maledisse la macchina in arabo, una lingua assai più soddisfacente a quello scopo dell'inglese. Aveva la sensazione che le sue dita fossero ridotte a impacciate salsicce, e la matematica arcana che aveva tirato in ballo attingendo alla documentazione astronomica danzava appena fuori dalla sua portata. Non riusciva ad integrare del tutto le equazioni nello schema globale che aveva in mente.

Per una, due, tre ore continuò a pensarci. Ma quel dannato affare non voleva assumere una consistenza definitiva.

Saul tentò con la forza bruta, tirando dentro blocco dopo blocco di memoria esterna, un numero sempre maggiore di processori paralleli per reiterare il problema. Era ben lungi dall'essere un approccio elegante… era più come cercare una casa al buio mandando un branco di elefanti a correre all'impazzata nella notte, sperando di apprendere qualcosa dal fracasso del legname che andava in pezzi.

Sto facendo tutto nella maniera sbagliata. Dovrei andare a bere una birra. Ascoltare un po' di Bach. Sintonizzare la parete su un tramonto polinesiano. Lasciare che tutto questo si decanti.

Saul tamburellò con le dita.

Forse dovrei chiedere aiuto.

Sedeva sulla sedia a rete, stanco non tanto nel corpo quanto nella mente, nel cuore.

Quella era l'unica gioia che gli rimaneva nella vita: cercare misteri. Eppure si sentiva ancora come un ragazzino frustrato e vessato, tutte le volte che la Natura pareva voler lottare con lui per indurlo a lusingarla e ad adularla, onde strapparle i suoi segreti, invece di cercarli lungo le vie più facili senza combattere.

Quanti dei piaceri della vita sono dolorosi nell'attuale processo? Miriam, perdonami, ma hai sempre saputo che amavo al Vita, la Natura, soltanto un pochino di più di te e dei bambini, non è vero'

Ed eccomi qua, che sto diventando strambo perché il mio più antico amore non vuole concedersi un'altra volta.

Saul sbatté le palpebre e si rizzò a sedere. Quell'improvviso movimento lo mandò a librarsi sopra la sedia a rete, ma se ne accorse appena.

Cosa diavolo…

Incredibilmente, qualcosa stava accadendo sul display proprio davanti ai suoi occhi. Un'increspatura che indicava un cambiamento.

Cominciò sul lato destro, in alto, del complicato grafico. Tutt'a un tratto, gli elementi avevano cominciato a diventare confusi agli orli. Indistinti, dei bit casuali si sospingevano l'un l'altro. Poi, impossibilmente, il nodo gordiano della logica cominciò a districarsi!

Dapprima pensò che tutto quel pasticcio stesse sfasciandosi a causa della propria inerzia.

Poi cambiò idea.

Minnie, madre delle perle…

Dal caos la semplicità stava prendendo forma. Dalle brutture… la bellezza!

Era come contemplare una soluzione in atto di precipitare dentro uno splendido cristallo in crescita. Meraviglioso… sì. Troppo meraviglioso. Decise che qualcosa o qualcuno stava intervenendo. E Saul si rese conto quasi subito di qualcos'altro: che questo qualcuno… o qualcosa… era chiaramente molto più intelligente di lui.

Le equazioni si spezzarono, come se venissero tagliate dalla nucleasi dell'RNA. I pezzi si divisero mentre li stava fissando. Si disposero in coacervi, fila dopo fila, ammonticchiandosi ordinatamente e formando una vibrante piramide di logica. E all'apice…

Saul esalò lentamente il respiro mentre fissava la formula culminante. Poteva sentire il battito del proprio polso.

Mi spiace di aver interferito senza chiedere il permesso, Saul. Ma ti stavi già muovendo come un forsennato attraverso tutto il sistema di dati quando me ne sono accorta. Presto o tardi avresti finito per far scattare i segnali di allarme.

Saul ritrovò la voce.

— Tutto a posto, Virginia. Sono… sono contento del tuo aiuto.

Vi fu una breve pausa. Poi alla sua sinistra il display d'una unità olo si animò e il volto di Virginia Herbert ondeggiò e si immobilizzò, una riproduzione in ricchi colori che accennava ancora a brezze salmastre e al sole dei tropici. I lunghi capelli neri le ricadevano sopra le spalle, leggermente rigonfi, come se fossero stati pettinati in fretta soltanto qualche momento prima.

Sono lieta che tu non sia arrabbiato con me per essermi intromessa.

— Arrabbiato! — Saul rise. — Hai salvato uno di noi due, o me, o questa macchina ostinata!

Virginia sorrise. — Be', è un sollievo sapere che ho fatto la cosa giusta. In realtà, è roba molto complicata quella con cui stai cimentandoti, Saul. Non posso pretendere di capirne qualcosa. Io sono soltanto un esperto fantino dei numeri…

— Non sono d'accordo. — Saul scosse la testa con fermezza. — Tu sei un'artista.

La pelle olivastra di Virginia si oscurò sensibilmente. Il suo «grazie» fu appena udibile. Saul condivise con lei un lungo sorriso.

Gli occhi di Virginia guizzarono. — Uhm, se vuoi, potresti venire qui a mettere JonVon a lavorare al tuo problema. È un processore stocastico, sai. E si dà il caso che io creda che questo, appunto, lo renda assai più applicabile al tipo di problema che hai, rispetto a quelle vecchie macchine di precisione a sistemi paralleli.

«Sono sicura che riusciremo a metter su una simulazione che farà apparire quel tuo grafico, là, una semplice decalcomania al confronto!

Saul annuì: — Soltanto se mi lascerai portare una bottiglia, Virginia. Ho la sensazione che ne avremo bisogno.

Affare fatto! — esclamò lei con gioia.

Però, mentre Saul si stava alzando, un'immagine allungata del braccio di Virginia si sporse attraverso la sua scrivania, quasi fosse fatto di gomma, per battere con un dito sulla riga ardente e palpitante di lettere dorate in cima all'alta piramide di dati.

Ma questo cos'è, Saul? È qualcosa di speciale?

Lui scrollò le spalle. — Sì, immagino che potresti dire così, Virginia. È la formula chimica di qualcosa chiamato base purinica. Una base piuttosto semplice in verità, chiamata adenina.

Virginia ritrasse la rappresentazione spettrale della sua mano. — Be', spero sia importante. Ma che lo sia o no, scommetto che la porteremo molto più avanti. Ho una sensibilità per queste cose, sai. — Esibì un radioso sorriso.

Ti aspetto qua sotto tra qualche minuto, Saul. VKH out. — La sua immagine svanì.

Saul rimase immobile per un momento. — Sì, cara — disse alla fine, a quell'impalpabile presenza che Virginia pareva essersi lasciata alle spalle. — Credo proprio che lo porteremo avanti. E di parecchio.

VIRGINIA

FILI MOLECOLARI, COME RAMPE DI SCALE MULTICOLORI… LAMPI BALENANTI NEL BUIO…


All'ingrandimento massimo della simulazione, la molecola era poco più di una scala stilizzata messa insieme con componenti standard, fettine d'azzurro, verde e rosso brillanti e incavate: amminoacidi, fosfati, e zuccheri semplici collegati come parti male assortite di un intricato rompicapo.

La catena pareva agitarsi e contorcersi mentre scivolava via formando un torrente ribollente. Una nervatura di linee argentee spargeva correnti elettriche che crepitavano irregolarmente attraverso il liquido salino.

Lucenti radicali dorati si attaccavano qua e là in quel polimero in crescita. La maggior parte rimbalzava subito via in improvvisi sprazzi di luce. Di tanto in tanto da uno di essi si staccava un frammento, che veniva risucchiato via diminuendo la complessità della struttura, che rimaneva con una smagliatura. Un po' più spesso, il radicale che entrava in collisione trovava una nicchia della forma giusta e vi rimaneva legato per intero.

A mano a mano che il polimero cresceva, l'ingrandimento diminuiva, come se una telecamera arretrasse. Un nuovo filo si unì al primo, poi un altro, allacciandosi insieme in una massa confusa. Il groviglio cadde verso una grande distesa color ocra che si profilava di sotto, una pianura rugginosa butterata di fori frastagliati.

L'orlo di una delle aperture nere ghermì il gomitolo molecolare, un'estremità del quale entrò nell'apertura, coprendola. Il groviglio rimase in bilico per qualche istante, poi rotolò dentro.

È un'argilla… qualcosa di simile alla montmorillonite, credo. Osserva come la catena scivola dritta dentro il reticolo aperto. Soltanto poche delle forme sintetizzate nella corrente all'esterno riusciranno ad entrare in questo modo.

«È uno dei primi passi nel lungo processo della selezione. Alcune teorie dicono che sia successo sulla Terra molto tempo fa. In tal modo le molecole vengono protette dall'incessante dare-e-prendere del torrente elettrificato. Là dentro soltanto certi radicali riescono a raggiungerle e la forma della cavità allinea le molecole proprio in questo modo. La costruzione, prima lenta e caotica, adesso prende il suo vero avvio.

«Strano che sia argilla, comunque. Mi sarei aspettato qualcosa come l'ossido di ferro. Ma vedi come gli strati di argilla sembrano catalizzare la crescita dei nuovi peptidi? Stupefacente! Me n'ero dimenticato!

Virginia lasciò che Saul continuasse con le sue divagazioni, condividendo la sua eccitazione ma troppo affaccendata per rispondere a meno che non le facesse una domanda diretta. In quel momento era un'impresa anche soltanto integrare tutti i diversi elementi nel suo complicato programma.

Comunque, lei era abituata alle immagini luminose e alle simulazioni più vivide. No, ciò che più la colpiva erano le complicazioni di quel mondo di molecole e correnti elettriche, di atomi in collisione fra loro e di equilibri chimici. Era un maelstrom di minuscoli strattoni e spinte calcolati nello spazio d'una matrice a undici dimensioni, e anche così la diversità delle forme la lasciava stupefatta.

Lo schermo mostrava soltanto la porzione più superficiale: la campionatura media della correlazione stocastica di JonVon. Era la matematica soggiacente a questa che teneva veramente occupata Virginia. Solo di tanto in tanto sollevava lo sguardo per vedere come saltavano fuori le immagini.

In questo momento la simulazione stava seguendo le molecole in sviluppo giù all'interno della loro nuova casa. Si annidavano dentro le fessure del complesso reticolo dell'argilla lasciando libero un corridoio centrale attraverso il quale materiale fresco entrava da fuori. La forma della catena ancora in crescita continuava a cambiare, qui una semplice ellisse, là ripiegandosi su se stessa e cambiando direzione prima a sinistra e poi a destra.

Saul commentò di nuovo:

Qui sto imbrogliando un po', per accelerare le cose. Abbiamo stabilito delle condizioni iniziali e lasciamo che un numero enorme di molecole simulate si «evolvano», lasciando alla tua meravigliosa macchina il compito di scegliere la linea di maggior successo fra i molti miliardi… «blandendo» le più promettenti perché facciano quanto meglio possono in queste condizioni. …

«Vedremo se una spintarella qua e là potrà prendere questa cosa primitiva e darci…

Virginia trovò che il suo lavoro stava diventando più facile, adesso che il sistema versatile di JonVon stava imparando le regole fondamentali di quel gioco.

Oppure era dovuto al fatto che Saul, per ciò che lo concerneva, stava migliorando?

Giacevano l'uno accanto all'altra nel laboratorio di Virginia su un grande letto pensile a rete, ognuno collegato via cavo alla complessa unità di hardware/software. Per Virginia era un'esperienza familiare: si era infilata in un leggero complesso di comandi a induzione e faceva scorrere le dita con l'agilità di un pianista sui tasti. Saul, d'altro canto, era più impacciato nel manovrare i suoi comandi. Il voluminoso casco cerebrocorticale che indossava non gli consentiva, per ora, la pronta e consumata destrezza per cui era stato progettato.

Però, Saul stava superando rapidamente il suo impaccio e la sua eccitazione era contagiosa. I suoi pensieri subvocalizzati le arrivavano direttamente lungo il nervo acustico.

Tutto questo è meraviglioso, Virginia! Molto, molto di più di un puro e semplice programma di simulazione, questo tuo costrutto esplora le diverse possibilità!

Il processore di JonVon è bio-organico, Saul. Una matrice di pseudoproteine su una trama di conduttori. Sulla Terra hanno abbandonato questa linea di approccio molti anni fa, perché la percentuale di errore è molto alta. Infatti, oggi ti trattano da pazzo anche se soltanto ne parli. — Sperava che niente dell'amarezza da lei provata venisse comunicata dalle sue parole.

Uhmmm. Una percentuale di errore più alta, certo. Ma puoi concentrare tanti circuiti in una piccolissima area, che il fatto non ha alcuna importanza, vero?

Virginia provò un brivido di gioia. Capisce.

— Esattamente, Saul. Un processore stocastico lavora sulle probabilità, non sulle risposte sì-o-no.

Avviene nello stesso modo in cui Kunie descrive il modo di operare del preconscio umano! Hai letto nessuno dei lavori di Kunie?

Virginia scoppiò a ridere. Come sonoro era una specie d'intenso gracidio, nella loro testa un suono di campane…

— Certo che l'ho fatto. Non avrei potuto arrivare così lontano senza le idee di quell'uomo sul processo creativo. Ma sono sorpresa che tu abbia sentito parlare di lui, Saul. L'euristica concettuale non si trova neppure lontanamente vicina alla biologia molecolare, sugli scaffali delle biblioteche.

Vi fu una pausa quando l'attenzione di Saul tornò alla simulazione. Spinse fuori da una delle sbadiglianti gallerie di argilla un grappolo molecolare particolarmente grande prima che questo potesse intasare il flusso di materiale fresco, un'interferenza di poca importanza per il bene di quella prima prova.

Conoscevo Kunie, Virginia. La sua famiglia mi offrì un posto dove alloggiare dopo l'Espulsione…

Le «pareti» del reticolo simulato palpitarono leggermente, e Virginia operò con delicatezza per stabilizzare il modello contro ulteriori interferenze da parte delle emozioni di Saul. Senza darlo a vedere, creò un altro canale per i suoi sentimenti, lontano dal modello, convogliandoli contro un piccolo nesso laterale, dove avrebbero potuto venire smorzati, studiati… toccati.

— È allora che hai cominciato a lavorare con Simon Percell? — gli chiese. La storia non era mai stata la sua specialità. E Virginia sapeva che c'era stata più di una «Espulsione» dalla terra chiamata Israele.

Buon Dio, no — Questa volta toccò a Saul ridere. E la risata echeggiò nel piccolo smorzatore come le corde di una viola da gamba.

I leviti erano ancora una piccola frangia di ebrei fanatici tra le colline della Giudea, e i loro amici sawaliti non erano altro che un branco di riottosi esiliati siriani, all'epoca in cui lavoravo con Simon a Birmingham.

Mentre JonVon continuava a mandare avanti la simulazione, Virginia tentava di seguire le appendici del dolore di Saul, più vivide di qualunque altra cosa avesse mai sperimentato prima di allora in un collegamento fra umano e umano. Ma, poi, Saul cambiò di nuovo argomento.

Certamente ci avrebbe fatto comodo uno strumento del genere, quando Simon ed io stavamo lavorando al problema della separazione dei gameti — subvocalizzò. — Tutto quello che avevamo allora erano processori paralleli a kilobit, memorie di gigabyte, e sequenziometri inferenziali che impiegavano giorni per analizzare un singolo cromosomo.

«Ma erano bei tempi.

Virginia si sentì commuovere dall'intensità dei suoi sentimenti quando li mise a fuoco, ampliando la capacità del canale e la sensibilità del collegamento. Saul era più facile da sondare rispetto a qualunque altro soggetto lei avesse avuto prima di allora. Salvo, forse, i bambini più piccoli.

E, per qualche ragione, stavolta non era spiacevolmente disorientante. Al contrario, era piacevole, anche se faceva un po' paura. Quell'uomo era… sì, forte.

— Continua pure, Saul. La simulazione procede bene. Vorrei sapere di più su quei giorni. Avevi cominciato a raccontare a Carl e a me dei tuoi primi lavori sulla cura delle cellule malate, la sindrome di Lesch-Nyhan e il lupus.

Cure! — Saul rise, e alla viola da gamba si aggiunse un amaro coro di cimbali. — Già, l'ho fatto. Per fortuna la maggior parte dei nostri sforzi successivi ha funzionato meglio. Alcuni dei primi «successi» erano stati soltanto parziali.

Virginia lo sapeva. Era già penetrata negli archivi della spedizione, cancellando ogni traccia della propria infermità. Naturalmente non avrebbe potuto influenzare in alcun modo il suo lavoro… in effetti era probabile che le autorità avrebbero approvato. Ma aveva grattato via lo stesso i dati. Semplicemente, era una faccenda che non riguardava maledettamente nessun altro.

Virginia spianò le proprie emozioni e si concentrò sulla soluzione dei mistero di quel canale stranamente aperto sul substrato dei sentimenti di Saul. Sto imparando più cose oggi di quanto abbia fatto in un anno sulla Terra pensò.

Sentì la presenza centrale di JonVon portarsi al suo fianco, imitando le sue azioni, imparando, «osservando» come manipolava i canali, regolando le risonanze. Scioltamente, eseguendo i suoi ordini, il suo surrogato-macchina s'intromise per prendere il controllo. Ben presto Virginia fu in grado di ritrarsi per un momento e controllare la simulazione biologica, la ragione apparente per la quale si trovavano là.

Questa continuava a crescere, accumulando complessità su complessità. Adesso l'ingrandimento aveva zumato di nuovo all'indietro comprendendo un intero campo di aperture nel reticolo, ognuna con la propria frangia di enormi molecole biancoazzurre che sporgevano ondeggiando dentro il flusso elettrico, come ciglia intorno a bocche spalancate.

Virginia cercò di portare avanti la conversazione. — Ma non eri con Percell quando…

Quando lui fece il suo errore fatale? Quelle povere mostruosità? No. Forse avrei dovuto esserci. Avrei potuto fare qualcosa di meglio di quello che ho fatto tornando ad Haifa per unirmi alla lotta. Allora era già troppo tardi, naturalmente. I vecchi sabra e i kibbutzim si erano sollevati, e venivano schiacciati dai leviti e dalle loro forze mercenarie incaricate di «mantenere la pace». Miriam e i piccoli…

Quell'improvvisa ondata di sentimenti l'investì, quasi sopraffacendola. Gli occhi di Virginia sbatterono e si riempirono di lacrime mentre ricordava scene di macabro orrore… Le pareva quasi di vedere gli insediamenti incendiati, le foreste in fiamme… di sentire l'ondata talamica dell'angoscia e del senso di colpa.

