PARTE PRIMA Chiba City Blues

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Il cielo sopra il porto era del colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto.

— Non è che mi faccio — disse qualcuno mentre Case si faceva largo a spintoni tra la calca per infilarsi dentro il Chat. — Solo che all’improvviso il mio corpo ha una drastica carenza di droga. — Era un accento da Sprawl, in una delle espressioni più tipiche dello Sprawl. Il Chatsubo era un bar per espatriati di professione: potevi andarci a bere per una settimana di seguito senza mai sentire due sole parole in giapponese.

Ratz si stava occupando del bar, e il suo braccio meccanico si muoveva con scatti sempre uguali mentre riempiva un vassoio di Kirin alla spina. Appena vide Case gli sorrise. I suoi denti erano un mosaico di acciaio dell’Europa orientale e di carie. Case trovò un posto al banco, fra l’improbabile abbronzatura di una delle puttane di Lonny Zone e l’inamidata uniforme della marina di un africano allampanato, i cui zigomi erano una successione regolare di cicatrici tribali.

— Wage è appena passato con due scagnozzi — l’informò Ratz, spingendo una spina lungo il banco con la mano buona. — C’entri qualcosa, Case?

Case si strinse nelle spalle. La ragazza alla sua destra ridacchiò e gli diede di gomito.

Il sorriso del barista si allargò vieppiù. La sua bruttezza era leggendaria. In un’epoca in cui la bellezza era alla portata di tutte le tasche, c’era qualcosa di nobiliare nel fatto che a lui mancasse. Il braccio d’epoca cigolò quando Ratz si allungò a prendere un altro boccale. Era una protesi militare russa, o manipolatore a sette funzioni con feedback di forza, racchiuso in un tozzo guscio di plastica rosa. — Tu sei troppo artistoide, Herr Case — grugnì Ratz. Quel bramito era il suo equivalente d’una risata. Poi si grattò con l’artiglio rosa la pancia sporgente sotto la camicia bianca. — Tu sei l’artista delle trovate divertenti.

— Perché no? — replicò Case, sorseggiando la sua birra. — Qualcuno deve pur essere divertente, da queste parti. Tu non lo sei per un cazzo.

La risata della puttana salì di un’ottava.

— E neppure tu, sorella. Perciò smamma, chiaro? Zone è un mio carissimo amico.

La ragazza fissò Case dritto negli occhi, e senza quasi muovere le labbra produsse il rumore sommesso d’uno sputo. Ma batté in ritirata.

— Cristo santo! — esclamò Case. — Ma che razza di locale di merda gestisci? Non si riesce neppure a farsi un bicchiere in pace.

— Ah — fece Ratz, asciugando con uno straccio il ripiano del banco costellato di cicatrici. — Zone mi passa una percentuale. Te, ti lascio lavorare qui soltanto perché fai divertire il prossimo.

Mentre Case afferrava la sua birra, calò uno di quegli strani intervalli di silenzio, come se centinaia di conversazioni scollegate fossero arrivate simultaneamente alla medesima pausa. Poi la risatina della puttanella risuonò di nuovo, arricchita da una punta di isteria.

Ratz grugnì: — È passato un angelo.

— I cinesi — tuonò un australiano sbronzo. — Quei maledetti cinesi che hanno inventato la giunzione neurale… Darei un occhio per un lavoretto sui nervi, in qualunque istante. Il sistema alla grande, amico…

— Anche questo - bofonchiò Case rivolto al suo bicchiere, con tutta l’amarezza che d’un tratto saliva di colpo come uno sbocco di bile. — Sì, anche queste stronzate mi tocca sentire.


I giapponesi si erano scordati più neurochirurgia di quanta i cinesi ne avessero mai conosciuta. Le cliniche abusive di Chiba erano all’avanguardia, interi protocolli venivano soppiantati da uno nuovo da un mese all’altro. E tuttavia non potevano ancora riparare il danno che lui aveva riportato in quell’albergo di Memphis.

Era qui da un anno e sognava ancora il cyberspazio, ma la speranza sfumava ogni notte, con tutto lo speed che aveva incamerato, con tutte le vie traverse e le scorciatoie che aveva tentato a Night City, e ancora adesso vedeva la matrice durante il sonno, reticoli luminosi di logica dispiegata attraverso quel vuoto incolore…

Adesso era lunga e difficile la strada per tornare a casa, allo Sprawl, dall’altra parte del Pacifico, e lui non era tipo da consolle, non era un cowboy del cyberspazio. Era solo un dritto come tanti che cercava di restare a galla. Ma lì, nella notte giapponese, i sogni arrivavano come in un rituale vudù in diretta, e lui urlava, urlava nel sonno, e si svegliava da solo nel buio, raggomitolato nella sua capsula in uno di quegli alberghi-bara, con le mani che artigliavano le piastre del letto, la termopiuma serrata tra le dita, cercando di raggiungere una consolle che non c’era.


— Ho visto la tua ragazza ieri sera — disse Ratz, passando a Case la sua seconda Kirin.

— Non ho nessuna ragazza — rispose lui, e bevve.

— Linda Lee.

Case scosse il capo.

— Niente ragazza? Niente? Soltanto lavoro, eh, artista? Dedizione assoluta al commercio? — I minuscoli occhi castani del barista erano affossati nella pelle rugosa. — Mi sa che mi piacevi di più, con lei. Ridevi di più. Adesso una di queste sere farai troppo l’artista e finirai nei serbatoi della clinica, parti di ricambio.

— Mi spezzi il cuore, Ratz. — Finì la birra, pagò e se ne andò, le spalle strette ingobbite sotto il nylon kaki chiazzato di pioggia dell’impermeabile. Mentre si faceva strada tra la folla di Ninsei, sentì l’odore rancido del proprio sudore.


Case aveva ventiquattro anni. A ventidue era un cowboy, un pirata del software, uno dei più bravi nello Sprawl. Era stato addestrato dai migliori in assoluto, da McCoy Pauley e Bobby Quine, leggende del ramo. Aveva operato in un trip quasi permanente di adrenalina, un effetto collaterale della giovinezza e dell’efficienza, collegato a un deck da cyberspazio su misura che proiettava la sua coscienza disincarnata in un’allucinazione consensuale: la matrice. Ladro, aveva lavorato per altri ladri più ricchi, che gli avevano fornito l’arcano software per penetrare le brillanti difese innalzate dalle reti delle multinazionali, per aprirsi un varco in banche-dati pressoché sterminate.

Aveva commesso l’errore classico, quello che aveva giurato di non commettere mai. Aveva rubato ai suoi datori di lavoro. Aveva tenuto qualcosa per sé tentando di piazzarlo attraverso un ricettatore ad Amsterdam. Non aveva ancora capito come fossero riusciti a scoprirlo, non che adesso avesse molta importanza. Si era aspettato di morire, in quei giorni, ma loro si erano limitati a sorridere. Naturalmente gli avevano detto che era il benvenuto… benvenuto alla grana. E ne avrebbe avuto bisogno di grana. Perché, sempre sorridendo, avrebbero fatto in modo che non fosse più in grado di lavorare.

Gli avevano azzoppato il sistema nervoso con una micotossina russa risalente ai tempi della guerra.

Legato a un letto, in un albergo di Memphis, con il suo talento che veniva bruciato micron dopo micron, era rimasto in preda alle allucinazioni per trenta ore.

Il danno era microscopico, subdolo, e completo.

Per Case, che viveva per l’euforia incorporea del cyberspazio, era stata la Cacciata dal paradiso. Nei bar che aveva frequentato come il drago fra i cowboy, l’atteggiamento elitario comportava un certo disinvolto disprezzo per la carne. Il corpo era carne. Case era precipitato nella prigione della propria carne.


Il totale dei suoi averi era stato rapidamente convertito in nuovi yen, una grossa mazzetta della vecchia valuta cartacea che circolava senza sosta attraverso i circuiti chiusi dei borsari neri del mondo, come le conchiglie degli isolani delle Trobriand. Era difficile trattare affari puliti con il contante nello Sprawl, in Giappone era già illegale.

In Giappone, aveva saputo con assoluta certezza, avrebbe trovato la sua terapia. A Chiba. O in una clinica legale oppure nel sottobosco della medicina abusiva. Sinonimo d’innesti, giunzioni neurali e microbionica, Chiba era una calamità per le sottoculture tecno-criminali dello Sprawl.

A Chiba aveva visto svanire in due mesi di consulti e di esami i suoi nuovi yen. Gli esperti delle cliniche clandestine, la sua ultima speranza, avevano ammirato la maestria con cui l’avevano menomato, poi avevano scosso lentamente la testa.

Adesso dormiva negli alberghi-bara più economici, quelli vicini al porto, alla luce dei riflettori alogeni che rischiaravano i moli tutta la notte come fossero enormi palcoscenici, là dove non si potevano vedere le luci di Tokyo a causa del bagliore del cielo televisivo, neppure il torreggiante ologramma della Fuji Electric Company, e la baia di Tokyo era una nera distesa in cui i gabbiani volteggiavano sopra masse di bianco polistirolo espanso alla deriva. Dietro al porto iniziava la città, le cupole delle fabbriche dominate dagli enormi cubi delle arcologie delle multinazionali. Il porto e la città erano separati da una stretta linea di confine fatta di strade più vecchie, un’area che non aveva un nome ufficiale. Night City, con Ninsei nel suo cuore. Durante il giorno i bar di Ninsei erano chiusi e anonimi, i neon spenti, gli ologrammi inerti, in attesa sotto il velenoso cielo argento.


Due isolati a ovest del Chat, in un locale chiamato Jarre de The, Case mandò giù la prima pillola della notte con un doppio espresso. Era un ottagono rosa, un tipo molto potente di dexe brasiliana che aveva comperato da una delle ragazze di Zone.

Lo Jarre aveva le pareti rivestite di specchi, ogni pannello incorniciato da neon rosso.

Sulle prime, trovandosi solo a Chiba, con pochi soldi e meno speranze di trovare una cura, s’era lasciato prendere da un orgasmo irrefrenabile e aveva tentato di procurarsi denaro fresco con una gelida determinazione che gli era sembrata appartenere a qualcun altro. Durante il primo mese aveva ucciso due uomini e una donna per somme che fino a un anno prima gli sarebbero parse irrisorie. Ninsei l’aveva logorato al punto che la strada stessa gli era parsa l’estrinsecazione di una pulsione di morte, un veleno nascosto che non aveva mai saputo di portare con sé.

Night City era come un esperimento deragliato di darwinismo sociale, concepito da un ricercatore annoiato che tenesse un pollice in permanenza sul pulsante dell’avanti-veloce. Se smetti un attimo di farti largo a spintoni, affondi senza lasciare traccia; muoviti un po’ troppo alla svelta e finirai per spezzare la fragile tensione di superficie della borsa nera; in entrambi i casi sparirai senza che di te rimanga traccia alcuna, salvo un vago ricordo nella mente di un’istituzione come Ratz, anche se il cuore, i polmoni o i reni potranno sopravvivere al servizio di qualche sconosciuto fornito di un sacco di nuovi yen per i serbatoi delle cliniche.

Qui gli affari erano un costante ronzio subliminale, e la morte la punizione accettata per la pigrizia, la negligenza, la mancanza di grazia, l’incapacità di rispettare le esigenze di un intricato protocollo.

