Era ormai evidente per Toller Maraquine e per qualche altro che guardava da terra che l’aeronave si stava mettendo nei guai, ma incredibilmente il suo capitano sembrava non notarlo.
— Che cosa pensa di fare, quel pazzo? — disse Toller a voce alta sebbene non ci fosse nessuno a portata d’orecchio. Si riparò gli occhi dal sole per vedere meglio quello che stava succedendo.Il panorama era quello familiare a chiunque vivesse a quelle latitudini di Mondo, mare calmo color indaco, cielo blu chiaro spruzzato di bianco qua e là, e il nebuloso disco del pianeta gemello, Sopramondo, sospeso immobile quasi allo zenit, continuamente attraversato da strisce di nubi. Nonostante la luce abbagliante dell’antigiorno, si vedevano anche diverse stelle, soprattutto le nove più luminose che costituivano la costellazione dell’Albero.
Su quello sfondo l’aeronave si faceva trasportare dalla leggera brezza marina, permettendo così al comandante di risparmiare cristalli di energia. Il vascello si stava dirigendo direttamente verso la riva, e in quella prospettiva appariva come un cerchio grigio e blu, minuscola eco visiva di Sopramondo. Aveva un’andatura stabile, ma quello che il suo capitano aveva apparentemente mancato di notare era che la brezza di mare cui si era affidato era molto bassa, non più’ di trecento piedi. Sopra la nave spirava un vento occidentale che veniva giù dall’altopiano Haffanger e che soffiava nella direzione opposta. Toller poteva seguire il doppio flusso d’aria con precisione perché le colonne di vapore provenienti dai paioli di riduzione del pikonio, lungo la spiaggia, si spostavano verso l’interno solo per un breve tratto prima di alzarsi ed essere portate verso il mare. In quella sottile foschia creata dall’uomo s’insinuavano lembi di nuvole provenienti dal tetto dell’altopiano: era lì che si nascondeva il pericolo per l’aeronave.
Toller tolse dalla tasca il tozzo cannocchiale che si portava dietro fin da quando era bambino e scrutò gli strati della nuvola. Come già aveva in parte previsto, nel giro di pochi secondi riuscì a distinguere varie macchioline sfocate di blu e cremisi sospese nel nucleo di vapore bianco. Un osservatore casuale avrebbe potuto non notarle affatto, o considerarle un effetto ottico, ma il senso d’allarme di Toller si fece più intenso. Il fatto che lui fosse stato in grado di individuare qualche ptertha così in fretta significava che l’intera nube doveva esserne carica, e che portava lentamente centinaia di quelle creature verso la nave.
— Usa un eliografo — sbraitò con tutta la potenza dei suoi polmoni. — Dite a quel pazzo di virare, o di andare su, o giù, o…
Reso incoerente dal pericolo incombente, Toller si guardava intorno cercando di decidere una linea d’azione. Le sole persone visibili tra i paioli rettangolari e i bidoni per il carburante erano i rifornitori seminudi e i fuochisti. Sembrava che tutti i sorveglianti e gli impiegati fossero all’interno delle costruzioni dalle larghe grondaie della stazione vera propria, per ripararsi dal calore crescente del giorno. I bassi edifici erano nel tradizionale stile Kolcorriano, mattoni gialli e arancio ne strutturati in complicati disegni a forma di diamante ricoperti di arenaria rossa ad ogni angolo e bordo, e somigliavano in qualche modo a serpenti sonnecchianti nell’intensa luce solare. Toller non riusciva nemmeno a scorgere nessuno alle strette finestre verticali. Premendo una mano sulla sua spada per tenerla ferma, corse verso l’ufficio dei sovrintendenti.
Toller era insolitamente alto e muscoloso per essere un membro di un ordine filosofico, e gli addetti che rimestavano i paioli di pikonio si fecero rapidamente da parte per evitare di intralciare il suo cammino. Proprio mentre stava per raggiungere la costruzione a un solo piano, un giovane archivista, Comdac Gurra, ne uscì con un eliografo. Nel vedere che Toller stava per travolgerlo, Gurra si tirò indietro e fece il gesto di porgergli lo strumento. L’altro lo respinse.
— Fallo tu — disse con insofferenza, cercando di nascondere il fatto che lui sarebbe stato troppo lento a mettere insieme le parole di un messaggio. — Hai quell’affare in mano, che cos’aspetti?
— Scusa, Toller. — Gurra puntò l’eliografo verso l’aeronave che si avvicinava e le bacchette di vetro mandarono un rumore secco quando lui cominciò ad azionare la leva di comando.
Toller saltellava da un piede all’altro in attesa di un cenno che dicesse che il pilota stava ricevendo e prendendo in considerazione l’avvertimento luminoso. La nave scivolò in avanti, cieca e tranquilla. Toller alzò il cannocchiale e concentrò lo sguardo sulla navicella blu, notando con una certa sorpresa che portava l’emblema della piuma e della spada, il contrassegno dei messaggeri reali. Quale ragione poteva mai avere il Re per comunicare con una delle più remote stazioni sperimentali dei Lord Filosofi?
Dopo quella che sembrò un’eternità, l’immagine ingrandita gli permise di cogliere movimenti frettolosi dietro il parapetto del ponte di prua. Alcuni secondi dopo, dal fianco sinistro della navicella, uscirono sbuffi di fumo grigio che segnalavano l’accendersi dei tubi di propulsione laterali. Lo scafo dell’aeronave ondeggiò e si inclinò mentre il velivolo ruotava bruscamente verso destra. Stava rapidamente riprendendo quota durante la manovra, ma ormai sfiorava il bordo della nube, sparendo più volte alla vista sommersa da riccioli di vapore. Un grido di disperazione, ben modulato nonostante la distanza, raggiunse gli osservatori ammutoliti in fila sulla riva, e alcuni degli uomini si mossero a disagio.
Toller pensò che qualcuno a bordo della nave si fosse imbattuto in un ptertha e sentì un brivido di terrore. Era un incubo che lo aveva destato di soprassalto molte volte, la notte. L’essenza vera dell’incubo non stava nelle visioni di morte, ma nella sensazione assoluta di impotenza, nell’inutilità del cercare di difendersi una volta che un ptertha era entrato nel suo raggio d’azione mortale. Di fronte ad assassini o ad animali feroci, un uomo poteva, a dispetto di qualsiasi svantaggio, soccombere combattendo, trovando in quel modo una strana riconciliazione con la morte, ma quando i lividi globi arrivavano fiutando e fremendo come segugi, non c’era niente da fare.
— Cosa sta succedendo qui? — A parlare era stato Vorndal Sisstt, capo della stazione, che era apparso all’entrata principale della costruzione dei sovrintendenti. Era un uomo di mezza età, con una tonda testa pelata e l’atteggiamento rigido e impettito di chi ha il complesso di una statura inferiore alla media. Il suo volto abbronzato dai lineamenti precisi inalberava un’espressione di fastidio misto a preoccupazione.
Toller indicò l’aeronave che scendeva. — Qualche idiota ha fatto tutta quella strada solo per suicidarsi.
— Abbiamo mandato un avvertimento?
— Sì, ma penso che ormai fosse troppo tardi — rispose Toller. — C’erano ptertha tutt’intorno alla nave un minuto fa.
— È terribile — disse Sisstt con voce tremula, premendosi il dorso di una mano sulla fronte.
Darò ordine di alzare gli schermi.
— Non ce n’è bisogno; la nuvola non scenderà più giù di così e i globi non ci attaccheranno sul terreno aperto e in piena luce del giorno.
— Non voglio correre rischi. Chi può sapere che cosa i…
Sisstt si interruppe e guardò in su verso Toller con occhio torvo, felice di aver trovato un comodo bersaglio per dare sfogo alle sue emozioni. — Esattamente, quando vi è stato conferito il potere di prendere decisioni esecutive qui? In quella che io credo sia la mia stazione? Lord Glo vi ha elevato di grado senza informarmi?
— Nessuno ha bisogno di essere elevato quando ci siete voi di mezzo — rimbeccò sgarbatamente Toller al sarcasmo del capo, mentre il suo sguardo restava fisso sull’aeronave che ora stava scendendo in picchiata verso la riva.
La mascella di Sisstt si contrasse e i suoi occhi si strinsero mentre lui cercava di decidere se il commento si riferiva alla sua statura fisica o alle sue capacità. — Questa era un’insolenza — accusò. — Insolenza e insubordinazione, e farò in modo che arrivi all’orecchio di certe persone.
— Non piagnucolate — disse Toller allontanandosi. Corse giù sul basso pendio della spiaggia, dove un gruppo di operai si era riunito per dare assistenza nell’atterraggio. Le ancore multiple della nave strisciarono tra la schiuma delle onde e poi sulla sabbia, tracciando linee scure sulla superficie bianca. Gli uomini afferrarono le funi e le caricarono del loro peso per bilanciare gli ultimi tentativi del velivolo di alzarsi di nuovo nelle instabili brezze. Toller poteva vedere il capitano sporgersi oltre il parapetto di prua mentre dirigeva le operazioni. Sembrava che ci fosse una certa confusione al centro della nave, come se dei membri dell’equipaggio stessero lottando tra loro. Forse qualcuno che era stato abbastanza sfortunato da arrivare troppo vicino a un ptertha era diventato violento, come succedeva ogni tanto, e i suoi compagni stavano cercando di immobilizzarlo.
Toller si fece avanti, afferrò una fune penzolante e la tenne tesa per aiutare a guidare l’aeronave verso i paletti di attracco allineati sulla riva. Finalmente la chiglia della navicella scricchiolò contro la sabbia e alcuni uomini in giubbotto giallo saltarono giù dalla fiancata. Il pericolo evitato per un pelo li aveva evidentemente scossi. Imprecando furiosamente e spingendo da parte gli addetti al pikonio, con violenza non necessaria, cominciarono a ormeggiare la nave. Toller poteva comprendere il loro stato d’animo e sorrise con indulgenza mentre porgeva la sua cima a un aviere che si avvicinava, un uomo con le spalle a bottiglia e la pelle color sabbia.
— Perché ridi, mangia-sterco? — ringhiò l’uomo, cercando di prendere la fune.
Toller ritirò la corda e con lo stesso movimento la rilanciò a cappio e la strinse con forza intorno al pollice dell’uomo. — Chiedi scusa per quello che hai detto!
— Che diavolo…! — L’aviere fece il gesto di scaraventare Toller da una parte con il braccio libero e i suoi occhi si spalancarono quando si rese conto che non aveva a che fare con un tecnico scientifico normale. Voltò la testa per chiedere l’aiuto degli altri avieri, ma Toller lo distolse stringendo maggiormente la fune.
— Questo è un affare tra me e te — disse con calma, usando l’avambraccio per aumentare la tensione della cima. — Vuoi fare le tue scuse o preferisci portarti dietro il pollice appeso a una catenina?
— Ti pentirai di… — La voce dell’aviere si fece più bassa e lui si chinò con la faccia bianca e ansimante quando una giuntura del dito mandò un suono schioccante chiaramente udibile. — Chiedo scusa. Lasciami andare! Chiedo scusa!
Così va meglio — disse Toller, sciogliendo la fune. — Ora possiamo essere amici. — Sorrise con falsa cordialità senza far trapelare lo sgomento che sentiva raccogliersi dentro di sé. Era successo di nuovo! La reazione sensata a un insulto di rito era ignorarlo o rispondere con gentilezza, ma in quell’istante il suo temperamento aveva preso il sopravvento su di lui, riducendolo al livello di una creatura primitiva governata dall’istinto. Non aveva deciso coscientemente di scontrarsi con l’aviere, eppure sapeva che sarebbe stato pronto a mutilarlo se le scuse non fossero arrivate. E quello che rendeva peggiore la faccenda era la consapevolezza di non saper fare marcia indietro, che il banale incidente avrebbe anche potuto sfociare in qualcosa di molto più grosso, con tutte le conseguenze del caso.
— Amici! — sbuffò l’altro, premendo forte la mano ferita contro lo stomaco, il viso contorto dal dolore e dall’odio.— Appena potrò di nuovo tenere in mano una spada, io… — Lasciò la minaccia in sospeso, mentre un uomo con la barba che indossava la pesante giubba ricamata di capitano di aviazione si dirigeva a gran passi verso di lui. Il capitano, che aveva circa quarant’anni, respirava rumorosamente e la stoffa color zafferano della sua giubba era macchiata di sudore marrone sotto le ascelle.
— Cosa ti succede, Kaprin? — disse, fissando severamente l’aviere.
Gli occhi di Kaprin ebbero un guizzo minaccioso in direzione di Toller, poi l’uomo abbassò la testa. — La mia mano è rimasta intrappolata in una cima, signore. Mi sono slogato il pollice, signore.
— Lavora il doppio con l’altra mano — disse il capitano congedandolo con un cenno e voltandosi verso Toller. — Sono il capitano d’aviazione Hlawnvert. Voi non siete Sisstt. Dov’è Sisstt?
— Là — Toller indicò il capo della stazione, che stava avanzando con passo incerto lungo il pendio del litorale, tenendo l’orlo della sua tunica grigia sollevato dagli ammassi di roccia.
— Così è quell’incosciente il responsabile.
— Responsabile di cosa? — chiese Toller, accigliandosi.
— Di avermi accecato con il fumo di quelle pentole da stufato. — La voce di Hlawnvert era carica d’ira e di disprezzo mentre faceva ruotare lo sguardo per abbracciare lo schieramento di paioli di pikonio e le colonne di vapore che stavano liberando nel cielo. Mi è stato detto che stanno cercando di produrre cristalli di energia, qui. È vero, o è soltanto uno scherzo?
Toller, benché deciso ad evitare un nuovo e più pericoloso scontro, si sentì tuttavia offeso dal tono di Hlawnvert. Essere nato in una casta di filosofi anziché di militari era il più grosso cruccio della sua vita, e lui passava molto del suo tempo a maledire il suo destino, ma gli dava fastidio sentirselo ricordare dagli estranei. Squadrò freddamente il capitano per alcuni secondi, prolungando l’occhiata fino ai limiti dell’aperto disprezzo, poi parlò come rivolgendosi a un bambino.
— Non si possono fare i cristalli — disse. — Si possono solo coltivare, se la soluzione è abbastanza pura.
— Allora qual è lo scopo di tutto questo?
— Ci sono buoni depositi di pikonio in questa zona. Lo stiamo estraendo e cerchiamo di trovare un modo per raffinarlo, per renderlo puro abbastanza da produrre una reazione.
— Una perdita di tempo — decretò Hlawnvert con distaccata sicurezza, lasciando cadere l’argomento e allontanandosi per affrontare Vorndal Sisstt.
— Buon antigiorno, capitano — disse Sisstt. — Sono così contento che siate atterrati sani e salvi. Ho dato ordine che i nostri schermi anti ptertha siano messi fuori immediatamente.
Hlawnvert scosse la testa. — Non ce n’è nessun bisogno. Oltretutto il danno è già fatto.
— Io… — Gli occhi azzurri di Sisstt si muovevano da una parte e dall’altra ansiosamente. — Non vi capisco, capitano.
— I fumi puzzolenti e la nebbia che state vomitando in cielo hanno alterato la nube naturale. Ci saranno dei morti tra il mio equipaggio. E io ve ne ritengo personalmente responsabile.
— Ma… — Sisstt diede un’occhiata indignata alla linea degli scogli, dalla quale, per molte miglia, si poteva vedere la nube strato per strato serpeggiare verso il mare. — Ma questo tipo di nube è una caratteristica normale di questa costa. Non riesco a capire come possiate farmi carico di…
— Silenzio! — Hlawnvert lasciò la presa sulla spada, fece un passo avanti e colpì il petto di Sisstt con il palmo della mano, facendolo ruzzolare lungo disteso sulla schiena, a gambe larghe.
— State mettendo in dubbio la mia competenza? State dicendo che sono stato disattento?
— Certamente no — Sisstt balzò in piedi e si scrollò la sabbia dagli abiti. — Perdonatemi, capitano. Ora che me lo fate notare, mi rendo conto che il vapore dei nostri paioli potrebbe essere un pericolo per gli avieri, in certe circostanze.
— Avreste dovuto predisporre segnali di avvertimento.
— Provvedere immediatamente — disse Sisstt. — Avremmo dovuto pensarci da soli molto tempo fa.
Toller avvertiva sul viso vampe brucianti d’indignazione, mentre osservava la scena. Il capitano Hlawnvert era un uomo ben piazzato, com’era normale per un militare, ma era anche flaccido e coperto di grasso, e persino uno del la taglia di Sisstt avrebbe potuto batterlo con l’aiuto della velocità e la potenza della rabbia nei muscoli. In più, Hlawnvert era stato criminalmente incompetente nel manovrare l’aeronave, anche se stava cercando di nasconderlo con la sua sfuriata; quindi l’andargli addosso avrebbe trovato piena giustificazione davanti a qualsiasi tribunale. Ma niente di tutto ciò aveva importanza per Sisstt. In conformità alla sua natura, il capo della stazione stava leccando la mano che lo aveva colpito. Più tardi avrebbe mascherato la sua codardia con qualche scherzo, e si sarebbe rifatto maltrattando i subordinati più giovani.
Nonostante la sua curiosità sul motivo della visita di Hlawnvert, Toller si sentì obbligato ad allontanarsi, per dissociarsi dal comportamento abietto di Sisstt. Era sul punto di andarsene quando un aviere con i capelli corti che portava le insegne bianche di tenente lo sfiorò e fece il saluto a Hlawnvert.
— L’equipaggio è pronto per la vostra ispezione, signore — disse con tono professionale.
Hlawnvert gettò uno sguardo alla fila di uomini in camicia gialla che aspettavano vicino alla nave.
— Quanti hanno preso la polvere?
— Solo due, signore. Siamo stati fortunati.
— Fortunati?
— Quello che voglio dire, signore, è che se non fosse stato per la vostra superba abilità di pilota le nostre perdite sarebbero state molto maggiori.
Hlawnvert annuì di nuovo.
Chi sono i due che perderemo?
— Pouksale e Lague, signore — rispose il tenente. — Ma Lague non vuole ammetterlo.
— Il contatto e stato confermato?
— L’ho visto io stesso, signore. Il ptertha è arrivato giusto a un passo da lui prima di scoppiare. Ha preso la polvere.
— Allora perché non lo ammette, da uomo? — disse Hlawnvert irritato. — Dovrebbe sapere che basta una sola faccia pallida a sconvolgere un intero equipaggio. — Guardò torvo in direzione degli uomini in attesa, poi si voltò verso Sisstt. — Ho un messaggio per voi da parte di Lord Glo, ma ci sono determinate formalità di cui mi devo occupare prima. Aspetterete qui.
Il colore sparì dal viso di Sisstt.
— Capitano, sarebbe meglio se vi ricevessi nelle mie stanze. Inoltre, ho cose urgenti…
— Aspetterete qui — lo interruppe Hlawnvert, battendo il dito contro il petto di Sisstt con tanta forza da far barcollare il piccoletto. — Vi farà bene vedere quale danno ha causato il vostro inquinamento dei cieli.
Nonostante il disprezzo per il comportamento di Sisstt, Toller cominciò a desiderare di poter intervenire in qualche modo per mettere fine all’umiliazione dell’ometto, ma c’era un severo protocollo a governare le questioni di quel genere nella società Kolcorriana. Prendere le parti di un uomo in un confronto, senza essere stati invitati a farlo, significava aggiungere un nuovo insulto dandogli implicitamente del codardo.
Facendosi avanti solo il tanto consentito, quando il capitano si voltò per dirigersi verso la nave, Toller si mise proprio sulla sua strada, ma la tacita sfida rimase inosservata. Hlawnvert gli passò a fianco con il viso rivolto al cielo, dove il sole si stava avvicinando a Sopramondo.