Furiosa, ordinò a JonVon di smetterla di creare queste immagini. Non era affare della macchina interferire in quel modo!

STO SOLO ENFATIZZANDO, VIRGINIA, annunciò freddamente JonVon attraverso il loro canale privato, comunicandole asciuttamente notizie che la lasciavano stordita, ancora di più della vivida scena di un tempio che si ergeva su un'antica collina. Virginia si sentì d'un tratto la bocca asciutta. Ma…

NON STO SIMULANDO O INTERPOLANDO NULLA DI TUTTO QUESTO. AMPLIFICATE, QUESTE SONO IMMAGINI CHE STANNO ARRIVANDO DIRETTAMENTE DAL SOGGETTO. Le sue mani si serrarono e si disserrarono spasmodicamente, costringendo la macchina a disattivare automaticamente i comandi collegati con le punte delle sue dita. Il suo respiro divenne un udibile rantolo lacerante a mano a mano che la verità la colpiva con forza.

He nalulu eha eha!

In lontananza sentì che i guanti waldo le venivano sfilati dalle mani, le spalle sollevate da forti braccia.

— Stai bene, Virginia? — Saul stava parlando ad alta voce. — Non avevo intenzione di trasmettere con tanta forza. Pensavo che tu facessi in continuazione questo genere di cose.

Lei sbatté le palpebre, sollevando lo sguardo sul suo viso preoccupato. — Tu… tu sapevi quello che facevo?

Saul scoppiò a ridere. — Chi non l'avrebbe saputo, con te e quel tuo famiglio cibernetico che vi aggiravate ai bordi della mia mente, frugando e sondando?

Scosse la testa. — Francamente, Virginia, quello che hai fatto qui è stupefacente. L'ho sentito… l'ho sentito direttamente! Il contatto pensiero a pensiero. È stato un soggetto di tante storie, e film, perfino dopo che Margan, presumibilmente, ne aveva dimostrato l'impossibilità tanti anni prima, ma…

Virginia era ancora stordita. — Lo è. Si suppone che sia… impossibile, voglio dire, io uso JonVon per mediare, per fare congetture e riprodurre schemi, per simulare. Ma non mi sarei mai aspettata…

Adesso l'espressione di Saul si era fatta seria. — Vuoi dire che questa è stata la tua prima volta?

Virginia dovette sorridere. — Sì, la mia primissima. Ma non preoccuparti, Saul. Sei stato un perfetto gentiluomo.

Questo fece scattare la molla. Saul si buttò indietro e lanciò una risata ululante, e Virginia si unì al suo ululo. Risero insieme. La tensione parve dileguarsi e per un lungo istante nessuno dei due parve accorgersi che lui la stava ancora stringendo.

È una sensazione così bella pensò lei, alla fine.

— Uhmmm? — disse lui, battendosi la mano sul casco. — Ho ricevuto soltanto un po', ma sono sicurissimo di essere d'accordo… con qualunque cosa fosse.

Lei sollevò lo sguardo su di lui. — Oh, Saul, so che hai avuto una vita molto triste. Ma percepirlo è molto diverso. È quasi come se lo ricordassi io stessa.

Ancora un'altra immagine tremolò ai margini della sua visione: una donna. Non era una grande bellezza, certo, capelli scuri color pelo di topo che incorniciavano un volto comune, ma il suo sorriso era caldo, e un intenso bagliore sembrava irradiarsi da lei. Dietro di lei, due volti più piccoli, un ragazzi no e una ragazzina.

Miriam? I tuoi bambini?

Sì. Un dolore ammorbidito dal tempo. Un amore immutato.

E nel proprio cuore, un altro dolore, ancora violento. Un amore che non poteva avere risposta.

— Non mi odii… per quello che il trattamento genetico ti ha fatto? — le chiese Saul.

Virginia sollevò vivacemente lo sguardo e incontrò i suoi occhi. Scosse la testa. — L'ho fatto, molto tempo fa. Ho odiato te e Percell. Poi ho incontrato qualcuno degli altri percell… quelli per i quali la vostra cura contro il lupus aveva funzionato completamente.

«Ho studiato. Ho appreso che senza la cura sarei nata morta o orribilmente deforme… non soltanto menomata. È stato soltanto un colpo di fortuna che io…

— Tutto a posto. — Saul l'attirò a sé e lei chiuse gli occhi.

— Abbiamo ancora il nostro lavoro, adesso. Un buon lavoro. E questo ci dà anche un pezzo di futuro, Virginia.

— Sì, il nostro lavoro… e forse un po' di più. — Si sentiva calda. Virginia sollevò il proprio viso fino al suo. Saul dovette spingere da parte i cavi del casco per baciarla.

Non ho mai fatto niente del genere prima d'oggi mentre ero collegata. Pensò all'ondata crescente di sensazioni. Mi chiedo cosa avrà da dire JonVon.

Sopra di loro, senza che vi prestassero attenzione, la simulazione era rimpiccilita ancora di più, fino a comprendere l'intera parete di argilla impregnata di sali e le ramificazioni luminescenti della corrente elettrica.

Forme luminose avevano cominciato ad emergere dalle fenditure color ruggine. Svolazzavano intorno nel torrente caldo, adesso rivestite e coronate contro quelle martellanti molecole, per avventurarsi in un mondo multicolore, consumandosi le une con le altre, crescendo, e producendo piccole repliche di se stesse.

CARL

A tutta prima pensò che non fosse niente d'importante.

Carl ripulì via la poltiglia verde e bruna dai condotti di distillazione e proseguì oltre. La zona di raccolta del gas del Pozzo 3 era una lunga galleria buia, i suoi fosfori davano ad ogni cosa una tinta verde tiglio.

L'impianto pareva a posto: i motori magnetici ronzavano, le condutture gorgogliavano, un odore di uova marce proveniva dai composti solforosi. Qui si condensavano gli eccessi di vapore provenienti dalle molte miglia di gallerie che adesso perforavano il nucleo di Halley. Bioinventario mostrava un surplus di fluidi utili e parlava della possibilità d'immagazzinarli. L'evaporazione sarebbe probabilmente diminuita a mano a mano che i ghiacci più volatili fossero stati usati, e inoltre ci sarebbe stata una minor attività generatrice di calore durante la lunga crociera verso l'esterno. Pareva che ogni cosa andasse dannatamente bene.

Ma c'era una cosa marrone e appiccicosa nei filtri. Merda. È dappertutto. Carl la pulì via cautamente con un getto d'acqua e sciacquò il suo secchio coperto dentro il condotto diretto verso l'esterno. Una vaporizzazione a senso unico che andava a scaricarsi direttamente nello spazio aperto.

Quella fanghiglia dall'aspetto così singolare non avrebbe dovuto trovarsi lì. I prefiltri avrebbero dovuto eliminare la roba grossolana e setacciarla per recuperare i solidi utili. Quei filtri avrebbero dovuto catturare le impurità e cristallizzarle.

Forse c'era qualcosa di speciale in quella particolare sostanza appiccicosa. Carl riempì un barattolo per la raccolta di campioni, i tizi del laboratorio biologico brontolavano incessantemente perché gli venissero forniti esemplari di qualcosa di strano. Con un calcio Carl si allontanò verso il colombario 1. Malenkov dovrebbe dare un'occhiata a questo.

Nel passare attraverso la grande camera di equilibrio per entrare nel Complesso Centrale, Carl si rese conto di sentire la mancanza di Jeffers. Adesso l'equipaggio dei fondatori si trovava al sicuro, al completo, addormentato nei suoi loculi, rendendo le cose un po' troppo solitarie per quelli del Primo Turno. Il capitano Cruz l'aveva nominato sottufficiale anziano, il che significava che lui doveva, semplicemente, andare in giro più degli altri a controllare… ma, insomma, questo pur piccolo onore gli faceva piacere.

Comunque, a lui piaceva lavorare da solo, planando con fluida agilità attraverso le camere di equilibrio e i pozzi in compagnia di Bach o Mozart che s'insinuavano attraverso i suoi orecchi. Forse sono un eremita per natura pensò. Mi chiedo se gli specialisti addetti alla selezione dell'equipaggio abbiano potuto accorgersene attraverso i loro test psicoinventarianti. In quegli ultimi giorni non aveva visto praticamente nessuno.

Quando entrò attraverso il portello di poppa delle Scienze della Vita, la prima cosa che sentì fu una conversazione a voce alta e alterata:

— Vai dentro adesso! Non intendo scendere a compromessi! — si fece udire la voce bassa e rauca di Nicholas Malenkov.

Carl girò l'angolo e trovò il medico russo intento a discutere con Saul Lintz nel corridoio. Virginia Herbert seguiva la scena a braccia conserte. Rivolse una rapida occhiata a Carl, ma sembrava triste e distratta.

— Voglio un campione per poterlo studiare — insisté Saul.

— Ho preso dei campioni — replicò Malenkov, piantandosi con le mani sui fianchi e sporgendosi minaccioso in avanti. — Soltanto epidermide e fluidi.

— Mi servirà molto di più per scoprire cosa…

— No! Più tardi lo faremo rivivere, forse! Quando sapremo cosa l'ha ucciso. Se prenderai dei campioni dagli organi interni, più tardi avremo più difficoltà a riportarlo in vita.

Carl corrugò la fronte: — Ehi, cosa… Saul si asciugò il naso con un fazzoletto, ignorando Carl, e ribatté: — Non puoi curarlo se non sai cosa l'ha ucciso!

— Hai strisce della gola, urine, campioni del sangue…

— Potrebbe non essere sufficiente. Io…

Ehi! — intervenne Carl. — Qualcuno vuol dirmi cosa sta succedendo?

Malenkov soltanto adesso si accorse di Carl. D'un tratto la sua espressione cambiò, da incollerita a labbra strette a un'altra scoraggiata, gli occhi intristiti. — Il capitano Cruz.

Carl avvertì un'improvvisa sensazione di leggerezza alla testa, d'incredulità. — Cosa? Ma… se l'ho visto appena due giorni fa?

Nessuno degli altri due uomini parlò… c'era ancora il vapore surriscaldato della loro discussione. Virginia interloquì con calma: — Ieri gli è venuta febbre, ed è andato a letto. Quando Vidor è andato a cercarlo stamattina, non… non voleva svegliarsi. È morto nel giro di un'ora. E a quanto pare, non c'erano altri sintomi.

Febbre? Tutto qui?

— Non sembra che abbia più intenzione di svegliarsi.

Lo shock di quella notizia parve farsi strada soltanto ora, dando a Carl la sensazione di precipitare. Il comandante Cruz era stato il centro, il cuore e il cervello dell'intera spedizione. Senza di lui…

— Cosa… cosa faremo?

Malenkov fraintese l'esitante domanda di Carl. — Ora lo metteremo in un loculo. Non ci sono danni neurali, o quasi.

Stordito, Carl disse: — Be'… certamente… ma voglio dire…

Saul s'intromise: — Sento che dovremmo avere più dati per studiare questi casi. Non siamo certi per quanto tempo abbia avuto una temperatura alta. Aspettare altro tempo gli fa rischiare danni al cervello. — Malenkov agitò bruscamente una mano davanti a Saul, cancellando ogni obiezione. — Venite.

Storditi, lo seguirono tutti fino al centro del complesso dei loculi. Carl era stupefatto. Cercò di pensare, rosicchiandosi il labbro. Gli esperti di sociologia avevano scritto ampiamente come piccole imprese ad alto rischio dovessero avere un leader olimpico chiaramente superiore per evitare la divisione in fazioni e superare i momenti difficili. Un Drake, un Washington. Senza quel leader…

Nella sala di preparazione, Samuelson e la Peltier stavano effettuando controlli e sistemando diagnostici intorno al corpo che era già avvolto in un grigio sudario di circuiti. Il volto di Miguel Cruz-Mendoza era tranquillo, eppure proiettava ancora la poderosa sensazione d'un fermo proposito. Filamenti di nebbia ricamarono l'aria quando la temperatura della camera cominciò a scendere. Malenkov parlò ai due tecnici al lavoro attraverso un microfono, e il gruppo osservò le ultime procedure dell'internamento.

— Così, avevi autorizzato la sua messa nel loculo ancora prima della nostra discussione — osservò Saul con calma.

— Volevo che tu capissi la mia logica. Mentre Matsudo è nel colombario, sono io il responsabile della salute dell'intera spedizione — replicò Malenkov, rigido.

— E in effetti lo sei. — La voce di Saul recava soltanto un asciutto accenno d'ironia.

— Spero che possiamo riportarlo indietro… molto presto — proseguì Malenkov. — Dannazione! Proprio all'inizio!

Virginia disse, coraggiosamente: — Collaboreremo tutti, naturalmente. Dovremo…

— … scegliere un nuovo comandante — terminò Saul per lei. — È ovvio: Bethany Oakes. Il suo nome è il successivo in lista.

Carl annuì, con riluttanza. Un altro ortho. Tutto l'equipaggio anziano lo era. E Bethany Oakes non era neppure una spaziale.

Osservarono in silenzio, mentre Samuelson e Peltier facevano scivolare il corpo del comandante dentro una cella del colombario e aprirono le valvole per far passare i liquidi di alimentazione. La cella cilindrica s'inserì perfettamente in un'ampia parete di alveoli analoghi, la certezza dell'acciaio lucido avvolta in una nebbia trasparente. Talmente simile alla morte, eppure era l'unica speranza di una vita futura. Se fossero riusciti a capire cosa l'aveva ucciso. Se.

Malenkov sospirò. — Avremmo dovuto tenere una qualche cerimonia. Ma non c'era il tempo.

Saul disse: — E forse non è tanto una buona idea riunire tutti nello stesso luogo.

Ancora stordito, Carl pensò: Miguel Cruz non vorrebbe mai un piccolo, rigido rituale. Qualcuno di noi si radunerà più tardi e ne berremo qualcuno alla sua salute. Il capitano lo capirebbe.

E forse ciò avrebbe attenuato il dolore, quando lo stordimento fosse diventato sofferenza.

— La dispersione, certo. — Malenkov annuì in silenzio, corrugando la fronte. Carl si rese conto che stavano ancora parlando di ciò che aveva ucciso Cruz, e se la cosa potesse essere infettiva. — Osborn, può sistemare gli orari di lavoro fino a quando non avremo scongelato Bethany Oakes?

— Io torno al laboratorio — disse Saul. — Voglio una revisione a tutto campo dei nostri risultati.

— Penso proprio di no — replicò Malenkov, ancora più rigido.

Carl vide che Saul era già semismarrito nei propri pensieri circa le piste di ricerca che avrebbe dovuto seguire. Per cui, non rispose subito ma fissò il vuoto, in direzione del coperchio della cella che si era chiuso su Cruz. Poi si girò lentamente verso Malenkov: — Uhmmm? Cosa?

— È il tuo turno, Saul.

Saul?

— Questa morte mi rende ancora più deciso. — Malenkov strinse le labbra con forza, sbiancandole, serrando i muscoli delle mascelle.

— Rischiamo di esporre anche te al contagio anche soltanto stando qui a parlare. — Malenkov fece un gesto brusco. — Entra in una cella.

— È ridicolo. — Saul parve irritato, come se Malenkov stesse portando avanti uno scherzo di cattivo gusto. — Io posso essere di aiuto. Diavolo, se qualcuno dei miei sospetti risultasse vero…

— Tu non sei così importante ed essenziale — ribatté Malenkov, senza minimamente mostrare segno di distensione. — Peltier, lei conosce bene l'immunologia…

— Insisto…

— Non intendo rischiare di vederti morire sul colpo, amico mio.

— Nicholas, io non ho quello che ha ucciso Miguel Cruz, qualunque cosa sia.

— Guardati, occhi rossi, il naso che cola. — Malenkov fece un gesto. — Tu hai qualcosa. Un microbo preso nel tuo laboratorio, forse.

Virginia si portò al fianco di Saul e gli tastò la fronte. — Sei caldo — constatò.

Carl osservò imbronciato Virginia che appoggiava una mano sul volto di Saul con inconscia intimità. A me pare dannatamente malato. Malenkov potrebbe aver ragione.

Virginia chiese, con calma: — Da quanto tempo sei in queste condizioni?

— Da qualche giorno, più o meno — rispose Saul, senza dare importanza alla cosa. — Un raffreddore, nient'altro. Un po' di febbre.

Malenkov intervenne: — Non possiamo esserne sicuri.

— Credo sia soltanto un residuo di quell'ultima maledetta sfida biologica di Matsudo. Il che non significa che io sia malato, o quanto meno un portatore sano.

— Il comandante è morto nel giro di poche ore — dichiarò Malenkov, secco.

— Non a causa di qualcosa che ha preso nel mio laboratorio. Non c'è mai neppure andato vicino.

— Potrebbe esserselo preso direttamente da te — insisté Malenkov.

— Per l'appunto. E allora, perché mai sono ancora vivo? Usa la testa, Nikolai. Hai bisogno di me per riuscire a rintracciare il suo uccisore!

— È per salvare la tua sciocca vita! — Malenkov agitò il pugno in direzione di Saul, tremando tutto.

— Saul, tu devi… — lo sollecitò Virginia, la tensione rendeva vibrante la sua voce. — Non possiamo permettere che tu rischi la tua…

— Basta! — urlò Malenkov. Il volume del suo corpo massiccio rese travolgente quell'ordine. La camera, tappezzata di speciale plastica autoindurente, concentrò l'urlo in un fragore di tuono. — Basta!

Sapevo che avrebbe cominciato con le intimidazioni non appena ne avesse avuta la possibilità pensò Carl. Se lasciamo che l'abbia vinta adesso, prenderemo ordini da lui per sempre. Ho già visto altre volte tipi come lui.

In parte, però, si trattava di un puro e semplice risentimento per il fatto che qualcuno impartisse degli ordini quando il comandante era appena defunto.

— Tu non sei il comandante — intervenne Carl con voce pacata, reprimendo l'impulso iniziale ad alzare la voce. — Il sistema di sopravvivenza è secondo, nella mappa dell'equipaggio, a quanto ricordo, e questo rientra nella categoria dell'emergenza nello spazio. Sono io che adesso faccio funzione di ufficiale.

Tutti e tre lo fissarono sorpresi. Gli scienziati… non guardano mai al di là del proprio feudo.

Malenkov esitò, rivolse un'occhiata agli altri, poi annuì. — È vero… per ora. Bethany Oakes… possiamo scongelarla subito, comunque.