Solo a un tavolo dello Jarre de The, con il piccolo ottagono che cominciava a fare effetto, il sudore come punte di spillo che cominciavano a imperlargli il palmo delle mani, conscio d’un tratto del pizzicore d’ogni singolo pelo sulle braccia e sul torace, Case capì di aver cominciato in un momento imprecisato un gioco con se stesso, un gioco molto antico, senza nome, un solitario finale.

Non girava più armato, non prendeva più le precauzioni basilari. Gestiva gli affari più rapidi e spregiudicati sulla pubblica piazza e aveva ormai la fama di uno che riesce a ottenere qualunque cosa. Una parte di lui sapeva che la parabola della propria autodistruzione appariva d’una ovvietà abbagliante ai suoi clienti, i quali diventavano sempre più rari, ma quella stessa parte di lui si crogiolava nella consapevolezza che era soltanto questione di tempo. E quella era la parte, gongolante nell’attesa della morte, che maggiormente odiava il ricordo di Linda Lee.

L’aveva trovata, in una sera di pioggia, in una sala giochi.

Sotto fantasmi di vivida luce che ardevano in mezzo alla nebbiolina azzurra del fumo delle sigarette, ologrammi di Wizard’s Castle, Tank War Europa, New York Skyline… E adesso la ricordava in quel modo, il volto bagnato dall’incessante luce al laser, i lineamenti ridotti a un codice: gli zigomi che avvampavano scarlatti mentre il castello del mago bruciava, la fronte s’inondava di azzurro quando Monaco cadeva durante Tank War, la bocca dipinta d’oro fuso quando un cursore planante strisciava contro la parete d’un canyon di grattacieli, sprizzando scintille. Quella sera lui era al settimo cielo grazie a un pane di ketamina contrattato per conto di Wage e in viaggio per Yokohama, con i soldi già in tasca. S’era infilato là sotto per ripararsi dalla pioggia tiepida che sfrigolava sui marciapiedi di Ninsei, e per qualche motivo quella faccia, fra le decine impietrite davanti alle consolle, smarrita nel gioco, l’aveva colpito. La sua espressione in quel momento era la stessa che avrebbe visto, molte ore più tardi, sul suo volto addormentato in un albergo-bara dalle parti del porto, il labbro superiore simile alla linea che i bambini disegnano per raffigurare un uccello in volo.

Una volta attraversata la sala per portarsi accanto a lei, in tiro per l’affare che aveva appena concluso, l’aveva vista sollevare lo sguardo. Occhi grigi cerchiati da una sbavatura nera di kajal. Gli occhi di un animale inchiodato dai fanali di un veicolo in arrivo.

La loro notte insieme protrattasi fino al mattino, fino ai biglietti all’hoverporto e al suo primo viaggio attraverso la baia. La pioggia aveva continuato a cadere, lungo Harajuku, formando perle sulla sua giacca di plastica, mentre i bambini di Tokyo passavano intruppati con mocassini bianchi e mantelline aderenti davanti alle boutique famose, fino a quando non si era trovata con lui in mezzo al baccano di mezzanotte di una sala pachinko e gli aveva tenuto la mano come può fare un bambino.

C’era voluto un mese al guazzabuglio di droghe e di tensioni in mezzo alle quali Case viveva per trasformare quegli occhi perpetuamente sorpresi in liquidi pozzi di bisogno riflesso. Lui aveva osservato quella personalità frammentarsi, staccarsi come grossi pezzi d’iceberg, tante schegge galleggianti che andavano alla deriva, e alla fine aveva visto la cruda necessità, la famelica armatura della dipendenza. L’aveva osservata cercare il prossimo buco con una spasmodica concentrazione che gli ricordava le mantidi in vendita sulle bancarelle lungo la Shiga, accanto a vasche di carpe azzurre mutanti e grilli imprigionati nelle gabbiette di bambù.

Fissò l’anello nero lasciato dai fondi di caffè nella tazza vuota. Vibrava davanti ai suoi occhi a causa dello speed che s’era sparato. Il bruno laminato della superficie del tavolo era opaco a causa della patina di graffi. Con la dexe che gli stava salendo lungo la spina dorsale, ebbe la precisa consapevolezza del numero degli urti e dei colpi necessari a creare una patina del genere. Lo Jarre era arredato con lo stile antiquato e anonimo del secolo precedente, uno strano miscuglio di giapponese tradizionale e pallido vinile milanese, ma ogni cosa pareva coperta da una pellicola sottile, come se i nervi malati di un milione di clienti avessero in qualche modo aggredito le, un tempo lucide, superfici a specchio, lasciando ogni ripiano annebbiato da qualcosa che non avrebbe mai più potuto essere rimosso.

— Ehi, Case, amico mio…

Quando Case sollevò lo sguardo, incontrò un paio d’occhi grigi cerchiati di ombretto. Indossava una mimetica orbitale francese sbiadita e un paio di scarpette da tennis bianche, nuove fiammanti.

— Ti stavo cercando, amico. — Prese posto sulla sedia di fronte, i gomiti sul tavolo. Le maniche della tuta azzurra con la cerniera erano state strappate all’altezza delle spalle. Lui controllò automaticamente le braccia cercando i segni dell’ago. — Vuoi una sigaretta?

Lei pescò da una tasca all’altezza della caviglia un pacchetto accartocciato di Yeheyuan col filtro e gliene offrì una. Lui la prese, lasciò che Linda gliela accendesse con un tubo di plastica rossa. — Dormi bene, Case? Mi sembri stanco. — Il suo accento la situava a sud lungo lo Sprawl, verso Atlanta. La pelle sotto gli occhi era pallida e malaticcia, ma la carne sembrava ancora liscia e soda. Aveva vent’anni. Nuove rughe di dolore cominciavano a incidersi in permanenza agli angoli della bocca. I capelli scuri erano pettinati all’indietro, tenuti insieme da un nastro di seta stampata. Il motivo poteva rappresentare dei microcircuiti oppure la pianta di una città.

— No, se ricordo di prendere le mie pillole — replicò Case mentre si sentiva travolgere da un’ondata palpabile di nostalgia, libidine e solitudine in arrivo sulla lunghezza d’onda dell’amfetamina. Ricordava l’odore della sua pelle nel buio surriscaldato d’una bara vicino al porto, le sue dita intrecciate dietro al fondoschiena.

Tutta la carne, pensò, e tutto quello che la carne vuole.

— Wage — disse lei, socchiudendo gli occhi. — Wage vorrebbe vederti con un buco in fronte. — Accese la propria sigaretta.

— Chi l’ha detto? Ratz? Hai parlato con Ratz?

— No, Mona… Il suo nuovo ganzo è uno dei ragazzi di Wage.

— Non gli debbo abbastanza grana. E se mi fa fuori, i soldi non li vede più. — Case scrollò le spalle.

— Ormai c’è troppa gente che gli deve grana, Case. Forse tu gli puoi servire da esempio. Dico sul serio, farai meglio a stare attento.

— Sicuro. E tu… Linda? Hai dove dormire?

— Dormire? — Lei scrollò la testa. — Sicuro, Case. — La ragazza rabbrividì, quindi si piegò in avanti sul tavolo. Il suo volto era coperto da una pellicola di sudore.

— Tieni — disse lui, e affondò la mano nel giubbotto, emergendone con un cinquanta spiegazzato che lisciò automaticamente sotto il tavolo, piegò in quattro e le passò.

— Ne hai più bisogno tu, tesoro. Farai meglio ad allungarli a Wage. — Adesso c’era qualcosa in quegli occhi grigi che non riusciva a interpretare, qualcosa che non vi aveva mai visto prima.

— Gli devo molto di più. Tienili. Ne ho altri in arrivo — mentì mentre vedeva i nuovi yen sparire in una tasca con la cerniera.

— Incassa i tuoi soldi, Case, e poi corri da Wage, in fretta.

— Ci vediamo, Linda — disse lui, alzandosi in piedi.

— Sicuro. — Un millimetro di bianco comparve sotto entrambe le pupille della ragazza. Sanpaku. — Guardati le spalle, amico.

Lui annuì, ansioso di andarsene.

Si girò mentre la porta di plastica gli si chiudeva alle spalle, e vide i suoi occhi riflessi in una gabbia di neon rosso.


Venerdì sera a Ninsei.

Passò davanti alle bancarelle che servivano spiedini di pollo, ai “saloni di bellezza”, poi davanti a un caffè chiamato Beautiful Girl, al frastuono elettronico di una sala giochi. Si scostò per lasciar passare un sarariman in completo scuro, intravedendo il marchio della Mitsubishi-Genetech tatuato sul dorso della mano destra dell’uomo.

Era autentico? Se lo era, l’amico andava in cerca di guai. Se non lo era, ben gli stava. Gli impiegati della M-G al di sopra di un certo livello erano impiantati con microprocessori di concezione avanzata che controllavano il livello del mutageno in circolo. Congegni del genere erano più che sufficienti per farsi rapire a Night City e finire dritti in una clinica clandestina.

Il sarariman era un giapponese, ma la folla di Ninsei era una folla di stranieri. Gruppi di marinai saliti dal porto, solitari turisti dall’aria tesa in caccia di piaceri che nessuna guida elencava, gorilla dello Sprawl che mettevano in mostra innesti e impianti, e una dozzina di specie diverse di trafficanti, tutti che sciamavano per le strade in una danza di desiderio e raggiri.

C’erano innumerevoli teorie per spiegare come mai Chiba City tollerasse l’enclave di Ninsei, ma Case propendeva per l’idea che la Yakuza conservasse quel luogo come una specie di parco a tema storico, per ricordare le sue umili origini, ma trovava anche un certo buon senso nell’ipotesi che le tecnologie fiorenti richiedessero zone al di là della legge, che Night City non fosse lì per i suoi abitanti, ma in realtà fosse un campetto da gioco volutamente incontrollato, destinato alla tecnologia stessa.

Alzando lo sguardo sulle luci si chiese se Linda non avesse per caso ragione. Wage l’avrebbe davvero ucciso per dare un esempio? Non aveva molto senso. Ma d’altronde Wage commerciava campioni biologici messi al bando, e dicevano che bisognava esser pazzi davvero per farlo. Linda aveva detto che Wage lo voleva morto. L’idea che s’era fatto Case della dinamica dei traffici condotti per strada era che né il compratore, né il venditore, in effetti, avevano bisogno di lui. Il lavoro del mediatore consiste essenzialmente, nel fare di sé un male necessario. La discutibile nicchia che Case s’era scavato nell’ecologia criminale di Night City era stata aperta a colpi di menzogne, racimolata una notte per volta a suon di tradimenti. Adesso, sentendo che le sue pareti cominciavano a sgretolarsi, barcollava sull’orlo d’una strana euforia.

Una settimana prima aveva ritardato il trasferimento di un estratto ghiandolare sintetico, vendendolo al dettaglio con un margine di guadagno più ampio del solito. Sapeva che a Wage la cosa non era andata giù. Wage era il suo fornitore principale, nove anni a Chiba e uno dei pochi spacciatori gaijin che fosse riuscito a forgiare dei contatti con la struttura criminale rigidamente stratificata al di là dei confini di Night City. I materiali genetici e gli ormoni arrivavano col contagocce fino a Ninsei seguendo una complessa cascata di facciate ufficiali e d’intermediari all’oscuro di tutto. In qualche modo, in passato, Wage era riuscito a risalire la trafila, e adesso godeva di contatti stabili in una dozzina di città.