— Facciamo in modo che questa faccenda sia chiusa e sistemata prima della piccola notte — disse il capitano al tenente. — Abbiamo già perso troppo tempo qui.
— Sì, signore. — Il tenente marciò davanti a lui verso gli uomini schierati al riparo dell’aeronave che continuava a ondeggiare sulla brezza, e alzò la voce. — Si facciano avanti tutti gli avieri che hanno ragione di credere che presto saranno incapaci di adempiere ai loro compiti.
Dopo un momento di esitazione un giovane dai capelli neri fece due passi avanti. Il suo viso triangolare era talmente pallido da essere quasi luminoso, ma l’uomo aveva un portamento eretto e sembrava mantenere bene il controllo di se stesso. Il capitano Hlawnvert gli si avvicinò e gli appoggiò una mano su ciascuna spalla.
— Aviere Pouksale — disse con calma — hai preso la polvere?
— Sì signore. — La sua voce suonava piatta, rassegnata.
— Hai servito il tuo Paese valorosamente, e il tuo nome verrà segnalato al Re. Ora, vuoi intraprendere la Strada Luminosa o la Strada Nebbiosa?
— La Strada Luminosa, signore.
— Bravo ragazzo. La tua paga sarà conteggiata alla fine del viaggio e mandata al tuo parente più prossimo. Puoi ritirarti.
— Grazie, signore.
Pouksale fece il saluto e aggirò la prua della navicella dell’aeronave sparendo dietro l’altra fiancata. Fu così nascosto alla vista dei suoi vecchi compagni d’equipaggio, secondo l’usanza, ma Toller vide il carnefice che gli andava incontro, mentre Sisstt e molti degli addetti al pikonio si mettevano in fila lungo la riva. La spada del boia era larga e pesante, con la lama di legno brakka di un nero puro, senza gli intarsi di smalto che normalmente decoravano le armi Kolcorriane.
Pouksale si inginocchiò docilmente. Le sue ginocchia avevano a malapena toccato la sabbia che il boia, agendo con pietosa sveltezza, lo aveva già incamminato sulla Strada Luminosa. Lo scenario davanti a Toller, tutto di gialli e ocra e ombre indistinte di blu, aveva ora una macchia di vivido rosso.
Al suono del colpo mortale, un mormorio di disagio passò nella fila degli avieri. Alcuni alzarono gli occhi a guardare Sopramondo, e il movimento silenzioso delle loro labbra indicò che stavano augurando all’anima del loro compagno un viaggio sicuro verso il pianeta gemello. Per la maggior parte, comunque, gli uomini fissarono tristemente il terreno. Erano stati reclutati nelle affollate città dell’impero, dove c’era un considerevole scetticismo verso le teorie della Chiesa secondo cui le anime degli uomini erano immortali e si alternavano senza fine tra Mondo e Sopramondo. Per loro morte significava morte, non una piacevole passeggiata lungo il mistico Alto Sentiero che collegava i due pianeti. Toller sentì un debole suono soffocato alla sua sinistra e voltandosi vide Sisstt che si copriva la bocca con entrambe le mani. Il capo della stazione stava tremando e sembrava sul punto di svenire da un momento all’altro.
— Se andrete giù saremo bollati come un branco di vecchiette — sibilò Toller ferocemente. — Che cosa vi prende?
— Che barbarie. — Le parole di Sisstt erano confuse. — Che terribile barbarie… Che speranza c’è per noi?
— L’aviere ha avuto libera scelta. E si è comportato bene.
— Non siete migliore di… — Sisstt si interruppe quando udì il rumore di una colluttazione scoppiata vicino all’aeronave. Due avieri ne avevano afferrato un terzo per le braccia e nonostante la sua resistenza lo stavano trascinando davanti a Hlawnvert. Il prigioniero era alto e allampanato, con uno stomaco assurdamente tondo.
— … Non può avermi visto, signore — stava gridando. — Ed ero controvento rispetto ai ptertha, quindi la polvere non può essersi in nessun modo avvicinata a me. Ve lo giuro, signore. Non ho preso la polvere!
Prima di parlare, Hlawnvert si posò le mani sui larghi fianchi e alzò gli occhi al cielo in un gesto di sopportazione. — Aviere Lague, il regolamento richiede che io accetti le tue affermazioni. Ma lascia che chiarisca la tua posizione. Non ti verrà offerta di nuovo la Strada Luminosa. Ai primissimi segni di febbre o di paralisi sarai buttato fuori bordo. Vivo. La tua paga dell’intero viaggio sarà trattenuta e il tuo nome sarà tolto dal registro reale. Ti è chiaro quello che ho detto?
— Sì, signore. Grazie, signore. — Lague cercò di buttarsi ai piedi di Hlawnvert, ma l’uomo al suo fianco lo tirò su con uno strattone. — Non c’è niente di cui preoccuparsi, signore. Non ho preso la polvere.
A un ordine del tenente i due uomini lo liberarono e Lague camminò lentamente all’indietro per rientrare nei ranghi. La fila si aprì per fargli spazio, lasciando un vuoto più grande del necessario, creando una tangibile barriera. Toller immaginò che l’aviere avrebbe trovato ben poca comprensione nei successivi due giorni, che erano il tempo necessario perché i primi effetti del veleno dei ptertha diventassero visibili.
Il capitano Hlawnvert salutò il tenente, lasciandogli il compito di terminare l’ispezione, e risalì il pendio verso Sisstt e Toller. Chiazze di colore trasparivano fra i riccioli della sua barba e le macchie di sudore sulla giubba erano diventate più grandi. Guardò su, verso l’alta volta del cielo, dove il margine orientale di Sopramondo aveva cominciato a illuminarsi mentre il sole si muoveva alle sue spalle, e fece un gesto impaziente come ordinando al sole di sparire più in fretta.
— C’è troppo caldo per questo tipo di seccature — ringhiò. — Ho una lunga strada da percorrere e l’equipaggio sarà praticamente inutilizzabile finché quel codardo piagnucoloso non sarà buttato fuori bordo. Bisognerà cambiare i regolamenti di servizio se queste nuove voci non saranno smentite al più presto.
— Ah… — Sisstt si sforzava di tenersi eretto, lottando per riguadagnare la sua compostezza. — Nuove voci, capitano?
— Si dice che alcuni soldati semplici, giù a Sorka, siano morti dopo aver toccato vittime dei ptertha.
— Ma la pterthacosi non è contagiosa.
— Questo lo so — disse Hlawnvert. — Solo un cretino senza spina dorsale ci penserebbe due volte, ma questo è quello che troviamo per gli equipaggi aerei, oggigiorno. Pouksale era uno dei miei pochi uomini affidabili e l’ho perso per quella vostra dannata nebbia.
Toller, che stava osservando un piccolo corteo funebre che raccoglieva i resti di Pouksale, sentì di nuovo un senso di fastidio per la ripetizione dell’accusa e per il servilismo del suo capo.— Non dovete continuare a incolpare la nostra nebbia, capitano — disse dando a Sisstt uno sguardo significativo. — Non c’è nessuno qui che abbia l’autorità di discutere i fatti.
Hlawnvert lo attaccò immediatamente. — Cosa volete dire con questo?
Toller fece un lento, amichevole sorriso. — Voglio dire che tutti noi abbiamo un quadro ben chiaro di quello che è successo.
— Qual è il vostro nome, soldato?
— Toller Maraquine. E non sono un soldato.
— Non siete un… — Lo sguardo d’ira di Hlawnvert lasciò il posto ad un altro di malizioso divertimento.— Cos’è questa storia? Cosa succede qui?
Toller rimase impassibile mentre lo sguardo del capitano assimilava i particolari anomali del suo aspetto: i capelli lunghi e gli abiti grigi da filosofo combinati con l’altezza e la muscolatura tipiche di un guerriero. Anche già il portare una spada lo distingueva dal resto della sua casta. Solo la mancanza di cicatrici e dei tatuaggi di campagne militari lo differenziava nell’aspetto fisico da un membro di sangue puro dell’ordine militare.
Lui studiò Hlawnvert a sua volta, e la sua antipatia crebbe mentre seguiva il processo mentale così chiaramente rispecchiato dal viso florido del capitano. Hlawnvert non era stato capace di mascherare la sua ansia per una possibile accusa di negligenza, ed ora si sentiva sollevato ritenendosi abbastanza al sicuro. Qualche vaga allusione alla sua carriera di sfidante era tutta la difesa di cui aveva bisogno nella rigida gerarchia a piramide di Kolcorron. Le sue labbra si contrassero mentre faceva una scelta nel repertorio di sarcasmi a sua disposizione.
“Vai avanti” pensò Toller, proiettando il messaggio silenzioso con tutta la forza del suo essere. “Dì le parole che metteranno fine alla tua vita”.
Hlawnvert esitò, come intuendo il pericolo, e di nuovo il filo dei suoi pensieri fu chiaramente leggibile. Voleva umiliare e screditare il villano di dubbia origine che aveva osato criticarlo, ma non se questo comportava un serio rischio. E chiamare aiuto sarebbe servito solo a fare di una sciocchezza un incidente molto più grave, che avrebbe sottolineato proprio la magagna che lui voleva nascondere. Alla fine, decisa la tattica da adottare, uscì in un sogghigno forzato.
— Se non siete un soldato dovreste fare attenzione a portare quella spada — disse giovialmente. — Potreste sedervici sopra e farvi male.
Toller si rifiutò di facilitargli le cose. — La spada non è un pericolo, per me.
— Mi ricorderò il vostro nome, Maraquine — disse Hlawnvert a voce bassa. In quel momento l’addetto a scandire il tempo della stazione suonò il corno che segnava l’inizio della piccola notte, modulando la doppia nota che veniva usata in caso di alta attività dei ptertha. Ci fu un fuggi-fuggi generale tra gli addetti al pikonio verso la sicurezza delle costruzioni. Hlawnvert si allontanò da Toller, mise un braccio intorno alle spalle di Sisstt e lo condusse in direzione dell’aeronave.
— Venite a bere qualcosa nella mia cabina — disse. — Troverete piacevole e comodo stare lì dentro con il portello chiuso e potrete ricevere in privato gli ordini di Lord Glo.
Toller si strinse nelle spalle e scosse la testa mentre i due uomini si allontanavano. L’eccessiva familiarità del capitano era già di per sé una violazione del codice di comportamento, e la sua sfacciata ipocrisia nell’abbracciare un uomo che aveva appena buttato a terra era a dir poco un insulto. Accordò a Sisstt lo status di un cane, che acconsentiva ad essere frustato e coccolato secondo il capriccio del suo padrone. Ma il capo della stazione, fedele ai suoi colori, sembrava non farci caso. Un’improvvisa risata di Hlawnvert simile a un barrito fece capire che Sisstt aveva già cominciato con le sue battute scherzose, gettando le basi per la versione dell’incontro che poi avrebbe fatto circolare tra il personale, aspettandosi di essere creduto. “Al capitano piace che la gente pensi che è un vero orco, ma quando lo conoscerete bene quanto lo conosco io…”
Di nuovo Toller si ritrovò a chiedersi quale fosse la natura della missione di Hlawnvert. Quali nuovi ordini potevano essere tanto urgenti e importanti da indurre Lord Glo a inviare un corriere speciale invece di servirsi del trasporto normale? Stava forse per succedere qualcosa che avrebbe rotto la noia mortale della vita nella remota stazione? O era sperare troppo?
Mentre da occidente scendeva l’oscurità, Toller guardò su verso il cielo e vide un ultimo violento guizzo di sole svanire dietro l’incombente immensità di Sopramondo. Mentre la luce diminuiva bruscamente, le zone del cielo senza nubi si riempirono di stelle, comete e spirali dal nebuloso splendore. La piccola notte stava cominciando, e sotto il suo manto i globi silenziosi dei ptertha avrebbero presto lasciato le nuvole per spostarsi lentamente in basso, fino a livello del terreno, alla ricerca della loro preda naturale.
Guardandosi intorno, Toller si accorse di essere l’unico ancora all’aperto. Tutto il personale della base si era ritirato all’interno della stazione e l’equipaggio dell’aeronave era al sicuro sottocoperta. Poteva essere tacciato di incoscienza perché si attardava fuori così a lungo, ma era una cosa che faceva piuttosto spesso. Il flirtare con il pericolo aggiungeva sapore alla sua monotona esistenza ed era un modo di dimostrare la sostanziale differenza tra lui e un tipico membro di una famiglia di filosofi. Anche stavolta la sua andatura era più lenta e indifferente che mai mentre percorreva il dolce declivio che portava alla costruzione dei sovrintendenti. Era possibile che lo stessero tenendo d’occhio, e il suo codice personale gli dettava che più grande era il rischio di essere assalito da un ptertha meno impaurito sarebbe dovuto sembrare. Quando raggiunse la porta si fermò ancora un attimo, nonostante la sensazione di lento movimento alle sue spalle, poi sollevò il chiavistello ed entrò.
Dietro di lui, dominando il cielo a sud, le nove stelle dell’Albero si alzarono sull’orizzonte.
Il principe Leddravohr Neldeever si stava abbandonando all’unico passatempo che poteva farlo sentire di nuovo giovane.
Come figlio maggiore del Re, e come capo di tutte le forze militari di Kolcorron, ci si aspettava che si dedicasse principalmente a questioni di politica e di pura strategia militare. Nelle battaglie campali, il suo posto era nelle retrovie, in una postazione di comando estremamente protetta dalla quale poteva dirigere le operazioni restando al sicuro. Ma aveva poca o nessuna propensione a tirarsi indietro e a nominare delegati, nella cui competenza comunque raramente aveva fiducia, per godersi il vero e proprio lavoro di fare il soldato. Praticamente ogni fante e ogni ufficiale inferiore aveva una storia da osteria che raccontava come il principe fosse improvvisamente apparso al suo fianco nel mezzo della battaglia e lo avesse aiutato ad aprirsi la strada verso la salvezza. E Leddravohr incoraggiava il fiorire delle leggende, nell’interesse della disciplina e del morale.
Stava dirigendo l’offensiva della Terza Armata all’interno della Penisola di Loongl, al confine orientale dei possessi Kolcorriani, quando era giunta voce di una forte e inaspettata resistenza in una regione collinare. Le notizie supplementari sull’abbondanza degli alberi di brakka nella zona erano state sufficienti ad attirare Leddravohr in prima linea. Aveva sostituito la sua bianca corazza regale con una fatta di pelle bollita, e si era messo personalmente al comando di parte della spedizione.
Era appena sorta l’alba quando, accompagnato da un sergente maggiore di una certa esperienza di nome Reeff, si fece strada attraverso una bassa foresta verso l’orlo di una radura. Così ad oriente l’antigiorno era molto più lungo del dopogiorno, e Leddravohr sapeva di avere davanti molte ore di luce per organizzare un attacco ed effettuare successivamente un’operazione di raccolta completa. Era una sensazione piacevole sapere che altri nemici di Kolcorron sarebbero presto caduti a sguazzare nel sangue sotto la sua spada. Aprì cautamente l’ultimo schermo di foglie e studiò quello che stava accadendo davanti a lui.
Una zona circolare di circa quattrocento iarde di diametro era stata completamente ripulita della vegetazione tranne che per un boschetto di brakka al centro. Un centinaio di uomini e donne di una tribù Gethana erano raggruppati intorno agli alberi, e la loro attenzione era concentrata su qualcosa che stava in cima a dei sottili tronchi dritti. Leddravohr contò gli alberi e scoprì che erano nove, un numero che aveva legami magici e religiosi con la costellazione dell’Albero.
Alzò il binocolo da campo e vide, come si era aspettato, che il qualcosa sull’albero era una donna nuda. Era piegata in due intorno alla cima del tronco, lo stomaco premuto sull’orifizio centrale, ed era saldamente immobilizzata al suo posto da robuste corde ai polsi e alle caviglie.
— I selvaggi stanno facendo uno dei loro stupidi sacrifici — sussurrò Leddravohr, passando il suo binocolo a Reeff.
Il sergente osservò la scena per un buon minuto prima di restituire il binocolo. — I miei uomini potrebbero adibire la puttana a un uso migliore — disse, — ma questo ci rende la cosa più facile.
Indicò il sottile tubo di vetro assicurato alla sua cintura. Dentro c’era un pezzo di germoglio di canna segnato con un pigmento bianco a intervalli regolari. Uno scarafaggio da passo stava divorando il germoglio da una estremità, muovendosi con il ritmo costante tipico della sua razza.
— È oltre la quinta tacca — disse Reeff. — Le altre coorti saranno in posizione ormai. Dovremmo attaccare mentre i selvaggi sono distratti.
— Non ancora. — Leddravohr continuò a osservare i membri della tribù con il binocolo. — Vedo due guardie ancora rivolte all’esterno. Questa gente sta diventando un po’ più agguerrita, e non dimenticare che hanno copiato l’idea di un cannone da qualche parte. Se non li prendiamo completamente di sorpresa avranno il tempo di spararci addosso. Non so tu, ma io non voglio fare colazione con una roccia volante. La trovo piuttosto indigesta.
Reeff sorrise apprezzando la battuta. — Aspetteremo finché l’albero non scoppia.
— Non ci vorrà molto. Le foglie in alto si stanno già accartocciando. — Leddravohr guardò con interesse la prima delle quattro coppie di foglie gigantesche che si innalzava dalla normale posizione orizzontale e si arrotolava intorno al tronco. Il fenomeno succedeva circa due volte l’anno per tutto il periodo di maturità di un brakka allo stato selvatico, ma lui, come nativo di Kolcorron, l’aveva visto raramente. Nel suo Paese, permettere che un brakka si scaricasse da solo era considerato uno spreco di cristalli di energia.
Ci fu una breve pausa dopo che le foglie della cima si furono chiuse, poi il secondo paio tremò e oscillò lentamente verso l’alto. Leddravohr sapeva che sotto, nel terreno, la sezione che divideva la camera di combustione dell’albero stava cominciando a dissolversi. Presto i verdi cristalli di pikonio estratti dal suolo dal sistema di radici superiori si sarebbero mescolati con quelli di alvelio purpureo raccolto dal sistema inferiore. Il calore e il gas così generati sarebbero rimasti stabili solo per poco, poi l’albero avrebbe scagliato il suo polline nel cielo con un’esplosione udibile nel raggio di molte miglia.
Prono sul letto di morbida vegetazione, Leddravohr sentì un calore pulsante all’inguine e si accorse che si stava eccitando sessualmente. Puntò il binocolo sulla donna legata in cima all’albero, cercando di cogliere qualche dettaglio del seno o delle natiche. Fino a quel momento era rimasta così immobile che lui aveva pensato che fosse incosciente, forse drogata, ma il movimento delle enormi foglie sotto di lei sembrava averle ricordato che la sua vita stava per finire.Sebbene le corde fossero strette troppo saldamente per permetterle qualunque reale tentativo di lotta, aveva cominciato a ruotare la testa da una parte all’altra, facendo svolazzare i lunghi capelli neri che le nascondevano il viso.
— Stupida puttana! — bisbigliò Leddravohr. Aveva limitato i suoi studi sulle tribù Gethane a una valutazione delle loro capacità militari, ma riteneva che la loro religione fosse il solito poco ispirato guazzabuglio di superstizioni dei Paesi arretrati di Mondo. Con ogni probabilità la donna si era realmente offerta come vittima volontaria per il rito di fertilità, credendo che il suo sacrificio le avrebbe garantito la reincarnazione come principessa su Sopramondo. Dosi generose di vino e fungo secco potevano rendere temporaneamente più persuasive idee di questo genere, ma non c’era niente come l’imminenza della morte per indurre a modelli di pensiero più razionali.
— Potrà anche essere una stupida puttana, ma mi piacerebbe averla sotto di me in questo momento — ringhiò Reeff. — Non so quale scoppierà prima, se quell’albero o il mio.