— Fai pure. — Carl scrollò le spalle. Allora potrà fare con te questi giochetti di potere e io mi defilerò.

Saul disse giudiziosamente: — Mi pare ragionevole. Carl non poté fare a meno di sorridere sardonico. Ci puoi scommettere che lo è. Ti ho appena salvato il culo dal colombario.

— Sono… d'accordo — aggiunse Virginia, ma Carl vide emozioni in conflitto fra loro disegnarsi sul suo viso. Erano così ovvie da leggere. Se Saul fosse finito in un loculo, lo avrebbe perso per un anno o due. Ma se fosse morto__

Virginia e Saul Lintz? Carl era stupefatto, non riuscì neppure a pensarci, in quel momento.

— Abbiamo altri problemi — balbettò brevemente, affrettandosi a proseguire. — Ero venuto a riferire la presenza di una certa sostanza che intasa i filtri nel Pozzo 3. Faremo meglio a occuparcene, e presto.

Malenkov disse: — Continuo a non capire perché Saul…

— Perché ci serve ogni individuo disponibile, ecco perché! — scoppiò a dire Saul.

Il volto di Malenkov parve schiacciarsi, le guance gli schizzarono fuori rigonfie, la sua mascella assunse un aspetto adamantino. — Non sono d'accordo.

Carl dichiarò, aspro: — Lamentati con Bethany Oakes.

D'un tratto, Malenkov aprì di scatto il portello. — C'è una cosa che ho l'autorità di fare! Saul dovrebbe tenersi lontano da tutti noi. Io non starò più nella stessa sua stanza.

Saul cominciò a replicare: — Su, vieni, Nick, tu…

— Sono ancora il capo della medicina! — ribatté Malenkov, con rabbia. — Ti metto in quarantena!

— È…

— Nessun contatto! Lavorerai nel tuo laboratorio, da solo. Fai rispettare la quarantena, Carl, altrimenti parlerò di questo con la Terra! — Malenkov passò rapidamente attraverso il portello aperto e lo sbatté dietro di sé. Gli altri si guardarono.

— Tu sai che ha ragione — esclamò Virginia, con rabbia.

— Col cavolo. Grazie per essere intervenuto a questo modo — disse Saul a Carl. — Mi ero dimenticato qual era la linea di successione. I grafici organizzativi non sono il mio genere di cose.

Carl scrollò le spalle. — Sapevo dannatamente bene che nessuno le aveva predisposte perché toccasse a Malenkov.

Saul ridacchiò, e Carl lo ricambiò con un sorriso superficiale, anche se sotto era in agitazione. Si chiedeva se in realtà avesse fatto la cosa giusta. Non ne sapeva abbastanza di medicina, era ovvio. Aveva semplicemente seguito il proprio istinto. Gli anni passati nello spazio gli avevano insegnato che quella di solito non era una buona idea.

Cosa ne penserebbe il comandante? Non era ancora abituato a questo. Non ho mai voluto essere io al comando.

Virginia afferrò il braccio a Saul, rimproverandolo perché era ancora alzato mentre avrebbe dovuto trovarsi a letto. Carl avvertì una fitta improvvisa di gelosia.

— Ehi, è in quarantena, sai?

Virginia lo fissò, accigliandosi, ma Saul annuì: — Carl ha ragione. Me ne tornerò a casa strisciando da solo.

Se non avessi aperto la bocca pensò Carl, in questo momento Saul starebbe uscendo dalla nostra vita.

Forse non aveva avuto un'idea troppo buona a parlare, dopo tutto.

D'altro canto, Saul non aveva l'aria di durare ancora a lungo, comunque. E se l'avessero infilato in un loculo prossimo alla morte, non sarebbe tornato indietro molto presto.

Ammiccò più volte, quando questo pensiero emerse nella sua coscienza. Quali sono le mie vere motivazioni, in questo caso?


Gli faceva male anche soltanto muovere gli occhi…

Dolori palpitanti, una afosa opacità che gli riempiva la testa, un arido raschiare in gola. Non mi sono più sentito così male da quando avevo vent'anni. Quell'assaggio di vini a Los Angeles…

Si rizzò a sedere nel buio totale, sentendo il frusciare delle lenzuola fresche, e tutto gli ritornò nella memoria.

La donna hawaiana, Kewani Langsthan, era venuta su con una grande bottiglia di ardente brandy di noce di cocco per aiutare Carl, Jim Vidor e Ustinov a violare la norma di Malenkov contro gli assembramenti, e bere alla memoria del capitano Cruz. Chi ha mai sentito di hawaiani che tengono una veglia irlandese intorno a una cassa da morto?

Si rese vagamente conto di essersi voluto deliberatamente, stolidamente ubriacare. E proprio mentre se ne rendeva conto, seppe di non poter cancellare quell'orribile disperazione, al più poteva darci un'intonacata.

Talvolta una cerimonia carica di eccessi demenziali, provocatoria, capace di lacerare le viscere, era l'unico modo di offrire un tributo ai morti. Press'a poco metà dell'equipaggio era giunto alla stessa conclusione.

Ma era successo qualcos'altro… Cercò di ricordare, ma non ci riuscì.

Va bene, d'accordo. Ero fuori servizio e ho usato il tempo come mi è parso opportuno, come dicono i regolamenti. È soltanto che non ho un grande talento per spassarmela alla grande. Adesso devo pagare il prezzo.

Come in risposta, un dolore lancinante gli trafisse la testa stordita. Allungò una mano per accendere la luce, e invece toccò una morbida coscia.

Oh, sì, tutt'a un tratto mi era parsa follemente attraente, arguta, comprensiva…

— Uhmm? — mormorò Lani. — Carl?

Lui cercò di parlare, dovette schiarirsi la gola. Inghiottì dolorosamente e gracidò: — Ah, già. Buon giorno.

Lani accese una fioca luce notturna, proiettando le loro ombre contro le pareti della sua accogliente stanzetta. — Hai… un aspetto orribile.

Carl cercò di sorridere. Gli parve che una fenditura gli lacerasse il viso. — Sempre meglio di come mi sento.

Il volto largo e corrugato di Lani non pareva in condizioni molto migliori. — Posso procurarti qualcosa?

— No, dovrò sudarmelo e basta.

— Ho un po' di B-complesso e antispasmodici. Possono attenuare gli effetti.

— Oh… sì, d'accordo, vediamo cosa può fare la scienza. — Sapeva che la frase suonava vuota, ma sentiva d'istinto di dover trattare la cosa con leggerezza. Riusciva a ricordare soltanto molto vagamente come aveva fatto ad arrivare fin qui, quello che era stato detto. Il mio subconscio mi ha cacciato di nuovo nei guai pensò mestamente.

Lani buttò da parte la coperta e planò nuda attraverso la stanza, snella e senza imbarazzo. Frugò in uno scomparto per i medicinali e tornò con cinque pillole e una borsa d'acqua. Carl prese il suo tempo per inghiottire, cercando d'immaginare come doveva tracciare la faccenda.

Ricordava di essersi improvvisamente incollerito con Virginia… era stato quello l'inizio. Aveva bevuto un po' del micidiale maitais che Langsthan aveva fabbricato e poi Saul Lintz era comparso su uno schermo vicino, sintonizzandosi soltanto per vedere cosa stava succedendo. Già, quello doveva aver causato tutto. Fino a quel momento avevamo ragionato sensatamente, ma il vecchio compiaciuto Saul aveva sollevato gli occhi al cielo, rivolgendoci quel suo maledetto sguardo indulgente, ed io mi sono imbestialito. Con lui, con Virginia…

— Va meglio? — chiese Lani a bassa voce.

— Uhm… quasi del tutto a posto. — Giaceva disteso sul letto vagamente conscio di essere nudo.

Lei era sospesa a mezz'aria sopra il letto, nella posizione del loto. Stava scendendo lentamente. — Dovresti dormire ancora un po'.

— Uh, io… che ore sono?

Ebbe un fugace sorriso, come se avesse indovinato la sua intenzione. — Sono quasi le dieci.

— Oh… sono di turno fra non molto.

— Prima devi tornare fra i vivi.

— Starò… bene. — In realtà si sentiva ancora peggio. Non riusciva a pensare con chiarezza. Non si era mai trovato in una situazione dove, in tutta franchezza, non sapeva se avevano fatto o no all'amore. Dannatamente improbabile. Non sono mai stato un granché dopo una scorpacciata.

— Te lo stai chiedendo — disse Lani, con quel lieve sorriso che le aleggiava sulle labbra.

— Ah, sì… già. — Lei lo precedeva sempre di una mossa.

— Diciamo che le tue motivazioni erano pure.

— Uh?

— Abbiamo parlato a lungo e tu hai detto che volevi vedere il mondo delle mie pareti.

— Il tuo…

Lei si srotolò e batté su una piastra di comando, sopra l'imbottitura del letto. Immediatamente la stanza si animò intorno a loro.

— Au!

— Scusa, abbasso le luci.

Era la caverna di cristallo. Era tornata là dentro, aveva fotografato con cura i molti angoli, imprigionando la miriade di sfaccettature. Lo splendore veniva rifratto, vivido, dovunque. Miracolosamente, era riuscita a mettere insieme delle vedute senza nessun riflesso di lei o della sua attrezzatura, così quella luccicante caverna era una visione che nessuno avrebbe mai potuto vedere di persona. Era migliore della realtà. Poi aveva sistemato la sua stanza in modo che i mobili e i vari congegni occupassero aree oscure della caverna, amplificando l'effetto.

— È magnifico. Tutti gli altri usano scene della Terra.

Lani scrollò le spalle. — Posso avere in qualunque momento quella roba da turisti del National Geographic.

Anche attraverso la sua vista annebbiata rimase colpito. E lentamente ricordò la loro conversazione, come gli era parsa arguta, calda, straripante di idee. Non se n'era mai accorto prima, non le aveva mai dato una sola occasione, a dire il vero.

— Così, sono venuto a vederlo…

Lei annuì, le sopracciglia arcuate in un'espressione divertita. — E sei svenuto.

— Oh.

— Ho pensato che non avresti apprezzato il fatto che la gente ti vedesse mentre venivi trascinato privo di sensi attraverso le gallerie, fino alla tua branda.

— Immagino di no.

Lei sbatté gli occhi, si morse il labbro, poi aggiunse con cautela: — Mi… mi è piaciuto il modo in cui abbiamo parlato la scorsa notte, Carl. Non abbiamo mai avuto davvero l'occasione di dirci molto. Non più, dopo le prime settimane.

— Già — annuì lui, a disagio. — Ero indaffarato.

Lani proseguì con fermezza: — So che non mollerai subito Virginia.

— Mollarla? Ma io non l'ho proprio.

— Mollare la speranza, allora.

Annuì amareggiato. — Esatto.

— Non immediatamente, lo so.

Carl guardò Lani come se la vedesse per la prima volta. Era diversa da quello che aveva pensato. Forse…

Ma Virginia…

— Non c'è fretta — disse Lani, dando l'impressione di sapere esattamente quello che pensava. Tutte le mie emozioni devono essere scritte sulla mia faccia… si rese conto, a disagio.

— Io… forse hai ragione. Sono così maledettamente confuso.

Lani si sporse in avanti e lo baciò delicatamente sulle labbra. — Non esserlo. Fai il tuo lavoro e lascia le piccole cose come l'amore e la vita per più tardi.

Carl dovette sorridere. — Mi rendi le cose molto più facili di quanto io meriti.

— Voglio farlo.

— Io…

Si portò un dito alle labbra per azzittirlo. — Sst. Non devi proprio esser cortese. No, dopo una sbronza come quella.

Fece la doccia. Lani aveva installato il proprio equipaggiamento facendo in modo che perfino dentro la cabina della doccia ci fosse una proiezione della caverna di cristalli… Poi si vestì. Lei lo salutò con un bacio; e prima ancora che la sua mente avesse registrato completamente la loro conversazione, stava già salendo verso lo spogliatoio, tremante ma pronto ad iniziare il suo lavoro.

Era già al lavoro prima che il doposbronza si schiarisse, e sentì l'improvviso peso della depressione calare di nuovo su di lui. Sin da quando aveva lasciato la Terra, aveva lavorato con coerente determinazione, senza mai porsi domande. Ma adesso non riusciva a tenere la sua mente lontana dalle questioni maggiori, problemi che vedeva profilarsi per i giorni a venire. Non c'era più nessuno che potesse occuparsene, e di cui potesse fidarsi.

Carl avvertì lo spalancarsi di un vuoto, una premonizione.

Il capitano Cruz se n'è andato. Non sembra possibile. Per l'inferno ghiacciato, cosa faremo?

SAUL

Non avrebbe dovuto essere possibile.

Saul fissò quella chiazza verde e marrone nella capsula Petri. Non ci voleva certo un esame di laboratorio per sapere che stava guardando qualcosa che non avrebbe dovuto esistere.

In piedi, ma un po' rannicchiato su se stesso nella posizione rilassata dovuta alla bassa gravità, il tecnico spaziale Jim Vidor sbirciò da sopra la spalla di Saul. A rigore, quell'uomo non avrebbe neppure dovuto trovarsi là. La maschera-filtro sopra la bocca e il naso erano espedienti ben miseri, nei confronti della quarantena in cui Saul era relegato.

Saul prelevò un nuovo fazzoletto dallo sterilizzatore e si asciugò il naso. Dopo due giorni, quand'era parso chiaro che il suo corpo non aveva una gran fretta di accasciarsi e morire a causa di quello tsuris d'un raffreddore, l'ordine d'isolamento aveva perso parte della sua originaria urgenza. Comunque per gli spaziali la malattia era una minaccia astratta. Assai più reali per loro erano le difficoltà che si trovano ad affrontare a causa del gunk che penetrava dentro ogni cosa, dall'impianto di aereazione ai mech, minacciando i macchinari che tenevano in vita loro tutti.

Tuttavia, Saul fece segno a Vidor di tirarsi indietro, per lo stesso motivo per cui aveva tenuto lontano Virginia, malgrado le sue ribelli implorazioni.

Nick Malenkov poteva aver ragione, dopotutto. Qualunque cosa sarebbe potuta accadere, dal momento che Halley era capace di saltar fuori con cose come quella, appunto, che si trovava sulla capsula davanti a lui.

— La roba cresceva nel deumidificatore principale, dottor Lintz, in alto, dove il Pozzo Uno interseca il livello A. L'ho mostrata al dottor Malenkov quando sono ridisceso qui dal Complesso, ma lui è impegnato a tempo pieno in infermeria, adesso che la Peltier è priva di sensi. Ha detto che era lei il grande custode della fauna nativa su questo iceberg, comunque, così l'ho portata da lei.

Senza alcun dubbio, Nick supponeva che avresti usato un mech come fattorino pensò Saul. Ogni poche ore un mech bussava alla sua porta, portandogli un thermos di minestra e un minuscolo foglietto di Virginia. Forse quei pacchettini erano la ragione per la quale quel suo dannato microbo non era peggiorato. Lavorando con le mani guantate in una scatola isolante, usò dei forcipi sterilizzati per lacerare un grumo di filamenti rossi e verdi, trasportandone alcuni sul vetrino di un microscopio. L'unità ronzò quando le sonde cominciarono a strisciare in avanti, portandosi in posizione. Era ovvio che quella cosa che non poteva esistere, esisteva. Doveva venir esaminata.

Naturalmente, Malenkov non poteva avere nessun interesse a guardare qualcosa di così macroscopico. Come medico del Turno-1, la principale preoccupazione di Nich era la strana e terrificante malattia che era comparsa dal nulla, aveva ucciso il loro capo, e adesso aveva un'altra vittima prostrata in infermeria.

Lo «scongelamento» di Bethany Oakes e di un'altra mezza dozzina di rimpiazzi era stata ritardata dalla scoperta del limo verde negli scambiatori di calore, che erano stati laboriosamente puliti a mano. La decolombarizzazione ora ripresa teneva troppo occupato il medico russo, perché potesse badare a qualcosa di così grosso, e perciò «innocuo», come dei filamenti che crescevano in una remota galleria.

Saul, esiliato nel suo laboratorio, aveva poco da fare, salvo analizzare i campioni di tessuto prelevati al povero Miguel Cruz e al nuovo paziente… e rispondere alle domande della preoccupata stazione di controllo sulla Terra. Soprattutto aveva in corso un programma d'incubazione ad ampio spettro, dal quale non poteva aspettarsi risultati almeno per altre trentasei ore.

— I test le hanno rivelato niente su cosa ha ucciso il capitano, dottore?

Saul scrollò le spalle. — Ho trovato segni d'infezione, senza dubbio, e fattori proteici estranei, ma niente di più definito di questo. — Era arrivato a rendersi conto, finalmente, che con tutta probabilità non sarebbe mai riuscito a rintracciare il fattore patogeno, o i fattori patogeni, senza parecchi altri dati. Aveva bisogno di saperne di più, in senso basilare, sulle forme di vita di Halley.

Se Nick non voleva permettergli di avvicinarsi ai pazienti, allora avrebbe dovuto cercare altrove! Ciò che Saul voleva più di ogni altra cosa, era uscire nei corridoi e vedere con i propri occhi… raccogliere campioni, costruire un database, e scoprire cosa aveva ucciso il suo amico. Ma quella dannata quarantena…

Girò la testa e sollevò un fazzoletto di carta prima di sternutire. Le orecchie gli rombarono e la sua vista vacillò per un momento.

Bene, per lo meno Jim Vidor non sembrava sentirsi molto in pericolo nel visitare un appestato. Sì, era arretrato di fronte a quell'improvvisa eruzione, ma non appena Saul aveva recuperato la propria compostezza, lo spaziale era tornato ad avvicinarsi per guardare di nuovo da sopra la sua spalla.

— Ha nessuna idea di cosa sia, dottor Lintz? Questa roba nuova era raccolta tutt'intorno agli ingressi dei tubi al livello B, e temo che possa diventare un problema grosso almeno quanto quello della poltiglia verde, se dovesse intasare il deumidificatore.

Nick ed io abbiamo paura delle cose minuscole… forme di vita microscopiche che uccidono da dentro. Ma gli spaziali hanno altre preoccupazioni… S'inquietano se le macchine s'intasano, se le valvole si rifiutano di aprirsi o di chiudersi, li preoccupano l'aria e il calore e la risucchiante vicinanza del vuoto.