Case si trovò a guardare dentro la vetrina d’un negozio dove vendevano piccoli oggetti da marinai: orologi, coltelli a scatto, accendini, VTR tascabili, consolle per giocare a simstim, catene manriki bilanciate e shuriken. Le shuriken l’avevano sempre affascinato, stelle d’acciaio con le punte acuminate come coltelli. Alcune erano cromate, altre nere, altre trattate in superficie in modo da risultare iridescenti come una chiazza oleosa sull’acqua. Ma erano le stelle al cromo a catturare il suo sguardo. Erano montate su pelle scarlatta di ultracamoscio tramite cappi di nylon quasi invisibile, e il loro centro portava impressi draghi o i simboli yin e yang. Riflettevano, distorcendola, la luce delle insegne al neon della strada. A Case venne da pensare che quelle erano le stelle sotto le quali viaggiava, il suo destino scritto in una costellazione al cromo da due soldi.

— Julie — disse, rivolto alle sue stelle. — È giunto il momento di passare a trovare il vecchio Julie. Lui lo saprà.


Julius Deane aveva centotrentacinque anni, e il suo metabolismo veniva alterato a cadenza settimanale da un autentico patrimonio in siero e ormoni. La sua principale barriera contro l’invecchiamento era un pellegrinaggio annuale fino a Tokyo, dove i chirurghi genetici reimpostavano il suo codice DNA, un procedimento non reperibile a Chiba. Poi volava a Hong Kong, dove ordinava vestiti e camicie per tutto l’anno. Asessuato e dotato di una pazienza sovrumana, pareva trovare la sua principale gratificazione nella dedizione a forme esoteriche di venerazione per le arti sartoriali. Case non l’aveva mai visto indossare due volte lo stesso vestito, malgrado il suo guardaroba sembrasse consistere interamente di meticolose ricostruzioni di indumenti del secolo precedente. Ostentava lenti da vista incastonate su un’esile montatura d’oro, molate da sottili lastre di quarzo rosa sintetico e levigate a smusso come gli specchi di una casa di bambola vittoriana.

I suoi uffici erano alloggiati in un magazzino dietro Ninsei, parte del quale pareva essere stato arredato anni prima in modo sommario con una collezione accumulata a casaccio di mobili europei, quasi che Deane avesse avuto l’intenzione, un tempo, di usare quel posto come propria fissa dimora. Librerie in stile neoazteco raccoglievano la polvere contro una parete della stanza in cui Case stava aspettando. Un paio di bulbose lampade da tavolo stile Disney erano appollaiate goffamente su un tavolinetto alla Kandinskij, in acciaio laccato di rosso. Un orologio alla Dalì era appeso al muro tra gli scaffali, e il suo quadrante distorto sembrava colare fino al pavimento di nudo cemento. Le lancette erano ologrammi che si alteravano in modo da restare in sincrono con le deformazioni del quadrante a mano a mano che ruotavano, ma non indicavano mai l’ora esatta. La stanza era piena zeppa di cassette in fibra di vetro bianca da cui esalava il sentore pungente dello zenzero conservato.

— Sembri pulito, figliolo — disse la voce incorporea di Deane. — Entra pure.

Le serrature magnetiche scattarono con un tonfo tutt’intorno alla massiccia porta di finto palissandro alla sinistra degli scaffali. Sulla plastica campeggiava la scritta: JULIUS DEANE IMPORT-EXPORT in maiuscole autoadesive scollate. I mobili sparpagliati nel raffazzonato atrio di Deane suggerivano la fine del secolo scorso, l’ufficio invece pareva appartenere a un’epoca ancora antecedente.

Il volto roseo privo di rughe di Deane fissò Case da una pozza di luce proiettata da un’antica lampada di ottone con un paralume rettangolare di vetro verde scuro. L’importatore era asserragliato dietro un’enorme scrivania d’acciaio verniciato, fiancheggiata su entrambi i lati da altissime cassettiere d’una qualche specie di legno chiaro. Il genere di mobilia, a parere di Case, usata un tempo per archiviare documenti cartacei d’un qualche tipo. Il ripiano della scrivania era disseminato di cassette, tabulati ingialliti e vari pezzi d’una macchina da scrivere meccanica, un marchingegno che evidentemente Deane non riusciva mai a trovare il tempo di rimettere insieme.

— Qual buon vento ti porta, ragazzo? — chiese il padrone di casa, offrendo a Case un dolcetto avvolto in un incarto a scacchi azzurri e bianchi. — Prova una di queste, Tìng Ting Djahe, sono le migliori. — Case rifiutò lo zenzero, prese posto su una poltroncina girevole di legno dall’ampio schienale e fece scorrere il pollice lungo la cucitura sbiadita di una gamba dei jeans neri. — Julie, ho sentito che Wage vuole farmi fuori.

— Ah, capisco. E dove l’hai sentito, se mi è concesso?

— Voci…

— Voci — ripeté Deane, parlando con una caramella allo zenzero in bocca. — Che genere di voci? Amici?

Case annuì.

— Non è sempre facile capire chi sono gli amici, vero?

— Gli devo un po’ di soldi, a Wage… Ti ha detto niente, Deane?

— Non ci sentiamo da un tot. — Poi Deane sospirò. — Se lo sapessi, naturalmente, potrei anche non essere nella condizione di dirtelo. Le cose sono quelle che sono… capisci.

— Le cose.

— Quello è un contatto importante, Case.

— Già. Vuole uccidermi, Julie?

— Non che io sappia. — Deane scrollò le spalle. Avrebbero potuto benissimo discutere del prezzo dello zenzero. — Nel caso dovesse dimostrarsi una voce infondata, figliolo, torna qui da me fra una settimana o giù di lì e ti farò entrare in un affaruccio con quel tizio di Singapore.

— Nan Hai Hotel, Bencoolen Street?

— Acqua in bocca, figliolo. — Deane lo fissò sogghignando. La sua scrivania d’acciaio era letteralmente straboccante di apparecchiature antispionaggio.

— Ci vediamo, Julie. Salutami Wage.

Le dita di Deane scattarono ad accarezzare il nodo perfetto della pallida cravatta di seta.

Case era a meno di un isolato dall’ufficio di Deane quando fu colto dall’intima consapevolezza di avere qualcuno alle calcagna, molto vicino.

Case dava per scontato che fosse indispensabile coltivare una moderata paranoia. Il trucco consisteva nel non consentire che sfuggisse al suo controllo. Ma poteva essere un’impresa improba dietro una svalangata di ottagoni. Lottò contro l’improvvisa scarica di adrenalina e compose i tratti affilati del volto in una maschera di annoiato disinteresse, fingendo che fosse la folla a trascinarlo con sé. Appena vide una vetrina buia, fece in modo di fermarcisi di fronte. Era una boutique chirurgica, chiusa per lavori. Con le mani nelle tasche della giacca rimirò attraverso il vetro una losanga di pelle sintetica appoggiata su un piedistallo di finta giada. Il colore di quella pelle gli ricordò le puttane di Zone: era tatuata con un display digitale luminoso collegato a un chip sottocutaneo. Perché darsi tanta pena con la chirurgia, gli venne da pensare mentre il sudore gli scorreva giù per le costole, quando puoi semplicemente tenere in tasca quell’affare?

Senza muovere la testa, sollevò gli occhi e studiò il riflesso della folla che passava.

Eccolo.

Dietro a un gruppetto di marinai con camicie kaki a maniche corte. Capelli scuri, occhiali a specchio, vestiti scuri, magro…

E già sparito.

Poi Case si mise a correre, piegato in due, schivando i passanti.


— Affittami una pistola, Shin.

Il ragazzo sorrise. — Due ore. — Erano fermi in mezzo all’odore dei crostacei crudi e freschi dietro un banchetto di sushi di Shiga. — Torna fra due ore.

— Me ne serve una subito, amico. Hai niente, qui, pronta consegna?

Shin frugò dietro le latte vuote da due litri che un tempo erano state piene di rafano in polvere e tirò fuori un pacchetto sottile avvolto nella plastica grigia. — Taser. Un’ora, venti nuovi yen. Trenta di deposito.

— Merda. Non mi serve un pungolo. Mi serve una pistola. Come se volessi sparare a qualcuno, capito?

Shin scrollò le spalle, tornando a infilare la taser dietro le latte di rafano. — Due ore.


Entrò nel negozio senza degnare di una singola occhiata le shuriken in bella mostra. Non ne aveva mai scagliata una in vita sua.

Comperò due pacchetti di Yeheyuan con un chip della Mitsubishi Bank che corrispondeva al nome di Charles Derek May. Batteva persino Truman Starr, il miglior passaporto che fosse mai riuscito a produrre.

La giapponese dietro al terminale pareva avere qualche anno di svantaggio sul vecchio Deane, nessuno dei quali con il beneficio della ragione. Case estrasse il magro rotolo di nuovi yen dalla tasca e glielo mostrò. — Vorrei comprare un’arma.

La donna indicò una bacheca piena di coltelli.

— No — disse lui. — Non mi piacciono i coltelli.

La giapponese prese una scatola rettangolare da sotto il banco. Il coperchio era di cartone giallo, con sopra stampata la rozza immagine di un cobra avvolto a spirale, con il cappuccio rigonfio. All’interno c’erano otto cilindri identici avvolti nella carta velina. Case seguì con lo sguardo le dita chiazzate di marrone mentre toglievano la carta da un cilindro. La donna sollevò l’oggetto perché il cliente potesse esaminare il tubo d’acciaio opaco con una cinghia di cuoio a un’estremità e una piccola piramide di bronzo all’altra, poi strinse il tubo con una mano, la piramide fra l’altro pollice e l’indice, e tirò. Tre segmenti telescopici di filo lubrificato riavvolto scivolarono all’esterno e si bloccarono con uno scatto. — Cobra — spiegò la giapponese.


Oltre il tremolio al neon di Ninsei, il cielo era sempre di quella sgradevole sfumatura grigia. L’aria era peggiorata: quella sera pareva avere i denti, e una buona metà dei passanti indossava mascherine. Case aveva passato dieci minuti in un orinatoio cercando di trovare la maniera più efficace di nascondere il suo cobra. Alla fine aveva deciso di ficcare il manico nella cintura dei jeans, con il tubo posato di traverso sullo stomaco. La punta vulnerante a piramide era infilata fra la cassa toracica e l’imbottitura della giacca a vento. Gli pareva che quell’affare dovesse cadere con grande fracasso sul marciapiede da un momento all’altro, ma lo faceva sentire decisamente più a suo agio.

Il Chat non era un vero e proprio bar per spacciatori, ma nelle sere in settimana attirava una clientela alquanto affine. Il venerdì e il sabato, però, erano diversi. Gli habitué c’erano ancora, quasi tutti, ma sbiadivano sotto una corrente costante di marinai e di “specialisti” impegnati a depredarli. Quando Case arrivò, cercò subito Ratz con lo sguardo, ma il barista non era reperibile. Lonny Zone, il mezzano stanziale del bar, stava osservando con interesse vitreo e paterno una delle sue ragazze che si adoperava su un giovane marinaio. Zone era dipendente dal tipo di sonnifero che i giapponesi chiamavano Ballerini delle Nuvole. Una volta intercettato lo sguardo del pappa, Case gli fece cenno di avvicinarsi al banco. Zone si fece strada in mezzo alla folla al rallentatore, il volto cavallino placido e disteso.