— Te la darò quando avremo finito il nostro lavoro — disse Leddravohr con un sorriso. — Quale metà prenderai per prima?
Reeff fece una smorfia nauseata, pieno di ammirazione per il modo in cui il principe poteva eguagliare il meglio dei suoi uomini in ogni branca dell’arte militare compresa l’oscenità. Leddravohr rivolse la sua attenzione alle sentinelle Gethane. Il suo binocolo da campo mostrava, come aveva previsto, che stavano lanciando sguardi sempre più frequenti verso l’albero sacrificale, sul quale la terza coppia di foglie aveva cominciato ad alzarsi. Lui sapeva che c’era una semplice ragione botanica per il comportamento dell’albero, poiché le foglie in posizione orizzontale sarebbero state strappate via dal rinculo della scarica di polline, ma il simbolismo sessuale era potente e irresistibile. Leddravonr confidava nel fatto che le guardie Gethane avrebbero fissato l’albero quando il momento culminante fosse arrivato. Mise via il binocolo e strinse fermamente la spada mentre le foglie abbracciavano il tronco con un perfetto tempismo, e l’ultimo paio cominciava ad incresparsi. Il frustare dei capelli della donna si era fatto frenetico e le sue grida erano vagamente udibili anche al margine della radura, mescolate al salmodiare di una voce maschile da qualche parte, al centro dell’assemblea tribale.
— Dieci nobili in più all’uomo che farà tacere il prete — disse Leddravohr, riaffermando il suo disgusto per tutti i mercanti di superstizioni e in particolare per quelli troppo codardi per partecipare di persona alla carneficina senza scopo.
Portò la mano all’elmetto e rimosse il cappuccio che aveva, nascosto il pennacchio rosso. I giovani tenenti che comandavano le altre tre coorti avrebbero notato il lampo di colore appena lui fosse uscito dalla foresta. Leddravohr si tenne pronto ad agire mentre il quarto paio di foglie si rizzava e si chiudeva intorno al tronco del brakka, dolce come l’abbraccio di un’amante. La donna legata sulla cima dell’albero rimase improvvisamente immobile, forse svenuta, forse pietrificata dal terrore. Un tangibile, pulsante silenzio scese sulla radura. Leddravohr sapeva che la camera di combustione dell’albero era già in attività, che la mistura di cristalli verdi e rossi era ormai pronta, che l’energia così creata poteva essere trattenuta solo per pochi secondi…
Il rumore dell’esplosione, benché diretta in alto, fu spaventoso. Il tronco del brakka si squarciò e fremette mentre la scarica di polline veniva proiettata verso il cielo, una vaporosa colonna qua e là tinta di sangue, circondata da anelli di fumo.
Leddravohr sentì il terreno sollevarsi sotto di lui per l’onda d’urto che si propagava nella foresta circostante, e subito dopo era in piedi e correva. Assordato dal terrificante boato dello spostamento d’aria, doveva affidarsi solo ai suoi occhi per valutare il grado di sorpresa nell’attacco. A sinistra e a destra poteva vedere i pennacchi arancione degli elmetti di due dei suoi tenenti, con dozzine di soldati che emergevano dagli alberi dietro di loro. Direttamente davanti a lui i Gethani stavano fissando incantati l’albero sacrificale, le cui foglie stavano già cominciando a srotolarsi, ma potevano accorgersi del pericolo da un secondo all’altro. Il principe era ormai a metà strada dalla guardia più vicina, e a meno che l’uomo non si fosse voltato in fretta, sarebbe morto senza nemmeno sapere cosa l’avesse colpito.
L’uomo si voltò. Il viso contorto, la bocca piegata in basso, mentre gridava l’allarme. Battè il piede destro su qualcosa nascosto nell’erba. Leddravohr sapeva che era la versione Gethana di un cannone, un tubo di brakka montato su una rampa bassa utile solo come arma anti-uomo. II piede della guardia aveva fatto a pezzi una capsula di vetro o di ceramica nella culatta attivando la carica di cristalli di energia ma, e questo era il motivo per cui Kolcorron non si curava delle armi di questo genere, prima dello sparo c’era un intervallo inevitabile. Ma per quanto breve fosse, non impedì a Leddravohr di compiere un’azione diversiva.Gridando un avvertimento ai soldati dietro di lui, girò verso destra e arrivò sul Gethano di fianco, proprio mentre il cannone faceva fuoco e scagliava il suo ventaglio di ciottoli e frammenti di roccia a crepitare sull’erba. La guardia era riuscita ad estrarre la spada, ma l’attenzione per il sacrificio l’aveva distratto dai suoi compiti e reso impreparato al combattimento. Leddravohr, senza nemmeno rompere la corsa, calò su di lui con un unico colpo sul collo e si gettò in mezzo alla confusione di figure umane nella radura.
Lo scorrere del tempo normale si fermò per Leddravohr mentre si faceva strada verso il centro dello spiazzo. Era solo vagamente consapevole dei suoni della battaglia, sottolineati dagli spari di un altro cannone. Almeno due dei Gethani che aveva ucciso erano giovani donne, qualcosa di cui i suoi uomini avrebbero potuto lagnarsi più tardi, ma lui aveva visto troppi buoni soldati perdere la vita cercando di fare distinzione tra i sessi durante una battaglia.
Modificare un colpo mortale in uno che stordisse soltanto comportava quell’attimo d’incertezza che poteva ridurre l’efficienza di combattimento, e bastava un batter di ciglia perché una lama nemica trovasse il suo bersaglio.
Alcuni Gethani stavano cercando di fuggire, solo per essere abbattuti o ricacciati indietro dai Kolcorriani che li circondavano. Altri stavano lottando meglio che potevano, ma la loro concentrazione sulla cerimonia era stata fatale e ora scontavano duramente la loro mancanza di vigilanza. Un gruppo di indigeni con i capelli intrecciati e strani tatuaggi sulla pelle si rifugiarono tra i nove alberi di brakka al centro e usarono i tronchi come fortificazioni naturali. Leddravohr vide due dei suoi uomini riportare serie ferite, ma la resistenza dei Gethani fu di breve durata. Intralciati dalla scarsità di spazio, erano un facile bersaglio per i soldati armati di picca della seconda coorte.
Tutto d’un tratto la battaglia finì.
Passata l’ebbrezza del massacro e riacquistata la calma, gli istinti più freddi di Leddravohr si rimisero all’erta. Scrutò i dintorni per essere sicuro di non trovarsi in pericolo personale e che le sole persone ancora in piedi fossero soldati Kolcorriani e donne Gethane catturate, poi alzò lo sguardo al cielo. Prima, nella foresta, lui e i suoi uomini erano stati al sicuro dai ptertha, ma ora erano all’aperto ed esposti a qualche rischio.
Il globo celeste che si presentava al suo sguardo sembrava strano a un nativo di Kolcorron. Lui era cresciuto con l’enorme e nebbiosa sfera di Sopramondo sospesa proprio sopra la testa, ma lì, sulla Penisola di Loongl, il pianeta gemello risultava spostato a ovest. Leddravohr poteva vedere il cielo aperto sopra di lui e questo gli dava una sensazione sgradevole, come se avesse lasciato un fianco scoperto in un piano di battaglia. Non avrebbe visto nessuno spettro luminoso bluastro spostarsi lentamente sullo sfondo disegnato di stelle mattutine, comunque, e decise che era meglio tornare a occuparsi del lavoro che aveva sotto mano.
La scena tutt’intorno gli era abituale, piena di un miscuglio di suoni familiari. Alcuni Kolcorriani si stavano gridando l’un l’altro battute volgari mentre si muovevano intorno ai Gethani feriti che uccidevano subito e raccoglievano trofei della battaglia. Gli indigeni avevano poco che potesse essere considerato di valore, ma le loro bacchette anti-ptertha a forma di “Y” sarebbero state un’interessante curiosità da mostrare nelle taverne di Ro-Atabri. Altri soldati stavano ridendo e schiamazzando mentre spogliavano la dozzina, più o meno, di donne Gethane che erano state prese vive. Era un’attività legittima a quel punto: uomini che avevano combattuto bene avevano diritto ai premi di guerra, e Leddravohr prestò solo l’attenzione sufficiente ad assicurarsi che nessuno fosse passato ad azioni più concrete.
In questo tipo di territorio un contrattacco nemico poteva scatenarsi molto in fretta, e un soldato in calore era una delle creature più inutili dell’universo.
Railo, Nothnalp e Chravell, i tenenti che avevano guidato le altre coorti, si avvicinarono al principe. La pelle dello scudo rotondo di Railo era malamente squarciata, e c’era una fasciatura rossa di sangue sul suo braccio sinistro, ma lui sembrava in forma e di ottimo umore. Nothnalp e Chravell stavano pulendo le loro spade con degli stracci, rimuovendo ogni traccia di sporco dagli intarsi di smalto delle lame nere.
— Un’operazione di successo, se non mi sbaglio — disse Railo, facendo a Leddravohr l’informale saluto da campo.
Leddravohr annuì. — Quante perdite?
— Tre morti e undici feriti. Due dei feriti sono stati colpiti dal cannone. Non vedranno la piccola notte.
— Prenderanno la Strada Luminosa?
Railo sembrava offeso. — Certamente.
— Parlerò con loro prima che vadano — disse Leddravohr. Da buon pragmatista senza credenze religiose dubitava che il suo saluto significasse qualcosa per i soldati morenti, ma era il tipo di gesto che sarebbe stato apprezzato dai loro camerati. Come il suo permettere persino al più basso soldato semplice di parlargli senza le adeguate forme di appellativo, quello era uno dei modi con cui conservava l’affetto e la lealtà delle truppe.
Era lui il solo a sapere che i suoi motivi erano eminentemente pratici.
— Attacchiamo subito il villaggio Gethano? — Chravell, il più alto dei tenenti, rimise la spada nel fodero. — È a poco più di un miglio verso nord-est, e loro probabilmente hanno sentito il fuoco del cannone.
Leddravohr considerò la questione. — Quanti adulti ci sono ancora nel villaggio?
— Praticamente nessuno, secondo gli esploratori. Sono venuti tutti qui a vedere lo spettacolo. — Chravell diede una breve occhiata in alto agli anonimi brandelli di carne e ossa che penzolavano dalla cima dell’albero sacrificale.
— In questo caso il villaggio ha cessato di essere una minaccia militare ed è diventato un bene economico. Datemi una mappa. Leddravohr prese il foglio che gli porgevano e si appoggiò su un ginocchio per aprirlo sul terreno. La mappa era stata disegnata poco tempo prima da un gruppo di rilevazione aerea e metteva in risalto gli aspetti locali che interessavano ai comandanti Kolcorriani, misura e ubicazione degli insediamenti. Gethani, topografia, fiumi, e, cosa fondamentale dal punto di vista strategico, la distribuzione dei brakka nelle varie fasce boschive. Leddravohr la studiò con attenzione, poi delineò i suoi piani.
Circa venti miglia dopo il villaggio c’era una comunità molto più grande, codificata G31, capace di mettere in campo, secondo la stima, circa trecento uomini abili. Il terreno in mezzo sembrava a dir poco difficile. Era densamente boscoso, intersecato da ripide catene di monti, crepacci e torrenti a regime vorticoso; tutte cose che contribuivano a farne un incubo per i soldati Kolcorriani, tendenzialmente portati alla guerra in pianura.
— I selvaggi devono venire da noi — annunciò Leddravohr. — Una marcia forzata attraverso quel tipo di terreno stancherebbe qualunque uomo, quindi prima arriveranno meglio sarà per noi. Devo dedurre che questo per loro è un posto sacro?
— Il santo dei santi — rispose Railo. — È molto raro trovare nove brakka così vicini.
— Bene! La prima cosa che faremo sarà di buttare giù gli alberi. Date ordine alle sentinelle che lascino che qualche abitante del villaggio si avvicini abbastanza da vedere cosa sta succedendo, polli lascino andare via di nuovo. E appena prima che scenda la piccola notte mandate un distaccamento a bruciare il villaggio, giusto per far capire il messaggio. Se saremo fortunati i selvaggi saranno così esausti, quando arriveranno qui, che avranno appena la forza sufficiente per continuare a correre verso le nostre spade.
Leddravohr concluse la sua esposizione verbale, deliberatamente semplicistica, ridendo e lanciando di nuovo la mappa a Chravell. Era sua opinione che i Gethani di G31, anche se indotti a una difesa affrettata, sarebbero stati ossi più duri degli abitanti del villaggio della pianura. La battaglia futura, oltre a servire da esperienza ai tre giovani ufficiali, avrebbe dimostrato ancora una volta che a quarantanni lui era un soldato migliore di altri che ne avevano la metà. Si alzò respirando profondamente e con piacere, impaziente di vedere il resto di un giorno cominciato bene.
Nonostante lo stato d’animo rilassato, l’abitudine radicata lo spinse a controllare il cielo. Non si vedeva nessun ptertha, ma lui si allarmò per una traccia di movimento che indovinò in una di quelle fette verticali d’azzurro delineate dagli alberi, verso occidente. Tirò fuori il suo binocolo da campo, lo puntò sul più vicino squarcio di luce e subito dopo colse il fugace bagliore di un’aeronave che volava a bassa quota.
Si stava evidentemente dirigendo verso il centro di comando, a circa cinque miglia, nella zona occidentale della penisola. Il vascello era troppo lontano perché Leddravohr ne fosse certo, ma gli sembrava di aver visto l’emblema della piuma e della spada sul fianco. Corrugò la fronte, cercando di immaginare quale circostanza stesse portando uno dei messaggeri di suo padre in una regione così remota.
— Gli uomini sono pronti per la colazione — disse Nothnalp, togliendosi l’elmetto dal pennacchio arancione per potersi asciugare il sudore dal collo. — Due fette extra di maiale salato non farebbero male, anche con questo caldo.
Leddravohr annuì. — Suppongo che se lo siano meritati.
— Vorrebbero anche cominciare con le donne.
Non finché non metteremo al sicuro la zona. Assicuratevi che sia ben pattugliata, e fate avanzare immediatamente i fanghisti; voglio quegli alberi a terra, e in fretta. — Leddravohr si allontanò dai tenenti e cominciò un giro d’ispezione nella radura. Il rumore predominante era adesso quello delle donne Gethane che gridavano insulti nella loro barbara lingua, ma i fuochi delle cucine stavano cominciando a scoppiettare e si poteva distinguere la voce di Railo che gridava ordini ai capi plotone pronti per uscire di pattuglia.
Vicino alla base di uno dei brakka c’era una bassa piattaforma di legno, imbrattata di verde e giallo con i pigmenti opachi usati dai Gethani. Sulla piattaforma il corpo nudo di un uomo dalla barba bianca, giaceva con il busto coperto di numerose ferite di pugnale. Leddravohr immaginò che il morto fosse il sacerdote che aveva diretto la cerimonia del sacrificio, e la sua supposizione fu confermata quando notò il sergente maggiore Reeff e un soldato semplice che parlavano vicino alla rudimentale impalcatura. Le voci dei due uomini non si sentivano, ma stavano discutendo con la peculiare foga che i soldati riservavano all’argomento denaro, e Leddravohr comprese che stavano per giungere a un accordo. Aprì le cinghie della corazza e si sedette su un ceppo, aspettando di godersi le astuzie che avrebbe inventato Reeff. Un momento dopo il sergente maggiore mise il braccio intorno alle spalle dell’altro e lo guidò fino a lui.
— Questo è Soo Eggezo — disse Reeff. — Un buon soldato. È quello che ha fatto tacere il sacerdote.
— Buon lavoro, Eggezo.
Leddravohr diede uno sguardo gentile al giovane soldato, che evidentemente intimidito dalla sua presenza sembrava avere la lingua legata e non diede nessuna risposta. C’era un silenzio impacciato.
— Signore, avete generosamente offerto una ricompensa di dieci nobili per il sacerdote. — La voce di Reeff assunse una sincerità rauca. — Eggezo mantiene suo padre e sua madre a Ro-Atabri. Del denaro in più significherebbe moltissimo per loro.
— Certamente. — fece Leddravohr aprendo la borsa. Tirò fuori una banconota da dieci nobili e la porse a Eggezo. Aspettò finché le dita del soldato si furono quasi chiuse sul rettangolo blu di tessuto di vetro poi lo rimise in fretta dentro la borsa. Eggezo lanciò al sergente un’occhiata di disagio.
Ripensandoci — disse Leddravohr — questi potrebbero essere più… adatti. — Sostituì la prima banconota con due biglietti verdi da cinque nobili e li porse a Eggezo. Fece finta di non interessarsi a loro mentre i due uomini ringraziavano e correvano via. Avevano percorso a malapena venti passi prima di fermarsi per un’altra conversazione sussurrata, e quando si separarono Reeff stava piegando qualcosa in tasca. Leddravohr sorrise, decidendo di ricordarsi il nome di Reeff per la prossima occasione. Il sergente era il tipo di uomo di cui si sarebbe potuto occasionalmente servire: avido, stupido e del tutto prevedibile. Pochi secondi dopo il suo interesse per Reeff fu cancellato dai suoi pensieri da un grido di allegra protesta proveniente da molte gole Kolcorriane, che gli diceva che erano arrivati i fanghisti pronti a darsi da fare con i brakka.
Leddravohr si alzò in piedi, ansioso come chiunque di evitare di mettersi sottovento rispetto ai fanghisti, e guardò i quattro uomini seminudi sbucare dalla foresta circostante. Portavano grandi zucche vuote appese a gioghi imbottiti ed erano carichi di vanghe e altri attrezzi da scavo. I loro corpi erano striati dalla fanghiglia corrosiva che costituiva lo strumento essenziale del loro lavoro. Ogni loro manufatto era di vetro, pietra o ceramica, perché la fanghiglia avrebbe divorato in fretta tutti gli altri materiali, specialmente il legno di brakka. Anche i loro abiti erano in tessuto di vetro morbido.
— Fuori dai piedi, mangia-letame — urlò il panciuto capo mentre i nuovi venuti marciavano attraverso la radura in direzione dei brakka. Le sue parole provocarono una scarica di insulti da parte dei soldati, ai quali i fanghisti risposero con gesti osceni. Leddravohr si mosse per mettersi controvento rispetto ai quattro, in parte per sfuggire al fetore che emanavano ma soprattutto per assicurarsi che nessuna delle spore libere della fanghiglia gli finisse addosso. Il solo modo per liberarsi anche della più leggera contaminazione era una completa e dolorosa abrasione della pelle.
Raggiunto il brakka più vicino i fanghisti presero il loro equipaggiamento e cominciarono a lavorare di buona lena. Mentre scavavano per liberare il sistema superiore di radici, quello che estraeva il pikonio, continuarono a scambiare insulti con tutti i soldati che capitavano loro a tiro. Potevano farlo impunemente perché sapevano di essere una pietra miliare nell’economia Kolcorriana, un’elite reietta a cui erano accordati privilegi unici. Erano anche profumatamente pagati per i loro servizi. Dopo dieci anni come fanghista un uomo poteva agiatamente ritirarsi a vita privata, sempre che sopravvivesse al lungo processo di decontaminazione del virulento muco.
Leddravohr guardò interessato mentre le radici superiori venivano scoperte. Un fanghista aprì una delle zucche di vetro, e usando una spatola procedette a spalmare le radici principali con una sostanza appiccicosa simile al pus. Trattati con quella specie di solvente i brakka avevano spontaneamente dissolto le membrane della camera di combustione, e da quella fanghiglia uscì un odore nauseabondo di vomito bilioso, assurdamente mescolato alla dolce fragranza della felce bianca. Le radici, che avrebbero resistito alla lama più affilata, si gonfiarono visibilmente mentre la loro struttura cellulare veniva attaccata. Altri due fanghisti le fecero a pezzi con asce di ardesia, e lavorando con evidente energia a beneficio dei loro spettatori, scavarono ancora più giù per scoprire il sistema inferiore e il gonfiore bulboso della camera di combustione alla base del tronco.Dentro c’era un grosso quantitativo di cristalli di energia, che dovevano essere rimossi con la massima cautela per evitare contatto fra le due varietà, prima che l’albero potesse essere abbattuto.