— Non so, Jim. Ma credo…

Lo schermo turbinò e un minuscolo grappolo di fili balzò in primo piano, ingrandito. Saul si schiarì la gola e borbottò una rapida sequenza di ordini sotto forma di parole-chiave. D'un tratto una sciabolata di luce saettò, riducendolo a un minuscolo frammento rossastro, in una vivida esplosione fiammeggiante. Uno degli schermi laterali s'increspò, mostrando le linee d'uno spettro luminoso.

— Niente da fare. Dopotutto, credo non possa essere una forma mutata di qualcosa che ci siamo portati dietro. Dev'essere nativo.

Saul si sfregò la mascella mentre analizzava il grafico d'una distribuzione d'isomeri. — Niente, nato sulla Madre Terra, ha mai utilizzato un complesso di zuccheri come quello. — Si chiese addirittura se esistesse un nome, per ciò che vedeva, negli annali della chimica.

Vidor annuì, come se se lo fosse aspettato fin dall'inizio. Talvolta l'innocenza balza alle giuste conclusioni là dove il sapere induce — al contrario — qualcuno a resistere con tutte le sue forze.

Anche Saul l'aveva sospettato, nel vedere la roba per la prima volta, giacché non assomigliava a niente di terrestre che avesse mai visto prima. Ma aveva trovato difficile crederlo fino a quel momento. I microrganismi erano qualcosa che poteva anche razionalizzare, soprattutto dopo aver visto la meravigliosa simulazione di JonVon su come poteva verificarsi l'evoluzione cometaria. Microbi procariotici primitivi, sì. Ma com'era possibile, in quello sconcertante universo di Dio, che potesse esserci qualcosa di così complesso… di così simile a un lichene, nelle profondità di una primordiale palla di ghiaccio?

Non avevo mai creduto veramente alla storia di Carl Osborn, dell'esistenza di macrorganismi qua fuori nei corridoi confessò a se stesso. Immagino di averlo cacciato via dalla mia mente, denigrando qualunque cosa avesse da riferire, rispondendo ostilmente all'ostilità. Invece mi sono dato da fare con i soliti lavori di routine, studiando i microbi, ignorando la prova che qualcosa di molto più grande stava accadendo qui.

Naturalmente, non era che Carl avesse proprio collaborato. Non si erano più visti da quel fatidico mattino ai colombari. E Carl non aveva mai più mandato i campioni che Saul aveva richiesto. C'era poco da meravigliarsi che fosse stato così contento quando Jim Vidor aveva preso l'iniziativa.

— In mancanza di una parola migliore, Jim, dovrò chiamare questo affare un lichenoide… qualcosa di simile a un lichene della Terra. Ciò significa che è una creatura associativa, una combinazione di qualcosa di autotrofico o fotosintetizzante, come un'alga, con qualche complesso eterotrofico come un fungo. Comunque, sono pronto ad ammettere che mi ha disorientato. Niente di così complicato dovrebbe…

— Conosce qualche modo per ucciderlo? — sbottò Vidor. I suoi occhi guizzarono veloci verso lo schermo, dove le fibre si muovevano lentamente sotto il forte ingrandimento.

D'un tratto Saul comprese.

Vidor è un emissario. Carl non è riuscito a ottenere nessuna indicazione utile da Malenkov. Naturalmente non uscirebbe mai allo scoperto avvicinandomi. No, arrabbiato com'è a causa di Virginia.

Si sentì colpire da un'altra ondata di stordimento che lo costrinse ad aggrapparsi all'orlo del tavolo, lottando per nascondere i sintomi.

Forse Nicholas ha ragione. Forse questo non è un altro bacillo dell'influenza. Forse sono già alla fine. Se è così, non ha forse ragione anche Carl? Cos'ho da offrire a Virginia salvo, forse, la possibilità di rimanere contagiata se mai uscissi dalla quarantena?

Che diritto ho di frappormi fra lei e Carl, se sono comunque condannato? Stranamente, l'idea di essere davvero morente gli fece battere il cuore in petto con violenza. Aveva supposto di essere libero da qualunque paura della morte per almeno dieci anni. Ma adesso la sola idea gli faceva tendere la pelle come un tamburo e inaridire la bocca.

Incredibile. Hai fatto questo per me, Virginia? Mi hai ridato la capacità di provare paura? La paura di perderti?

Era una cosa meravigliosa. Saul divenne di nuovo consapevole della presenza di Jim Vidor, con gli occhi che lo guardavano ammiccando da sopra la maschera, e sorrise.

— Di' a Carl che sono pronto a fare un patto con lui. Mi faccia uscire da questa fershlugginner di prigione, cosicché io possa andar fuori e vedere di persona quello che sta succedendo. In cambio farò tutto quello che posso per aiutarlo a tenere la poltiglia fuori dai suoi tubi. Anche se quello che potrò fare sarà soltanto impugnare una spugna insieme al resto di voi.

Vidor ristette per un momento, poi annuì: — Glielo dirò, dottor Lintz. E grazie, grazie tante.

Lo spaziale si girò di scatto e fischiò un rapido codice, cosicché la porta era già aperta quando salpò attraverso di essa per uscire in corridoio. Saul osservò il portello che tornava a chiudersi. Poi risollevò lo sguardo sull'aggrovigliato nido d'uccello fatto di filamenti alieni che appariva sullo schermo.

Una parte di lui si chiese se fosse moralmente legittimo mettersi a cercare dei modi per combattere le forme di vita indigene che causavano agli spaziali così tanta pena. Dopotutto, qui erano i terrestri gli invasori. Erano arrivati da un mondo remoto diverso da questo quanto si supponeva lo fosse il Paradiso dall'Inferno. Nessuno aveva invitato gli umani. Erano appena arrivati, come facevano sempre.

Come ci siamo immischiati sempre anche noi, eh, Simon?

Saul scrollò le spalle. Quella piccola voce moralizzatrice era facile da reprimere, come lo era la paura di morire. Avrebbe lottato e sarebbe vissuto. Perché per la prima volta in dieci anni aveva qualcosa per cui combattere e vivere.

Esatto pensò ironicamente. Fai lo scaricabarile, dài la colpa a Virginia.

Smise di asciugarsi il naso, e lasciò cadere il fazzoletto nello sterilizzatore. Poi s'infilò in bocca un'altra pillola contro il raffreddore.

Sorridendo truce, allungò la mano e aumentò l'ingrandimento.

— D'accordo, bello. Mi hai incuriosito. Voglio scoprire tutto su di te. Se dovremo combattere, voglio sapere cosa ti fa muovere.

Inserì il Quartetto d'Archi di Tokyo sulla videoparete, registrato da telecamere e microfono soltanto a pochi metri di distanza dal famoso complesso da camera. Suonarono Bartok per lui, mentre girava le manopole, parlava dentro il registratore, sorrideva cupo e sternutiva di tanto in tanto.

VIRGINIA

Vedi danzare i mech, vedi suonare i mech pensò Virginia di cattivo umore, a metà di una riprogrammazione. Dio, vorrei che se ne andassero via.

Erano passate ore e ore, ormai, e i lavori si stavano facendo più difficili. Giaceva lungo distesa, fisicamente comoda, ma vessata e irritata dalle interminabili richieste. Provò una nuova subroutine su un mech che riempiva la metà del suo schermo centrale. Il mech si girò, si avvicinò a un pannello fosforescente. Attento, attento lei pensò, ma non interferì. Un errore di un solo centimetro avrebbe fatto schizzare il braccio del mech attraverso la vernice fosforescente, interrompendo il canale conduttivo di quella sottile pellicola, oscurando il pannello. Le virtù dei fosfori risiedevano nella facilità di applicazione: bastava applicare uno strato di quella roba, collegare dei cavi a basso voltaggio agli angoli, e si otteneva una fonte di luce fredda a basso costo. Gli svantaggi stavano nel fatto che avevano poca resistenza meccanica e tendevano a sviluppare chiazze opache nei punti in cui la corrente elettrica scorreva ineguale. Un mech poteva urtarne uno e distruggerlo anche toccandolo lievemente.

Cosa che questo mech si avviò a fare proprio mentre Virginia guardava. Cercò d'individuare la vegetante poltiglia verde e di pulirla via con una spugna aspirante. Giunto verso la metà del pannello, però, il braccio ruotò nel suo alveolo e affondò dentro il fosforo con un croccante crepitio. La luminescenza tremolò, diminuì.

Dannazione. Virginia fece arretrare il mech e lo immobilizzò. Poi si rituffò nella subroutine che aveva appena scritto, cercando di trovare il difetto che aveva portato il braccio del mech a incepparsi in quel passaggio cruciale.

— Virginia! Me ne servono altri quattro nel Pozzo 4, subito! — interloquì la voce di Carl.

Virginia fece una smorfia. — Non puoi averli! Tutti occupati. — Continuò a spostare intorno le unità logiche secondo un assetto tridimensionale, non volendo che la struttura del sottoprogramma le sfuggisse. Soltanto un tocco qui, un minuscolo aggiustamento lì, e…

— Ehi, mi servono adesso!

— Togliti di torno, Carl. Ho da fare.

— E io no? Quassù la poltiglia ci sta mangiando vivi.

— Siamo già troppo pochi.

— Devo averli. Adesso!

Non c'è niente da fare. Digitò un'ultima modifica e attivò la sequenza di «editing». Su un canale separato, trasmise: — JonVon, dài un'occhiata a questo. Qual è il problema? Sono troppo stupida per vederlo.

PERMESSO DI INTERROGARE IL MECH E AGGIUSTARE IL SOFTWARE DI BORDO?

Quello era un po' rischioso; JonVon era bravissimo nelle analisi, ma non aveva molta esperienza nel lavorare direttamente con i mech. Che diavolo, questa è una crisi. — Sicuro.

— Virginia? Non lasciarmi nella peste.

— Sono qui. Mi sento come un cuoco che deve organizzare un banchetto in un batter d'occhio, cercando di ridistribuire questi mech. Fra te e Lani e Jim, non ho il tempo per riprogrammare quei mech di superficie per il lavoro di galleria.

La voce di Carl si ammutolì per un po'. — Be', mi spiace, ma qui mi trovo in una brutta situazione. Questa roba si sta diffondendo in fretta, qui deve esserci più umidità nell'aria. Potremmo dover pulire via tutto nel vuoto. Sarebbe più dura.

— Lo so, lo so. — Carl spiegava sempre pazientemente perché aveva bisogno di aiuto, come se lei non capisse.

Cambiò canale, controllò la situazione accanto alla Camera di Equilibrio 3, e impartì tutta una raffica di ordini svincolanti (per scavalcare le precedenti istruzioni) direttamente attraverso il suo contatto a induzione neurale, per impedire che una valvola surriscaldata fondesse aprendo un foro nella parete a ridosso del vuoto. Poi richiamò Carl: — Senti, non posso farlo subito.

— Come mai? — Era forse un tono impaziente, irritato? Be', che andasse al diavolo.

— Perché ho gli alligatori che mi arrivano al sedere! — urlò, e interruppe il collegamento.

Questo la fece sentire bene.

CARL

Cominciò con un fischio alto e acuto.

Carl stava lavorando all'installazione di un tubo, maledicendo la poltiglia verde che lo rendeva viscido, quando sentì il suono, dapprima soltanto un gemito lontano, stridulo. Proveniva da un punto molto distante lungo il Pozzo 3, vicino alla camera di equilibrio in superficie, e suppose che quella singola nota insistente giungesse da qualcuno che lavorava più oltre, verso la Centrale.

Era soltanto perché si trovavano molto a corto di manodopera. Carl aveva lavorato con uno dei mech riprogrammati di Virginia, ma non appena era possibile, evitava di farlo. Interferiva con il suo lavoro tutte le volte che la macchina parlava con la cadenza che la distingueva.

I primi risvegli avrebbero dovuto «scongelarsi» martedì prossimo, e Carl sperava che ciò avrebbe contribuito ad aiutarli nei loro lavori. La poltiglia era viscida, fetida, e persistente; la odiava.

E quei dannati filamenti che s'impigliavano negli sfiatatoi. Forse Jim Vidor ha ragione, dovrei togliere Saul dalla quarantena, fargli studiare questa roba da vicino.

Se si fosse trovato insieme a un compagno, avrebbe potuto abbandonarsi meno alle riflessioni, e l'avrebbe sentito prima. Il suono continuò mentre lui stringeva la giuntura con la sua chiave inglese, il rrrrrttttt rrrrrrttttt rrrrrrttttt gli trasmetteva le vibrazioni fin dentro le spalle.

Carl sollevò la testa. Sentì soffiare una brezza.

C'era sempre una circolazione d'aria nello spazio, spinta da ventilatori sovralimentati se le differenze di temperatura non fornivano abbastanza convenzione. Ma non così lontano dalla Centrale, non come quel flusso costante, leggero come una piuma, che gli sfiorava gli orecchi.

Si fermò, ascoltò. La stessa nota costante. Arrivava da sotto, dal fondo del pozzo, verso la Centrale.

Poi gli orecchi gli schioccarono.

Tirò su i suoi arnesi e si allontanò con una spinta, con un singolo fluido movimento, senza arricciarsi. Una scarica dei suoi getti, e si tuffò verso il basso. I fosfori punteggiavano il pozzo con chiazze di luce giallo-verde ogni cento metri; automaticamente li usò per valutare la propria velocità, per impedire un'accelerazione che poi non sarebbe più stato capace di frenare. Macchie di poltiglia verde coprivano alcuni dei fosfori: crescevano alimentandosi della debole energia emessa da questi.

Passò davanti a gallerie che correvano orizzontali, 3B, 3C, e 3D, ma il suono non proveniva da esse. Nell'arrivare alla 3E rallentò, perché il sibilo si stava facendo più intenso e un costante risucchio stava cercando di trascinarlo verso il basso. Carl aveva sempre detestato i rumori acuti, e questo adesso era stridente, raschiante. Lui stava cercando una giuntura rotta nell'isolante, ma non era affatto preparato a quello che trovò.

Vermi! Sbatté gli occhi stupefatto.

Creature purpuree simili a serpenti che si dimenavano colando poltiglia. Umidi, viscidi, ondeggiavano lentamente formando un cerchio intorno all'ingresso di 3E. Era come una bocca vivente che chiamasse con un lacerante urlo di sirena, il vento gemeva, lo strattonava e lo succhiava verso quelle invitanti ciglia purpuree che si flettevano allungandosi avide e basse verso di lui…

Annaspò intorno ai comandi dei suoi getti e li fece pulsare al massimo, all'indietro. Il vento gli turbinò accanto, facendo sfrecciare via i cavi dei suoi utensili, strappandogli dalla testa il berretto di lana, arruffandogli i capelli. Si girò di scatto e si afferrò ad un appiglio sulla parete del pozzo. Adesso il rumore era assordante, e lui sapeva che tra non molto sarebbe piombato nel più completo stordimento.

Cosa diavolo…!

Con uno strappo aprì la tasca di emergenza e tirò fuori un casco in plastifoglia. Gli ci volle un lungo istante per ficcarlo dentro l'anello sigillante a O della sua pelle-tuta. È da parecchio tempo che non faccio questa esercitazione.

Fece presa. Tirò la linguetta della bomboletta INIEZIONE. La bolla si espanse con un rassicurante wuush pneumatico. Ciò gli forniva un certo isolamento acustico, ma non molto. Non abbastanza.

— È al Pozzo 3, galleria E — trasmise sul canale di emergenza. — Tre E, Tre E, Tre E. Brutta. Tutta l'area intorno al collare è lacerata.

Una debole voce lo chiamò al fonosseo: — Non puoi rattopparla con la schiuma a spruzzo? Qualcuno sta per arrivare.

— Dubito di poterlo fare. Qualcosa… qualcosa è entrato dentro. Questo non è soltanto uno strappo, di sicuro.

Carl si morse il labbro. Non sapeva come descriverlo. La squadra avrebbe impiegato soltanto pochi minuti ad arrivare, ma il pozzo stava perdendo torrenti d'aria.

Le creature… purpureee… devono avere fatto irruzione attraverso una fenditura che conduce in superficie.

Si lanciò attraverso il pozzo. Il vento gli soffiò addosso per parecchi metri prima che raggiungesse il lato opposto e riuscisse a agganciare temporaneamente un mollettone dentro l'isolante. Rimase appeso lì e osservò il più vicino dei vermi purpurei che si contorceva e pulsava, rivoli di essudato ocra scorrevano giù dalla sua estremità appuntita. Il vento soffiava via le gocce, risucchiandole dentro il buco spalancato che circondava la base del verme.

Quella creatura orribile si gonfiò, si contrasse, si gonfiò di nuovo, allargando ogni volta sempre di più l'isolante, immettendo una parte sempre maggiore del proprio corpo dentro il pozzo. La porzione più vicina a Carl era lunga quasi un metro e stava crescendo a vista d'occhio, scossa da lente convulsioni agoniche mentre si gonfiava e si contraeva, si gonfiava e si contraeva. Le sue fauci luccicavano di quelli che parevano cristalli di ferro nativo.

Stanno cercando la poltiglia verde ebbe modo di constatare mentre i vermi premevano contro gli strati di quella vegetazione muschiosa alla loro portata. Pare che la assorbano direttamente… brucano quella roba! E succhiano i filamenti dall'aria.

Intorno al collare d'acciaio e di alluminio dell'ingresso di 3E, Carl contò tredici di quei vermi. Fece scendere un po' il cavo, e quella bufera ululante lo risucchiò verso il basso, in direzione di una di quelle creature senz'occhi trasudanti melma.

Carl strinse i denti. Adesso stava respirando l'aria della bombola, ma era pronto a giurare che ne sentiva l'odore: appiccicoso, denso, umido, come foglie marce in putrefazione.

Sganciò la sua lancia-laser, la regolò al massimo col pollice, e sparò una scarica. Il raggio tracciò una sottile linea rossa attraverso la creatura… senza nessun effetto apprezzabile.

Carl fece durare un po' più a lungo la scarica seguente, e recise la creatura pochi centimetri sopra la base. Uno spruzzo rosso purpureo venne disperso dalla raffiche del vento. L'estremità del verme traballò e cadde di lato, poi prese a ruzzolare via lentamente.

Altro fluido filtrò fuori dalla ferita e poi, sulla superficie, cominciò a sviluppare una crosta sempre più spessa. La nuova materia aveva una pelle spessa, lucida e porpora scuro simile a una melanzana. Poi cominciò a premere verso l'esterno, di lato, di nuovo verso l'esterno, avanti dentro il pozzo… la ferita era stata soltanto un'interruzione momentanea.

Carl sentì rizzarglisi i capelli in testa.

— … come adesso? Ripeto, non riesco a sentirti, voglio sapere…

Il resto andò perso. Carl non riuscì a vedere nessuno nel pozzo. Dov'erano?