— Hai visto Wage stasera, Lonny?

Zone lo fissò con la solita flemma, poi scosse lentamente il capo.

— Ne sei sicuro, amico?

— Forse al Namban, due ore fa.

— Ha qualche scagnozzo con sé? Per esempio uno pelle e ossa, capelli scuri, forse una giacca scura?

— No — rispose Lonny alla fine, mentre la sua fronte liscia si copriva di rughe per lo sforzo di ricordare dettagli così futili. — Solo ragazzi grandi e grossi, innestati. — Gli occhi di Zone mostravano ben poco bianco e ancor meno iride. Sotto le palpebre cascanti, le pupille erano dilatate, enormi. Fissò Case in viso molto a lungo, poi abbassò lo sguardo e vide il gonfiore della frusta d’acciaio. — Cobra — disse, inarcando un sopracciglio. — Vuoi fregare qualcuno?

— Ci vediamo, Lonny. — Case lasciò il bar.


Era sicuro che il suo pedinatore fosse tornato. Provò una fitta di esultanza, gli ottagoni e l’adrenalina si mischiarono con qualcos’altro. Te la stai godendo, pensò. Sei pazzo.

Perché, in maniera strana e approssimativa, era simile a una corsa nella matrice. Bastava logorarsi un po’, trovarsi coinvolti in qualche casino disperato ma stranamente arbitrario, e allora era possibile vedere Ninsei come un campo di dati, un po’ come la matrice un tempo gli aveva ricordato i legami proteici delle singole specializzazioni cellulari. Allora potevi buttarti e planare, alla deriva, ad alta velocità, completamente coinvolto ma del tutto separato, e tutt’intorno a te la danza degli affari, delle informazioni che interagivano, dati che diventavano carne nei labirinti del mercato clandestino…

Avanti, Case, si disse. Fregali. È l’ultima cosa che si aspettano. Era a mezzo isolato dalla sala giochi dove aveva incontrato per la prima volta Linda Lee.

Si lanciò di corsa attraverso la strada, facendo scappare in tutte le direzioni un gruppo di marinai a passeggio. Uno di loro gli urlò qualcosa in spagnolo. Poi Case varcò l’ingresso, e il fragore si abbatté su di lui come una risacca, i subsonici gli pulsarono alla bocca dello stomaco. Qualcuno aveva fatto un centro da dieci megatoni a Tank War Europa, e lo spostamento d’aria simulato affogò l’intera sala in un boato indistinto mentre un livido ologramma sbocciava in una palla di fuoco a forma di fungo. Case svoltò a destra e salì a lunghe falcate una rampa di scale di nudo legno rigenerato. Era già venuto una volta lì dentro insieme a Wage, per discutere di un affare di attivatori ormonali proibiti con un certo Matsuga. Ricordava il corridoio, il tappeto macchiato, la fila di porte tutte uguali che davano su minuscoli cubicoli uso ufficio. Adesso una era aperta. Una giovane giapponese con indosso una maglietta nera senza maniche sollevò lo sguardo da un terminale bianco. Dietro la sua testa spuntava un manifesto turistico della Grecia, l’azzurro dell’Egeo spruzzato di ideogrammi stilizzati.

— Fai salire la sicurezza — l’avvertì Case.

Poi si lanciò di corsa lungo il corridoio, scomparendo in un attimo. Le ultime due porte non erano aperte. Immaginò che fossero chiuse a chiave. Si girò di scatto e colpì con la suola di nylon la porta di truciolato laccata di azzurro, all’estremità del corridoio. Il battente cedette (materiale da quattro soldi) e si staccò dal telaio scheggiato. Oltre la soglia solo buio, la bianca curva di un terminale. Poi Case passò alla porta alla sua destra, entrambe le mani intorno alla maniglia di plastica trasparente, e vi si appoggiò contro con tutte le forze. Qualcosa si ruppe, e fu dentro. Era qui che lui e Wage avevano incontrato Matsuga, ma qualunque fosse la ditta di copertura per la quale Matsuga lavorava se n’era andata da un pezzo. Nessun terminale, niente. Una luce dal vicolo dietro la sala giochi filtrava attraverso la plastica annerita dalla fuliggine. Distinse un groviglio di fibre ottiche simile a un serpente che sporgeva da una presa alla parete, un mucchietto di imballaggi per alimenti buttati in un angolo e il perno privo di lame d’un ventilatore elettrico.

La finestra era un unico pannello di plastica da due soldi. Si sfilò il giubbotto, l’avvolse intorno al braccio destro e sferrò un pugno. Il pannello si ruppe. Ci vollero altri due colpi per liberarlo dal telaio. Sopra il frastuono smorzato della sala giochi cominciò a suonare un allarme, attivato o dalla finestra rotta o dalla ragazza all’imbocco del corridoio.

Case si girò, rimise il giubbotto e fece guizzare il cobra fino alla massima estensione.

Con la porta della stanza chiusa, contava sul fatto che il suo inseguitore pensasse che lui era entrato nell’altra di cui aveva semidivelto l’uscio con un calcio. La piramide di bronzo del cobra cominciò a ballonzolare adagio, con l’asta d’acciaio elastico che amplificava il suo impulso.

Non successe niente. Soltanto il frastuono crescente del segnale d’allarme, lo schianto dei giochi, il martellare del suo cuore. Quando la paura arrivò, fu come un amico semidimenticato. Non il meccanismo rapido e freddo della paranoia indotta dalla dexe, ma una semplice paura animale. Era vissuto tanto a lungo sull’orlo costante dell’ansia che s’era quasi dimenticato cosa fosse la vera paura.

Quel cubicolo era il tipo di posto in cui la gente moriva. Avrebbe potuto morirci anche lui. Loro potevano avere delle pistole…

Uno schianto all’estremità opposta del corridoio. La voce di un uomo che urlava qualcosa in giapponese. Un urlo, uno strillo di terrore. Un altro schianto.

E un rumore di passi che si avvicinavano, senza fretta.

Che passavano davanti alla sua porta chiusa. Che si fermavano per l’intervallo di tre rapidi battiti del suo cuore. E che tornavano indietro: uno, due, tre. Il tacco di uno stivale raschiò il tappeto.

Il coraggio indotto dal suo ultimo ottagono svanì. Con uno scatto fece rientrare il cobra nel manico e corse alla finestra, accecato dalla paura, con i nervi che urlavano. Si arrampicò sul davanzale, uscì all’esterno e si lasciò cadere, il tutto prima ancora di rendersi conto di ciò che stava facendo. L’urto con il selciato gli trafisse le tibie con lancinanti sbarre di dolore.

Un sottile cuneo di luce che usciva da una porticina di servizio socchiusa inquadrava un mucchio di fibre ottiche e lo chassis d’una consolle buttata nella spazzatura. Era caduto a faccia in giù su un tavolo di truciolato marcio. Rotolò su se stesso all’ombra della consolle. La finestra del cubicolo era un quadrato di fievole luce. L’allarme trillava ancora. Quaggiù si sentiva più forte. La parete del retro smorzava il fragore dei giochi.

Alla finestra spuntò una testa, illuminata da dietro dai neon del corridoio, poi scomparve. Ricomparve, ma anche allora Case non riuscì a distinguerne i lineamenti. Un luccichio d’argento in corrispondenza degli occhi. — Cazzo — disse qualcuno, una donna, con l’accento dello Sprawl settentrionale.

La testa sparì. Ma Case rimase lo stesso al riparo della consolle. Contò, lentamente, fino a venti, poi si alzò. Stringeva ancora in mano il cobra d’acciaio, e gli ci vollero alcuni secondi per ricordarsi cos’era. Poi s’allontanò zoppicando lungo il vicolo, massaggiandosi la caviglia sinistra.


La pistola di Shin era un’imitazione vietnamita di almeno cinquant’anni prima della copia sudamericana di una Walther PPK, doppia azione al primo colpo, con una trazione molto violenta. Aveva la camera di un fucile a canna lunga calibro 22 e Case avrebbe preferito degli esplosivi ad azoturo di piombo alle semplici punte cave cinesi che Shin gli aveva rifilato. Comunque era pur sempre una pistola completa di nove caricatori, e mentre s’incamminava lungo la Shiga allontanandosi dal banchetto del sushi la cullò nella tasca della giacca. L’impugnatura era di plastica color rosso vivo, modellata con un rilievo a forma di drago. Qualcosa su cui far scorrere il pollice al buio. Aveva affidato il cobra a un bidone della spazzatura a Ninsei, dopodiché aveva inghiottito a secco un altro ottagono.

La pillola fece scattare gli interruttori, e lui s’infilò tra la folla dell’ora di punta lungo la Shiga fino a Ninsei, per poi proseguire verso la Baiitsu. Decise che il suo tallonatore non c’era più, un’ottima notizia. Aveva delle telefonate da fare, affari da concludere, e questi non potevano aspettare. Dopo un isolato di Baiitsu, verso il porto, incontrò un edificio anonimo di dieci piani di orrendi mattoni gialli. Adesso le finestre erano buie, ma allungando il collo si scorgeva un debole bagliore che proveniva dal tetto. Un’insegna spenta accanto all’ingresso principale proclamava CHEAP HOTEL sotto un grappolo d’ideogrammi. Se quel posto aveva un altro nome, Case non lo conosceva: era sempre stato citato come Cheap Hotel. Vi si accedeva attraverso un vicolo che dava sulla Baiitsu, dove un ascensore era in attesa ai piedi di un pozzetto verticale trasparente. L’ascensore, al pari del Cheap Hotel, era un’aggiunta dell’ultimo momento, tenuto attaccato all’edificio per mezzo di bambù e resine epossidiche. Case entrò nella gabbia di plastica e usò la propria chiave, un pezzo di nastro magnetico rigido privo di qualsiasi indicazione.

Al Cheap Case aveva affittato una bara, pagandola settimana per settimana, fin da quando era arrivato a Chiba, ma non ci aveva mai dormito. Di solito dormiva in posti ancora più economici.

L’ascensore sapeva di profumo e sigarette. Le pareti della gabbia erano graffiate e imbrattate da impronte di pollice. Quando superò il quinto piano, Case vide le luci di Ninsei. Tamburellò con le dita sul calcio della pistola mentre la gabbia rallentava con un sibilo. Come sempre, si arrestò con un violento sobbalzo, ma lui era preparato. Uscì nel giardinetto che fungeva sia da atrio che da prato.

Al centro di un verde quadrato di plastica erbosa un adolescente giapponese sedeva davanti a una consolle a forma di C, intento a leggere un manuale. Le bare di fibra di vetro bianca erano sistemate come su un’impalcatura. Sei livelli di bare, dieci bare per lato. Case lanciò un cenno in direzione del ragazzo e attraversò zoppicando l’erba di plastica fino alla scala più vicina. Il complesso era coperto da una tettoia di laminato opaco che vibrava con il vento forte e lasciava penetrare l’acqua quando pioveva, ma almeno era ragionevolmente difficile aprire le bare senza una chiave.

La passerella, un traliccio a larghe maglie, vibrò sotto il suo peso mentre avanzava con cautela lungo il terzo livello fino alla numero 92. Le bare erano lunghe tre metri, gli sportelli ovali larghi un metro e alti poco meno di uno e mezzo. Case infilò la chiave nella fessura e aspettò la verifica del computer interno. Le serrature magnetiche produssero un tonfo rassicurante, quindi lo sportello si alzò in verticale con un cigolio di molle. I neon si accesero tremolando mentre lui strisciava all’interno, chiudendosi lo sportello alle spalle e attivando con una botta il pannello che attivava la serratura manuale.