— Fatevi indietro, mangia merda — gridò il fanghista più vecchio. — Fatevi indietro e lasciate… — La sua voce s’incrinò quando alzò gli occhi e si accorse per la prima volta della presenza di Leddravohr. Chinò il capo profondamente, con una grazia che stonava con il ventre nudo e striato di sporcizia, e disse:
— Non posso scusarmi, principe, perché chiaramente le mie osservazioni non erano indirizzate a voi.
— Ben detto — commentò Leddravohr, apprezzando tanta prontezza di spirito da una fonte così inusuale. — Sono contento di sapere che non soffri di tendenze suicide. Come ti chiami?
— Owpope, principe.
— Procedi con il tuo lavoro, Owpope. Non mi stanco mai di vedere la ricchezza del nostro Paese mentre viene prodotta.
— Con piacere, principe, ma c’è sempre un certo rischio di scoppio della camera, quando apriamo un albero.
Usate solo le vostre normali precauzioni — disse Leddravohr, incrociando le braccia. Il suo orecchio addestrato colse un mormorio di sussurri ammirati tra i soldati vicini, e lui seppe di aver aggiunto qualcos’altro alla sua reputazione. La notizia si sarebbe diffusa in fretta: “Leddravohr ama così tanto il suo popolo da parlare persino con un fanghista”. Quel piccolo episodio era una mossa calcolata nella costruzione della sua immagine, ma in verità lui non riteneva di degradarsi parlando con un uomo come Owpope, il cui lavoro era di genuina importanza per Kolcorron. Erano gli inutili parassiti, come i preti e i filosofi, l’oggetto della sua avversione e del suo disprezzo. Sarebbero stati i primi ad essere cancellati dalla faccia del Paese quando lui fosse diventato finalmente Re.
Si stava sedendo per osservare Owpope applicare una pennellata di limo alla base curva del tronco di brakka quando la sua attenzione fu di nuovo attirata da un movimento nel cielo, a est. L’aeronave era tornata e stava correndo via nella stretta banda di azzurro che separava Sopramondo dal muro frastagliato di alberi. Quella apparizione così veloce significava che non era atterrata su G1, dove si trovava il comando. Probabilmente il capitano aveva comunicato con la base per mezzo di un eliografo, e poi era andato direttamente verso la zona successiva, il che rendeva quasi certo che stava portando un messaggio urgente a Leddravohr da parte del Re.
Perplesso, il principe si riparò gli occhi dal riverbero del sole mentre guardava l’aeronave rallentare e fare manovra per atterrare nella radura della foresta.
Il domicilio di Lain Maraquine, conosciuto come la Casa Quadrata, si trovava su Greenmount, una collina tondeggiante alla periferia nord di Ro-Atabri, la capitale Kolcorriana.
Dalla finestra del suo studio si godeva una vista panoramica dei vari distretti della città, residenziali, commerciali, industriali e amministrativi, che scendevano digradando fino al fiume Borann e che sulla sponda opposta lasciavano il posto ai parchi che circondavano i cinque palazzi. Alle famiglie che facevano capo al Lord Filosofo era stato assegnato un gruppo di abitazioni e altri edifici in quel quartiere privilegiato molti secoli prima, durante il regno di Bytran IV, quando il loro lavoro era tenuto molto più in considerazione.
Lo stesso Lord Filosofo viveva in una costruzione isolata nota come Greenmount Peel, ed era un segno della sua antica importanza che tutte le case del distretto fossero state costruite in modo da guardare sul Grande Palazzo, così da facilitare le comunicazioni per mezzo dell’eliografo. Al momento, comunque, quei privilegi così prestigiosi servivano solo a incrementare la gelosia e il risentimento dei capi degli altri ordini. Lain Maraquine sapeva che il capo supremo degli industriali, il principe Chakkel, voleva Greenmount come ornamento del suo impero personale e stava facendo il possibile per fare sgomberare i filosofi e trasferirli in alloggi più modesti.
Era l’inizio del dopogiorno, la regione era appena emersa dall’ombra di Sopramondo e la città era bella mentre tornava alla vita dopo le sue due ore di buio. Chiazze di giallo, arancione e rosso degli alberi che stavano perdendo le foglie facevano da contrappunto ai verdi chiari e scuri di alberi con cicli di maturazione diversi, che stavano mettendo i germogli o erano in pieno rigoglio. Qua e là gli scafi lucidi e fiammeggianti delle aeronavi creavano circoli ed ellissi color pastello, e sul fiume si gonfiavano le vele bianche delle navi transoceaniche che portavano migliaia di prodotti dai punti più lontani di Mondo.
Seduto alla sua scrivania vicino alla finestra, Lain ignorava quella vista spettacolare. Per tutto il giorno aveva avvertito dentro di sé un curioso eccitamento e una strana sensazione di aspettativa. Non poteva esserne certo, ma prevedeva che quell’agitazione precedesse qualcosa di straordinaria importanza.
Da qualche tempo era incuriosito da una specie di fermento sotterraneo che riscontrava nei problemi interni del suo dipartimento, alimentati da una certa varietà di fonti. Erano problemi pratici, di routine, paragonabili a quelli di un vinaio che vuole sapere la forma più economica di giara nella quale commerciare una certa quantità di vino o a quelli di un agricoltore che deve decidere la miscela migliore di cereali per una determinata zona nei differenti periodi dell’anno.
Erano solo un’eco lontana dei giorni in cui i suoi antenati erano stati incaricati di ben altri compiti, come misurare la vastità del cosmo, eppure Lain aveva cominciato a sospettare che da qualche parte, nel cuore di quei banali indovinelli commerciali, si nascondesse un concetto le cui implicazioni erano più universali degli enigmi di astronomia. C’era sempre una quantità il cui valore era dettato dai cambi in un’altra quantità, e il problema era quello di trovare un equilibrio ottimale. Le soluzioni tradizionali prevedevano di fare numerose approssimazioni o di tracciare vertici su un grafico, ma una piccola voce nella testa di Lain aveva cominciato a sussurrargli qualcosa, e il suo messaggio elettrizzante e agghiacciante era che poteva esserci un modo per arrivare, con qualche tratto di penna, a una soluzione algebricamente precisa. Era qualcosa che aveva a che fare con la nozione matematica di limite, con l’idea che…
— Dovrai aiutarmi con la lista degli ospiti — disse Gesalla entrando nello studio pannellato. — Non posso fare nessun progetto decente se non mi dici nemmeno quante persone avremo.
Il bagliore nelle profondità della mente di Lain si estinse bruscamente, lasciandogli un senso di perdita che sparì in fretta quando alzò lo sguardo verso la sua solisposa dai capelli neri. La gravidanza appena iniziata aveva ristretto l’ovale del suo viso, facendo risaltare gli occhi scuri in un pallore che in qualche modo enfatizzava la sua intelligenza e il suo carattere. Non era mai sembrata più bella agli occhi di Lain, ma lui desiderò di nuovo che non avesse insistito ad avere il bambino. Quell’esile corpo dai fianchi stretti non gli sembrava adatto alla maternità, e ne temeva nascostamente le conseguenze.
— Oh, mi dispiace, Lain — si scusò lei, con un’espressione preoccupata sul viso. — Ho interrotto qualcosa di importante?
Lui sorrise e scosse la testa, ancora una volta colpito dal suo talento nel leggere i pensieri degli altri. — Non è troppo presto per preparare il Capodanno?
— Sì. — Lei affrontò il suo sguardo con calma, il suo modo di sfidarlo a trovare qualcosa di sbagliato nella propria efficienza. — Ora, riguardo ai tuoi ospiti…
— Prometto di mettere giù una lista prima della fine della giornata. Suppongo che sarà sempre il solito numero, anche se non sono sicuro se Toller sarà a casa quest’anno.
— Spero che non ci sia — disse Gesalla, arricciando il naso. — Non lo voglio. Sarebbe così piacevole avere una festa senza discussioni e scontri.
— È mio fratello — protestò Lain affettuosamente.
— Mezzo fratello sarebbe più giusto.
Il buon umore di Lain subì un fiero colpo. — Sono felice che mia madre non sia viva per sentire questo commento.
Gesalla andò immediatamente verso di lui, si sedette sulle sue ginocchia e lo baciò sulla bocca, stringendogli le guance con entrambe le mani per convincerlo a rispondere con lo stesso ardore. Era uno dei suoi soliti trucchi, ma non per questo era meno efficace. Sentendosi ancora privilegiato dopo due anni di matrimonio, lui fece scivolare la mano dentro la camiciola azzurra e accarezzò i piccoli seni. Dopo un attimo lei si alzò e lo fissò solennemente.
— Non intendevo mancare di rispetto a tua madre — disse. — È solo che Toller sembra più un soldato che un membro di questa famiglia.
— A volte si verificano strani casi genetici.
— E c’è la possibilità che non sappia nemmeno leggere.
— Abbiamo già discusso di questo — disse Lain con pazienza. — Quando arriverai a conoscerlo meglio capirai che è intelligente come qualunque altro membro della famiglia. Lui sa leggere, ma non lo fa correttamente a causa di qualche problema nel modo di percepire le parole stampate. In ogni caso, quasi tutti i militari sono letterati, quindi la tua osservazione perde di rilevanza.
— Bene… — Gesalla sembrava insoddisfatta. — Bene, ma perché deve creare difficoltà in qualunque posto vada?
— Moltissime persone hanno questa abitudine, inclusa una il cui capezzolo sinistro sta solleticando il mio palmo in questo momento.
— Non cercare di dirottarmi su altri argomenti, specialmente a quest’ora del giorno.
— Va bene, ma perché Toller ti dà tanto fastidio? Voglio dire, abbiamo intorno un bel po’ di individualisti e di eccentrici su Greenmount.
Preferiresti che io fossi una di quelle donnette senza testa che non hanno opinioni su niente? — Gesalla tentò di scattare in piedi, con il corpo sottile che quasi non reagiva più alle carezze di lui, poi un’espressione di sgomento apparve sul suo viso quando guardò giù Verso il muro di recinzione davanti alla casa. — Stavi aspettando Lord Glo?
— No.
— Che sfortuna. È qui. — Gesalla si affrettò verso la porta dello studio. — Svanirò prima che arrivi. Non posso permettermi di perdere metà del a giornata ad ascoltare quel mormorio e quelle esitazioni senza fine, per non parlare delle sue allusioni indecenti. — Sistemò la gonna lunga sino alla caviglia e corse silenziosamente verso le scale sul retro.
Lain si tolse gli occhiali da lettura e la seguì con lo sguardo, sperando che non avrebbe ripreso l’argomento della parentela con suo fratello. Aytha Maraquine, sua madre, era morta dando alla luce Toller, quindi se anche si fosse macchiata di adulterio, aveva più che pagato. Perché Gesalla non poteva limitare il suo astio a quello? Lain era stato attirato verso di lei dalla sua indipendenza intellettuale oltre che dalla sua bellezza fisica e dalla sua grazia, ma non aveva previsto quell’antagonismo per suo fratello. Sperava solo che questo non avrebbe condotto ad anni di attriti domestici.
Il rumore della porta di una carrozza che sbatteva nel recinto riportò la sua attenzione sul mondo esterno. Lord Glo era appena sceso dalla decadente ma splendida vettura scoperta che usava sempre per i brevi viaggi in città. Il cocchiere, tenendo fermi i due blucorni, annuiva e fremeva ascoltando una lunga serie di istruzioni.Lain pensò che il Lord Filosofo stesse usando cento parole dove dieci sarebbero state sufficienti, e cominciò a pregare che quella visita non si rivelasse un test di pazienza. Andò verso la credenza, versò due bicchieri di vino rosso e aspettò vicino alla porta dello studio finché Glo apparve.
— Sei molto gentile — disse il Lord Filosofo, prendendo subito il suo bicchiere e andando direttamente verso la sedia più vicina. Non aveva ancora passato la cinquantina, ma sembrava molto più vecchio a causa della figura rotonda e dei denti, ridotti a pochi, sottili paletti marroncini dietro il labbro inferiore. Stava respirando affannosamente dopo aver fatto le scale, e il suo stomaco andava su e giù sotto l’informale tunica grigia e bianca.
— È sempre un piacere vedervi, mylord — disse Lain, chiedendosi se ci fosse una ragione particolare per quella visita e sapendo che aveva poche possibilità di capirlo in fretta.
Glo bevve metà del suo vino in un solo sorso. — Reciproco, ragazzo mio. Oh! Ho qualcosa… hmm… almeno, credo di avere qualcosa da mostrarti. Ti piacerà. — Mise il bicchiere da una parte, cercò a tastoni nelle pieghe della tunica e finalmente tirò fuori un quadrato di carta che porse a Lain. Era leggermente appiccicoso, marroncino, con una zona circolare di beige al centro.
— Oltremondo. — Lain identificò il circolo come una chiara fotografia dell’unico altro pianeta del sistema locale, che orbitava intorno al sole a una distanza circa due volte superiore a quella della coppia Mondo-Sopramondo. — Le foto stanno migliorando.
— Sì, ma ancora non riusciamo a renderle permanenti. Questa si è scolorita… hmm… notevolmente dalla notte scorsa. Puoi appena vedere le calotte polari adesso, ma l’altra notte erano molto chiare. Peccato. Peccato. — Glo prese di nuovo la fotografia e la studiò attentamente, scuotendo la testa e succhiandosi i denti per tutto il tempo.
— Le calotte polari erano chiare come alla luce del giorno. Chiare come alla luce del giorno, ti dico. Il giovane Enteth ha raggiunto una buona approssimazione dell’angolo di… hmm… inclinazione. Lain, hai mai provato a immaginare come sarebbe vivere su un pianeta il cui asse è inclinato? Ci sarebbe un periodo caldo dell’anno, con giorni lunghi e notti corte, e un periodo… hmm… freddo, con giorni lunghi… voglio dire, giorni corti… e notti lunghe… tutto a seconda del punto dell’orbita in cui il pianeta si trova. I cambiamenti di colore su Oltremondo mostrano che tutta la vegetazione è ridotta a un singolo… hmm… ciclo sovrapposto.
Lain nascose la sua impazienza e la sua noia mentre Glo si lanciava in uno dei suoi pezzi favoriti. Era un’ironia che il Lord Filosofo stesse diventando prematuramente arteriosclerotico, e Lain, che aveva un sincero rispetto per l’uomo più anziano, si sentiva in dovere di dargli il massimo appoggio, personalmente e professionalmente. Riempì di nuovo il bicchiere del suo ospite e fece gli appropriati commenti mentre Glo passava dall’astronomia elementare alla botanica e alle differenze tra l’ecologia di un pianeta inclinato e quella di Mondo.
Su Mondo, dove non c’erano stagioni, i primissimi agricoltori dovevano aver avuto un bel problema per separare il naturale miscuglio di erbe commestibili in gruppi sincroni che maturassero a tempi prestabiliti. Sei raccolti all’anno erano la norma, per la maggior parte del pianeta. Dopo di che, era stata solo questione di piantare e mietere sei strisce adiacenti per conservare le riserve di grano, senza nessun problema di immagazzinamento a lungo termine. In tempi più recenti i Paesi avanzati avevano trovato più funzionale dedicare intere fattorie a raccolti a ciclo singolo e lavorare in combinazioni di sei fattorie o multipli di sei, ma il principio era lo stesso.
Da ragazzo, Lain Maraquine si era divertito a fare speculazioni sulla vita in pianeti lontani, facendo finta che esistessero e che fossero popolati da esseri intelligenti. Ma aveva presto scoperto che la matematica gli offriva un campo più vasto per l’avventura intellettuale. Ora tutto quello che poteva sperare era che Lord Glo se ne andasse e lo lasciasse continuare con il suo lavoro, oppure che gli desse una spiegazione della sua visita. Ricominciando ad ascoltare il suo estemporaneo discorso, si accorse che Glo aveva di nuovo attaccato con gli esperimenti fotografici e con le difficoltà di produrre emulsioni di cellule vegetali foto-sensitive in grado di fissare un’immagine per più di qualche giorno.
— Perché è così importante per voi? — chiese Lain. — Chiunque tra il personale del vostro osservatorio potrebbe disegnare a mano un’immagine molto migliore.
— L’astronomia è solo una piccolissima parte di tutto questo, ragazzo mio, lo scopo è di essere capaci di produrre completamente… hmm… immagini accurate di costruzioni, paesaggi, persone.
— Sì, ma abbiamo già disegnatori e artisti che possono farlo.
Glo scosse la testa e sorrise, mostrando le rovine dei suoi denti, e parlò con una fluenza inusuale. — Gli artisti si limitano a dipingere quello che loro o i loro mecenati credono che sia importante. Perdiamo così tanto. Il tempo scorre via tra le nostre dita. Vorrei che ogni uomo fosse l’artista di se stesso. Poi scopriremmo la nostra storia.
— Pensate che sarà possibile?
— Senza dubbio. Io vedo già il giorno in cui tutti avranno a disposizione del materiale foto-sensibile e saranno capaci di fare una fotografia in un batter d’occhio.
— Potete sempre mandare in volo uno qualunque di noi — disse Lain impressionato, comprendendo di essersi trovato per un attimo alla presenza di quello che Lord Glo doveva essere stato una volta. — E volando più in alto vedrete più lontano.
Glo sembrava gratificato. — Lascia perdere questo; dammi un altro po’ di… hmm… vino.— Osservò attentamente il suo bicchiere mentre veniva di nuovo riempito, poi si appoggiò di nuovo alla sedia. — Non indovinerai mai quello che è successo.
— Avete ingravidato una giovane donna innocente.
— Prova di nuovo.
— Una giovane donna innocente ha ingravidato voi.
— È una faccenda seria, Lain. — Glo fece un breve gesto con la mano per indicare che quelle leggerezze erano fuori posto. — Il Re e il principe Chakkel si sono improvvisamente accorti che stiamo finendo i brakka.
Lain si immobilizzò nell’atto di portare il bicchiere alle labbra. — Non posso credere a quel che state dicendo. Quanti rapporti e studi gli abbiamo mandato negli ultimi dieci anni?
— Ho perso il conto, ma sembra che abbiano finalmente raggiunto qualche effetto. Il Re ha indetto una riunione dell’alto… hmm… consiglio.
— Non avrei mai pensato che l’avrebbe fatto — disse Lain. — Siete appena uscito dal palazzo?
— Ah… no. So della riunione da qualche giorno, ma non ho potuto passarti la notizia perché il Re mi ha mandato fuori, a Sorka… di tutti i posti!… per un’altra… hmm… faccenda. Sono tornato proprio stamattina.
— Potrei andarci per una vacanza extra.
— Non è stata una vacanza, ragazzo mio. — Glo scosse la sua grande testa e assunse un’aria solenne. — Ero con Tanfo, e ho dovuto stare a guardare uno dei suoi ufficiali medici eseguire un’autopsia su un soldato. Non mi vergogno di ammettere che non ho lo stomaco per questo genere di cose.
— Per favore! Non ne parlate nemmeno — disse Lain, sentendosi già rimescolare al pensiero dei coltelli che incidevano la pelle pallida e mettevano a nudo le fredde oscenità al di sotto. — Perché il Re vi ha voluto lì?
Glo si picchiò sul petto. — Perché sono il Lord Filosofo, ecco perché. Le mie parole hanno molto peso davanti al Re. E ora pare che i nostri soldati e avieri siano… hmm… impressionati da certe dicerie, che non è sicuro avvicinarsi alle vittime dei ptertha.
— Non è sicuro? In che senso?