Estrasse la sua pistola sigillante dalla fondina al polpaccio sinistro. Era stata concepita per piccoli lavori, ma lui non riusciva a pensare a nessun'altra possibilità.

Per avvicinarsi di più, srotolò un altro metro di cavo, poi ne riarrotolò in fretta una parte quando la creatura germogliante fluttuò verso di lui. Riusciva a percepire la sua presenza? Senza occhi o altri organi visivi? Forse grazie al calore del suo corpo. Non aveva nessuna intenzione di correre rischi.

La pistola sigillante vomitò un getto di gomma gialla contro il foro. Si spiaccicò sopra l'apertura, spargendosi rapidamente, mentre le lunghe catene molecolari si abbarbicavano sulla massima superficie possibile per cementarsi con essa. Il risucchio fece incurvare la gomma verso l'interno, ma la grande macchia gialla tenne.

Per quasi un minuto. Poi il verme urtò contro l'appiccicosa pellicola gialla, si torse, si piegò… e la staccò. Il vento investì con forza i bordi staccati. La pellicola sbatté futilmente come una bandiera lacerata.

— Ci servirà la roba grossa — trasmise Carl. — Portate tutto quello che abbiamo.

— … non sento… qualunque altra misura… prendere per essere sicuri…

— Sì. Chiudete… bloccate tutte le camere di equilibrio. Dappertutto.

non sotto… Stiamo mandando tutti…

— Se ci dovesse mancare il sigillante, le camere d'equilibrio sono l'unica nostra risorsa.

E se anche questo dovesse fallire pensò, dovremo vivere dentro le tute.

Dieci minuti più tardi la cosa non parve più così improbabile.

Soltanto Lani, Samuelson e Conti erano disponibili per dare immediatamente una mano. Il resto dell'equipaggio era disperso su un'area troppo vasta. Lani era una spaziale, veloce e scaltra, ma gli altri due si erano trovati costretti a fare dei lavori che non conoscevano.

Lavorano quanto più in fretta possibile. Tagliare le appendici era semplice, ma altri vermi premevano per entrare prima che il sigillante facesse in tempo a indurirsi. Carl e Samuelson scoprirono che, se volevano fare qualche progresso, dovevano avvicinarsi al bordo dell'isolante e liberare l'intera area, tagliando con le lance-laser fino al ghiaccio.

— Dobbiamo tagliar via tutto completamente — dichiarò Samuelson. L'uomo grande e grosso si leccò nervosamente le labbra. — È la roba più maledetta che abbia mai visto.

— Stai attento, là, con quella torcia, sei vicino al ghiaccio. — Carl doveva tenere Samuelson legato a una corda per impedirgli di venire risucchiato direttamente dentro il foro. La squadra aveva disposto una serie di martinetti a mo' di sostegno e di cavi, per impedire al vento ululante di strapparli via dalle pareti del pozzo. Adesso le urla stridule e cavernose si smorzavano lentamente a mano a mano che l'aria nel Pozzo 3 si esauriva.

Carl gridò: — Non avvicinarti troppo!

Troppo tardi. Il grosso laser industriale di Samuelson, dopo aver distrutto con grande efficacia la creatura purpurea… colpì una vena di anidride carbonica ghiacciata, vaporizzandola all'istante. Un fiotto di gas schizzò fuori dal foro e soffiò via Samuelson, facendolo turbinare.

— Lani! Spiaccicaci dentro quel sigillante adesso — trasmise Carl. Rilasciò il cavo per permettere a Samuelson di sfuggire al getto di gas. Fra un attimo lì intorno ci sarebbe stato un bel pasticcio.

Lani manovrò l'estremità della cavezza, reggendo con entrambe le mani il tubo del sigillante che si dibatteva come un serpente. — Ecco, ci siamo.

Un sigillante giallo e appiccicoso si spiaccicò sopra i fori ripuliti. Carl e Conti vi tennero puntati contro i laser regolati a ventaglio e sull'intensità minima, per asciugarlo in un batter d'occhio.

Lani avanzò intorno al collare di 3E, sparando spessi strati di giallo sopra le lacerazioni. Qua e là il sigillante cedeva a causa della pressione, ma lei si affrettava a schizzarne rapidamente dell'altro per rinforzare la barriera.

— Non dovremmo usarlo in questo modo — trasmise Conti. — È uno spessore troppo grande. Resteremo senza.

Samuelson tornò, arrampicandosi lungo le pareti con l'aiuto del velcro per raggiungerli. — Più sottile di così, e si spaccherebbe subito.

— Non ne resterà neanche un po'.

— Basta con queste stupidaggini — intervenne bruscamente Carl. Se si fossero lasciati i componenti di una squadra liberi di trovar da ridire, avrebbero perso la concentrazione e non avrebbero più dato il meglio per fare il lavoro.

Lani chiamò: — Ho finito. La corrente si è esaurita.

L'improvviso silenzio li colse di sorpresa. Carl si catapultò lontano dalla parete del pozzo, in grado di librarsi nel vuoto adesso che quella corrente risucchiante era cessata. Non c'era praticamente più traccia della pressione dell'aria. — Forse resisterà.

Samuelson trasmise: — Cosa diavolo era quella roba?

— Qualcosa che cresce nel ghiaccio — disse Conti.

— Oh, suvvia, nel ghiaccio? — chiese sarcasticamente Samuelson.

— Nessun'altra maniera possibile — replicò Conti, deciso. — Forse passano attraverso le crepe? Attraverso le vene di neve più cedevole? Questa non è una forma terrestre di nessun tipo!

— Ma così grande! — Lani. — Quelli che Saul ha trovato erano per la maggior parte microorganismi, giusto?

— Sì — confermò Conti. — E la poltiglia verde e i filamenti non ti danno la caccia, da quello che ho sentito dire l'ultima volta.

Samuelson scoppiò a ridere. — Questi sono di sicuro più grossi.

— E robusti. Sono capaci di passare attraverso l'isolante — disse Carl.

Erano sospesi nel quasi-vuoto, fissandosi l'un l'altro. Samuelson si allontanò con un calcio dalla parete e indicò con un gesto sopra di sé, dove le chiazze di fosforo si stendevano come una punteggiatura, formando una V allungatissima a causa della prospettiva. — Potrebbe succedere in qualunque punto del pozzo.

Carl scosse la testa. — Sono passati vicino al collare, e in nessun'altra parte. Cos'ha di speciale questo posto?

Conti intervenne: — Qualcosa con il collare, nel punto in cui s'innesta nel ghiaccio?

— Dovremo controllare ogni collare, ogni intersezione.

Samuelson annuì: — Dannatamente giusto. Sarà anche indispensabile raccogliere tutti i pezzetti di quella roba che sono stati soffiati dentro a questo pozzo.

— Buona idea — trasmise Carl. — Mettiamoci al lavoro.

Si sparpagliarono per il pozzo e nelle gallerie adiacenti. Carl intrappolò parecchi grumi purpurei alla deriva e li ripose in una borsa di plastica. Bioccoli di gelatina galleggiavano liberi oppure si erano appiccicati alle pareti. Erano collosi e lasciavano macchie su tutto quello che toccavano. Continuò a commentare senza interruzione le loro azioni rivolto alla Centrale, descrivendo a Malenkov quella forma di vita. Saul Lintz s'inserì, mitragliandolo di domande. Carl non aveva nessuna idea di come doveva rispondere e Saul chiedeva dei campioni immediati.

— Dovremo decontaminarci prima di tornare in una qualsiasi zona pressurizzata. Di questo sono sicuro — disse Carl.

— Be', fate del vostro meglio. Vi farò avere dei flaconi in cui mettere i campioni.

— Mi arrangerò io. Non far entrare nessuno in questa sezione.

— Credi che sia così pericoloso?

— Hai dannatamente ragione.

Interruppe la comunicazione e continuò a cercare. La sua squadra si era sparpagliata tutt'intorno controllando ogni intersezione alla ricerca di segni di cedimenti. Qualcosa lo tormentava, ma non aveva il tempo per fermarsi a pensare. Quei frammenti purpurei erano andati alla deriva in lungo e in largo e lui aveva soltanto poche persone a disposizione per riuscire a recuperarli tutti. Giunto alla galleria che conduceva orizzontalmente alla Centrale, Samuelson trovò una punta purpurea che sporgeva appena attraverso la plastica. Chiamò Conti, e tutti e due insieme prelevarono un campione.

Furono incauti.

Quando Carl arrivò là pochi minuti più tardi, stavano entrambi schiaffeggiando delle chiazze su se stessi e lamentandosi, sorpresi dal dolore che provavano. Attraverso le loro visiere, ognuno dei due pareva stupito, pallido in volto, gli occhi spalancati che roteavano intorno a sussulti.

— Cos'è successo?

— Ho cercato di prendere questo pezzo e mi è scappato — disse Samuelson. — Conti l'ha afferrato e… gli ha mangiato il guanto.

C'era una strana chiazza sulla mano destra di Conti. — Suppongo che tu abbia sfiorato il pezzo col braccio? — chiese Carl.

— Sì, e quel dannato affare mi ha punto.

Il volto di Conti era distorto in una smorfia angosciata. — Sta peggiorando.

— Samuelson, accompagnalo. Voi due andate all'ingresso della camera di equilibrio di emergenza. Chiamerò Malenkov e gli farò sapere che state arrivando.

— Cosa… cosa credi che stia… facendo? — chiese Conti.

Mangiando pensò Carl. Ma lo tenne per sé. — Andate dai medici. — Diede ad entrambi una spinta verso l'interno. — Sbrigatevi!

Durante l'ora seguente, Malenkov gli trasmise dei rapporti sulle loro condizioni. Quella creatura purpurea aveva divorato le fibre delle loro tute, attraversandole, probabilmente reagendo ad esse come se si trattasse d'un potenziale alimento. — Forse gli piaccione le catene molecolari lunghe — aveva suggerito Malenkov. Una volta dentro, aveva bruciato la pelle. Probabilmente una parte era penetrata nel flusso sanguigno. Conti e Samuelson riferivano di una sensazione di dolore attenuata che si andava diffondendo. A tutti e due era stato dato un sedativo, ed erano in osservazione.

Carl avvertì Lani, e continuò nella sua ricerca. D'un tratto, quasi un'ora più tardi, gli venne un'idea.

— Saul Lintz! Sei là?

Il collegamento incrociato ticchettò e ronzò. Poi: — Sì.

— Questa roba purpurea è leggera, si muove facilmente. La maggior parte di quella che abbiamo tagliato via è stata risucchiata dentro i fori.

Carl visualizzò gli strati alternati di materiale inerte e di vuoto che costituivano l'isolante. Al di là dell'isolante c'erano due buoni centimetri di elio, il cui scopo era quello d'isolare la parete del ghiaccio. Forniva inoltre una via alle evaporazioni, cosicché queste sciamassero verso la superficie, sfuggendo infine nello spazio. — Dove conduce lo sfiatatoio di questo pozzo?

— Il condotto a vuoto del Pozzo 3 convoglia ogni cosa dal colombario Uno alla superficie. Non è qui, però, che puoi avere le migliori informazioni. Farai meglio a chiederlo a Vidor.

— No, ascolta: noi pensiamo sempre che le evaporazioni sfuggano verso l'alto, giusto? Ma il vento che abbiamo avuto qua sotto era forte.

— Sì, abbiamo perso un sacco d'aria.

— Il punto è: quel getto d'aria era tanto intenso da soffiarne un po' all'indietro?

— Forse. Comunque, fuoriuscirà piuttosto in fretta, anche se… Oh, capisco, sei preoccupato che…

— Esatto. La roba purpurea. È stata trasportata indietro dall'aria, verso la Centrale.

— Ci sono cavità che fungono da deposito lungo quella direzione, e…

— Esatto. — Carl esitò, e poi decise. — Saul! Durante questa crisi io scavalco Malenkov in autorità. Da questo momento sei fuori dalla quarantena. Sequestra Quiverian e chiunque altro riesci a trovare. Scendo al Tre J. Voi della biologia farete meglio a pensare molto in fretta. Scommetto che questi affari sono penetrati nel colombario Uno.

SAUL

Saul sbatté gli occhi per la stanchezza attraverso una nebbia causata da un doppio antistaminico, mentre finiva di ripulire dalle ultime tracce verdognole i bordi dell'unità filtrante. Ridotto dagli altari della scienza ai più umili lavori pensò scontrosamente. La mamma è andata a lavare i piatti per mandare il suo ragazzino all'università… perché poi faccia questo?

Naturalmente la sua vera «mamma» non aveva fatto una cosa del genere. Era stata un colonnello dell'esercito israeliano, un eroe della liberazione di Bagdad del '09, e probabilmente avrebbe approvato che il suo intellettuale figliolo fosse costretto a usare un secchio e uno straccio, di tanto in tanto.

Comunque, quell'ironica fantasticheria divertiva Saul, così la coltivò. Digrignò i denti e pestò sul filtro per rimetterlo al suo posto. Trent'anni d'istruzione, e mezzo miliardo di miglia di viaggio nello spazio… il tutto per fare il bidello. Confermava la sua radicata convinzione che esisteva davvero una cosa chiamata progresso.

Per Io meno, la crisi attuale sembrava averlo tolto dalla lista dei paria. Ogni membro dell'equipaggio era necessario per combattere le infestazioni delle halleyforme, e pochi erano coloro che ogni tanto brontolavano e arricciavano il naso in sua presenza.

Finito, finalmente.

Saul chiuse la spugna dentro il secchio, e si tolse i guanti. Guardò le file dei loculi dei loculi simili a bare, annebbiati a causa del freddo e della condensazione interna, ognuno che, dentro, mostrava una forma vaga, ibernata. Per due giorni era rimasto là sotto, nella camera refrigerata, cercando di tenere le infestazioni lontane dai loculi.

Al di là delle file dei dormienti, un banco da lavoro era sparpagliato di pezzi di vetro e congegni elettronici strappati da una mezza dozzina di pannelli di strumenti. Un'alta forma era china sopra quel guazzabuglio.

— Hai quasi finito con quelle lampade, Joao? — lo chiamò Saul. — Le ho promesse a Carl al più presto.

Il brasiliano dal volto olivastro scosse la testa e borbottò amareggiato. — Ho disimballato e smontato soltanto quattro lampade da quando me l'hai chiesto l'ultima volta, Saul. Dammi tempo!

Era ovvio che a Quiverian non piaceva venir trascinato a forza a fare «lavori manuali» lì fuori, nel colombario Uno, dove il freddo era intenso e c'era pericolo. Saul era stato costretto a scendere personalmente alla Centrale e a trascinar via quell'uomo da una lunga, disordinata, conversazione a lunghi intervalli di tempo con un collega planetologo sulla Terra. Fino a quel momento Joao si era comportato come se quell'ordine di mobilitazione totale non avesse niente a che fare con lui.

Il primo lavoro era stato di esaminare ogni centimetro quadrato delle cavità dei loculi, catalogando le infestazioni. Poi erano giunte le lunghe, laboriose ore passate a raschiare, pulire e disinfettare. Le prese per la circolazione dell'aria erano rimaste ingorgate da quei lichenoidi simili a filamenti, finendo quasi per soffocare un'intera fila di loculi. Salvo per un breve periodo di sonno, i due uomini si erano dedicati a quel lavoro senza mai fermarsi per quasi quaranta ore.

Grazie al cielo misericordioso i mech di Virginia hanno riferito che ci sono pochi problemi negli altri due colombari! Finalmente, quando Quiverian era parso sul punto di volersi ribellare, Saul l'aveva messo a lavorare all'assemblaggio delle lampade a idrogeno, sollevandolo dall'incombenza di star curvo a pulire.

— Se hai tanta, maledetta fretta — si lamentò Quiverian, — perché non svegli quell'ossopigro laggiù? Mettilo a fare qualcosa di più utile che starsene lì a russare e a riscaldare tutta la caverna con la sua coperta elettrica!

Saul lanciò un'occhiata alla forma supina del tecnico spaziale Garner, disteso in un angolo buio del pavimento di foglio-fibra. Garner era rimasto in servizio per quattro giorni filati. L'uomo si stava semplicemente facendo una dormita di qualche ora prima di unirsi di nuovo alla battaglia. Al confronto, il lavoro di Joao era stato una vacanza.

— Lascialo stare, Joao. Prenderò le prime quattro lampade e le proverò. Tu, continua a lavorare sulle altre.

Fece una pausa e aggiunse: — Soltanto, per favore, Joao: stai attento, vuoi? Cerca di non rompere qualcun'altra di quelle lampade. È lunga la strada per arrivare al magazzino delle scorte.

Quiverian scrollò le spalle. — Prima dici di fare in fretta, poi di fare attenzione. Deciditi.

Saul si rese conto che quell'uomo l'avrebbe fatto uscire dai gangheri, se si fosse fermato ancora là. — Cerca di fare meglio che puoi. — Prese su un gruppo di quei fari lunghi e sottili; il cui scopo era quello di lampeggiare per fornire punti di riferimento per la navigazione agli astronauti che lavoravano sulla Luna o gli asteroidi. Era convinto che qui sarebbero stati utili per un'altra funzione.

Vedremo se servono a qualcosa contro una forma di vita che vive nello spazio.

Con una lenta planata si avviò verso l'ingresso della Galleria J, un'uscita color ambra dalla grande camera che conteneva il colombario Uno. In quel momento pareva che il posto fosse ammantato da un'atmosfera soprannaturale a causa delle luci tenute abbassate. Quei recessi nel soffitto a volta parevano più profondi e misteriosi, come le crociere in un'antica tomba. Il fibratessuto smussava gli spigoli, ma quella vasta caverna era ancora un buco irregolare sotto il ghiaccio. Non ci si soffermava a pensare a tutte le tonnellate sospese sopra la propria testa, in quel chilometro o anche più che ci voleva per arrivare in superficie.

Al centro del pavimento della cavità, proiettando ombre alla luce dei pochi pannelli luminescenti attivi, l'estremità prodiera della chiatta-colombario Whipple giaceva al centro di cinque corsie di contenitori a forma di feretro: i luoghi di riposo individuali di più di cento fra uomini e donne ibernati.

Se dovessimo perdere questa battaglia, qualcuno di questa gente vedrà mai di nuovo la luce? Respireranno, e rideranno, e ameranno? si chiese Saul. La nostra disperazione penetra almeno in parte fino a loro, disturbando i loro lenti sogni?

Là dentro faceva buio come in un sepolcro. E cominciava anche a fare maledettamente freddo.