Nella numero 92 non c’era niente salvo un computer tascabile standard della Hitachi e una piccola ghiacciaia bianca in polistirolo espanso che conteneva i resti di tre sbarre di ghiaccio secco da dieci chili, accuratamente avvolte nella carta per ritardare l’evaporazione, e un flacone d’alluminio da laboratorio. Accucciato sullo strato di gommapiuma termoisolante, che fungeva sia da pavimento che da letto, Case si sfilò dalla tasca la .22 di Shin e l’appoggiò sopra la ghiacciaia. Poi si tolse la giacca a vento. Il terminale della bara era incassato in una parete concava, davanti a un pannello che elencava in sette lingue il regolamento della casa. Case staccò dalla base la cornetta rosa e compose a memoria il numero di Hong Kong. Lasciò che suonasse cinque volte, poi riappese. Il suo acquirente di tre megabyte di RAM scottanti dell’Hitachi non rispondeva alle chiamate.

Fece un numero di Tokyo, a Shinjuku.

Una donna gli rispose qualcosa in giapponese.

— C’è Snake Man?

— Sono contento di sentire la sua voce — dichiarò Snake Man, facendosi vivo da una derivazione. — Aspettavo la sua telefonata.

— Ho la musica che voleva — l’informò Case, lanciando un’occhiata alla ghiacciaia.

— Sono molto lieto di sentirlo. Abbiamo un problema di contante. Può aspettare?

— Oh, amico, mi servono i soldi e dannatamente presto…

Snake Man riappese.

— Merda — esclamò Case al ricevitore ronzante. Fissò la piccola pistola da due soldi.

— Se — aggiunse. — Stasera è tutto molto sul se.


Case entrò nel Chat un’ora prima dell’alba, entrambe le mani infilate nelle tasche del giubbotto. In una stringeva la pistola a nolo, nell’altra il flacone di alluminio.

Ratz era seduto a un tavolo in fondo alla sala a sorseggiare acqua Apollonaris da un boccale di birra, i centoventi chili di carne flaccida appoggiati contro la parete su una sedia scricchiolante. Dietro il bancone del bar c’era un ragazzo brasiliano, Kurt, impegnato a servire una piccola clientela di ubriachi per la maggior parte taciturni. Il braccio di plastica di Ratz ronzò quando sollevò il boccale per bere. La sua testa rapata era coperta da una sottile patina di sudore. — Hai una brutta cera, artista — disse, facendo balenare l’umido sfacelo dei suoi denti.

— Me la sto cavando alla grande — replicò Case, e sogghignò come un teschio. — Superbene. — Si lasciò cadere sulla sedia davanti a Ratz con le mani ancora in tasca.

— E te ne vai dentro e fuori da questo bunker portatile fatto di sbronze e di altre esaltazioni, certo. A prova di emozioni più volgari. Giusto?

— Perché non mi molli, Ratz? Hai visto Wage?

— A prova di paura, soprattutto quella di trovarsi soli — continuò il barista. — Ascolta la paura, forse è una tua amica.

— Hai sentito niente di una rissa in una sala giochi in serata, Ratz? Qualcuno si è fatto male?

— Un matto ha ammazzato un ragazzo della sorveglianza. — Scrollò le spalle. — Una ragazza, dicono.

— Devo parlare con Wage, Ratz. Io…

— Ah. — La bocca di Ratz divenne una linea sottile. Stava guardando oltre Case, in direzione dell’ingresso. — Credo che tu stia per riuscirci.

Case ebbe una visione improvvisa delle shuriken nella loro vetrina. Lo speed gli cantava in testa. La pistola che impugnava era scivolosa per il sudore.

— Herr Wage — disse Ratz, allungando adagio il manipolatore rosa, come se si aspettasse che l’altro lo stringesse. — Che immenso piacere vederla. Troppo di rado lei ci onora della sua presenza.

Case girò la testa e sollevò lo sguardo sul volto di Wage. Era una maschera abbronzata e tutt’altro che indimenticabile. Gli occhi verde mare erano trapianti Nikon coltivati in vasca. Wage indossava un vestito di seta color grigio fumo con un semplice braccialetto di platino a ciascun polso. Era fiancheggiato dai suoi scagnozzi, tutti giovanotti quasi identici, braccia e spalle un ammasso di muscoli innestati.

— Come va, Case?

— Signori, non voglio storie qui dentro — disse Ratz, raccogliendo dal tavolo il portacenere colmo con l’artiglio di plastica rosa.

Il portacenere era di plastica massiccia, infrangibile, e reclamizzava la birra Tsingtao. Ratz lo frantumò senza battere ciglio. Cicche e schegge di plastica verde piovvero sul tavolo. — Capito?

— Ehi, dolcezza — disse uno degli scagnozzi. — Vuoi provare su di me quell’affare?

— Non darti la pena di mirare alle gambe, Kurt — rispose Ratz, con tono disinvolto. Case lanciò un’occhiata verso l’altro lato della sala e vide il brasiliano in piedi sul bancone che stava puntando un fucile Smith Wesson da sommossa contro il terzetto. La canna, di una lega sottile come un foglio di carta e avvolta in un chilometro di filamento di vetro, era larga abbastanza da inghiottire un pugno. Il caricatore esterno rivelava cinque grosse cartucce arancione, gelatina subsonica, tipo sacchetto di sabbia.

— Tecnicamente non letali — disse Ratz.

— Ehi, Ratz, te ne devo una — fece Case.

Il barista scrollò le spalle. — Non mi devi niente. Questi — e fissò con occhio feroce Wage e i suoi scagnozzi — avrebbero dovuto immaginarlo. Non si toglie di mezzo nessuno al Chatsubo.

Wage tossì. — E chi ha mai parlato di eliminare qualcuno? Vogliamo soltanto parlare di affari. Case e io lavoriamo insieme.

Case tirò fuori di tasca la .22 e la puntò contro l’inguine di Wage. — Ho sentito dire che vorresti farmi fuori. — Quando l’artiglio rosa di Ratz si chiuse intorno alla pistola, Case aprì la mano.

— Senti, Case, spiegami che razza di storia del cazzo è mai questa. Dài i numeri, o cosa? Cosa sarebbe, questa stronzata che io starei cercando di ucciderti? — Wage si girò verso lo scagnozzo alla sua sinistra. — Voi due tornate al Namban. Aspettatemi là.

Case li osservò mentre attraversavano il bar, che adesso era completamente deserto salvo Kurt e un marinaio ubriaco in kaki acciambellato intorno ai piedi di uno sgabello al banco. La canna dello Smith Wesson tenne di mira i due fino alla porta poi, di scatto, fu puntata di nuovo in direzione di Wage. Il caricatore della pistola di Case cadde sul tavolo con un tonfo metallico. Ratz impugnò la pistola con l’artiglio ed espulse il colpo dalla camera di caricamento.

— Chi ti ha detto che avevo intenzione di liquidarti, Case? — gli chiese Wage.

— Linda.

— Chi te l’ha detto, amico? Qualcuno sta cercando di metterti contro di me.

Il marinaio gemette prima di esibirsi in un esplosivo conato di vomito.

— Portalo fuori di qui! — gridò Ratz, rivolto a Kurt, che adesso era seduto sull’orlo del bancone con lo Smith Wesson sulle ginocchia, intento ad accendersi una sigaretta.

Case sentì il peso della nottata calare su di lui come un sacco di sabbia umida che si adagiasse dietro gli occhi. Si tolse di tasca il flacone e lo porse a Wage. — Tutto quello che ho. Pituitarie. Ti renderà cinquecento, se la farai girare in fretta. Avevo il resto della roba in una RAM, ma a quest’ora non c’è più.

— Stai bene, Case? — Il flacone era già scomparso dietro un lembo grigio fumo. — Voglio dire, d’accordo, questo fa quadrare i nostri conti, ma tu hai una pessima cera. Farai meglio ad andare a stenderti da qualche parte a farti una dormita.

— Già. — Case si alzò in piedi, ma vide il Chat ondeggiare intorno a lui. — Be’, avevo un cinquantone ma l’ho dato a qualcuno. — Ridacchiò. Prese il caricatore della .22 e la pallottola isolata e se li fece cadere in una tasca, poi infilò la pistola nell’altra. — Devo andare da Shin a farmi restituire il deposito.

— Vattene a casa — gli ripeté Ratz, dimenandosi sulla sedia scricchiolante con evidente imbarazzo. — Artista, vattene a casa.

Sentì che lo guardavano mentre attraversava la sala e apriva con una spallata i battenti di plastica.


— Puttana — disse alla foschia rosacea che sovrastava la Shiga. Giù a Ninsei gli ologrammi stavano sparendo come fantasmi, e la maggior parte del neon era già freddo e senza vita. Sorseggiò un denso caffè nero dalla tazzina di plastica d’un ambulante mentre contemplava il sole che sorgeva. — Tu, volatene via, tesoro. Città come queste sono fatte per la gente che ama andare in discesa. — Ma in realtà non era questo il punto, e lui trovava sempre più difficile conservare quella sensazione di essere stato tradito. Lei voleva soltanto un biglietto per tornare a casa, e la RAM nel suo Hitachi le avrebbe permesso di comperarlo, se solo fosse riuscita a trovare il ricettatore giusto. E quella faccenda dei cinquanta: lei li aveva quasi rifiutati, sapendo che stava per fregargli quanto ancora gli rimaneva.

Quando uscì dall’ascensore, al banco c’era lo stesso ragazzo. Però il manuale era diverso. — Amico mio — gli gridò Case dall’altra parte del prato di plastica. — Non c’è nemmeno bisogno che me lo dica. Lo so già. Una graziosa signora è venuta a cercarmi sostenendo che aveva la mia chiave. Una bella mancia per te, diciamo cinquanta nuovi, eh? — Il ragazzo posò il libro. — Donna — aggiunse Case, e si tracciò una linea con il pollice sulla fronte. — Seta. — Esibì un ampio sorriso. Il ragazzo gli sorrise in risposta, annuendo. — Grazie, coglione — lo salutò Case.

Sulla passerella ebbe delle difficoltà con la serratura. In qualche modo lei l’aveva pasticciata quando aveva armeggiato per entrare. Principiante.

Lui sapeva dove affittare una scatola nera che avrebbe aperto qualunque cosa nel Cheap Hotel. I neon si accesero quando entrò.

— Chiudi quello sportello molto, ma molto piano, amico. Hai ancora quella Saturday Night Special che hai preso a nolo dal cameriere?

La donna era seduta con la schiena addossata parete, all’estremità opposta della bara. Teneva le ginocchia sollevate con i gomiti appoggiati sopra. La canna di una pistola a freccette le spuntava dalle mani.

— Eri tu alla sala giochi? — Case chiuse lo sportello. — Dov’è Linda?

— Fai scattare la serratura.

Obbedì.

— È la tua ragazza, Linda?

Lui annuì.

— Se n’è andata. Ha preso il tuo Hitachi. Fanciulla molto nervosa. Che mi dici della pistola, amico? — Portava occhiali a specchio. I vestiti erano neri e i tacchi degli stivali neri affondavano nella gommapiuma.

— L’ho restituita a Shin, ho riavuto indietro il deposito. Gli ho rivenduto le pallottole per metà di quanto le avevo pagate. Vuoi i soldi?