— Si dice che vari soldati semplici abbiano contratto la pterthacosi toccando le vittime.
— Ma questo è assurdo — disse Lain, prendendo il primo sorso del suo vino. — Cos’ha trovato Tunsfo?
Era pterthacosi, va bene. Su questo nessun dubbio. Milza come un pallone. La conclusione dei nostri ufficiali è stata che il soldato si è imbattuto in un globo sul finire della notte e ha perso la polvere senza saperlo, o che stava… hmm… mentendo. Questo succede, sai. Alcuni uomini non riescono ad accettare una cosa del genere. Fanno di tutto per convincere anche se stessi che stanno bene.
— Non riesco a capirlo. — Lain si strinse nelle spalle come se sentisse freddo. — Però la tentazione dev’essere forte. Dopo tutto, la più piccola corrente d’aria può fare una grande differenza. Tra la vita e la morte.
— Preferirei parlare delle nostre faccende. — Glo si alzò e cominciò a passeggiare per la stanza. — Questa riunione è molto importante per noi, ragazzo mio. Una possibilità per l’ordine filosofico di arrivare ad avere il riconoscimento che si merita, di riguadagnare la sua antica posizione. Ora, io voglio che tu prepari i grafici di persona. Falli grandi e molto colorati e… hmm… semplici, mostrando quanto pikonio e quanto alvelio Kolcorron può aspettarsi di produrre nei prossimi cinquant’anni. Potrebbe essere utile evidenziare gli incrementi, ogni cinque anni. Questo lo lascio a te. Abbiamo anche bisogno di mostrare come, dal momento che la richiesta di cristalli naturali diminuisce, le nostre riserve di brakka coltivati aumenteranno finché…
— Mylord, andiamo con calma! — protestò Lain, sbigottito che Glo si abbandonasse a quella utopistica visione così lontana dalla realtà dei fatti. — Non mi piace sembrare pessimista, ma non c’è nessuna garanzia di produrre nemmeno qualche cristallo utilizzabile nei prossimi cinque anni. Il nostro miglior pikonio arriva a una purezza di appena un terzo, e l’alvelio non è molto meglio.
Glo fece una risata eccitata. — Solo perché non abbiamo avuto il pieno appoggio del Re. Con i mezzi adatti possiamo risolvere tutti i problemi di purificazione in pochi anni. Ne sono sicuro! Per questo il Re mi ha persino permesso di usare i suoi messaggeri per richiamare Sisstt e Duthon. Potranno dare rapporti aggiornati sui loro progressi, alla riunione. Fatti concreti, è questo che impressiona il Re. Cose pratiche. Te lo dico io, ragazzo mio, i tempi stanno cambiando. Mi sento male. — Glo crollò sulla sedia con un rumore sordo che rimbombò sulle ceramiche decorative del muro più vicino.
Lain sapeva che avrebbe dovuto farsi avanti per offrirgli il suo aiuto, ma non ne ebbe il coraggio. Pareva che Glo stesse per vomitare da un momento all’altro, e lui pensò che trovarglisi vicino quando questo fosse successo sarebbe stato troppo disgustoso. Peggio ancora, le. vene zigzaganti sulle tempie di Glo sembravano sul punto di scoppiare. Cosa avrebbe fatto se davvero ne fosse zampillata un fontana di sangue? Lain provò a immaginare come si sarebbe giustificato se un po’ di quel sangue gli fosse schizzato addosso, e di nuovo il suo stomaco diede un conato d’avvertimento.
— Vado a prendere qualcosa? — chiese ansiosamente. — Un po’ d’acqua?
— Altro vino — disse Glo con voce roca, porgendogli il bicchiere.
— Pensate sia il caso?
Non essere così noioso, ragazzo mio. È il miglior tonico che ci sia. Se tu bevessi un po’ più di vino, metterebbe un po’ di fuoco nelle tue… hmm… ossa. — Glo studiò il suo bicchiere mentre veniva riempito di nuovo, per essere sicuro che non fosse scarso e il colore cominciò a tornare sul suo viso. — Ora, di cosa stavo parlando?
— Era qualcosa che aveva a che fare con la rinascita futura della nostra civiltà.
Glo gli gettò uno sguardo di rimprovero. — Sarcasmo? È sarcasmo questo?
— Sono spiacente vostra grazia — disse Lain. — E solo che la conversazione dei brakka è sempre stata una passione per me, e su questo argomento sono molto suscettibile.
— Ricordo. — Lo sguardo di Glo ispezionò la stanza, notando l’uso delle ceramiche e del vetro per mobili che in qualunque altra casa sarebbero stati scolpiti nel legno nero. — Non credi di… hmm… esagerare?
— Sento di dover fare così. — Lain sollevò la mano sinistra e indicò l’anello nero che portava al sesto dito. — La sola ragione per cui ho questo pezzo è che è il pegno matrimoniale datomi da Gesalla.
— Ah, sì. Gesalla. Glo scoprì i denti storti in una parodia di lascivia. — Una di queste notti, te lo giuro, avrai una compagnia in più nel letto.
Il mio letto è il vostro letto — dichiarò Lain con facilità, ben sapendo che Lord Glo non rivendicava mai il suo diritto nobiliare di scegliersi una donna nel gruppo sociale del quale era il capo dinastico. Era un antico costume a Kolcorron, ancora osservato nelle famiglie più importanti, e gli occasionali scherzi di Glo sull’argomento erano semplicemente il suo modo di enfatizzare la superiorità culturale dell’ordine filosofico nell’avere abbandonato quella pratica.
— Anche con le tue vedute estremiste — continuò Glo, tornando in argomento, — non potresti convincerti ad adottare un comportamento più positivo alla riunione? Non ti fa piacere, questo?
— Sì, mi fa piacere. È un passo nella giusta direzione, ma è arrivato così tardi! Sapete che ci vogliono cinquanta o sessantanni perché un brakka raggiunga la maturità ed entri nella fase di pollinazione. Anche se avessimo la capacità di produrre cristalli puri già adesso, dovremmo ancora colmare questo divario di tempo, ed è spaventosamente grande.
— Tutte ragioni in più per fare piani in anticipo, ragazzo mio.
— Vero. Ma maggiore è la necessità di un piano, minori sono le sue possibilità di essere accettato.
— Un pensiero davvero profondo — commentò Glo. — Ora dimmi cosa… hmm… significa.
— C’è stato un periodo, forse cinquant’anni fa, in cui Kolcorron, ricorrendo a poche e comuni misure di conservazione, avrebbe potuto arrivare a un buon equilibrio tra domanda e offerta, ma nemmeno allora i principi hanno voluto ascoltare. Adesso siamo in una situazione che richiede misure davvero drastiche. Riuscite a immaginare come reagirebbe Leddravohr alla proposta di sospendere tutta la produzione di armamenti per venti o trent’anni?
— Non porta a niente pensarci — disse Glo. — Ma non stai esagerando le difficoltà?
Date uno sguardo a questi grafici. — Lain si avvicinò a un mobile con i cassetti bassi, tirò fuori un grande foglio e lo srotolò sulla scrivania sotto gli occhi di Glo. Spiegò i vari diagrammi colorati evitando il più possibile le astruse formule matematiche, analizzando come le crescenti richieste di cristalli di energia e brakka si scontrassero con altri fattori come la scarsità di produzione e i ritardi dei trasporti. Un paio di volte mentre parlava gli venne in mente che lì, ancora una volta, c’erano problemi dello stesso genere di quelli a cui stava pensando in precedenza. Allora aveva creduto di essere sul punto di concepire un modo completamente nuovo di risolverli, qualcosa che aveva a che fare con il concetto matematico di limite, ma ora i suoi pensieri erano dominati da considerazioni sia tecniche che umane.
Tra queste ultime c’era il fatto che Lord Glo, che sarebbe stato il principale portavoce dei filosofi, era ormai diventato incapace di seguire argomenti complessi. E oltre a questa incapacità, Glo aveva preso l’abitudine di ubriacarsi ogni giorno. Anche in quel momento continuava ad annuire e a succhiarsi i denti, cercando di mostrare interesse alla faccenda, ma le borse carnose delle sue palpebre gli scendevano sugli occhi con sempre maggior frequenza.
— Dunque questa è l’estensione del problema, vostra grazia — disse Lain, parlando con maggior fervore per risvegliare l’attenzione di Glo. — Vi piacerebbe sentire il punto di vista del mio dipartimento sul tipo di misure necessarie per mantenere la crisi entro proporzioni ragionevoli?
— Stabilità, sì, stabilità… questa è la cosa importante. — Glo tirò su la testa improvvisamente e per un momento sembrò completamente stranito, i pallidi occhi azzurri che scrutavano il viso di Lain come se lo vedessero per la prima volta. — Dove eravamo?
Lain si sentì depresso e stranamente spaventato. — Forse la cosa migliore sarebbe che vi mandassi un riepilogo scritto al Peel, in modo che possiate dargli un’occhiata con comodo. Quando si riunirà il consiglio?
— La mattina del giorno duecento. Sì, il Re ha detto certamente duecento. Che giorno è?
— Uno-nove-quattro.
— Non c’è molto tempo — disse Glo tristemente. — Ho promesso al Re che avrei avuto un contributo… hmm… significativo.
— Lo avrete.
— Non è quello che io… — Glo si alzò, barcollando leggermente, e fissò in faccia Lain con uno strano sorriso tremolante. — Volevi davvero dire quello che hai detto?
Lain lo guardò perplesso, incapace di inserire la domanda nel contesto generale. — Mylord?
— Sul mio… sul mio volare più in alto… vedendo di più?
Certamente — disse Lain, cominciando a sentirsi imbarazzato. — Non sarei potuto essere più sincero..
— Così va bene. Vuol dire quindi… — Glo si raddrizzò e gonfiò il torace tondeggiante, recuperando improvvisamente il suo normale buon umore.
— Gliela faremo vedere. La faremo vedere a tutti loro.
Andò verso la porta, poi si fermò con la mano sulla maniglia di porcellana. — Fammi avere il sommario prima… hmm….possibile. Oh, a proposito, ho dato istruzioni a Sisstt di portare con lui tuo fratello.
— Molto gentile da parte vostra, mylord — disse Lain, il cui piacere all’idea di vedere Toller era quasi rovinato dal pensiero della reazione di Gesalla alla notizia.
— Figurati.. Penso che dopotutto siamo stati abbastanza duri con lui. Voglio dire, un anno in un posto miserabile come Haffanger solo per aver dato a Ongmat un colpetto sul mento.
— Grazie a quel colpetto la mascella di Ongmat si è rotta in due punti.
— Bene, è stato un colpetto solido. — Glo rise affannosamente. — Ma tutti noi abbiamo sentito i benefici del fatto che Ongmat sia stato messo a tacere per un po’. — Ancora ridacchiando, sparì lungo il corridoio, mentre i suoi sandali ciabattavano sul pavimento a mosaico.
Lain portò il suo bicchiere di vino appena toccato alla scrivania e si mise a sedere, facendo girare il liquido scuro per creare disegni sulla superficie. L’appoggio umoristico di Glo alla violenza di Toller era abbastanza tipico del Lord, uno dei piccoli modi per ricordare ai membri dell’ordine filosofico che lui era di lignaggio reale, con il sangue dei conquistatori nelle vene. Questo dimostrava che cominciava a sentirsi meglio e che aveva recuperato la stima di se stesso, ma non serviva affatto a tranquillizzare Lain sulla salute fisica e mentale del vecchio.
Nello spazio di pochi anni Glo si era trasformato in un incompetente borbottante dalla mente svanita. La sua inadeguatezza alla carica che ricopriva era tollerata dalla maggior parte dei capi di dipartimento, qualcuno dei quali apprezzava l’accresciuta libertà personale che ne derivava, ma la posizione dell’ordine ne risentiva sempre più, e questo creava un senso generale di frustrazione. Il vecchio Re Prad conservava ancora per Glo un indulgente affetto, ma voci meno bonarie dicevano che, se la filosofia era arrivata a essere uno scherzo, era appropriato che fosse rappresentata da un buffone.
Ma non c’era niente di divertente nella riunione dell’alto consiglio, si disse Lain. Chi avesse presentato il piano per la conservazione dei brakka avrebbe dovuto farlo con abilità e decisione, esponendo argomenti complessi e sostenendoli con l’incontestabile autorità delle statistiche. Si sarebbe reso decisamente impopolare, attirandosi inoltre la particolare ostilità dell’ambizioso principe Chakkel e del crudele e potente Leddravohr.
Se Glo non fosse riuscito a documentarsi sull’argomento in tempo per la riunione, probabilmente avrebbe delegato un sostituto per parlare al suo posto, e il pensiero di dover affrontare Chakkel o Leddravohr, seppure solo verbalmente, produceva in Lain un panico freddo che minacciava di nuocere alla sua bile. Il vino del suo bicchiere stava ora riflettendo un disegno di tremolanti cerchi concentrici.
Mise giù il bicchiere e cominciò a respirare profondamente aspettando che cessasse il tremore delle sue mani.
Toller Maraquine si svegliò con la consapevolezza, nello stesso tempo sgradevole e confortante, di non essere solo nel letto.
Poteva sentire il calore del corpo della donna che giaceva alla sua sinistra, con un braccio appoggiato sul suo stomaco e una gamba tenuta alta sulle sue cosce. Le sensazioni erano fin troppo piacevoli per non essere familiari. Rimase disteso completamente immobile, fissando il soffitto, mentre cercava di ricordare le esatte circostanze che avevano portato una compagnia femminile nel suo austero appartamento della Casa Quadrata.
Aveva celebrato il suo ritorno con un giro delle affollate taverne del distretto di Samlue. L’escursione era cominciata presto il giorno precedente, e sarebbe dovuta durare solo fino al termine della piccola notte, ma la birra e il vino erano stati fin troppo persuasivi, e alla fine le sue conoscenze erano diventate ormai vecchi amici. Aveva continuato a bere per tutto il dopogiorno e poi fino a notte inoltrata, festeggiando la sua liberazione dall’odore dei paioli di pikonio, e a un certo punto aveva cominciato a notare che c’era la stessa donna vicino a lui nella calca, ora dopo ora, con una regolarità che non poteva certo essere considerata un caso.
Aveva i capelli fulvi ed era alta, con un seno pieno e le spalle e i fianchi larghi, proprio il tipo di donna che aveva sognato durante il suo esilio a Haffanger. E non aveva mai smesso di masticare sfacciatamente un ramoscello di semprevergine. Toller aveva un chiaro ricordo del viso di lei, rotondo, aperto e schietto, il colorito sulle guance acceso dal vino. Il suo sorriso era bianchissimo, appena deturpato da un minuscolo triangolo vuoto in uno degli incisivi superiori. Toller aveva trovato facile chiacchierare con lei, e ridere con lei, e alla fine passare la notte insieme gli era sembrata la cosa più naturale del mondo.
— Ho fame — disse lei all’improvviso, tirandosi su a sedere al suo fianco. — Voglio la colazione.
Toller lanciò uno sguardo al busto splendidamente nudo e sorrise. — E supponendo che prima io voglia qualcos’altro?
La donna sembrò seccata, ma solo per un istante, poi gli restituì il sorriso e si mosse per portare il suo seno a contatto con il petto di lui. — Se non stai attento ti farò* morire.
— Provaci, per favore — disse Toller mentre il suo sorriso si tra sformava in una smorfia di piacere. L’attirò a sé. Un piacevole tepore invase la sua mente e il suo corpo mentre, si baciavano, ma dopo un attimo un vago senso di disagio gli disse che qualcosa non andava. Aprì gli occhi e identificò immediatamente la fonte di quella sgradevole sensazione: il chiarore della stanza indicava che l’alba era passata da un pezzo. Quella era la mattina del giorno duecento, e lui aveva promesso a suo fratello che si sarebbe alzato alla prima luce per aiutare a trasportare un pannello sul suo cavalletto al Gran Palazzo. Era un compito da domestico che chiunque avrebbe potuto svolgere, ma Lain era sembrato ansioso che se ne occupasse lui, forse per evitargli di rimanere solo a casa con Gesalla mentre era in corso la riunione del consiglio. Gesalla!
Toller gemette quasi a voce alta ricordando che non l’aveva nemmeno vista, il giorno precedente. Era arrivato da Haffanger la mattina presto e dopo un breve colloquio con il fratello, durante il quale Lain era rimasto assorto nelle sue tabelle, era uscito direttamente per il suo giro di bevute. Gesalla, come solimoglie di Lain, era la padrona di casa e come tale doveva essersi aspettata che Toller le porgesse i suoi rispetti al pasto formale della sera. Un’altra donna avrebbe potuto non far caso a quella pecca di comportamento, ma l’esigente e inflessibile Gesalla doveva certamente essersi infuriata. Nel volo di ritorno a Ro-Atabri Toller aveva giurato solennemente che, per evitare di causare qualunque tensione in casa di suo fratello, avrebbe diligentemente cercato di comportarsi bene con Gesalla, e invece aveva cominciato con il fare un affronto già il primissimo giorno. Il tremolio di una lingua umida contro la sua improvvisamente gli ricordò che la sua infrazione al protocollo domestico era anche più grave di quanto Gesalla sapesse.
— Mi dispiace — disse sciogliendosi dall’abbraccio — ma adesso devi andare a casa.
La bocca della donna si piegò verso il basso. — Cosa?
— Avanti, sbrigati. — Toller si alzò, raccolse gli abiti di lei in un fagotto leggero e glieli mise tra le braccia. Aprì un armadio e cominciò a scegliere vestiti puliti per sé.
— Ma la mia colazione?
— Non c’è tempo, devo farti andare via da qui.
— Questa è davvero grande — disse lei aspra, cominciando ad armeggiare con fascette e pezzi di stoffa semitrasparente che costituivano il suo abbigliamento.
Ti ho detto che mi dispiace — ripetè Toller mentre lottava per entrare in un paio di calzoni che sembravano decisi a resistergli.
— Mi fa tanto piacere che… Lei si fermò nell’atto di raccogliere i seni dentro una leggera fascia e studiò la stanza dal soffitto al pavimento. — Sei sicuro di vivere qui?
Toller era divertito nonostante l’agitazione. — Pensi che abbia scelto un’abitazione a caso e mi ci sia intrufolato solo per usare un letto?
— Mi sembrava un po’ strano l’altra notte… arrivare con una carrozza sino a qui… stare così in silenzio… Questa è Greenmount, no? — Il suo sguardo apertamente sospettoso si posò sulle braccia e le spalle muscolose di Toller. Lui indovinò i suoi pensieri, ma non vide nessuna traccia di disapprovazione nell’espressione della donna e non rimase offeso.
— E una bella mattina per una passeggiata — disse, facendola alzare e sollecitandola, ancora parzialmente svestita, verso l’unica uscita della stanza. Aprì la porta proprio nel momento giusto per trovarsi faccia a faccia con Gesalla Maraquine, che stava passando nel corridoio. Era pallida, più magra di quando l’aveva vista l’ultima volta, e sembrava star male, ma il suo sguardo dagli occhi grigi non aveva perso niente della sua forza e non ci voleva molto a capire che era arrabbiata.
— Buon antigiorno — disse lei, glacialmente corretta. — Mi è stato detto che eri tornato.
— Chiedo scusa per la notte scorsa — disse Toller. — Io… io sono stato trattenuto.
— Evidentemente. — Gesalla lanciò uno sguardo all’altra donna con aperto disgusto. — Ebbene?
— Ebbene cosa?
— Non mi presenti alla tua… amica?
Toller imprecò dentro di sé quando si accorse che non aveva la più piccola speranza di salvare la situazione. Anche giustificandosi con il fatto che stava andando alla deriva in un mare di vino quando aveva incontrato la sua occasionale compagna, come aveva potuto trascurare una così basilare formalità come chiederle il suo nome? Gesalla era l’ultima persona al mondo alla quale avrebbe potuto spiegare il suo stato d’animo della sera prima, e stando così le cose sarebbe stato inutile cercare di placarla. “Mi dispiace per questo, caro fratello” pensò.