Le luci erano state abbassate per risparmiare energia. La pila a fusione era stata attenuata due settimane prima, quando tutti, tranne quattordici umani, erano stati refrigerati, e tutti si erano aspettati un lungo, tranquillo e noioso turno di guardia. Adesso non c'era nessuna manodopera disponibile per supervisionare un reattore alimentato al massimo. Tutte le persone disponibili erano indispensabili nei corridoi, nei passaggi di servizio o in infermeria.

Comunque, la luce era una delle cose che attiravano i lichenoidi, e le creature purpuree. La luce, il calore, l'aria e il cibo…

Immagino non sia un puro caso, se ci piacciono le stesse cose. La differenza più grossa sta nel fatto che le halleyforme vivono brevemente in primavera, ogni settantacinque anni o giù di lì, quando le onde di calore migrano verso il basso dalla superficie riscaldata dal sole. Sono strutturate per agire, e agire in fretta, per approfittare dell'improvvisa buona stagione.

Saul era ancora non poco confuso dall'abbondanza di tipi, dalla complessità delle forme che si nutrivano di quella vegetazione verde simile ad alghe. Anche semplicemente esistendo, avevano violato i princìpi della moderna biologia.

Ma, dopo un po', riacquistò sufficiente spirito pratico per smetterla di borbottare fra sé: «impossibile».

Più tardi, avrebbe anche potuto tentare di scoprire una risposta. Per il momento, doveva scoprire qualche sistema per fermarle.

Cominciava ad abituarsi a manovrare in bassa gravità. Comunque, i suoi piedi interferirono l'uno con l'altro quando atterrò vicino al boccaporto della Galleria J.

Per fortuna, c'erano soltanto pochi ingressi al colombario Uno. La Galleria J era quello critico. Soltanto a poche centinaia di metri in quella direzione, e ad un livello più alto, Carl Osborn e la sua affaticata squadra stavano stancamente raschiando via la variante verde delle halleyforme che gli spaziali avevano preso l'abitudine di chiamare «poltiglia»… cercando di liberare un passaggio critico dall'accumulo di cibo brucato da quegli orripilanti vermi purpurei.

Fino a quel momento abbondanti dosi di antisettici ed erbicidi sintetici parevano essere riusciti a compiere il miracolo… per ora almeno. Ma non possiamo affidarci a questo per sempre.

Con cautela mise giù tre delle lampade e piazzò la quarta in posizione subito dopo il boccaporto aperto, dentro la galleria vera e propria. Dovette cercare la giusta presa di corrente, e finalmente la trovò, parzialmente nascosta sotto una sottile ragnatela di fili multicolori. Questi dovette spingerli da parte con lo stivale, prima di riuscire a collegare l'unità e a regolare il timer.

— Allò, prova. — Batté il dito sul piccolo microfono del casco che si allungava da sotto il suo berretto di lana.

— Lintz convoglia-parola a casco di spaziale Osborn, per favore collega per conversazione. — Sapeva che c'erano metodi più economici per chiedere al computer principale di collegarlo a Carl, aveva visto gli spaziali cinguettare istruzioni di convogliamento in minor tempo di quanto ne impiegava lui nell'esibirsi in un singhiozzo, ma aveva dimenticato il corretto protocollo. Per lo meno era sicuro che in quel modo le macchine avrebbero capito.

Un breve schiocco, poi il sibilo di un'onda portante.

— Lintz, Osborn. Cosa c'è, Saul?

La risposta al suo orecchio sinistro suonò tacitiana. Ma gli spaziali erano così. Una risposta così asciutta non significava niente di particolare.

— Carl, Joao Quiverian ed io abbiamo terminato di controllare il colombario Uno. Abbiamo distrutto ventitré infestazioni. Non possiamo essere certi di non averne saltata qualcuna di più piccola, ma i colombari non sembrano correre più nessun pericolo immediato.

Saul represse la minacciosa sensazione di prurito che anticipava uno sternuto. Parlò in fretta:

— Mi sono preso un'ora di tempo e sono salito in superficie a frugare in mezzo alle tende-deposito, per controllare se non ci fosse qualcosa che potevamo usare. C'erano un paio di dozzine di lampade idro-alogene per le segnalazioni spaziali che mi hanno dato un'idea. Ho pensato che potevamo piazzarne qualcuna nei punti critici, agli incroci dei corridoi, e regolarle perché inondassero l'intera area, a intervalli, d'intensa radiazione ultravioletta. Chi lo sa? Potrebbe far rallentare un po' quelle bestie.

Vi fu una pausa prima della risposta di Carl.

— Mi pare ragionevole. Ma non vogliamo accecare o bruciare nessuno.

Saul annuì. — Ci ho pensato. Ho portato giù occhialoni e pomate solari per le squadre nei corridoi. Inoltre ho smontato il quadro di comando di un mech inutilizzato e ne ho tirato fuori alcuni segnali d'allarme per guasti del tipo cinque… sai, quelli che fanno brrr-ap! brrr-ap!

L'onda portante ricomparve all'improvviso. Pareva tosse, fino a quando non si rese conto che era Carl, il quale stava ridendo per quella sua interpretazione sonora. Sorrise.

— Comunque, un segnale d'allarme entrerà in funzione un minuto prima che ognuna delle lampade sia attivata. Entrambi rimarranno attivi per cinque minuti ogni ora.

— D'accordo. Dove hai intenzione di piazzarli?

— All'ingresso di ogni colombario, appena fuori della Centrale e lungo il Pozzo Uno. Non sono sicuro se abbiamo abbastanza energia e lampadine per fare di più, così…

Carl lo interruppe. — Bene, Saul. Ma prima voglio provarle su qualcos'altro. Mando giù Vidor e Ustinov a prendere gli occhialoni e una mezza dozzina di lampade.

— Cosa succede?

Vi fu un'altra breve pausa. Poi Carl gli confidò;

— Stiamo per scatenare un attacco contro i purpurei che hanno circondato la centrale elettrica. Forse là la tua idea potrebbe esserci di aiuto.

— Spero proprio di sì.

— Già. Comunque, dài a Garner qualche altro minuto, poi sveglialo. Digli che deve tornare su con Vidor. Abbiamo bisogno di tutti per questa operazione. Osborn chiude.

L'onda portante si spense con un clic. Saul restò immobile per un momento, poi scosse la testa.

La centrale elettrica. Non ne sapevo niente.

Non c'era da stupirsi che Virginia fosse stata così concisa l'ultima volta che aveva chiamato. Si era sentito come un adolescente sciocco, nel chiedersi se lei lo amava sempre, perché gli aveva schioccato un bacio affrettato e l'aveva sollecitato a lasciar libera la linea.

Probabilmente in quel momento ne aveva fin sopra i capelli di preparare i mech perché potessero dare una mano a Carl. Se anche uno solo della dozzina di condotti che conducevano dentro o fuori dalla pila fosse stato intasato dalla materia organica, avrebbe potuto attivare una chiusura automatica. Questo, a sua volta, poteva significare la fine di loro tutti.

Avrebbe dovuto fare una piccola prova con le lampade pri ma di spedirne una serie a Carl. Non aveva senso appesantire quell'uomo con un ingombro di apparecchiature inutili, se quelle lampade non avessero potuto far niente di più che dare un'abbronzata alle halleyforme. Saul s'infilò un paio di occhialoni e si chinò ad attivare il timer.

L'improvviso brrr-ap! del minuscolo segnale di allarme lo fece trasalire, malgrado fosse preparato. Poi arrivò un debole pop quando la lampada riempì di colpo la galleria color ambra d'una vivida luce attinica. Perfino sotto gli occhialoni, Saul sbatté gli occhi e dovette girare la testa.

Quando tornò a guardare, si rese conto che stava accadendo qualcosa di strano. Tutt'a un tratto ogni superficie pareva rivestita di un alone luminoso. Le stesse pareti parvero incresparsi e strisciare, come la peluria sul dorso di un bruco. Dapprima pensò a una illusione ottica, un effetto della bizzarra colorazione e del bagliore. Poi capì.

La vita di Halley è dappertutto! Ha impregnato il fibratessuto e adesso sta fuggendo via dalla luce della lampada.

Quelle confuse increspature arretrarono a ondate. Lì accanto Saul vide l'aria che cominciava a riempirsi d'una nebbia di polvere sottile, organismi uccisi, suppose, che si staccavano dalle pareti galleggiando nell'aria e adagiandosi con glaciale lentezza sul pavimento. Cercando di non inspirarne neanche un po', ne sospinse dei pezzetti dentro un sacchetto per campioni e sigillò il contenitore.

Poi, con la stessa repentinità con cui era esplosa in tutto il suo splendore, la lampada si spense. Quel rumoroso segnale d'allarme cessò senza una sola eco, e d'un tratto tutto fu silenzio e quiete. Saul si sfilò gli occhialoni, sbattendo gli occhi mentre aspettava che le macchie si dissolvessero.

Il fonosseo si animò crepitando:

— Lintz, Vidor. Abbiamo visto il suo bagliore giù fino al fondo del Pozzo 3, dottore. Non c'è pericolo se veniamo adesso? Carl vuole subito Garner e quelle lampade… come ieri.

— Uh, sì. — Scosse la testa. — Lintz a spaziale Vidor. Abbiamo lampade, occhialoni e caffè fresco per voi, ragazzi. Venite pure avanti, gente.

Si girò e riproiettò se stesso dentro la cavità irregolare dal soffitto a volta. Attraverso i lati ghiacciati dei colombari, i dormienti erano ancora vaghe sagome. Le luci di controllo su ogni bara facevano luccicare il centro della sala in penombra come un albero di Natale fosforescente, oppure una gigantesca stella marina in fondo all'oceano.

Novanta pacchi che aspettano di venir aperti. Un giorno. Se ci riusciremo…

Adesso la decolombarizzazione dei rimpiazzi di emergenza, rinviata già parecchie volte, stava raggiungendo in infermeria, dove Nick Malenkov era rimasto tutto solo, uno stadio critico. Uno dei tecnici medici era morto a causa del morso ricevuto da un purpureo, e l'altra, Peltier, era perita proprio il giorno prima a causa di un'infezione diffusa e fulminante. Con quel ritmo, era bene chiedersi se l'equipaggio da scongelare avrebbe trovato qualcuno vivo pronto ad accoglierli quando si fossero svegliati.

No. Ce la faremo. Dobbiamo farcela.

Passò davanti al banco di lavoro dove Joao Quiverian stava ancora borbottando fra sé, mettendo insieme le lampade con deliberata lentezza da lumaca. Saul sapeva che dopo avrebbe dovuto controllare tutte le lampade lui stesso.

Si assicurò che la caffettiera fosse piena, poi raccolse la propria tuta spaziale.

Avranno bisogno di tutto l'aiuto disponibile, anche se Malenkov mi ha dichiarato invalido. Potrò anche non essere capace di lottare a lungo e duramente come questi giovani, ma perfino un alter kocker di mezza età come me è in grado di tenere in alto una lampada e di usare uno spruzzatore in una lotta come questa. Lì avveniva una cosa strana. Malgrado fosse affaticato e perpetuamente stordito dai farmaci che tenevano liberi i suoi seni nasali, sotto certi aspetti Saul non si era mai sentito meglio. La sua digestione, per esempio: non avvertiva più quelle deboli fitte, e le articolazioni delle ginocchia non raschiavano e vibravano più quando si muoveva.

La mancanza di peso e il decondizionamento al calcio decise… O forse è dovuto al fatto che qualcuno mi ama di nuovo. Mai, mai sottovalutare gli effetti d'un morale alto.

A quel punto aveva quasi smesso di chiamare Virginia. Ma naturalmente avrebbe avuto la sua possibilità di parlarle quando avesse raggiunto gli altri alla centrale elettrica. Lei sarebbe stata là, per lo meno in surrogato, controllando fino a una dozzina di mech, facendo il lavoro di dieci uomini.

Forse avrebbe avuto la possibilità di strizzare l'occhio a uno dei suoi pickup video e di farla sorridere.

Si era appena infilato la tuta e stava allungando la mano verso la sua cotta personale decorata con un'elica del DNA, quando delle voci che giungevano dai pressi dell'ingresso gli dissero che gli spaziali stavano arrivando.

Vidor e Ustinov entrarono sfrecciando dall'apertura, formando un grazioso tandem. Stanchi o no che fossero, l'orgoglio non avrebbe mai consentito loro di camminare rasente alle pareti o di trascinarsi lungo i cavi. I due uomini piroettarono a mezz'aria e atterrarono in perfetto sincronismo in posizione rannicchiata a non più di due metri davanti a Saul.

— Dov'è Ted? — chiese concisamente Joseph Ustinov. Il barbuto russo-canadese prese rapidamente nota della direzione che Saul gli indicava, e si avviò verso l'angolo buio dove la coperta elettrica dello spaziale Garner irradiava una sfera di calore, passando davanti ai mucchi di casse.

— Allora, ha quel caffè, dottore? — chiese Vidor sorridendo, rivolto a Saul. Quel giovanotto dell'Alabama pareva aver prosperato in mezzo alle avversità della passata settimana. I molti giorni di combattimenti nei corridoi l'avevano fatto uscire dalla depressione in cui era piombato per essere stato lui a trovare il capitano Cruz accasciato sul suo giaciglio a rete, quasi morto.

— Sicuro, Jim. — Saul gli porse una boccia di caffè nero, bollente, e cominciò a riempire un thermos per Carl e gli altri. — Ci sono panini freschi là in quel sacchetto. Vi darò una mano a trasportare le lampade e gli occhialoni, e farò vedere a Carl come…

Un acuto urlo di orrore parve coagulare l'aria.

Il caffè caldo si riversò fuori in spruzzi di palline sferiche quando Saul si girò di scatto. Dalla parte opposta della cavità fiocamente illuminata, lo spaziale Ustinov stava ruzzolando a mezz'aria, salendo verso il soffitto e singhiozzando, mentre scuoteva un oggetto simile a un randello con la mano.

Qualcosa o qualcuno l'aveva colto di sorpresa, inducendolo a balzare verso il soffitto con tutte le sue forze. Qualunque cosa fosse, l'aveva quasi spaventato a morte, giacché l'uomo continuava a farfugliare, fissando con gli occhi sbarrati la cosa che stringeva in mano.

Mentre Saul e Vidor guardavano, Ustinov urlò di nuovo e gettò via la cosa. L'oggetto descrisse un arco attraverso l'aria gelida, curvando la sua traiettoria sotto l'effetto della debole gravità di Halley, e colpì una cassa da imballaggio a pochi metri dal banco di lavoro di Joao Quiverian.

Lo scienziato brasiliano balzò indietro, dapprima esterrefatto e poi colto da un'improvvisa ripugnanza quando vide cos'era rimbalzato a poca distanza da lui. Una fragile lampada s'infranse nella sua mano sinistra, riducendosi in polvere.

Là, colante un liquido ocra sulla fibratessuto del pavimento color verde-tiglio, giaceva un braccio umano smembrato. In maniera impossibile, quel macabro resto pareva contorcersi ancora.

Saul si rese conto, afferrato dalla nausea, che delle creature stavano strisciando fuori da quel pezzo di carne e ossa. Creature purpuree.

Afferrò Vidor, che strabuzzava ancora gli occhi, e reggendolo stretto per il collare lo spinse verso la pila delle apparecchiature. — Infilati gli occhialoni e prendi una lampada! — ordinò concitato allo spaziale. — Qui sono le uniche armi che abbiamo. Joao! Porta una prolunga fino a quella spina… presto!

Questa volta il brasiliano non si fermò a discutere. Vidor armeggiò con i cordoni che tenevano legate le lampade mentre Saul dirigeva uno spruzzo di caffè bollente contro un purpureo che se la stava filando dietro una fila di loculi. Un fischio sfuggì alla creatura, mentre retrocedeva all'aperto.

— Maledizione, dottore! — imprecò Vidor. — Dovrò insegnarle come si fanno i nodi!

Saul fece per rispondere, quando lanciò un'occhiata alle proprie spalle. — Oh, dannazione — gemette. — Torno subito.

— Dove va? — urlò Vidor.

Ma ormai il dado era tratto. Saul si era rannicchiato ed era balzato via nello spazio aperto.

In effetti, sarebbe stato Vidor il più qualificato in questo genere di cose. Ma in quel momento era immerso in un groviglio di lampade e cordoni. Era stato Saul a vedere Ustinov che stava ricadendo, e a rendersi conto che l'uomo stava ancora singhiozzando, inconsapevole di dove era diretto. Neppure la gravità di Halley consentiva spiegazioni o ritardi.

La tuta di Ustinov era assai più sofisticata di quella di Saul. Ma lo spaziale, in stato confusionale, non sembrava sul punto di usare i suoi getti, o qualunque altra cosa, per evitare di cadere verso i brandelli della coperta elettrica del tecnico spaziale Garner, che adesso brulicava sopra e sotto di ondeggianti forme purpuree.

Ogni cosa stava accadendo al rallentatore, così almeno pareva a Saul, il quale parlò rapidamente nel suo comunicatore:

— Linzt a Osborn e Herbert. Allarme! Purpurei nel colombario Uno! Garner è morto. Allarme!

I due uomini fluttuanti si stavano avvicinando l'uno all'altro, uno innalzandosi e l'altro scendendo ad una lentissima ma costante accelerazione. Saul deviò lo sguardo altrove, dopo un'occhiata verso il basso in direzione di ciò che attendeva lo spaziale in caduta. Era più di quanto il suo stomaco potesse sopportare.

Oh, Dio, ti prego, fai che l'abbia fatta giusta!

Ma no. Saul si rese conto che la sua traiettoria era troppo bassa! Sarebbe passato sotto Ustinov. Pareva che non ci fosse niente al mondo che potesse impedire a quell'uomo di ricadere in mezzo alla massa polposa che si allargava.

D'un tratto, si trovò alla massima vicinanza possibile. — Ustinov, svegliati! — urlò. — Allungati!

Forse Ustinov aveva capito, o forse fu soltanto uno spasmo. Ma uno stivale scattò in avanti e colpì la mano protesa di Saul, un urto doloroso. Saul annaspò per afferrarsi a qualcosa, e quel cambio di velocità lo fece roteare su se stesso. La caverna turbinò intorno a lui, mentre per due, tre secondi si reggeva a Ustinov, per essere infine scalciato via dal successivo sussulto dell'uomo.

Basterà? Ho deviato la sua traiettoria? O forse sono io adesso che sto andando incontro a quel groviglio di purpurei?