— No.

— Vuoi del ghiaccio secco? È tutto quello che ho, in questo momento.

— Cosa ti passa per la testa, stasera? Perché hai fatto tutta quella scena, alla sala giochi? Ho dovuto fare un gran macello con quel guardione che mi è saltato addosso con il nunchaku.

— Linda ha detto che volevi uccidermi.

— Linda ha detto? Ma se non l’avevo mai vista prima di salire quassù.

— Non sei con Wage?

Lei fece segno di no. Case si rese conto che gli occhiali erano innesti chirurgici che sigillavano le orbite. Le lenti argentate parevano crescere direttamente dalla pelle liscia e pallida sopra gli zigomi, incorniciate dai capelli scuri arruffati. Le dita serrate intorno alla Fletcher erano molto fini, candide, con le unghie d’un lucido borgogna. Parevano artificiali.

— Temo che tu abbia preso una cantonata, Case. Io arrivo, e senza nemmeno pensarci un attimo mi hai fatto rientrare nel quadro che ti sei fatto.

— Allora cos’è che vuoi, signora mia? — Lui si lasciò andare contro lo sportello.

— Te. Un corpo vivo, il cervello ancora abbastanza intatto. Molly, Case, mi chiamo Molly. Sono venuta a prenderti per conto del tizio per cui lavoro. Vuole soltanto parlarti, e basta. Nessuno vuole farti del male.

— Fantastico.

— Soltanto che io certe volte faccio male alla gente. Immagino che sia dovuto a come sono circuitata. — Indossava jeans attillati di cuoio nero e un giubbotto nero imbottito, fatto con un tessuto opaco che pareva assorbire la luce. — Starai tranquillo se metto via questa pistola a dardi, Case? Dai l’impressione di uno a cui piace correre rischi stupidi.

— Ehi, sono un tipo alla mano e facile da convincere. Nessun problema.

— Va bene, amico. — La Fletcher scomparve nel giubbotto nero. — Perché, se provi a fare il fesso con me, correrai uno dei rischi più stupidi di tutta la tua vita.

Tese le mani in avanti, il palmo rivolto all’insù, le dita bianche leggermente allargate, e con un clic appena percettibile le lame di dieci bisturi a doppio taglio, lunghe quattro centimetri, scivolarono fuori dai loro ricettacoli sotto le unghie color borgogna.

Molly sorrise. Le lame si ritrassero lentamente.

2

Dopo un anno di bare, la stanza al venticinquesimo piano dell’Hilton di Chiba pareva immensa. Era dieci metri per otto, la metà di un’intera suite. Una caffettiera Braun bianca sfumacchiava sopra un tavolino accanto alle vetrate scorrevoli che davano su uno stretto terrazzino.

— Fatti un caffè. Hai l’aria di averne un gran bisogno. — La donna si tolse la giubbotto nero. La Fletcher era appesa sotto l’ascella in una fondina di nylon nero. Indossava un corpetto grigio senza maniche con delle brutte cerniere sulle spalle. Antiproiettile, decise Case, versandosi del caffè in una tazza rosso vivo. Gli pareva di avere le braccia e le gambe di legno.

— Case. — Quando alzò lo sguardo di scatto s’accorse dell’uomo per la prima volta. — Mi chiamo Armitage. — La vestaglia scura che indossava era aperta fino alla cintura, l’ampio petto glabro e muscoloso, lo stomaco piatto e duro. Gli occhi erano d’un azzurro talmente pallido che a Case venne fatto di pensare alla candeggina. — Il sole è spuntato, Case. Questo è il tuo giorno fortunato, ragazzo.

Case fece scattare il braccio di lato ma l’altro schivò con facilità il caffè bollente. Macchie marrone scivolarono lungo le pareti che imitavano la carta di riso. Case notò l’anello d’oro squadrato al lobo sinistro del padrone di casa. Reparti speciali. L’uomo sorrise.

— Prendi il tuo caffè, Case — disse Molly. — Non corri alcun rischio, ma non andrai da nessuna parte fino a quando Armitage non avrà detto la sua. — Si sedette a gambe incrociate su un futon di seta e cominciò a smontare la Fletcher senza nemmeno peritarsi di guardarla. Le lenti gemelle lo seguirono mentre si avvicinava al tavolino e riempiva di nuovo la tazza.

— Troppo giovane per ricordare la guerra, vero, Case? — Armitage si passò una mano enorme tra i capelli castani tagliati corti. Un massiccio braccialetto d’oro balenò al polso. — Leningrado. Kiev. Siberia. Ti abbiamo inventato in Siberia, Case.

— E questo cosa vorrebbe significare?

— Pugno Urlante, Case. Conosci questo nome?

— Una specie di intrusione, se non sbaglio avete cercato di bruciare quell’interconnessione russa con dei virus informatici. Sì, ne ho sentito parlare. E nessuno ne è uscito vivo.

Avvertì un’improvvisa tensione. Armitage andò alla finestra a guardare fuori, verso la baia di Tokyo. — Non è vero. Un’unità è riuscita a rientrare a Helsinki.

Case si strinse nelle spalle mentre sorseggiava il caffè.

— Tu sei un cowboy da consolle. I prototipi dei programmi che usavi per penetrare nelle banche-dati industriali erano stati messi a punto per Pugno Urlante. Per l’assalto all’interconnessione del computer di Kirensk. Il modulo di base era un ultraleggero Nightwing, più un pilota, una matrice-terminale e un jockey, un operatore. Usavamo un virus chiamato Talpa. La serie Talpa è stata la prima generazione di autentici programmi d’infiltrazione.

— Icebreaker… — disse Case, sopra l’orlo della tazzina rossa.

— Ice sta per ICE: contromisure per le intrusioni elettroniche.

— Il problema è, caro mio, che adesso non sono più un jockey, così credo proprio che me ne andrò…

— Io c’ero, Case, ero là quando hanno inventato quelli come te.

— Non c’entri una sega con me e quelli come me, amico. Forse hai abbastanza soldi per comprare costosissime ragazze-rasoio che mi trascinano fin quassù, ma nient’altro. Non schiaccerò mai più i tasti di nessuna tastiera, né per te né per nessun altro. — Case raggiunse la finestra e guardò in strada. — È là che vivo adesso.

— Il nostro profilo dice che stai facendo di tutto per lasciarci la pelle.

— Profilo?

— Abbiamo elaborato un modello molto dettagliato. Abbiamo scomposto la tua personalità nei vari moduli di comportamento, con relativa analisi-standard, ricombinando poi il tutto grazie a un software militare. Tu sei un suicida, Case. Il modello ti concede al massimo un mese di vita. E la nostra proiezione medica prevede che avrai bisogno di un nuovo pancreas entro un anno.

Noi. - Case calcò la parola, senza staccare lo sguardo da quegli occhi d’un azzurro sbiadito. — Noi chi?

— E se ti dicessi che siamo in grado di riparare il tuo danno neurale, Case? — D’un tratto gli parve che Armitage fosse scolpito in un blocco di metallo, inerte, tremendamente pesante. Una statua. Adesso sapeva che quello era un sogno e che tra poco si sarebbe svegliato. Armitage non avrebbe più parlato. I sogni di Case finivano sempre con quel tipo di fermo-immagine, e adesso anche quest’ultimo era finito.

— Cosa ne diresti, Case?

Case guardò fuori, verso la baia, e cominciò a tremare.

— Direi che sono un sacco di stronzate.

Armitage annuì.

— Poi ti chiederei quali sono le tue condizioni.

— Non molto diverse da quelle alle quali sei abituato, Case.

— Lascia che si faccia una dormita, Armitage — disse la donna dal suo futon. I pezzi della Fletcher erano sparpagliati sulla seta come un puzzle costoso. — Non vedi che sta cadendo a pezzi?

— Le condizioni — ribadì Case. — Adesso. Subito.

Tremava ancora. Non riusciva a smettere di tremare.


La clinica era senza nome, arredata in modo costoso, un grappolo di eleganti padiglioni separati da giardinetti ben tenuti. Ricordava di aver già visto quel posto nei suoi giri durante il primo mese trascorso a Chiba.

— Sei spaventato, Case. Sei spaventato da morire. — Era domenica pomeriggio e si trovava con Molly in una specie di giardino esotico. Bianchi macigni, una macchia di verdi bambù, ghiaia nera ondulata dal rastrello. Un giardiniere, una specie di grosso granchio metallico, curava le piante.

— Funzionerà, Case. Non hai idea del genere di cose di cui dispone Armitage. Per esempio, pagherà questi neurologi perché ti riparino con il programma che gli fornirà lui, e gli dirà lui come farlo. Anticiperanno di tre anni la concorrenza. Hai idea di quanto possa valere? — Infilò i pollici nei passanti della cintura dei jeans di cuoio e si dondolò sui tacchi laccati degli stivali da cowboy color rosso ciliegia. Le punte acuminate erano inguainate in luminoso argento messicano. Le lenti erano uno specchio di mercurio e lo guardavano con la calma di un insetto.

— Sei una samurai della strada — disse Case. — Da quanto tempo lavori per quel tizio?

— Un paio di mesi.

— E prima?

— Per qualcun altro. Sono una ragazza che lavora, sai.

Lui annuì.

— Strano, Case.

— Strano cosa?

— È come se ti conoscessi. Quel profilo che ha lui. So come sono fatti i tuoi circuiti.

— Non mi conosci, sorella.

— Tu sei a posto, Case. Quello che ti ha preso si chiama soltanto sfortuna.

— E lui? Lui è a posto, Molly? — Il granchio-robot si spostò verso di loro, avanzando sopra le ondulazioni della ghiaia. Il suo carapace di bronzo avrebbe potuto avere mille anni. Quando arrivò a un metro dagli stivali della ragazza, sparò un raggio, poi s’immobilizzò per qualche secondo, analizzando i dati ottenuti.

— La prima cosa a cui penso, Case, è la pelle. — Il granchio aveva cambiato direzione per evitarla, ma lei gli tirò un calcio con precisione. La punta d’argento degli stivali rimbombò sul carapace. Il robot cadde sulla schiena, ma gli arti di bronzo lo raddrizzarono in un attimo.

Case si sedette su uno macigno, sconvolgendo la simmetria delle ondulazioni della ghiaia con la punta delle scarpe. Quindi cominciò a frugarsi nelle tasche alla ricerca delle sigarette. — Nel taschino della camicia — gli suggerì lei.

— Vuoi rispondere alla mia domanda? — Case pescò dal pacchetto una Yeheyuan che lei gli accese con una sottile piastra di acciaio tedesco che sembrava essere stata strappata a un tavolo operatorio.

— Mah, ti dirò che quel signore è davvero sulla pista giusta. Ormai ha un sacco di soldi, come non ne ha mai avuti prima, e ne ramazza sempre di più, in continuazione. — Case notò una certa tensione intorno alla bocca di Molly. — O forse qualcuno sta combinando qualcosa a lui… — La giovane scrollò le spalle.

— Cosa vorrebbe dire?

— Non lo so esattamente. So soltanto che ignoro per chi o per cosa stiamo lavorando.