“Non volevo che andasse così”.
— Questa gelida donna è mia cognata, Gesalla Maraquine — disse mettendo un braccio attorno alle spalle della sua compagna e baciandola sulla fronte. — Vorrebbe sapere il tuo nome e, considerata la nostra recente attività notturna, lo vorrei sapere anch’io.
— Fera — rispose la donna, dando un’ultima sistemata ai suoi indumenti. — Fera Rivoo.
— Non è carino? — Toller sorrise apertamente a Gesalla. — Ora possiamo essere tutti amici.
Per favore, fai in modo che esca da una delle uscite laterali — disse Gesalla. Si volse e se ne andò a grandi passi, la testa eretta, i piedi accuratamente paralleli l’uno all’altro.
Toller scosse la testa. — Cosa le avrà preso?
— Alcune donne si irritano facilmente. — Fera si irrigidì e spinse Toller lontano da lei. — Mostrami la strada per uscire.
— Pensavo che volessi la colazione.
— Pensavo che tu volessi farmi andare a casa.
— Devi avermi frainteso — riprese Toller. — Mi piacerebbe se restassi, per tutto il tempo che tu vuoi. Hai un lavoro di cui preoccuparti?
— Oh, ho una posizione molto importante al mercato di Samlue: pulire il pesce. — Fera gli fece vedere le mani, che erano arrossate e segnate da numerosi piccoli tagli. — Come credi che mi sia fatta questi?
— Lascia perdere il lavoro — le suggerì Toller prendendole le mani tra le sue. — Torna a letto e aspettami lì. Ti farò mandare del cibo. Puoi riposare e mangiare e bere tutto il giorno, e stanotte viaggeremo sulle barche del piacere.
Fera sorrise riempiendo il vuoto triangolare dei suoi denti con la punta della lingua. — Tua cognata…
— È solo mia cognata. Io sono nato e cresciuto in questa casa, e ho il diritto di avere degli ospiti. Resterai, vero?
— Ci sarà maiale speziato?
— Ti assicuro che un intero allevamento di suini viene speziato tutti i giorni in questa casa — disse Toller, riaccompagnandola dentro la stanza. — Adesso tu stai qui finché non torno, poi riprenderemo da dove abbiamo lasciato.
— Va bene. — Fera si sdraiò sul letto, si sistemò comodamente sui cuscini e distese le gambe.— Solo una cosa prima che te ne vada.
— Sì?
Gli rivolse uno dei suoi bianchissimi sorrisi. — Forse sarebbe meglio che mi dicessi il tuo nome.
Toller stava ancora ridacchiando quando raggiunse le scale alla fine del corridoio e scese verso la parte centrale della casa, dalla quale proveniva il suono di molte voci. Aveva trovato stimolante la compagnia di Fera, ma la sua presenza lì poteva essere un affronto davvero troppo grande perché Gesalla lo tollerasse a lungo. Due o tre giorni sarebbero stati sufficienti per chiarirle che lei non aveva il diritto di insultare lui o i suoi ospiti, e che ogni sforzo avesse fatto per dominarlo, come faceva con suo fratello, sarebbe stato destinato a fallire.
Quando Toller raggiunse l’ultimo gradino della scalinata trovò una dozzina di persone riunite nell’ingresso. Alcuni erano assistenti di calcolo; altri erano domestici e servi che sembravano èssersi riuniti per salutare il loro padrone che partiva per il suo appuntamento al Gran Palazzo. Lain Maraquine indossava l’abbigliamento tradizionale dei filosofi anziani, una tunica grigio tortora lunga sino ai piedi con triangoli neri all’orlo e ai polsi. La stoffa di seta metteva in risalto la fragilità della sua corporatura, ma il suo portamento era eretto e nobile. Il viso, sotto i pesanti ciuffi di capelli neri, era molto pallido. Toller sentì un’ondata di affetto e preoccupazione mentre suo fratello attraversava la sala; la riunione del consiglio era evidentemente un’occasione importante per lui, e i segni della sua tensione erano evidenti.
— Sei in ritardo — disse Lain, gettandogli un’occhiata critica. — E dovresti indossare la tunica grigia.
— Non ho avuto il tempo di prepararla. Ho avuto una notte turbolenta.
— Gesalla mi ha appena detto che tipo di notte hai avuto. L’espressione di Lain mostrava un miscuglio di divertimento e di irritazione. — È vero che non sapevi nemmeno il nome della donna?
Toller fece spallucce per mascherare il suo imbarazzo.
Cosa importano i nomi?
— Se non lo sai, non ha molto senso che io cerchi di illuminarti.
— Non ho bisogno che tu… — Toller trasse un profondo respiro, deciso per una volta a non aumentare i problemi di suo fratello perdendo la pazienza. — Dov’è il materiale che devo portare?
La residenza ufficiale di Re Prad Neldeever era più notevole per le sue dimensioni che non per il valore architettonico. Generazioni successive di sovrani avevano aggiunto ali, torri e cupole secondo il loro capriccio individuale, quasi sempre nello stile della loro epoca, con il risultato che la costruzione somigliava vagamente a un banco di coralli, o a una di quelle strutture erette da determinate specie di insetti. Un vecchio architetto di giardini aveva tentato di imporre un qualche ordine piantando boschetti di paròle sincroni e di alberi ad alto fusto, ma nel corso dei secoli vi si erano aggiunte altre varietà di piante. Il palazzo, già di per sé un variegato guazzabuglio di motivi architettonici diversi, finì per essere schermato da una vegetazione ugualmente irregolare anche nel colore, e da una certa distanza risultava difficile distinguere l’edificio dal giardino.
Toller Maraquine, comunque, non era preoccupato da problemi estetici mentre scendeva da Greenmount in coda al modesto seguito di suo fratello. Prima dell’alba era piovuto e l’aria del mattino era pulita e frizzante, impregnata di una piacevole sensazione di nuove promesse. In alto, l’enorme disco di Sopramondo brillava di puro splendore e molte stelle ornavano l’azzurro del cielo circostante. La città era un insieme incredibilmente complesso di chiazze multicolori che si allargavano in giù verso il nastro blu ardesia del Borann, dove le vele luccicavano come fiocchi di neve.
Il piacere di trovarsi di nuovo a Ro-Atabri, di essere sfuggito alla desolazione di Haffanger, aveva cancellato in Toller l’insoddisfazione per la sua vita di insignificante membro dell’ordine filosofico. Dopo lo sfortunato inizio della giornata, la curva del suo umore era in fase ascendente. La sua mente pullulava di progetti ancora informi per migliorare la sua abilità nella lettura, per scovare qualche aspetto interessante del lavoro dell’ordine a cui dedicarsi con tutte le energie, per far sì che Lain fosse fiero di lui. Riflettendoci, si rendeva conto che Gesalla aveva avuto ogni diritto di essere furiosa per il suo comportamento. Sarebbe stata niente più che normale cortesia far uscire Fera dal suo appartamento, quella mattina.
Il robusto blucorno che gli era stato assegnato dal capo stalla era una bestia tranquilla che sembrava conoscere da sola il tragitto per il palazzo. Lasciandolo fare di testa sua mentre arrancava a fatica per le vie sempre più affollate, Toller cercò di farsi un’immagine più definita del suo immediato futuro, qualcosa che potesse impressionare Lain. Aveva sentito di un gruppo di ricerca che stava cercando di mettere a punto una lega di ceramica e vetro abbastanza resistente da sostituire il brakka per la produzione di spade e armature. Era molto scettico sulle possibilità di successo, ma era comunque una cosa molto più vicina al suo gusto che non faccende come la misurazione della pioggia, e a Lain avrebbe fatto piacere che lui appoggiasse il movimento di conservazione. Il passo successivo sarebbe stato cercare di entrare nelle grazie di Gesalla…
Nel frattempo la delegazione aveva attraversato il cuore della città e passato il fiume al Ponte Bytran; il palazzo e i suoi giardini si stendevano ormai davanti a loro. Il gruppo oltrepassò i quattro fossati concentrici, cosparsi di fiori che ne mascheravano le funzioni, e si fermò all’entrata principale del palazzo. Numerose guardie, simili a enormi scarafaggi neri nelle pesanti armature, si fecero avanti a passi lenti. Mentre il loro comandante stava laboriosamente controllando i nomi dei visitatori sulla sua lista, uno degli alabardieri si avvicinò a Toller e, senza parlare, cominciò a rovistare rudemente tra le carte arrotolate nelle gerle. Quando ebbe finito si fermò per sputare per terra, poi rivolse la sua attenzione al cavalletto ripiegato legato ai fianchi del blucorno.
Tirò i puntelli di legno levigato con uno strattone talmente violento che l’animale, costretto a un passo laterale, gli finì quasi addosso.
— Cosa ti prende? — ringhiò, lanciando a Toller uno sguardo velenoso. — Non sai tenere a bada questa pulce?
“Sono una persona nuova” si disse calmo il filosofo “e non posso farmi coinvolgere in una rissa”.
Sorrise e rispose: — Potete accusarla perché vuole avvicinarsi a voi?
Le labbra dell’alabardiere si mossero silenziosamente mentre si avvicinava a Toller, ma in quel momento il comandante della guardia diede il via libera a tutto il gruppo. Toller incitò la cavalcatura e tornò al suo posto dietro il carro di Lain. Lo stupido alterco con la guardia lo aveva lasciato leggermente nervoso ma non aveva avuto conseguenze, e lui si sentiva compiaciuto del proprio comportamento. Era stato un valido esercizio sul come evitare guai inutili, un’arte che intendeva praticare per il resto della sua vita. Seduto comodamente in sella, godendosi il ritmo dell’andatura solenne del blucorno, rivolse i suoi pensieri a ciò che lo aspettava.
Toller era stato al Gran Palazzo un’unica volta, da piccolo, e aveva solo un vago ricordo della Sala dell’Arcobaleno nella quale stava per tenersi la riunione del consiglio. Dubitava che fosse così vasta e solenne come ricordava, ma era la stanza delle grandi cerimonie e il suo uso in quell’occasione era significativo. Re Prad evidentemente considerava la riunione importante, cosa che Toller trovava in qualche modo sconcertante. Per tutta la vita era stato ad ascoltare quel tipo di discorsi, con suo fratello che dava cupi avvertimenti sull’imminente esaurimento delle risorse di brakka, ma l’esistenza quotidiana a Kolcorron era continuata esattamente come prima. Vero che negli ultimi anni c’erano stati periodi in cui i cristalli di energia e il legno nero scarseggiavano e il loro costo continuava a salire, ma erano sempre state trovate nuove riserve. Pur provandoci, Toller non riusciva a immaginare che le riserve naturali di un intero mondo potessero essere insufficienti ai bisogni dei suoi abitanti.
Quando i filosofi raggiunsero la zona elevata sulla quale sorgeva il palazzo vero e proprio, Toller vide molte carrozze nel cortile esterno principale. Tra queste spiccava il fiammeggiante cocchio rosso e arancione di Lord Glo. Tre uomini nella tenuta grigia dei filosofi erano in piedi lì vicino, e quando scorsero la carrozza di Lain gli si fecero incontro. Toller identificò per prima la figura rachitica di Vorndal Sisstt; poi Duthon, capo della sezione alvelio; infine il profilo angoloso di Borreat Hargeth, direttore del gruppo di ricerca sugli armamenti. Tutti e tre sembravano nervosi e infelici, e si chiusero attorno a Lain non appena fu sceso dalla sua carrozza.
— Siamo nei guai, Lain — disse Hargeth, facendo un cenno con la testa in direzione del cocchio di Glo. — Sarebbe meglio che dessi un’occhiata al nostro stimato capo.
Lain aggrottò la fronte. — È malato?
— No, non è malato. Direi che non è mai stato meglio in vita sua.
— Non dirmi che è stato…— Lain andò verso il cocchio e aprì la portiera con uno strattone. Lord Glo, che era crollato con la testa sul petto, si mise dritto e si guardò intorno con espressione beata. Riuscì a focalizzare su Lain i suoi occhi celesti, poi sorrise mettendo in mostra i paletti dei denti inferiori.
— Piacere di vederti, ragazzo mio — disse. — Ti dico che questo sarà il nostro… hmm… giorno. Giocheremo tutte le nostre carte.
Toller scese dal suo blucorno e lo legò dietro la carrozza, dando le spalle agli altri per nascondere il suo divertimento. Molte altre volte aveva visto Glo ridotto anche peggio, ma mai così evidentemente, così comicamente incapace. Il contrasto tra il rosso delle sue guance rubizze e le facce cineree e scandalizzate dei suoi aiutanti rendeva la situazione ancora più buffa. Qualunque fosse stato il piano per far bella figura alla riunione, ora doveva essere rapidamente e dolorosamente rivisto. Toller non poteva fare a meno di gioire per il fatto che qualcun altro si attirasse il biasimo che così spesso era riservato a lui, soprattutto quando questo qualcun altro era il Lord Filosofo in persona.
— Vostra Grazia, la riunione sta per cominciare — disse Lain.
— Ma se siete indisposto forse potremmo…
— Indisposto! Che modo di parlare è questo? — Glo abbassò la testa e venne fuori dal suo veicolo tenendosi in piedi con innaturale fermezza. — Cosa stiamo aspettando? Prendiamo i nostri posti.
— Molto bene, Vostra Grazia.
Lain andò verso Toller con un’espressione tormentata. — Quale e Locranan prenderanno le tabelle e il cavalletto. Voglio che tu rimanga qui vicino alla carrozza e prenda un… Che cosa c’è di tanto divertente?
— Niente — disse Toller in fretta. — Assolutamente niente.
— Tu non hai assolutamente idea di cosa ci sia in gioco oggi, vero?
— La conservazione è importante anche per me — rispose Toller, con un tono più sincero possibile. — Stavo solo…
— Toller Maraquine! — Lord Glo andò verso Toller con le braccia spalancate, gli occhi gonfi di piacevole eccitazione. — Non sapevo che fossi qui! Come stai, ragazzo mio?
Toller già sorpreso per il solo fatto che Glo l’avesse riconosciuto, rimase allibito da quel saluto tanto caloroso. — Sono in buona salute, Vostra Grazia.
— Si vede. — Glo lo raggiunse e gli mise un braccio attorno alle spalle, poi si girò verso gli altri. — Guardate questa bella figura di uomo. Mi ricorda me quando ero… hmm… giovane.
— Dovremmo prendere i nostri posti subito — intervenne Lain. — Non voglio mettervi fretta, ma…
Hai assolutamente ragione; non dovremmo ritardare il nostro momento di… hmm… gloria. — Glo diede a Toller una stretta affettuosa esalando una gran puzza di vino. — Avanti, Toller, puoi dirmi cosa facevi tutto solo laggiù a Haffanger.
Lain fece un passo avanti, evidentemente ansioso. — Mio fratello non fa parte della delegazione, mylord. Aspetterà qui.
— Stupidaggini! Siamo tutti insieme.
— Ma non ha la tunica grigia.
— Questo non ha importanza, se fa parte del mio seguito personale — disse Glo con quel tono di mitezza che non tollera discussioni. — Procediamo.
Toller incrociò lo sguardo di Lain e colse una silenziosa rinuncia nel rapido inarcarsi delle sue sopracciglia, mentre il gruppo si avviava in direzione dell’entrata principale del palazzo. Diede un gioioso benvenuto all’inaspettato colpo di scena, che lo aveva salvato da quello che minacciava di essere un intervallo di noia assoluta, ma era ancora risoluto a mantenere un buon rapporto con suo fratello. Doveva fare di tutto per essere il meno d’intralcio possibile durante la riunione, e in particolare per mantenersi serio davanti a qualunque tipo di atteggiamento avesse potuto assumere Lord Glo. Ignorando gli sguardi curiosi di chi gli passava vicino, camminò nel palazzo con Glo che gli stringeva il braccio, e cercò di essere il più laconico ma cortese possibile rispondendo alle domande dell’uomo più anziano, mentre tutta la sua attenzione era assorbita da quello che lo circondava.
Il palazzo era anche la sede dell’amministrazione Kolcorriana e gli diede l’impressione di essere una città dentro la città. I corridoi e le stanze di rappresentanza erano affollati di uomini dall’espressione grave, le cui maniere proclamavano che le loro preoccupazioni non erano quelle dei comuni cittadini. Toller era incapace anche solo di immaginare le loro mansioni e l’argomento delle loro conversazioni a bassa voce. I suoi sensi erano sopraffatti da quell’opulenza di tappeti e tendaggi, di pitture e sculture, dalla maestosità del soffitto a volta. Persino le porte di minor importanza sembravano intagliate in singole lastre di peretto, elvart o vetrolegno, e ognuna di esse era forse il frutto di un anno di lavoro di un maestro artigiano.
Lord Glo sembrava indifferente all’atmosfera del palazzo, ma Lain e gli altri ne erano decisamente impressionati. Si stavano muovendo in gruppo serrato, come soldati in territorio ostile. Dopo un lungo percorso raggiunsero un’enorme porta doppia, a cui erano di guardia due ostiari con la corazza nera. Glo superò la porta e fece strada all’interno dell’immensa stanza ellittica. Toller rimase indietro per dare la precedenza a suo fratello, e quasi sussultò quando diede la sua prima occhiata da adulto alla famosa Sala dell’Arcobaleno. Il tetto a cupola era fatto interamente di pannelli di vetro inseriti in una complicata ossatura di brakka. La maggior parte dei pannelli erano azzurri o bianchi, per rappresentare il cielo pulito e le nubi, ma sette strisce curve, ravvicinate, riproducevano i colori dell’arcobaleno. La luce che filtrava dalla volta era una gloria trionfante, quasi mistica, che faceva brillare la sala di un fuoco sfumato.
All’altro capo dell’ellisse c’era un trono grande ma semplice, sul gradino più alto di un palco a due livelli. Tre troni più piccoli erano allineati sul secondo gradino, per i principi presenti. Nei tempi antichi sarebbero stati riservati solo ai figli del sovrano, ma con l’espansione e lo sviluppo del Paese era diventato normale che alcuni posti di governo fossero occupati da discendenti collaterali. Grazie alla libertà sessuale accordata alla nobiltà, questi erano numerosi, e di solito non era difficile assegnare importanti responsabilità agli uomini adatti. In seno all’attuale monarchia solo Leddravohr e l’insignificante Pouche, controllore delle finanze pubbliche, erano figli riconosciuti del Re.
Di fronte ai troni, disposti in sezioni radiali, c’erano i sedili per i vari ordini, i cui interessi andavano dalle arti e la medicina all’educazione religiosa e laica. Ai filosofi era riservato il settore centrale, secondo una tradizione che risaliva a Bytran IV, che aveva creduto che la conoscenza scientifica fosse la base su cui Kolcorron avrebbe costruito l’impero del mondo futuro. Nei secoli successivi era diventato evidente che la scienza aveva già imparato tutto quello che valeva la pena imparare sul funzionamento dell’universo, e l’influenza del pensiero di Bytran era diminuita, ma l’ordine filosofico deteneva ancora molti degli antichi privilegi nonostante il dissenso di mentalità più pragmatiche.
Toller sentì un’ammirazione genuina per Lord Glo quando il tozzo ometto, con la grande testa eretta e lo stomaco sporgente, attraversò la sala e prese posto davanti ai troni. Il resto della delegazione si sedette con calma dietro di lui, scambiando sguardi di sfida con i dirimpettai dei settori vicini. C’erano più persone di quante Toller si fosse aspettato, forse un centinaio, dal momento che le altre delegazioni contavano anche impiegati e consiglieri. Toller, ora profondamente grato per il suo stato soprannumerario, scivolò dietro gli assistenti di calcolo di Lain e aspettò che la riunione cominciasse.