Il pavimento veniva verso di lui. Ancora, tutto pareva avvenire al rallentatore; ma lui avrebbe dovuto toccar terra con un'energia pari a quella del suo decollo, ed era decollato in fretta. La sua spalla destra urtò con forza, facendogli mancare il fiato, con una fitta di dolore.

Si rotolò sulle mani e sulle ginocchia. Gli ci volle un attimo per allontanare quella sensazione di vertigine sbattendo le palpebre, e un altro attimo per recuperare il fiato. Poi vide Ustinov, il quale giaceva a soli due metri di distanza, gemendo, scrollando la testa, e a quanto pareva inconscio delle piccole creature striscianti che avanzavano controrcendosi verso il suo calore, ed erano ormai giunte a pochissima distanza.

Saul annaspò per respirare e impiegò ogni energia di cui disponeva per raggiungere Ustinov, aiutandosi con le braccia e le gambe per arrivare là per primo, di corsa. Si tuffò, afferrò le pieghe della tuta isolante di Ustinov, e lottò per ottenere una presa sufficiente a trascinarla indietro.

— Rimanga immobile, dottor Lintz! — Era Vidor che lo stava chiamando. — Ce ne sono altri due alle sue spalle! La coperta elettrica deve aver fatto corto circuito. Quelli che non stanno mangiando Garner si stanno sparpagliando a ventaglio sul pavimento, adesso!

Saul non aveva mai provato niente di simile nei confronti di una creatura vivente, neppure contro i fanatici della folla che aveva raso al suolo il Technion. Ma in questo momento, comunque, bramava con tutto il suo essere poter uccidere. Fissò quelle orribili creature che si stavano rinserrando su di lui da ogni lato, e seppe cos'era l'odio.

Raccolse tra le braccia il tremante Ustinov. Cosa c'è che non va in quest'uomo? Pensavo che gli spaziali fossero fatti tutti di una stoffa più forte di questa.

Mio Dio, scommetto che è stato morso!

Ustinov non era pesante, naturalmente, non nella gravità di Halley. Ma la sua massa era quasi la stessa che era stata sulla Terra, e ciò rendeva ingombranti l'inerzia e il volume del russocanadese. Ancora stordito e disorientato, Saul sapeva che non era preparato a balzar fuori da lì, sorreggendo quel fardello poco maneggevole.

Una cosa o l'altra, però. Saltare o lanciare. Si rannicchiò.

— Te lo lancio! Tienti pronto!

— No! Aspetti! Ho quasi preparato una lampada…

— Non c'è tempo! — insistette Saul. Scattò come una molla, impiegando tutte le sue forze per scagliar via Ustinov. Quel corpo massiccio quasi esanime volò fuori dalle sue braccia, sorvolando il groviglio delle creature che si contorcevano e avevano fatto irruzione attraverso il pavimento di fibratessuto cercando calore.

Fu un buon lancio, ma il rinculo lo spinse indietro. Saul allungò il collo per guardare. E fu ovvio che avrebbe finito per atterrare fra due di quei polposi e famelici eterotrofi.

Stranamente, una parte di lui era più curiosa che preoccupata. Era una delle sue prime possibilità di guardare da vicino una delle halleyforme superiori senza che fosse già stata messa in salamoia per la dissezione. Quella più vicina mostrò di essersi accorta di lui agitando una bocca polposa bordata di rossi aghi luccicanti di ferronickel primordiale. La creatura non aveva nessun vero muso, ma Saul poteva percepire il suo sguardo puntato su di lui.

Probabilmente riesce a rintracciarmi grazie all'infrarosso pensò.

Erano davvero strane creature. Anche se, forse, non erano più strane di quei vermi che vivevano in profondità, negli sfiatatoi sottomarini, sulla Terra. Anch'essi vivevano nel buio totale, sotto immani pressioni idrostatiche, cibandosi dei batteri che trasformavano i solfati. Signore, la tua opera non smette mai di stupirmi.

Meravigliosa, sì. E misteriosa. Ma il brutto era brutto, e la morte la morte.

Frugò all'altezza della propria cintura, cercando qualcosa da scagliare, per cambiare la propria traiettoria, ma i cappi della cintura erano vuoti. Tutto quello che riuscì a fare, fu ruotare goffamente su se stesso, sempre continuando ad andare alla deriva verso quelle creature.

Senza alcun dubbio avrebbe potuto schiacciarne un buon numero a mani nude, ma non aveva nessun desiderio d'ingaggiare un corpo a corpo con esse se poteva evitarlo, non dopo l'agonia sofferta da Samuelson e Conti a causa delle loro ferite avvelenate.

Saul si torse su se stesso, come un gatto, riuscendo in qualche modo a portare i piedi in avanti. Lo stivale sinistro toccò, e quello destro scalciò obliquamente per compensare il movimento, colpendo un ondulante orifizio rivestito di denti raschianti. Vi fu un nauseante urto spiaccicato mentre slittava e ricominciava a rovesciarsi.

— Salta, Saul!

Era la sua unica possibilità. Ma mentre piegava le ginocchia, il dolore gli trafisse la caviglia sinistra e quella gamba cedette. Si girò di scatto per evitare di cadere dentro il brulichio dei vermi dalle mascelle spalancate, e nel farlo incespicò.

L'illusione del movimento lento lo aiutò quando atterrò sulla punta delle dita e in qualche modo camminò lungo il pavimento sulle mani, saltellando da un braccio all'altro per evitare quei maledetti affari. Non c'era nessun'altra maniera. Se si fosse fermato per girarsi o raccogliere le forze, l'avrebbero raggiunto.

Finalmente, parve che ci fosse uno spazio sgombro davanti a lui, dove avrebbe potuto flettere gli arti e spingerti davvero lontano dal suolo…

— Saul! — gridò qualcuno. — Chiudi gli occhi!

Udì un forte rumore raschiante.

Oh, magnifico! Proprio adesso che avevo bisogno di vedere dove stavo andando.

Proprio all'ultimo istante i suoi occhi si chiusero. L'ultima cosa che vide fu una massa sporca, a segmenti, di polposo tessuto color malva, che si voltava verso il suo calore, sfoderando un cerchio scintillante di aguzze pietre primordiali.

Poi il mondo scomparve nel fulgore. Saul urlò e le sue braccia si agitarono convulse mentre si spingeva lontano dal pavimento, andando alla deriva in direzione di chissà che cosa… Si coprì gli occhi con le braccia e si arrotolò a palla, sperando che la sua tuta spaziale lo proteggesse la prossima volta che fosse atterrato in mezzo a quelle creature fameliche.

Come contrappunto, quel lamento stridente s'innalzò ancora più forte quando un'altra lampada si unì alla prima da una diversa angolazione. Avvertì quel nuovo fulgore sotto forma di calore sulla sua pelle. Saul non riuscì ad aprire gli occhi neppure per quel tanto che bastava a cercar riparo dai raggi, progettati per essere visibili attraverso migliaia di chilometri di spazio aperto, contro le stelle vivide come diamanti.

Colpì di nuovo il suolo andando a fermarsi contro qualcosa di duro. Saul cercò di rimanere immobile; di non fare la minima mossa, e immaginò di essere un ghiacciolo.

— Saul? Qui è Virginia. Puoi essere più specifico? Cosa è successo? Tutt'a un tratto quei pick-up remoti nel colombario Uno hanno cessato di trasmettere.

Un'altra voce interloquì: — Lintz, Osborn, stiamo arrivando. In quattro, con spruzzatori e torce. Tempo di arrivo previsto, duecento secondi.

Allora Saul si rese conto che non dovevano essere passati più di un paio di minuti dall'istante in cui aveva riferito di quell'irruzione dei purpurei. Il tempo si era allungato a telescopio. La cavalleria stava arrivando, ma lui sarebbe riuscito a resistere abbastanza a lungo perché quell'aiuto servisse a qualcosa?

Più in là, su un lato, sentì lo spaziale Vidor che borbottava imprecazioni di sorpresa, per poi urlare nel suo microfono:

— Carl, Jim, l'ultravioletto intenso li fa scappare! Si dissolvono, se non riescono a uscire dalla radiazione abbastanza in fretta!

Saul giaceva arrotolato a palla, ma il suo respiro si era fatto meno affannoso. Se soltanto…

Vi fu un sonoro pop e il livello di quel doloroso fulgore che penetrava le sue palpebre serrate si dimezzò d'un tratto. Risuonò un'imprecazione, poi Vidor tornò a parlare:

— Una delle lampadine è appena scoppiata, ma credo non abbia più nessuna importanza. Sono tutti morti o scappati. Resisti, Saul. Ti porto un paio di occhialoni.

Un attimo dopo, Saul sentì una mano sulla sua spalla, e un'ombra oscurò quel fulgore solare che ancora rimaneva. Grato, con gli occhi ancora chiusi, sollevò la testa e aiutò Vidor a sistemare la protezione sulla parte alta del suo viso.

— Congratulazioni, Saul. Un'arma dannatamente buona.

Saul sbatté gli occhi attraverso le lacrime e lo sfarfallio delle macchie luminose, e vide il giovane spaziale che gli offriva la mano. Alzò la sua, e accettò l'aiuto per alzarsi in piedi.

— Uh, grazie. — Ma stava riflettendo su quante poche lampadine fossero rimaste. Tre erano già andate. Dovremo escogitare degli espedienti migliori di questo. Tanto per cominciare, non possiamo lavorare tutto il tempo con gli occhialoni…

I due uomini cominciarono ad avanzare con brevi saltelli, passando sopra i gusci purpurei raggrinziti fino a un buco carbonizzato nel rivestimento giallo del pavimento, dentro il quale erano rotolati i resti dello spaziale Garner, insieme alla coperta elettrica infelicemente scelta. Il tutto era finito dentro una stretta fenditura: era una faglia nella caverna alla quale nessuno aveva dato importanza quando la cavità era stata scelta e rivestita.

Non scavano attraverso il ghiaccio compatto! — sospirò Vidor. — Avevamo pensato che potessero farlo… che potessero colpire da qualsiasi punto. Che sollievo…

Saul era stato capace soltanto di fissare, sgomento, quel guazzabuglio di resti umani sparpagliati giù dentro quella ripida fenditura nel ghiaccio. Il giovane Vidor… sì, era fatto di una stoffa più dura.

— Si muovono lungo le vene a bassa densità, allora?

Vidor annuì. — Dovremo cercarne altre e sbarrarle, fondendole. So come fare.

Virginia mi ha fatto vedere le fotografie di alcune delle sue sculture ricordò Saul. Jim Vidor era un mago con il ghiaccio. Se c'era qualcuno che avrebbe saputo come fare a sigillare le cavità, quello era lui.

Arrivò un suono di voci dall'ingresso della Galleria J. Lo spaziale si voltò: — Sarà meglio che vada a prendere qualche occhialone per i ragazzi, o a spegnere quelle lampade.

Saul lo seguì. Comunque, non potevano far niente di più per il povero Garner. — Non dimenticarti la pomata — gli gridò. — Già così tu ed io ci prenderemo delle feroci scottature.

Malgrado il dolore alla caviglia e il tremito dovuto all'improvviso afflusso di adrenalina che adesso si stava dissolvendo, Saul si sentiva bene. Una porzione atavica del suo io pareva eccitata all'idea di aver superato gli ultimi minuti e di essere sopravvissuta. L'azione aveva i suoi vantaggi. C'erano alcune cose che non si potevano tenere in un laboratorio.

Con gli occhialoni infilati Joao Quiverian pareva una grande creatura notturna. — Farai meglio a dare un'occhiata a Ustinov — disse a Saul. — È in condizioni molto brutte.

Saul annuì. — Devo andare a prendere la mia borsa.

— Se ha dentro le stesse tossine che hanno fatto fuori Conti…

— Ci sono cose che posso tentare. Ma devo agire in fretta. Aiutami, Joao.

Anche se non potrò salvarlo, forse questa volta riusciremo a rallentare la reazione chimica quel tanto che basta per colombarizzarlo. Forse un giorno avremo un antidoto.

L'unica lampada rimasta continuava ad ardere, accompagnata dall'incessante stridore del segnale d'allarme.

Sotto quel bagliore, Saul raccolse la sua borsa nera e riprese, dopo tanti anni, la sua pratica di medico.

VIRGINIA

Fece scorrere le righe scritte il giorno prima e cercò di vederle spassionatamente. Questo era il suo intervallo di riposo e scrivere poesie le pareva il modo migliore per trascorrerlo, una fuga mentale più veloce dell'incessante, opprimente lavoro con i mech, piuttosto che starsene nel salone a sorbire caffè. Soprattutto perché con tutta probabilità là non ci sarebbe stato nessun altro; era certa che tutti quelli che non lavoravano stavano galleggiando immersi in un sonno esausto.

L'equipaggio, a norma di regolamento, avrebbe dovuto trascorrere la maggior parte del proprio tempo a letto nella ruota, dove la pseudogravità centrifuga poteva imitare in qualche modo i sottili flussi che evitavano gli squilibri della gravità zero. Ma i sopravvissuti avevano trovato dei cubicoli isolati liberi dalla poltiglia verde e avevano cercato di dormire meglio che potevano sul posto.

Adesso, la situazione della battaglia era meno dominata dal panico, ma sempre critica. Erano riusciti a ricacciare le infestazioni dai colombari e dalle centrali elettriche. Fondendo il ghiaccio dietro i punti più critici, avevano negato a quelle creature una facile via di accesso.

Lei avrebbe dovuto riposare, dormire… ma il sonno non voleva venire.

All'inferno l'esterno, la tetra realtà. Si tuffò nella sua poesia.

Capezzoli e ombelichi

il tuo pube spinge

e crea una faccia.

Confido

e confido e spingo

e ancora spingo.

Prendi tutta la mia pingue coscia,

ben ti accoglie, amico.

— Uhm — rifletté fra sé. — Artistico no. Terapia, forse.

CERTO RIVELA IL TENORE GENERALE DEI TUOI PENSIERI.

Delle lettere azzurro-verdi galleggiarono nell'olo sopra di lei.

— JonVon, questo è privato! Avrei dovuto scollegarmi.

MI SPIACE. NON SO COME DIRLO.

— Il tuo buonsenso dovrebbe… giusto, non è una caratteristica sopra la quale ho lavorato, vero?

ALCUNE DELLE MIE PERSONALITÀ SIMULATE CONOSCONO DELLE REGOLE, MA NON HO UNA COMPRENSIONE BASILARE DEL «BUONSENSO», FORSE NON SERVE AL LAVORO DI TUTTI I GIORNI?

— No, solo che non c'è stato il tempo… lascia perdere.

LE FACCENDE SESSUALI RICHIEDONO BUONSENSO?

— Sì, quando hai a che fare con gli esseri umani. In effetti sarebbe meglio che tu rimanessi zitto. Nessuno pensa che le macchine abbiano qualcosa da dire sul sesso.

CI SONO PROGRAMMI DI PSICANALISI CHE POSSO RICHIAMARE, SISTEMI ESPERTI CHE SI SONO DISTINTI NELLA DIAGNOSI…

No, JonVon! Lasciami andare avanti con la mia poesia.

POSSO OSSERVARE?

— Non posso certo impedirti di leggere i miei versi da due soldi, non è vero? È nei Manoscritti Generali.

POSSO NASCONDERE I RISULTATI NEI MIEI PROPRI BANCHI.

— Buona idea, davvero. Non voglio che nessuno incappi neanche per caso in questo.

Fissò lo schermo. L'intrusione di JonVon l'aveva imbarazzata. Mai prima di allora era stata così apertamente sessuale nei suoi scritti, e sentiva che la sua passione era una cosa intensamente privata, per Saul soltanto. Alle Hawaii gli uomini l'avevano giudicata un po' pudibonda.

Così, sei sempre stata un po' timidina in proposito, e allora? Devi superare questo blocco!

Fissò accigliata la poesia. Una tradizione vecchia di secoli imponeva che le poesie d'amore dovessero essere scritte con inchiostro scorrevole su spessa e lussuosa carta cremosa… non certo con lettere che brillavano nel vuoto. Oh, all'inferno la tradizione. Vediamo… non è che le mie cosce siano pingui, a esser sinceri… vale la pena salvare questa espressione per il ritmo?… Salta oltre e prova qualcos'altro…


Corpi rossi e allampanati

il tuo volto tutto d'ansia inciso

sopra di me: febbricitante, sì! amplifica la vita

follia protratta

due danzano schiena a schiena…

Presto!

tagliami il seno con la tua

barba di ferro

vai al punto.

Non ho mai temuto.

Mi sottometterò

niente disonore

prenderlo da te faccia a faccia

sudato, antiigienico

liscia, umida spinta

in quarantena

se devi

io sono di quella razza

che sguazza inghiotte

nella polvere

pistone di motore amore a valanga

oh professore

possessore.

Insegnami a vivere al presente

senza il passato remoto.

Le orbite non sono le sole cose

per realizzate un appuntamento tangenziale

con coraggioso disegno.

Rantolando e sapendo che è mio!

pelle coriacea accoglie il fatto

il mio ghiaccio si scioglie

ciascuna livida goccia

Non fermarti!

regno appiccicoso di fuoco e di miele

tritami, sorridimi, trovami, peccami


Si fermò. Il cuore le batteva con violenza.

STRUTTURA SINTATTICA…

— Chiudi il becco!

Virginia si slegò dalla branda, buttò da parte il collegamento accoppiato e si lanciò verso la porta.

DEVO IMMAGAZZINARE L'ORDINE?

— Buttalo… per quello che me ne frega!

Si mosse in fretta lungo i corridoi, le lunghe planate fra una scalciata e l'altra parevano durare per sempre. Ci sarebbero voluti soltanto pochi minuti per raggiungere il laboratorio di Saul, un tragitto impossibilmente breve, considerato quanto era parso irraggiungibile, quanto aveva sentito la sua mancanza.

Subito prima di curvare dentro il Pozzo Uno, che l'avrebbe condotta da lui, s'imbatté in Carl Osborn e Jim Vidor, i quali procedevano lungo il corridoio senza i caschi in testa. Entrambe le loro tute erano graffiate e macchiate di chiazze di sostanze chimiche. Il volto di Vidor era gonfio, trascurato, e i suoi occhi parevano vagare molto lontano. Stavano rimorchiando un corpo avvolto in un sudario…

— Chi…

— Quiverian — l'informò Carl. — Si è sentito male. E dobbiamo far presto, altrimenti morirà.

— Hi ho, hi ho — fece Vidor, in un penoso tentativo di umorismo. — Ai colombari andiam…

Virginia si aggrappò al passamano. — Dovremo… dovremo scongelare qualcuno.