Case fissò gli specchi gemelli. Sabato mattina, lasciato l’Hilton, era tornato al Cheap Hotel e aveva dormito per dieci ore. Poi aveva fatto una lunga camminata senza meta, lungo il perimetro di sicurezza del porto, osservando i gabbiani che giravano in cerchio oltre della rete metallica. Se lei l’aveva seguito, aveva fatto un ottimo lavoro. Case aveva evitato Night City. Aveva aspettato nella bara la telefonata di Armitage. Adesso era lì, in quel tranquillo giardino all’orientale, domenica pomeriggio, con quella ragazza dal corpo da ginnasta e le mani da prestigiatore.

— Se adesso vuole entrare, signore, l’anestesista la sta aspettando. — Il tecnico fece un inchino, si girò e rientrò nella clinica senza controllare se Case lo stava seguendo.


Il gelido sentore dell’acciaio. Il ghiaccio gli accarezzò la spina dorsale.

Smarrito, così piccolo in mezzo a quel buio, le mani fredde, l’immagine corporea che svaniva lungo corridoi di cielo televisivo.

Voci.

Poi il fuoco nero trovò le diramazioni dei nervi, dolore al di là di qualunque sensazione alla quale si attribuisce il nome di dolore…


Rimani fermo, non muoverti.

Era Ratz. E Linda Lee, Wage e Lonny Zone, cento facce uscite dalla foresta di neon, marinai, dritti e puttane, là dove il cielo è argento avvelenato, al di là del reticolato e della prigione del cranio.

Accidenti a te, non muoverti.

Là dove il cielo sbiadiva a causa delle scariche sibilanti fino ad assumere il noncolore della matrice, e intravide le shuriken, le sue stelle.

— Piantala, Case. Devo trovarti la vena!

Lei gli stava cavalcioni sul petto, con un’autoiniettante di plastica azzurra in una mano. — Se non rimani immobile ti taglio quella cazzutissima gola. Sei ancora pieno di inibitori di endorfina.


Quando si svegliò, la trovò distesa accanto a lui, al buio.

Si sentiva il collo indolenzito. Avvertiva una costante pulsazione di dolore in basso, verso la metà della colonna vertebrale. Le immagini continuavano a formarsi e a disfarsi in un tremolante fotomontaggio delle torri dello Sprawl e delle frastagliate cupole di Fuller, vaghe figure che gli venivano incontro nell’ombra sotto un ponte o un sovrapasso…

— Case? È mercoledì, Case. — Molly si mosse, girandosi sul fianco, verso di lui. Un seno gli sfiorò il braccio. Sentì che strappava la copertura metallica da una bottiglia d’acqua e beveva. — Tieni. — Gli mise la bottiglia in mano. — Posso vedere al buio, Case. Amplificatori d’immagine microcanalizzati dentro gli occhiali.

— Mi fa male la schiena.

— È dove ti hanno sostituito il fluido. Ti hanno cambiato anche il sangue. Il sangue perché nell’affare era compreso anche un nuovo pancreas. E ti hanno rattoppato il fegato con un po’ di tessuto nuovo. In quanto ai nervi, non saprei. Un sacco d’iniezioni. Non hanno dovuto aprire niente per l’operazione principale. — Molly tornò a stendersi accanto a lui. — Sono le 2:43:12, Case. Ho un display nel nervo ottico.

Case si sollevò a sedere e cercò di bere un sorso dalla bottiglia. Gli andò di traverso, tossì, l’acqua tiepida gli si sparse sul petto e sulle cosce.

— Devo schiacciare i tasti di un terminale — si sentì dire. Stava cercando a tentoni i suoi indumenti. — Devo sapere…

Lei scoppiò a ridere. Piccole mani robuste si serrarono intorno ai suoi bicipiti. — Mi spiace, genio. Otto giorni di riposo. Il tuo sistema nervoso andrebbe in tilt se ti collegassi adesso. Ordine del dottore. Inoltre pensano che funzionerà. Faranno un controllo fra un giorno o giù di lì. — Case si riadagiò.

— Dove siamo?

— A casa. Cheap Hotel.

— Dov’è Armitage?

— All’Hilton, a vendere perline agli indigeni o qualcosa del genere. Ce ne andremo presto di qui, Amsterdam, Parigi, poi si torna allo Sprawl. — Gli sfiorò la spalla. — Girati. Ti faccio un bel massaggio.

Case giacque sullo stomaco, con le braccia allungate in avanti, i polpastrelli appoggiati contro le pareti della bara. Lei si sistemò sul fondoschiena del compagno, inginocchiandosi sulla gommapiuma, i jeans di cuoio freschi contro la sua pelle. Le dita gli sfiorarono il collo.

— Come mai non sei all’Hilton?

Lei gli rispose allungando la mano fra le sue cosce e accarezzandogli dolcemente lo scroto. Si dondolò così per un minuto al buio, eretta sopra di lui, l’altra mano posata sul collo di Case. Il cuoio dei suoi jeans scricchiolò sommesso in sintonia con quel movimento. Case si spostò, sentendo che si stava irrigidendo contro la termopiuma.

La testa pulsava, ma la sensazione di fragilità del collo sembrava diminuire. Si sollevò sul gomito, si girò, ricadde contro la gommapiuma, trascinando Molly con sé. Poi le fece scivolare la lingua sui seni, sentendo i capezzoli turgidi accarezzargli umidi le guance. Trovò la chiusura lampo dei calzoni di cuoio e l’abbassò.

— Tutto a posto — disse Molly. — A quanto vedo. — Il rumore dei jeans che venivano sfilati. Molly si dimenò accanto a lui finché non riuscì a sbarazzarsene con un calcio, poi gli mise una gamba di traverso e lui le toccò il viso. L’inattesa durezza delle lenti impiantate. — Non farlo — disse lei. — Le impronte delle dita…

Quindi gli si mise di nuovo cavalcioni, gli afferrò la mano e la strinse, guidandola delicatamente lungo la fessura tra le natiche, allargandogli le dita sulle grandi labbra. Mentre Molly cominciava a calarsi su di lui, le immagini tornarono pulsanti, i volti, frammenti di neon che avanzavano e indietreggiavano. Lei scivolò intorno a Case e la sua schiena s’inarcò convulsa. Molly lo cavalcò in quel modo facendosi penetrare e si mosse ritmicamente su di lui più e più volte, finché entrambi vennero e l’orgasmo avvampò azzurro in uno spazio senza tempo, una vastità pari a quella della matrice, in cui i volti lacerati venivano soffiati lungo corridoi di uragani, e l’interno delle cosce della donna era teso e umido contro i suoi fianchi.


A Ninsei la sparuta folla dei giorni feriali eseguiva il solito balletto. Ondate sonore uscivano dalle sale giochi e dai locali del pachinko. Case lanciò un’occhiata dentro il Chat e vide Zone che controllava le sue ragazze alla calda luce crepuscolare olezzante di birra. Ratz si stava occupando del bar.

— Hai visto Wage, Ratz?

— Non stasera. — Ratz sollevò ostentatamente un sopracciglio in direzione di Molly.

— Se lo vedi, digli che ho i suoi soldi.

— La fortuna cambia, mio artista?

— Troppo presto per dirlo.


— Be’, devo vedere assolutamente questo tale — disse Case, osservando il proprio riflesso negli occhiali di lei. — Ci sono affari che devo chiudere.

— Ad Armitage non piacerà che io ti perda di vista. — Era ferma sotto l’orologio molle di Deane, con le mani sui fianchi.

— Il tizio non aprirà bocca se ci sei anche tu. Di Deane non m’importa. Lui sa cavarsela da solo. Ma ho gente che finirà nella merda se me ne vado da Chiba di punto in bianco. È la mia gente, sai.

La bocca di Molly s’indurì. Scosse la testa.

— Ho ragazzi a Singapore, a Tokyo, ho contatti a Shinjuku e Asakuza, e finiranno tutti dentro, capito? — mentì lui, con la mano sulla spalla della giacca a vento nera. — Cinque minuti. Cinque. D’orologio, d’accordo?

— Non è per questo che mi pagano.

— Quello per cui ti pagano è una cosa. Io che lascio morire alcuni cari amici perché tu hai preso troppo alla lettera le tue istruzioni è un’altra.

— Cari amici un cazzo. Tu vai là dentro dal tuo contrabbandiere a controllare chi siamo. — Molly posò un piede calzato nello stivale sul tavolino Kandinskij coperto di polvere.

— Ehi, Case bello, pare che la tua compagna sia armata fino ai denti, oltre ad avere una bella dose di silicio in testa. Di cosa si tratta, esattamente? — Lo spettrale colpo di tosse di Deane parve restare sospeso nell’aria fra i due.

— Aspetta, Julie. Comunque entro da solo.

— Poco ma sicuro, figliolo. Non ti accetterei in nessun’altra foggia.

— D’accordo — disse Molly. — Vai. Ma… cinque minuti. Un secondo di più, ed entrerò e farò secco il tuo caro amico. E visto che ci sei, cerca di capire una cosetta.

— Cosa?

— Per esempio… perché ti faccio questo favore. — La donna si girò e uscì, passando davanti ai mucchi di cassette bianche che sapevano di zenzero conservato.

— Frequenti compagnie più strane del solito, Case? — chiese Julie.

— Julie… se n’è andata. Vuoi farmi entrare, per favore?

Le serrature scattarono. — Adagio, Case — disse la voce.

— Attiva tutto quello che hai, Julie, tutta la roba sulla scrivania — disse Case, prendendo posto sulla poltroncina girevole.

— È sempre in funzione — replicò Deane, con voce pacata, sollevando la pistola da dietro gli ingranaggi scoperti della vecchia macchina da scrivere meccanica e prendendo di mira Case con molta cura. Era una rivoltella canna corta, una magnum con la canna talmente segata da essere ridotta a un moncone. La parte anteriore della guardia del grilletto era stata limata parecchio e l’impugnatura era avvolta in quello che pareva vecchio nastro isolante. Case pensò che faceva un ben strano effetto nelle mani rosee e curatissime di Deane. — Semplice precauzione, capisci. Non c’è niente di personale. E adesso dimmi cosa vuoi.

— Ho bisogno di una lezione di storia, Julie. Un resoconto su un tale.

— Cosa bolle in pentola, figliolo? — La camicia di Deane era di cotone a righe tipo zucchero candito, il colletto bianco e rigido come porcellana.

— Io, Julie. Me ne vado. Smammo. Ma fammi un favore, d’accordo?

— Un resoconto su chi, figliolo?

— Un gaijin chiamato Armitage, appartamento all’Hilton.

Deane posò la pistola. — Rimani seduto, fermo… fermo così, Case. — Digitò qualcosa su un terminale portatile. — Pare che tu ne sappia tanto quanto la mia rete, Case. Sembra che questo signore abbia un accordo temporaneo con la Yakuza, e i figli del crisantemo al neon sanno come schermare i loro alleati da gente come me. E non intendo provarci in nessun’altra maniera. Adesso, la storia. Hai detto storia. — Raccolse la pistola, ma non la puntò direttamente su Case. — Che genere di storia?

— La guerra. Sei stato in guerra, Julie?

— La guerra. Cosa c’è da sapere? È durata tre settimane.

— Pugno Urlante.

— Famoso. Non v’insegnano più la storia, oggigiorno? Quella è stata la più grande patata bollente nella politica del dopoguerra. Un Watergate fino all’inferno e ritorno. I vostri capi militari, Case, i vostri pezzi grossi dello Sprawl, e dov’era MacLean? Nei bunker, e tutto il resto… un grosso scandalo. Hanno sprecato una bella quantità di giovane carne patriottica per saggiare qualche nuova tecnologia. Più tardi risultò che sapevano delle difese russe. Sapevano degli EMP, le armi a impulso magnetico. Hanno mandato quella gente a farsi scannare soltanto per vedere cosa sarebbe successo. — Deane scrollò le spalle. — Per Ivan è stato come sparare al tirassegno.