Il lieve ritardo fu sottolineato da bisbigli, colpi di tosse e occasionali risate nervose, poi suonò un corno da cerimonia e Re Prad e i tre principi fecero ingresso nella sala da una porta privata sul retro del palco.
A più di sessant’anni il sovrano era alto e magro, e portava bene la sua età nonostante un occhio bianco latte che rifiutava di coprire. Sebbene Prad fosse imponente e regale nelle vesti rosso sangue, mentre saliva verso il trono alto, l’interesse di Toller fu catturato dalla figura possente, un po’ gonfia, del principe Leddravohr. Indossava una corazza bianca a strati multipli di lino scelto, modellata in torma di busto maschile perfettamente sviluppato, ed era evidente da quello che si poteva vedere delle braccia e delle gambe che la corazza rispecchiava esattamente quello che copriva. Il viso del principe era liscio, con le sopracciglia scure; dava l’idea di un potere minaccioso e dichiarava smaccatamente che lui non aveva nessuna voglia di presenziare alla riunione. Toller sapeva che era il veterano di un centinaio di feroci battaglie e sentì una fitta di invidia quando vide il palese disdegno con il quale Leddravohr squadrava l’assemblea, prima di sedersi sul trono centrale del secondo gradino. Sognava ad occhi aperti di interpretare il suo ruolo, quello del principe guerriero richiamato con riluttanza dalle pericolose frontiere per intervenire nelle banalità della vita civile.
Un officiante batté tre volte sul pavimento con il suo bastone per segnalare che la riunione del consigliò era cominciata. Prad, noto per l’informalità che usava a corte, cominciò a parlare immediatamente.
— Vi ringrazio per la vostra presenza qui oggi — disse, usando le inflessioni del Kolcorriano colto. — Come sapete, l’argomento della discussione è la crescente scarsità di brakka e di cristalli di energia; ma prima che io senta i vostri suggerimenti, è mio volere che ci si occupi nello stesso tempo di un’altra faccenda, se non altro per stabilire la sua scarsa importanza per la sicurezza dell’impero.
“Non mi riferisco ai rapporti provenienti da varie fonti secondo cui i ptertha sarebbero sensibilmente aumentati di numero nel corso di quest’anno. È mia ponderata opinione che l’apparente aumento possa essere spiegato dal fatto che i nostri eserciti, per la prima volta, stanno operando in regioni di Mondo dove, per cause naturali, i ptertha sono sempre stati più abbondanti. Sto dando istruzioni a Lord Glo di provvedere a un rigoroso controllo per procurarci statistiche più attendibili, ma in ogni caso non. c’è nessun motivo di allarme. Il principe Leddravohr mi assicura che le misure adottate e le armi anti- ptertha sono più che adeguate per rispondere a qualunque esigenza.
“Di più pressante interesse per noi sono le voci secondo cui alcuni soldati sarebbero morti dopo essere venuti a contatto con vittime dei ptertha. Le dicerie sembrano aver avuto origine da unità della Seconda Armata sul fronte di Sorka, e si sono velocemente diffuse, come sempre succede con simili fantasie, fino a Loongl a est e al teatro delle operazioni di Yalrofac a ovest”.
Prad si fermò e si sporse in avanti, con l’occhio cieco che brillava.— Gli effetti nocivi di questo tipo di allarmismo sono una minaccia più grande, per i nostri interessi nazionali, di un incremento doppio o triplo nella popolazione ptertha. Tutti noi in questa sala sappiamo che la pterthacosi non può essere contagiosa, né per contatto corporeo né in qualunque altro modo. È dovere di tutti, qui, assicurarsi che queste dicerie assurde siano soffocate con tutta la velocità e la forza possibili. Dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere per promuovere un salutare scetticismo nelle menti del proletariato, e mi rivolgo per questo soprattutto all’insegnante, al poeta e al sacerdote.
Toller diede un’occhiata circolare e vide i capi di varie delegazioni che annuivano mentre prendevano appunti. Era sorprendente per lui che il Re trattasse di persona quel genere di questioni spicciole, e per un momento sì trastullò con l’idea che potesse esserci davvero un nocciolo di verità nelle assurde dicerie. I comuni soldati, marinai e avieri, erano gente imperturbabile di solito, ma d’altra parte tendevano a essere ignoranti e creduloni. Facendo un bilancio, non vedeva nessuna ragione per credere che ci fosse niente di più da temere dai ptertha che in qualunque altra epoca precedente della lunga storia di Kolcorron.
— …argomento principale della discussione — stava dicendo Re Prad. — I registri dell’autorità portuale mostrano che nell’anno 2625 le nostre importazioni di brakka dalle sei province ammontavano a sole 118.426 tonnellate. Questo è il dodicesimo anno di seguito che il totale è diminuito. La produzione di pikonio e alvelio si è di conseguenza abbassata. Non abbiamo dati disponibili per quanto riguarda i raccolti, ma le stime preliminari sono meno incoraggianti del solito.
“La situazione è esacerbata dal fatto che i consumi militari e industriali, particolarmente di cristalli, continuano a salire. È evidente che ci stiamo avvicinando a un momento cruciale per il nostro Paese, e che occorrono strategie a lungo termine per fronteggiare il problema. Ascolterò ora le vostre proposte”.
Il principe Leddravohr, che era diventato irrequieto durante il sommario di suo padre, si alzò immediatamente. — Maestà, non intendo mancarvi di rispetto, ma mi riconosco colpevole di una certa insofferenza per tutto questo discorso sulla scarsità e l’esaurimento della risorse. La realtà è che c’è abbondanza di brakka, sufficiente a soddisfare i nostri bisogni per i secoli a venire. Ci sono grandi foreste di brakka non ancora toccate. Il vero problèma è dentro di noi: ci manca la risolutezza necessaria per rivolgere i nostri occhi alla Terra dei Lunghi Giorni, per farci avanti e reclamare ciò che è nostro di diritto.
Nell’assemblea corse un immediato brivido di eccitazione che Prad calmò alzando una mano. Toller si sedette più diritto, improvvisamente attento.
— Non incoraggerò alcun discorso per muovere contro Chamteth — disse Prad, con voce più severa e forte di prima.
Leddravohr si girò a guardarlo. — È destino che succeda, prima o poi; dunque perché non prima?
— Ripeto che non voglio sentir parlare di un’altra guerra.
In questo caso, Maestà, chiedo il permesso di ritirarmi — disse Leddravohr, con un tono che rasentava l’insolenza. — Non posso dare nessun contributo a una discussione dalla quale si esclude anche la logica più piatta.
Prad scosse la testa, con un movimento da uccello. — Riprendi il tuo posto e frena la tua impazienza; il tuo nuovo interesse per la logica può ancora dimostrarsi utile. — Sorrise al resto dei convenuti, il suo modo per dire: “Persino un re ha problemi con un rampollo indisciplinato”, e invitò il principe Chakkel a proporre ulteriori idee per ridurre il consumo industriale di cristalli di energia.
Toller si rilassò di nuovo mentre Chakkel parlava, ma non riusciva a staccare gli occhi da Leddravohr, che ora se ne stava seduto ostentando un esagerato, atteggiamento di noia. Era incuriosito, disturbato e stranamente attratto dalla scoperta che il principe guardava alla guerra con Chamteth come a una cosa desiderabile e inevitabile insieme. Si conosceva poco di quell’esotica terra al capo opposto del pianeta, che non veniva toccata dall’ombra di Sopramondo e perciò aveva un giorno ininterrotto.
Le mappe disponibili erano molto vecchie e di dubbia accuratezza, ma mostravano che Chamteth era grande quanto l’impero Kolcorriano e ugualmente popolosa. I pochi viaggiatori che erano penetrati nel suo interno e tornati indiètro avevano dato resoconti unanimi sulle vaste foreste di brakka, ancora intatte perché gli abitanti di Chamteth consideravano estremo peccato interrompere il ciclo vitale dell’albero di brakka. Prelevavano modeste quantità di cristalli praticando piccoli buchi fino all’interno delle camere di combustione, e il loro uso del legno nero era limitato a quello che prendevano dagli alberi morti naturalmente.
L’esistenza di quel favoloso forziere aveva già in passato attirato l’interesse dei sovrani di Kolcorron, ma nessuno aveva mai intrapreso una guerra di conquista. Un buon deterrente era la lontananza del Paese; l’altro la reputazione degli abitanti di Chamteth come combattenti feroci, tenaci e geniali. Si pensava che il loro esercito fosse l’unico fruitore della riserva di cristalli del Paese, inoltre i nativi erano ben conosciuti per il loro uso disinvolto del cannone, uno dei modi più stravaganti mai concepiti per consumare i cristalli.
Erano anche di corte vedute in campo sociale e politico, e rifiutavano ogni contatto commerciale e culturale con altre nazioni.
In un modo o nell’altro, il prezzo di un tentativo di conquista a Chamteth era sempre stato considerato troppo alto, e Toller come tutti aveva dato per scontato che quella situazione rientrasse nell’ordine naturale delle cose. Ma aveva appena sentito parlare di cambiamento, e lui era personalmente molto interessato a quella possibilità.
Le divisioni sociali a Kolcorron erano tali che in circostanze normali un membro di una delle grandi famiglie non poteva varcare i confini di altre. Toller, inquieto e risentito per essere nato all’interno dell’ordine filosofico, aveva fatto molti inutili tentativi di farsi accettare per il servizio militare. Il suo insuccesso era reso ancor più amaro dalla consapevolezza che non avrebbe avuto nessun ostacolo ad entrare nell’esercito se lui avesse fatto parte delle masse proletarie. In quel caso l’avrebbero addestrato come soldato semplice nell’avamposto più inospitale dell’impero, ma a uno del suo rango sarebbe spettato come minimo il grado di ufficiale, un onore che veniva gelosamente custodito dalla casta militare.
Tutto questo, ora Toller se ne rendeva conto, era più che logico per un Paese che viveva secondo un ordinamento familiare vecchio di secoli. Ma una guerra con Chamteth avrebbe portato necessariamente profondi cambiamenti, e comunque Re Prad non sarebbe rimasto sul trono per sempre. Era probabile che gli sarebbe succeduto Leddravohr, in un futuro non troppo lontano, e quando questo fosse successo il vecchio ordine sarebbe stato spazzato via. Toller aveva la sensazione che le sue fortune fossero in qualche modo legate a quelle di Leddravohr, e quella sola prospettiva era sufficiente a suscitare in lui un senso di oscura eccitazione. La riunione del consiglio, che lui si era aspettato monotona e noiosa, stava diventando uno dei momenti più significativi della sua vita. Sul palco il principe Chakkel, bruno di carnagione, calvo e panciuto, stava concludendo le sue osservazioni introduttive dichiarando che aveva bisogno del doppio dell’attuale fornitura di pikonio e alvelio, se si voleva che i progetti di costruzione essenziale andassero avanti.
— Non sei molto in armonia con gli scopi di questa riunione — commentò Prad, cominciando a dare segni di esasperazione. — Posso ricordarti che stavo aspettando le tue idee su come ridurre le richieste?
Le mie scuse, Maestà — disse Chakkel, con una durezza di tono che contraddiceva le sue parole. Figlio di un oscuro nobile, si era guadagnato il suo rango con una combinazione di forza, astuzia e ambizione, e non era un segreto, nei più alti gradi della società di Kolcorron, che nutrisse la speranza che avvenisse un cambiamento nelle regole di successione, che avrebbe forse permesso a uno dei suoi figli di ascendere al trono. Queste aspirazioni, e la forte concorrenza con Leddravohr per l’accaparramento dei prodotti di brakka, avevano creato, tra loro, un antagonismo covante ma in questa occasione erano entrambi d’accordo. Chakkel si sedette e incrociò le braccia, a dimostrare che qualunque idea avesse avuto sull’argomento non sarebbe piaciuta al Re.
— Sembra che non sia stato compreso un problema estremamente serio — disse Prad severamente. — Devo sottolineare che il Paese si trova a dover fronteggiare anni e anni di grave carestia di un prodotto vitale, e che io mi aspetto un atteggiamento più positivo da parte dei miei amministratori e consiglieri per il resto di questa riunione. Forse la gravità della situazione vi sarà più chiara se chiederò a Lord Glo di esporci i progressi sinora fatti riguardo ai tentativi di produrre pikonio e alvelio con mezzi artificiali. Le nostre aspettative in proposito sono ambiziose, ma c’è ancora, come sentirete, molta strada da percorrere, quindi è necessario che prepariamo un programma adeguato.
“Sentiamo cosa avete da dire, Lord Glo”.
Ci fu un silenzio prolungato durante il quale non accadde nulla, poi Borreat Hargeth, nella seconda fila del settore dei filosofi, fu visto sporgersi in avanti e dare un colpetto sulla spalla di Glo. Il Lord Filosofo scattò in piedi, chiaramente frastornato, e qualcuno a destra di Toller emise un basso, soffocato sogghigno.
— Perdonatemi, Maestà, stavo raccogliendo le idee — disse Glo, alzando la voce senza che ce ne fosse bisogno. — Qual era la vostra… hmm… domanda?
Sul palco il principe Leddravohr si coprì il viso con una mano come a nascondere il suo imbarazzo e lo stesso uomo alla destra di Toller, incoraggiato, sogghignò più forte. Toller si voltò minaccioso nella sua direzione, e l’altro, un funzionario della delegazione medica di Lord Tunsfo, colse la sua occhiata e smise immediatamente di apparire divertito.
Il Re mandò un sospiro tollerante. — La mia domanda, se vorrete onorarci di portare la vostra mente a prestarle attenzione, era di carattere generale e concerneva gli esperimenti con il pikonio e l’alvelio. A che punto siamo?
— Ah! Sì, Maestà, la situazione, è ancora come io… hmm… vi ho riferito nei nostro ultimo incontro. Abbiamo, fatto grandi passi avanti… passi senza precedenti… nell’estrazione e nella purificazione sia del cristallo verde che di quello rosso. Abbiamo molto di cui essere fieri. Tutto quello che ci rimane da fare a questo… hmm… punto è perfezionare un modo per rimuovere i contaminanti che impediscono ai cristalli di reagire gli uni con gli altri. Questo si sta dimostrando… hmm… difficile.
— Vi state contraddicendo, Glo. State facendo progressi con la purificazione, o non li state facendo?
— I nostri progressi sono stati eccellenti, Maestà. Finché funziona, cioè. E tutta una questione di solventi e temperature e… hmm… di complesse reazioni chi miche. Siamo in difficoltà perché non abbiamo il solvente adatto.
— Forse il vecchio l’ha bevuto tutto — disse Leddravohr a Chakkel, senza neanche prendersi la briga di abbassare la voce. La risata che seguì le sue parole fu accompagnata da un fremito di disagio; la maggior parte dei presenti non aveva mai visto un uomo del rango di Glo insultato così apertamente.
— Basta così! — L’occhio azzurro del Re si restrinse e si allargò varie volte, un segnale di ammonimento. — Lord Glo, quando ho parlato con voi dieci giorni fa mi avete fatto pensare che avreste potuto iniziare a produrre cristalli puri entro due o tre anni. State dicendo un’altra cosa, adesso?
— Non sa neanche cosa sta dicendo — dichiarò Leddravohr sorridendo, lo sguardo sprezzante che spazzava il settore dei filosofi. Toller, incapace di reagire in qualunque altro modo, allargò le spalle per attirare l’attenzione il più possibile e cercò lo sguardo del principe, benché una voce interiore lo supplicasse di ricordare i suoi recenti propositi di usare il cervello e di tenersi lontano dai guai.
— Maestà, questa è una faccenda di grande… hmm… complessità — continuò Glo, ignorando Leddravohr. — Non possiamo considerare i cristalli di energia come un argomento isolato. Anche se oggi avessimo una riserva illimitata di cristalli… C’è l’albero di brakka stesso, capite. Le nostre piantagioni. Ci vogliono sei secoli perché le giovani piante maturino.
— Volete dire sei decadi, vero?
— Credo di aver detto decadi, Maestà, ma ho un’altra proposta che vi prego di lasciarmi sottoporre alla vostra attenzione. — Glo aveva la voce tremula e barcollava leggermente. — Ho l’onore di presentare alla vostra considerazione un progetto apparentemente utopico, ma che segnerà il futuro definitivo di questa nostra grande nazione. Tra mille anni i nostri discendenti guarderanno al vostro regno con meraviglia e riverente timore quando essi…
Lord Glo! — Prad era incredulo e seccato. — Vi sentite male o siete ubriaco?
— Nessuna delle due cose, Maestà.
— Allora smettete di blaterare fantasticherie e rispondete alla mia domanda sui cristalli.
Sembrava che Glo stentasse a respirare, e il suo torace rotondo si gonfiava alzando le pieghe della tunica grigia. — Temo di essere indisposto, dopotutto. — Si premette una mano sul fianco e cadde sulla sedia con un tonfo sordo. — Il mio capo matematico, Lain Maraquine, presenterà i fatti al mio… posto.
Toller osservò con crescente trepidazione suo fratello che si alzava, si inchinava verso il palco, e faceva segno ai suoi assistenti, Quate e Locranan, di portare avanti il cavalletto e le tabelle. I due montarono il cavalletto con un annaspare agitato che prolungò penosamente quello che sarebbe dovuto essere il lavoro di un momento. E persero altro tempo perché la tabella che stavano srotolando e appendendo non voleva saperne di restare distesa. Sul palco, persino l’insipido principe Pouche cominciava a dare segni d’impazienza. Toller era preoccupato per il tremito nervoso che scuoteva Lain.
— Che intenzioni avete, Maraquine? — chiese il Re, ironico ma con una certa gentilezza. — Devo tornare sui banchi di scuola alla mia età?
— I grafici sono d’aiuto, Maestà — rispose Lain. — Illustrano i fattori che governano il… — Il rèsto della sua risposta divenne un basso inudibile mormorio, mentre lui indicava la caratteristica chiave sui diagrammi colorati.
— Non riesco a sentirvi — scattò Chakkel chiaramente irritato. — Alzate la voce!
— Che fine hanno fatto le tue buone maniere? — disse Leddravohr, voltandosi verso di lui. — Che modo è questo di rivolgersi a una così timida, giovane fanciulla? — Diversi uomini nell’auditorio, cogliendo la palla al balzo, sghignazzarono senza ritegno.
“Questo non deve accadere” pensò Toller alzandosi in piedi, il sangue che gli pulsava nelle orecchie. Il codice d’onore Kolcorriano stabiliva che intromettersi in una sfida, e un insulto era sempre considerato tale, costituiva un’ulteriore ingiuria che si aggiungeva alla precedente, partendo dal presupposto che l’uomo insultato fosse troppo codardo per difendersi da solo. Lain aveva spesso dichiarato che era suo dovere, come filosofo, passare sopra a simili irrazionalità, e che il vecchio codice era più adatto ad animali litigiosi che non a uomini pensanti. Sapendo che suo fratello non voleva e non poteva raccogliere la sfida di Leddravohr, sapendo inoltre che gli era impedito un intervento attivo, Toller stava prendendo la sola strada possibile. Si alzò di scatto, cercando di evidenziarsi tra gli uomini seduti tutt’intorno, aspettando che Leddravohr lo notasse e valutasse il suo atteggiamento fisico e mentale.
— Basta così, Leddravohr. — Il Re colpì i braccioli del suo trono. — Voglio sentire quello che il grande matematico ha da dire. Andate avanti, Maraquine.
— Maestà, io… — Lain stava ormai tremando così violentemente che la sua tunica ondeggiava.
— Cercate di mettervi a vostro agio, Maraquine. Non voglio un lungo discorso; sarà sufficiente che mi diciate quanti anni passeranno, secondo la vostra esperta opinione, prima che possiamo produrre pikonio e alvelio puri.