— Giusto — annuì Carl, preoccupato. — Ne abbiamo quasi scongelati sei. Vuoi decidere chi sarà il prossimo?

— No, io… — Sapeva che avrebbe dovuto aiutarli, ma… — Vado a trovare Saul.

— È ancora off limits, salvo per le emergenze più gravi — l'avvertì Carl, rigido. Abbandonò il suo ritmo a lente scalciate e lasciò che il corpo esanime si fermasse. Vidor, che appariva sempre più stanco, compensò con una certa goffaggine il movimento sul suo lato.

— Ma voi ragazzi lo vedete spesso… Lavora al fianco di voi tutti!

— Sicuro, ma noi non siamo intimi con lui. Tu ed io lo sappiamo tutti e due quello che farete…

— Bada ai tuoi maledetti affari, Carl! — Sentì che stava diventando rossa in viso.

Carl si voltò… Era fin troppo ovvio che cercava di controllarsi. — Malenkov ha ribadito che Saul deve rimanere almeno in semiquarantena…

— Non credo che questo abbia più nessun significato, adesso che Malenkov sta morendo. È lui il nostro medico, adesso.

— Credo che sia una cattiva idea rischiare…

— Carl, sono pronta a correre i miei rischi.

— Allora stai lontana dal resto di noi — s'intromise Vidor, in tono severo. — Lintz è un tipo a posto, ma ugualmente non lascio che mi venga troppo vicino. Se lo tocchi, lo stesso vale per te.

Virginia lo fissò stupefatta. Vidor le era sempre piaciuto, ma adesso il volto dell'uomo era una maschera rigida, ostile e circospetta. Tirò il cavo del traino del comatoso Quiverian, e ricominciò a muoverlo. Ma la sua solita destrezza e la sicurezza non c'erano più e pareva che avesse problemi a concentrare le forze cosicché agissero in un'unica direzione. Pareva impacciato come una marmotta.

— Non preoccuparti, lo farò — esclamò Virginia, con rabbia. — Forse porrò me stessa in quarantena!

Si allontanò con una scalciata, senza preoccuparsi di guardarsi indietro. Diavolo, Vidor sembra peggio di Carl. Poi lasciò perdere quell'irritazione meglio che poteva.

Quando entrò nel laboratorio, Saul sollevò lo sguardo, sorpreso. Nel chiarore smaltato del laboratorio, il suo volto scarno e grigio s'illuminò di gioia. Virginia seppe di aver preso la giusta decisione.

— Non dovresti rischiare… — lui cominciò, senza troppa decisione.

Lei gli piombò addosso.

Al diavolo la poesia! pensò Virginia. Prenderò quello vero.

CARL

Jim Vidor non era di molto aiuto.

Tossiva, coprendosi la bocca con le mani, appoggiato contro la parete della sala di preparazione per l'animazione sospesa. Vidor era pallido, con la stessa screziata pastosità e la strana, rigida lucentezza che avevano afferrato Quiverian meno di due giorni prima.

Carl terminò di sistemare la rete di cavi alimentatori intorno al corpo di Quiverian e applicò le terminazioni adesive dei sensori. Ogni cosa pareva a posto, ma esaminò ancora una volta l'intera sequenza chimica e la disposizione dei circuiti. Non si era mai troppo prudenti. Un collegamento sbagliato e vi morivano fra le mani. Il computer impiegato nel monitoraggio avrebbe dovuto accorgersi degli errori, ma nel momento stesso in cui si cominciava ad affidarsi ai sistemi di rincalzo, bene, per quanto lo riguardava quello era l'inizio della fine.

A mano a mano che la crisi proseguiva, Carl si scopriva sempre più meticoloso. Era la sua maniera di controbilanciare la fatica.

— Il pH del sangue è stabilizzato. Il Q-10 metabolico è avviato. Tanto vale archiviarlo — disse Carl.

Vidor annuì, con gli occhi che gli lacrimavano, e mosse i piedi in avanti per aiutarlo. Insieme manovrarono il corpo per infilarlo nella cella del colombario, la chiusero e collegarono le pompe esterne. I banchi pieni di contenitori nella sala di preparazione formavano una sfera intorno a loro, cosicché lavoravano sotto una cupola glaciale. Nubi cotonose andavano pigramente alla deriva nelle correnti d'aria sopra la loro testa. Quelle celle del colombario erano state sfilate della Sekanina e avevano delle pompe di collegamento difformi. Per qualche ragione c'è sempre qualcosa che non viene completamente standardizzato durante una missione pensò Carl di cattivo umore. E tu poi devi passare gli anni a smanettare e a riadattare.

— Niente cerimonie, stavolta? — chiese Carl.

— Non me la sento — fu d'accordo Vidor.

Erano tutti troppo stanchi e logorati per rispettare le regole. — Vai, adesso, e riposati un po' — disse Carl, in tono cortese. Non che fosse davvero convinto che sarebbe servito a molto.

Immise Quiverian nei programmi di monitoraggio totale, mentre Vidor se ne andava, muovendosi come se le sue articolazioni fossero doloranti. Proprio come Quiverian pensò Carl. Ma nessuno di loro ha quell'esantema marrone che copriva completamente Samuelson. Sintomi diversi… o malattie diverse?

Non che ormai avesse più molta importanza. Con quel ritmo se ne sarebbero andati tutti nel giro di una settimana.

Il che significava che avrebbe dovuto cominciare subito qualche altra decolombarizzazione. Adesso.

Erano giunti a un punto cruciale. I sei che si stavano scongelando in infermeria non sarebbero stati sufficienti a gestire il nucleo di Halley, non mentre loro si riprendevano. Se la malattia avesse colpito Virginia, Saul, lui stesso, Lani… la spedizione sarebbe fallita. Incustoditi, i colombari avrebbero cominciato a malfunzionare uno dopo l'altro. Halley sarebbe diventata un cimitero di corpi congelati in orbita perpetua.

Digitò il proprio codice di controllo prioritario e si mise al lavoro. Alcuni semplici sistemi dovevano venir riscaldati, c'erano calcoli da fare, inventari di tarmaci da stilare. Carl aveva una certa esperienza delle procedure, acquisita durante la missione Encke. Lavorava meglio che poteva, facendo riferimento ai manuali tutte le volte che avevano dei dubbi. Saul Lintz poteva consigliarlo, se era assolutamente necessario: anche con le sue capacità arrugginite, Saul era pur sempre il dottore. Ma…

Ma cosa? Sì, lo so… non voglio chiamarlo. Non m'importa se non vedrò mai più quel bastardo. E so anche che si tratta soltanto di una infantile gelosia. Ma questo non mi facilita affatto le cose. Semmai il contrario, forse.

E comunque, era una buona idea che lui facesse un po' di pratica. Era probabile che fra qualche giorno avrebbe colombarizzato Saul. Mi auguro che Virginia non si prenda… qualunque cosa abbia lui.

Lavorava lentamente, con i pensieri impantanati nella melma. Doveva scrollarsi di dosso quell'umor nero, lo sapeva, altrimenti avrebbe commesso qualche stupido errore. La musica? Era press'a poco tutto quello che gli rimaneva, in quei giorni. Aveva ascoltato Mozart e Liszt e Haydn per sedici ore al giorno, l'unico modo per distanziare se stesso da quell'interminabile lavoro di pulizia spezzaschiena. E tutto il tempo a guardarsi le spalle, per vedere se un dannato purpureo non fosse penetrato attraverso l'isolante lì vicino, in attesa che lui lo sfiorasse, pronto a perforargli la tuta, bruciandola, iniettando dentro di lui il suo micidiale veleno…

— Carl!

Si girò di scatto, sorpreso da quella voce femminile. Virginia! Non era andata da lui malgrado tutto.

La vista di Lani che entrava nella sala di preparazione frantumò la sua improvvisa speranza.

— Ho sentito di Quiverian, ho pensato di scendere e… oh, l'hai già colombarizzato?

Carl annuì.

— Niente cerimonia?

— Non ero dell'umore. Jim non si sente molto bene, e una cerimonia da solo…

Lani lo studiò con espressione comprensiva. — Capisco.

— Forse possiamo incontrarci tutti, stasera, e stappare qualche birra… — Lasciò che la frase sgocciolasse via contrita, ricordando che loro due avevano quasi cominciato un idillio, qualche arco di vita prima. Era un po' di tempo che non ci aveva più pensato. Ogni giorno modificava in meglio la sua opinione di Lani, ma il suo polso batteva ancora per Virginia. Non che abbia importanza… Siamo tutti ridotti a pezzi.

Lani annuì con enfasi. — Sì, un po' di solidarietà di gruppo ci farebbe bene. Adesso sei tu il capo, Carl. Sta a te tenerci uniti.

Era stato il capo nominale per più di una settimana, anche se non aveva avuto il tempo di pensare in quel modo di se stesso. — Tutti e sei? Con due o tre che stanno male? Bell'equipaggio. Con metà del primo turno sparito in… quanto? Dieci giorni? No, meno. — Scosse la testa. — Le cose si stanno muovendo troppo in fretta.

Cosa avrebbe fatto il capitano Cruz che io non ho fatto? Cos'è che ho omesso?

— Sei stanco. — Gli appoggiò una mano sulla spalla, gliela batté con delicatezza. Come se fossi un grosso, stupido animale lui pensò. Be', in questo momento non sono granché meglio.

— Sono… sono contento che tu sia venuta.

— Anch'io. È ovvio che hai bisogno di aiuto.

— Ho cominciato a decolombarizzarne un altro paio.

— Non ce ne serviranno almeno una dozzina?

— È qui che mi serve aiuto. Ci serve gente in gamba ma… insomma, tu chi sceglieresti per ficcarlo dentro in questa casa della morte?

Lani annuì in silenzio, il suo volto era pensoso e assorto. Si chiese come se la stesse cavando emotivamente con quella minaccia sempre presente. Avrebbe potuto prendersi qualcosa da lui, o viceversa, in quello stesso momento. Non avevano nessuna idea di quali linee di propagazione seguissero quelle malattie.

— Non i miei amici…

Carl rimase sorpreso. — Non avevo pensato alla cosa in questo modo. Stavo pensando di scegliere quelli che so che possono reggere a questa situazione.

— Capisco. Prima di ogni altra cosa, volevo proteggere i miei amici; tu invece pensi di tirar fuori quelli di cui puoi fidarti. È per questo che tu sei adatto al comando, e io no.

Carl scrollò le spalle. Sapeva di non essere un vero capo, neppure remotamente simile al capitano Cruz. Faceva soltanto quello che gli sembrava ovvio. L'altro suo punto era giusto, comunque: era assai meno penoso vedere ammalarsi e morire delle persone relativamente estranee.

— Non mi piace dover prendere queste decisioni da solo. Io sono soltanto un comune spaziale. Questa è vita e morte, Cristo.

— Lo è.

In maniera impercettibile Lani si ritrasse da lui, mettendosi in disparte, il volto privo d'espressione e gli occhi guardinghi, in attesa dei suoi ordini. Non voleva la responsabilità. Neppure io la voglio.

— D'accordo. Devo dire al sistema quali celle deve cominciare a scaldare, altrimenti non potremo fare nessun passo avanti. — Si girò verso la grande consolle e cominciò a far scorrere le mani lungo l'elenco, sullo schermo, che mostrava le specializzazioni d'ogni singolo membro dell'equipaggio. Schiacciò il dito in due piccole depressioni accanto a due nomi.

— Jeffers e Sergeov — commentò, cupo. Poi riuscì a scoppiare in una risata dura e asciutta. — Ragazzi, se resteranno sorpresi!

SAUL

Basta così. Lascia tranquillo questo povero corpo. Saul si staccò dal tavolo operatorio e mise giù i suoi strumenti.

— Stacca il codice azzurro. Arresta le procedure di rianimazione — disse agli alti e affusolati med-mech raccolti intorno alla figura pallida e cerea che era stata Nicholas Mamenkov. — Mantenete l'ossigenazione tipo sei dei tessuti, e iniziate il preraffreddamento dell'infusione gliocemica per l'immaganizzamento terminale.

Era troppo tardi per «colombarizzare per malattia» il russo. La sua morte era penetrata troppo in profondità. Preparare il corpo meglio che poteva era la sola cosa a cui Saul poteva far ricorso, congelandolo nella speranza che un giorno sarebbe stata disponibile una cura, quando fosse stato scongelato.

L'unità principale produsse due bip. Saul, che aveva fissato con tristezza il suo defunto amico, sollevò lo sguardo.

— Sì? Qual è il problema?

RICHIESTA CHIARIFICAZIONE, DOTTORE — annunciò il med-mech. — PER FAVORE SCELGA PROFILO D'INFUSIONE E DI RAFFREDDAMENTO. INOLTRE LA COLOMBARIZZAZIONE TERMINALE RICHIEDE UN CERTIFICATO DI MORTE.

Saul annuì. Con delle capacità cliniche arrugginite come le sue, c'era da meravigliarsi che riuscisse a ricordarsi anche soltanto la giusta procedura generale.

— D'accordo, allora. Ident-voce: dottor Saul Lintz, cittadino della Confederazione Diasporica, settimo medico della spedizione Halley. Numero di codice… — Si premette le dita alle tempie. — Me lo sono dimenticato. Riempilo attingendo dall'archivio.

SÌ, DOTTORE — assentì prontamente la macchina.

— Certifico che il dottor Nicholas Malenkov, cittadino della Grande Russia, secondo medico della spedizione, è deceduto al di là di ogni possibilità di richiamo con i mezzi disponibili. Causa: massiccio danno neurale periferico dovuto a imperversante infezione non diagnosticata che ha attraversato la barriera cerebrale del sangue tre ore sono. I particolari e le analisi dei tessuti seguiranno in appendice.

«Paziente colombarizzato terminalmente oggi…»

Saul sollevò lo sguardo al proprio riflesso sul fianco del lucido mech… occhi pallidi, sì, stanchi. Più stanchi di quanto sembrava all'apparenza.

Qual è la data? Era ancora il novembre del 2061? Oppure era già dicembre?

Ho perso il compleanno di Miriam? Sono passati dieci anni da quando è morta a Gan Illana. Eppure sembra un altro secolo.

Talvolta gli pareva di continuare a combattere per una ragione soltanto, perché Virginia riuscisse ad arrivare a ventinove anni. Se fossero stati ancora vivi, fra sei mesi, per mettere un'altra candelina sulla sua torta, poi avrebbe trovato un altro buon motivo. Una cosa per volta.

— Riempi lo spazio della data. E scegli la procedura più comunemente usata per la colombarizzazione relativa ai casi di danni neurali — disse al mech.

SÌ, DOTTORE. — La macchina avrebbe consultato il mainframe della missione a bordo della Edmund Halley, e si sarebbe presa cura dei particolari.

C'erano assai poche probabilità che la scienza medica imparasse a capovolgere un trauma così massiccio fra ottant'anni, oltre alla capacità di scongelare corpi ridotti a solido ghiaccio. Comunque, doveva a Nick quella possibilità.

In ogni caso la colombarizzazione terminale non richiedeva la supervisione umana. Che lo facciano pure i mech. Se, quando andremo a casa, sarebbe meglio che le procedure usate per raffreddare e immagazzinare i corpi siano state il più standardizzate possibile.

Saul si girò per lasciare la sala del trattamento, allontanandosi dal ronzio del procedimento automatico. Quando la porta si richiuse con un sibilo, appoggiò la spalla contro la parete di fibratessuto. Si sentiva le braccia pesanti, perfino in quella sottile gravità. I seni nasali gli palpitavano.

E allora? si chiese fra sé. Cos'hai in mente di fare? Diventare una vera malattia e ammazzarmi? Oppure piantarla di rompermi le scatole e andartene via?

Quel dannato raffreddore continuava già da otto settimane! Durante tutta una vita infestata da piccoli gocciolanti attacchi causati da un virus dopo l'altro, non aveva mai, ma mai sofferto di qualcosa di veramente serio. Ma adesso quel sordo dolore continuo cominciava davvero a fare effetto.

Scosse la testa per schiarirsela. Decidetevi, dannazione! disse ai batteri, non importandogli al momento se erano pestilenze cometarie o più banali importazioni della calda e feconda Terra. In quel momento Saul non trovava niente di contrario alla scienza in questa personificazione dei suoi parassiti. Li odiava.

Povero Nick Malenkov, l'uomo che era stato quasi sul punto di colombarizzare gli è sopravvissuto. Cercò di ricordare quel grosso, brillante orso di un russo, così come l'aveva conosciuto in vita, ma non gli riuscì. Tutto quello che riuscì a vedere fu la pallida mollezza delle guance non animate dalle emozioni… il vuoto di quegli occhi dietro i quali non c'era più una mente.

Oh, Signore pregò, non lasciare che niente di simile accada a Virginia.

Due giorni prima, dopo essere riuscita a scavalcare ogni divieto in codice, era riuscita a penetrare nella sua stanza e, a voler definire la cosa con precisione, aveva commesso spudoratamente un vero e proprio stupro. Le deboli proteste di Saul erano state soffocate sotto il corpo caldo di lei, la sua bocca avvampante, mentre condivideva con lui, in un solo attimo, qualunque microfauna lui avesse posseduto, mettendo in tal modo fine a qualunque altra disquisizione sulla necessità di proteggerla dal contagio.

Una donna decisa. Da allora, non aveva praticamente più lasciato il suo fianco, salvo per i turni di quattordici ore, naturalmente. E nonostante qualche preoccupazione, Saul non poteva nascondere la sua felicità.

È stata lei a scegliere, pensò. E Carl Osborn prima o poi dovrà accettarlo.

Ricevette un segnale dai Mech nella camera di recupero. Finì di vestirsi ed entrò nel compartimento. Qualcuno era stato davvero risvegliato. Si trattava di Bethany Oakes.

— Saul…? — La sua voce si udiva appena.

— Sì, Bethany. Sono io, Saul Lintz. — Si chinò su di lei.

— Abbiamo… — inghiottì e sorrise debolmente. — Abbiamo già raggiunto l'afelio?

Saul esitò. Naturale. Il comandante in seconda della spedizione avrebbe dovuto essere decolombarizzato solo fra trentatré anni, e cioè quando la cometa avesse quasi raggiunto il punto più lontano dal Sole, e sarebbero allora iniziate le manovre per il successivo avvicinamento a Giove.

Ma come trovare il modo per dirle che erano passati solo trentatré giorni!

Saul cercò di sorridere in modo rassicurante. — No, Betty, non ancora…

Загрузка...