— Nessuno di quei poveracci ne è uscito vivo?

— Cristo. È passato un accidente di anni… anche se penso che qualcuno l’abbia sfangata. Una delle squadre. Si è impadronita di una gunship sovietica… un tipo di elicottero, sai… Sono riusciti ad arrivare fino in Finlandia. Non avevano i codici d’ingresso, naturalmente, e così hanno scatenato l’inferno con le forze di difesa finlandesi. Elementi dei reparti speciali. — Deane tirò su col naso. — Un macello infernale.

Case annuì. L’odore dello zenzero conservato era quasi insopportabile.

— Ho passato la guerra a Lisbona, sai — proseguì Deane, mettendo giù la pistola. — Adorabile posticino, Lisbona.

— Servizio militare, Julie?

— No davvero. Anche se sono stato in azione. — Deane esibì il suo sorriso rosa.

— È meraviglioso ciò che può fare la guerra agli affari di qualcuno.

— Grazie, Julie. Sono in debito con te.

— Per niente, Case. E addio.


E più tardi si sarebbe detto che la serata da Sammi gli era parsa sbagliata fin dall’inizio, che già mentre seguiva Molly lungo quel corridoio, strascicando i piedi in mezzo allo strato calpestato di matrici di biglietti e bicchieri di plastica, l’aveva sentito. La morte di Linda, in attesa…

Dopo essere passati da Deane, erano andati al Namban, e lui aveva pagato il suo debito a Wage con un rotolo dei nuovi yen di Armitage. A Wage la cosa era piaciuta, ai suoi ragazzi un po’ meno, e Molly aveva sogghignato al fianco di Case con una specie di estatica intensità ferale, ovviamente desiderosa che uno di loro tentasse una mossa. Alla fine lui l’aveva riportata al Chat per un bicchierino.

— Sprechi il tuo tempo, cowboy — lo avvertì Molly quando Case estrasse un ottagono dalla tasca della giacca.

— Come mai? Ne vuoi uno? — Le offrì la pillola.

— Il tuo nuovo pancreas, e quegli innesti nel fegato, Case. Armitage li ha fatti progettare in modo da tenerti alla larga da quella… — Batté un’unghia color borgogna sull’ottagono. — Sei biochimicamente incapace di decollare con ero e amfe o con la cocaina.

— Merda — esclamò lui. Fissò l’ottagono per qualche istante, poi Molly.

— Inghiottila pure. Mandane giù una dozzina. Non accadrà nulla.

Lo fece. Non accadde nulla.

Tre birre dopo, Case domandò a Ratz dove si svolgevano gli incontri.

— Da Sammi — disse Ratz.

— Farò un salto — disse Case. — Mi dicono che laggiù si ammazzano di brutto.

Un’ora più tardi Molly comperava i biglietti da un tai pelle e ossa con una maglietta bianca e un paio di calzoncini da rugby tutti sformati.

Sammi era un pallone gonfiabile dietro un deposito del porto. Il tessuto grigio, teso, della cupola era rinforzato da una rete di sottili cavi d’acciaio. Il corridoio con una porta a ciascuna estremità era una rudimentale camera stagna per conservare la differenza di pressione che sorreggeva la cupola. Anelli al neon erano avvitati a intervalli al soffitto di compensato, ma in gran parte erano rotti. L’aria era umida e viziata dal tanfo del cemento e del sudore.

Niente di tutto questo l’aveva preparato all’arena, alla folla, al silenzio teso, alle torreggianti sagome di luce sotto la cupola. Il cemento scendeva a gradoni fino a una specie di palco centrale, un cerchio sopraelevato circondato da una selva luccicante di proiettori. Nessuna luce, salvo per gli ologrammi che si muovevano e tremolavano sopra il ring, riproducendo i movimenti dei due uomini in basso. Dense nubi di fumo di sigaretta s’innalzavano dalle gradinate, incrociando le correnti prodotte dai ventilatori che sostenevano la cupola. Nessun suono, salvo l’ovattato ronzio dei ventilatori e il rauco ansimare amplificato dei combattenti.

I riflessi colorati scivolavano sulle lenti di Molly mentre i lottatori si muovevano in cerchio. Gli ologrammi erano ingrandimenti alla decima potenza, i coltelli che impugnavano erano lunghi soltanto d’un capello meno d’un metro. La stretta d’un combattente con il coltello è quella di uno schermidore, ricordò Case: le dita incurvate, il pollice allineato con la lama. I coltelli parevano muoversi di propria iniziativa, planando con una rituale mancanza di fretta attraverso gli archi e i più complicati passaggi della loro danza, la punta che guizzava accanto all’altra punta mentre gli avversari guatavano in attesa d’un minimo spiraglio. Il viso rivolto all’insù di Molly era liscio e immobile, intento a osservare.

— Vado a cercare qualcosa da mangiare — disse Case. Lei annuì, smarrita nella contemplazione della danza.

Non gli piaceva quel posto.

Si girò e rifece il percorso inverso in mezzo alle ombre. Troppo buio. Troppo tranquillo.

Vide che la folla era composta soprattutto di giapponesi. Non una vera folla di Night City. Tecnici scesi fin laggiù dai loro falansterii. Suppose che ciò significasse che l’arena aveva l’approvazione del comitato ricreativo di qualche grossa multi. Si chiese per un attimo cosa avrebbe significato lavorare tutta la vita per qualche zaibatsu. La casa della compagnia, l’inno della compagnia, il funerale della compagnia.

Fece quasi un giro completo della cupola prima di trovare le bancarelle degli alimenti, dove comperò degli spiedini yakitori e due alti bicchieri cerati di birra. Sollevando lo sguardo sugli ologrammi, vide che il sangue disegnava un merletto sul petto di una delle due figure. La densa salsa rosso-bruna gocciolò dagli spiedini sopra le sue nocche.

Sette giorni e poi si sarebbe collegato. Se chiudeva gli occhi vedeva la matrice.

Le ombre si deformarono quando gli ologrammi piroettarono nella loro danza.

Poi la paura cominciò a irrigidirgli i muscoli delle spalle. Un gelido rivolo di sudore gli scivolò lungo le costole. L’operazione non aveva funzionato. Era ancora là, ancora carne, nessuna Molly in attesa, con gli occhi calamitati dai coltelli che giravano in tondo, non c’era nessun Armitage ad aspettarlo all’Hilton con i biglietti, un nuovo passaporto e i soldi. Era tutto un sogno, una patetica fantasia… Lacrime roventi gli offuscarono la vista.

Il sangue sprizzò da una giugulare in un fiotto di luce rossa. E adesso la folla si era alzata in piedi, urlando, urlando… mentre una figura si accartocciava al suolo… l’ologramma cominciava a dissolversi, tremolando…

Nella gola, l’urto acido del vomito. Case chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Poi li riaprì, e vide Linda Lee che gli passava davanti, gli occhi grigi accecati dalla paura. Indossava la tuta francese.

E scomparve, in mezzo alle ombre.

Un puro riflesso insensato: buttò la birra e il pollo e la rincorse. Forse la chiamò per nome, ma non ne sarebbe mai stato sicuro.

Un’immagine residua d’una singola linea rossa sottile come un capello. Il cemento bruciacchiato sotto le suole sottili delle scarpe.

Le scarpe bianche da ginnastica di lei che adesso lampeggiavano vicino alla parete ricurva, e ancora una volta la linea fantasma del laser gli si impresse davanti agli occhi come un marchio infuocato, continuando a pulsare nel suo campo visivo mentre correva.

Qualcuno gli fece lo sgambetto. Il cemento gli lacerò il palmo delle mani.

Rotolò e scalciò, mancando il bersaglio. Un ragazzo magro, con i capelli biondi irti come chiodi, illuminati da dietro da un alone di tutti i colori dell’arcobaleno, si stava chinando su di lui. Sopra il palco una figura si girò, il coltello sollevato, fra gli evviva della folla. Il ragazzo sorrise e tirò fuori qualcosa dalla manica. Un rasoio, profilato in rosso mentre un terzo raggio li oltrepassava lampeggiando, perdendosi nel buio. Case vide il rasoio scendere verso la propria gola come la bacchetta di un rabdomante.

Il volto fu cancellato da una nube ronzante di microscopiche esplosioni. Le freccette di Molly, a venti colpi al secondo. Il ragazzo tossì una volta, convulsamente, poi si accasciò sulle gambe di Case.

Questi s’incamminò verso le bancarelle, in mezzo alle ombre. Guardò in giù, aspettandosi di vedere l’ago color rubino spuntare dal proprio petto. Niente. La trovò. Era riversa ai piedi d’un pilone di cemento, con gli occhi chiusi. C’era un odore di carne cotta. La folla stava cantilenando il nome del vincitore. Un venditore di birra stava pulendo le spine con uno straccio scuro. In qualche modo una scarpetta bianca le si era sfilata, e giaceva accanto alla testa.

Seguì la parete. La curva di cemento. Con le mani in tasca. Continuò a camminare, passando davanti a facce invisibili, gli occhi sollevati verso l’immagine del vincitore sul ring. In un’occasione una faccia europea costellata di cicatrici danzò al bagliore d’un fiammifero, le labbra si contrassero intorno al corto stelo d’una pipa metallica. Un forte odore di hashish. Case continuò a camminare senza sentire niente.

— Case? — I suoi specchi emersero da un’ombra più profonda. — Stai bene?

Qualcosa miagolò e gorgogliò nell’oscurità dietro Molly.

Lui scosse il capo.

— Il match è finito, Case. È ora di ritornare a casa.

Cercò di oltrepassarla, di addentrarsi nel buio dove qualcosa stava morendo. Lei lo fermò appoggiandogli una mano sul petto. — Amici del tuo amico più stretto. Hanno ucciso la tua ragazza per te. Non te la cavi molto bene con gli amici in questa città, vero? Abbiamo un profilo parziale di quel vecchio bastardo da quando abbiamo fatto il tuo, amico. Ammazzerebbe la mamma per una manciata di nuovi yen. Quello là dietro ha detto che!e sono arrivati addosso quando ha cercato di vendere la tua RAM. Meno costoso per loro ucciderla e prendersela. Hanno risparmiato un po’ di soldi… Ho fatto in modo che quello con il laser mi raccontasse tutto. Una pura coincidenza che ci fossimo anche noi, ma dovevo esserne sicura. — Le sue labbra erano dure, irrigidite in una linea sottile.

A Case parve di avere cervello come bloccato. — Chi… chi li ha mandati?

Molly gli passò una borsa chiazzata di sangue con un intenso sentore di zenzero conservato. Lui vide che aveva le mani sporche di sangue rappreso. Là dietro, in mezzo alle ombre, qualcuno emise ancora qualche gorgoglio prima di morire.


Dopo il controllo postoperatorio alla clinica, Molly l’accompagnò fino al porto. Armitage li stava aspettando. Aveva affittato un hovercraft. L’ultima cosa che Case vide di Chiba furono gli scuri profili delle arcologie. Poi la nebbia si chiuse sopra le acque nere e i banchi di rifiuti alla deriva.

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