Lain respirò profondamente, lottando per controllarsi. — È impossibile fare previsioni in questioni di questo genere.
— Ditemi la vostra previsione personale. Direste cinque anni?
— No, Maestà. — Lain lanciò uno sguardo in tralice a Lord Glo e cercò di rendere la sua voce più decisa. — Anche aumentando la vostra spesa di ricerca di dieci volte… e saremmo fortunati… potremmo produrre qualche cristallo utilizzabile tra vent’anni. Ma non c’è nessuna garanzia di successo. C’è un’unica via sensata e logica per risolvere la situazione del Paese, ed è proibire del tutto l’abbattimento di brakka per i prossimi venti o trent’anni. In questo modo…
— Mi rifiuto di ascoltare ancora cose del genere! — Leddravohr era in piedi e stava scendendo dal palco. — Ho detto fanciulla? Mi sbagliavo. Questa è una vecchietta! Alza le gonne e scompari da questo posto, vecchia, e porta con te le tue bacchette e le tue cartacce! Leddravohr andò a gran passi verso il cavalletto e lo spinse con il palmo della mano, mandandolo a ruzzolare sul pavimento.
Nel subbuglio che seguì, Toller lasciò il suo posto e avanzò rigidamente fino a raggiungere suo fratello. Sul palco, il Re stava ordinando a Leddravohr di tornare al suo posto, ma la sua voce quasi si perse in mezzo alle grida irose di Chakkel e nel trambusto generale della sala. Un ufficiale di corte stava picchiando a terra con il suo bastone ma il solo effetto che ottenne fu di aumentare il rumore. Leddravohr guardò dalla parte di Toller con gli occhi sfolgoranti, ma sembrò non vederlo, poi si girò a fissare suo padre. — Agisco per il vostro bene, Maestà — gridò con una voce così squillante che risuonò nella sala riportandola al silenzio. — Le vostre orecchie non devono essere offese più a lungo con il tipo di litanie che abbiamo appena sentito dai cosiddetti pensatori.
— Sono del tutto in grado di prendere da solo decisioni del genere — rispose secco Prad. — Varrei ricordarti che questa è una riunione dell’alto consiglio, non qualche ritrovo schiamazzante per i tuoi fangosi soldati.
Leddravohr non si fece intimidire e gettò a Lain uno sguardo sdegnoso. — Stimo il più infimo soldato al servizio di Kolcorron molto più di questa vecchia esangue. — La sua ostinata insubordinazione al sovrano rese quasi palpabile il silenzio sotto la volta, e fu in quella calma pietrificata che Toller sentì se stesso lanciare la sua sfida. Sarebbe stato un crimine che rasentava il tradimento prendere l’iniziativa di sfidare un membro della famiglia reale, ma il codice gli permetteva di agire indirettamente, entro certi limiti, e di cercare di provocare una reazione.
— Vecchia sembra uno degli epiteti favoriti del principe Leddravohr — disse a Vorndal Sisstt che era seduto vicino a lui. — Significa che è sempre molto prudente nella scelta dei suoi oppositori?
Sisstt restò a bocca aperta e si fece da parte, ansioso di dissociarsi, mentre Leddravohr si voltava per vedere chi avesse parlato. Vedendo il principe da vicino per la prima volta, Toller notò che la sua forte mascella non era segnata da alcuna ruga e aveva una strana levigatezza statuaria, come immobile, senza muscoli, senza nervi. Era una faccia inumana, non turbata dalla normale gamma di espressioni, e solo gli occhi davano segno di quello che succedeva dietro le larghe sopracciglia. Al momento quegli occhi dicevano che Leddravohr era più incredulo che adirato, mentre studiava l’uomo più giovane assimilando ogni dettaglio della sua persona. — Chi sei? — chiese. — O dovrei dire, cosa sei?
— Il mio nome è Toller Maraquine, principe, e sono fiero di essere un filosofo.
Leddravohr diede un’occhiata a suo padre e sorrise, come per dimostrare che quando entravano in ballo i doveri filiali lui poteva sopportare anche la più grave provocazione. A Toller non piacque quel sorriso che durò un istante, meccanico come il rizzarsi di una tenda, che non contagiò nessun’altra parte del suo viso.
— Bene, Toller Maraquine — riprese Leddravohr. — È una vera fortuna che le armi personali non vengano mai indossate nella dimora di mio padre.
“Fermati”, si disse Toller. “Hai raggiunto il tuo obiettivo, contro tutte le previsioni, non andare troppo in là”.
— Una fortuna? — disse invece amabilmente. — Per chi?
Il sorriso di Leddravohr non vacillò, ma i suoi occhi divennero opachi, simili a levigati ciottoli marrone. Fece un passo avanti e Toller si preparò a un attacco fisico, ma il fragile equilibrio di quel momento fu spezzato dalla pressione inaspettata di una mano.
— Maestà — gridò Lord Glo, alzandosi barcollante, con un aspetto spettrale ma la voce ricca di toni sorprendentemente fluenti e risonanti. — Vi prego, per la salvezza della nostra amata Kolcorron, di prestare orecchio alla proposta di cui ho parlato in precedenza. Per favore non lasciate che la mia breve indisposizione vi induca a non ascoltare un progetto le cui implicazioni vanno ben al di là del presente e del futuro prossimo, e a ignorare una strada dalla quale dipenderà l’esistenza stessa della nostra grande nazione.
— State calmo, Glo. — Anche Re Prad si alzò e puntò su Leddravohr gli indici di entrambe le mani, squadrandolo con tutta la forza della sua autorità. — Leddravohr, ora torna al tuo posto.
Il principe lo fissò per alcuni secondi, con il viso impassibile, poi si allontanò da Toller e tornò lentamente verso il palco. Toller rimase scosso quando sentì suo fratello stringergli il braccio. — Cosa stai cercando di fare? — sussurrò Lain, lo sguardo spaventato che scrutava il viso di Toller. — Leddravohr ha ucciso per molto meno — credimi.
Toller si strinse nelle spalle liberando il braccio. — Sono ancora vivo.
— E non hai nessun diritto di intrometterti in questo modo.
— Chiedo scusa per l’insulto — rispose Toller. — Non pensavo che uno in più avrebbe fatto differenza.
— Tu sai cosa penso del tuo infantile… — Lain si interruppe appena Lord Glo venne a fermarsi vicino a lui.
— II ragazzo non può evitare di essere impetuoso. Io ero lo stesso alla sua età — disse il Lord Filosofo. La luce che pioveva dall’alto mostrava che ogni poro della sua fronte era coperto da una bolla di sudore.
Sotto le ampie pieghe della tunica il petto gli si gonfiava e si contraeva con preoccupante rapidità, emanando a ogni respiro zaffate di vino..
— Mylord, penso che dovreste sedervi e ricomporvi — disse Lain con calma. — Non c’è nessun bisogno che vi sottoponiate a nessun altro…
— No! Sei tu quello che deve sedersi! Indicò due sedili lì vicino e aspettò finché Lain e Toller li ebbero occupati. — Sei bravo, Lain, ma ho fatto un grande errore imponendoti l’onere di un compito per il quale sei costituzionalmente…hmm…inadatto. Questo è il momento dell’audacia. Audacia di vedute. Quello che ci ha meritato il rispetto degli antichi Re.
Toller, fattosi morbosamente sensibile a ogni movimento di Leddravohr, notò che il principe stava concludendo una conversazione sussurrata con suo padre. Entrambi si misero poi a sedere, e Leddravohr gettò immediatamente uno sguardo truce nella sua direzione. Ad un cenno appena percettibile del Re, un funzionario batté sul pavimento con il bastone per zittire i bassi mormorii di tutta la sala.
— Lord Glo! — la voce di Prad era minacciosamente calma. — Mi scuso per la scortesia verso i membri della vostra delegazione, e desidero ricordare che il tempo del consiglio non dovrebbe essere sprecato in suggerimenti stupidi. Ora, se vi concedo il permesso di esporre i punti essenziali del vostro programma, vi impegnerete a farlo in fretta e succintamente, senza aggiungere altre tribolazioni a un giorno che ne ha già viste troppe?
— Con piacere!
— Allora procedete.
— Mi accingo a farlo, Maestà.
— Glo fece un mezzo giro per guardare Lain, gli fece una strizzatina d’occhio e gli sussurrò: — Ricordi cos’hai detto riguardo al mio volare più in alto e vedere più lontano? Stai per avere motivo di riflettere su quelle parole, ragazzo mio. I tuoi grafici stavano raccontando una storia che nemmeno tu capisci, ma io…
— Lord Glo — lo richiamò Prad. — Io sto aspettando.
Il Lord si profuse in un elaborato inchino, completo di svolazzi delle mani, secondo l’uso della classe colta. — Maestà, il filosofo ha molti doveri, molte responsabilità. La sua mente deve non solo racchiudere il passato e il presente, ma anche far luce sui molteplici sentieri del futuro. Più bui e più … hmm…rischiosi sono quei sentieri, più alto… — Arrivate al punto, Glo!
— Molto, bene, Maestà. La mia analisi della situazione in cui Kolcorron si trova oggi mostra che le difficoltà di reperire brakka e cristalli di energia aumenteranno finché…hmm…solo le misure più rigorose e a lungo termine non eviteranno un disastro nazionale. — La voce di Glo vibrava di fervore.
“È mia ponderata opinione, dal momento che i problemi che ci assillano crescono e si moltiplicano, che dobbiamo espandere di conseguenza le nostre capacità. Se vogliamo mantenere la nostra posizione di preminenza su Mondo dobbiamo volgere gli occhi non verso nazioni insignificanti ai nostri confini, con le loro magre risorse, ma verso il cielo!
“L’intero pianeta di Sopramondo è sospeso sopra di noi, in attesa, come un frutto maturo pronto per essere colto. Dipende solo dalle nostre capacità sviluppare i mezzi per raggiungerlo e per… — Il resto della frase di Glo fu sommerso da una crescente marea di risate.
Toller, il cui sguardo era incollato a quello di Leddravohr, voltò la testa quando sentì grida irose provenire dalla sua destra. Al di là della delegazione medica di Tunsfo, vide il Lord Prelato Balountar ritto in piedi che puntava su Glo il suo dito accusatore, con la piccola bocca distorta e tirata in una smorfia di violenta indignazione.
Borreat Hargeth si sporse dalla fila alle spalle di Toller e strinse la spalla di Lain. — Fai sedere quel vecchio pazzo — sussurrò scandalizzato. — Sapevi che stava per fare una cosa del genere?
— Certamente no! — Il viso sottile di Lain era esterrefatto. — E come posso fermarlo?
— Sarebbe meglio che facessi qualcosa tu prima che facciamo tutti la figura degli idioti.
— … da lungo tempo è risaputo che Mondo e Sopramondo hanno la stessa atmosfera — stava continuando il vecchio pazzo, apparentemente ignaro del trambusto che aveva provocato. — Gli archivi di Greenmount contengono progetti dettagliati per palloni aerostatici ad aria calda in grado di salire verso…
— In nome della Chiesa vi ordino di porre fine a queste bestemmie! — gridò il Lord Prelato Balountar, lasciando il suo posto per marciare su Glo, la testa in avanti che dondolava da una parte e dall’altra come quella di un trampoliere. Toller, agnostico per istinto, dedusse dalla violenza della sua reazione che Balountar doveva essere un rigido Alternazionista. A differenza di molti religiosi di alto grado, che tributavano una devozione formale al loro credo, allo scopo reale di raccogliere laute offerte, Balountar davvero credeva che dopo la morte lo spirito migrasse su Sopramondo, si reincarnasse in un neonato e infine tornasse su Mondo allo stesso modo, in un ciclo di esistenze senza fine.
Glo fece il gesto di allontanare il Lord Prelato. — La maggiore difficoltà è data dalla zona di gravità…hmm…neutrale del punto medio del volo dove, naturalmente, la differenza di densità tra aria fredda e calda non può avere alcun effetto. Questo problema può essere risolto munendo ogni mezzo di tubi reattori che…
Glo fu bruscamente messo a tacere quando Balountar, con le nere vesti che svolazzavano qua e là, superò la distanza che li separava con un balzo improvviso e gli mise con violenza una mano sulla bocca. Toller, che non aveva immaginato che l’ecclesiastico avrebbe usato la forza, schizzò dalla sedia, lo afferrò per i polsi e gli costrinse le braccia lungo i fianchi. Glo si portò le mani alla gola, con lo stomaco in subbuglio. Il Lord Prelato cercò di liberarsi dalla stretta, ma Toller lo sollevò con la stessa facilità con cui avrebbe spostato un fantoccio di paglia e lo buttò a terra qualche passo più in là, accorgendosi solo allora che il Re si era di nuovo alzato in piedi. Le risate nella sala morirono subito, lasciando il posto ad un silenzio teso.
— Tu! — La bocca di Balountar si contraeva spasmodicamente mentre levava lo sguardo su Toller. — Tu mi hai toccato!
— Agivo per difendere il mio maestro — si difese Toller, rendendosi conto che il suo gesto impulsivo era stata un’altra violazione del protocollo. Sentì un suono smorzato come di conati di vomito e voltandosi vide che Glo stava silenziosamente dando di stomaco, con entrambe le mani premute a coppa sulla bocca. Dalle sue dita colava un rivolo di vino nero che gli macchiava la tunica e sgocciolava sul pavimento.
Il Re parlò con voce alta e chiara, e ogni parola era come il colpo di una lama. — Lord Glo, non so cosa trovo più disgustoso, se il contenuto del vostro stomaco o il contenuto della vostra mente. Voi e il vostro gruppo sparirete dalla mia presenza immediatamente, e vi avverto, qui e adesso, che appena questioni più pressanti saranno risolte, penserò a lungo e con impegno al vostro futuro.
Glo si scoprì la bocca e tentò di parlare, mentre i paletti marrone dei suoi denti andavano su e giù, ma non riuscì a produrre altro che gracchianti suoni di gola.
— Toglietemelo dalla vista — disse Prad, spostando i suoi occhi duri sul Lord Prelato. — Quanto a voi, Balountar, sarete punito per esservi permesso un attacco fisico contro uno dei miei ministri, non importa quanto fosse grande la provocazione. Per questa ragione non avrete diritto a nessuna riparazione da parte del giovane che vi ha trattenuto, benché anche lui mi sembri mancare un po’ di autocontrollo. Tornerete al vostro posto e resterete là senza parlare finché il Lord Filosofo e il suo seguito di buffoni non si saranno allontanati. — Il Re si rimise a sedere e guardò fisso davanti a sé, mentre Lain e Hargeth sostenevano Glo e lo conducevano verso l’entrata principale della sala. Toller aggirò Vorndal Sisstt, che si era inginocchiato a pulire il pavimento con l’orlo della sua tunica, e aiutò i due assistenti di Lain a tirare su il cavalletto rovesciato e le tabelle. Mentre si alzava con il cavalletto sotto il braccio gli venne in mente che Leddravohr doveva aver ricevuto un ammonimento insolitamente severo per convincerlo a rimanere così calmo. Lanciò un’occhiata verso il palco e vide che il principe, sprofondato nel suo trono, lo stava fissando con uno sguardo volutamente risoluto. Toller, oppresso dalla vergogna collettiva, distolse immediatamente gli occhi, ma non prima di aver colto sul suo viso un sorriso di soddisfazione.
— Cosa stai aspettando? — borbottò Sisstt. — Porta questa roba fuori da qui prima che il Re decida di farci scorticare. Il cammino per i corridoi e le alte stanze del palazzo sembrò due volte più lungo di prima. Quando Glo si fu ripreso a sufficienza per liberarsi delle mani che lo sorreggevano, Toller capì che la notizia della disgrazia dei filosofi li aveva preceduti come per magia e veniva commentata a bassa voce da ogni gruppo che oltrepassavano. Fin dall’inizio aveva intuito che Lord Glo non sarebbe stato in grado di assolvere alle sue funzioni, ma non aveva previsto che ne sarebbe nato un pasticcio di quella portata. Re Prad era famoso per l’informalità e la tolleranza con cui si occupava degli affari reali, ma Glo era riuscito a trasgredire talmente tante regole che il futuro dell’intero ordine risultava, ora seriamente compromesso. E per di più, il piano ancora in embrione di Toller di entrare un giorno nell’esercito procurandosi il favore di Leddravohr era completamente saltato, dal momento che il principe soldato aveva fama di non dimenticare né di perdonare, mai.
Raggiunto il cortile principale, Glo si liberò finalmente lo stomaco e avanzò con fare disinvolto verso il suo cocchio. Si fermò un attimo, si voltò a guardare il resto del gruppo, e disse: — Bene, non è andata troppo male, no. Credo di poter dire in tutta onestà di aver piantato un seme nella mente del…hmm… Re. Voi cosa ne pensate?
Lain, Hargeth e Duthon si scambiarono sguardi stupefatti, ma Sisstt parlò immediatamente: — Avete assolutamente ragione, mylord.
Glo fece un cenno d’assenso. — Questo è il solo modo per presentare una nuova idea, sapete. Pianta un piccolo seme e poi lascialo… hmm… germogliare.
Toller voltò le spalle, con una gran voglia di ridere nonostante tutto quello che era successo, e portò il cavalletto verso il suo blucorno legato. L’assicurò con una cinghia ai fianchi dell’animale, prese dalle mani di Quate e Locranan le tabelle arrotolate e si preparò a partire. Il sole era un po’ più che a metà strada dal margine orientale di Sopramondo: la durata dell’umiliazione era stata misericordiosamente breve, e lui aveva ancora il tempo di fare una colazione ritardata come primo passo per salvare il resto della giornata. Aveva messo un piede sulla staffa quando suo fratello apparve al suo fianco.
— Ma cos’hai nella testa? — chiese Lain. — Il tuo comportamento a palazzo è stato spaventoso, persino per i tuoi standard normali.
Toller rimase sconcertato. — Il mio comportamento?
— Sì! Nello spazio di pochi minuti ti sei inimicato due degli uomini più pericolosi dell’impero. Come hai fatto?
— È molto semplice — rispose Toller gelido. — Mi sono comportato da uomo.
Lain sospirò esasperato. — Ne discuteremo ancora quando saremo tornati a Greenmount.
— Non ne dubito. — Toller montò sul blucorno e lo incitò a procedere senza aspettare la carrozza. Nella cavalcata di ritorno verso la Casa Quadrata la sua irritazione nei confronti di Lain svanì, quando considerò la poco invidiabile posizione di suo fratello. Il Lord Filosofo stava screditando l’ordine, ma nella sua qualità di membro reale poteva essere destituito solo dal Re. Tentare di allontanarlo sarebbe stato perseguibile come atto di sedizione, e in ogni caso Lain era personalmente troppo leale verso di lui per criticarlo. Quando fosse divenuto di dominio pubblico che Glo aveva proposto di mandare navi su Sopramondo tutti coloro che erano legati a lui sarebbero diventati oggetto di derisione. E Lain avrebbe sopportato tutto in silenzio, ritirandosi ancora di più tra i suoi libri e i suoi diagrammi, mentre il diritto dei filosofi su Greenmount sarebbe diventato ogni giorno più precario.
Quando arrivò a casa la mente di Toller si era stancata dei pensieri astratti e cominciava a preoccuparsi del fatto che aveva fame. Non solo aveva saltato la colazione il giorno precedente, ma non aveva praticamente mangiato niente, e adesso sentiva un vuoto scalpitante nello stomaco. Legò il blucorno nel recinto e, senza scomodarsi a togliergli il carico, entrò subito in casa con l’intenzione di andare direttamente in cucina.
Per la seconda volta quella mattina si trovò inaspettatamente davanti Gesalla, che stava attraversando l’ingresso diretta verso il salone ovest. Si voltò verso di lui, abbagliata dalla luce che veniva dal passaggio a volta, e sorrise. Il sorriso durò solo un attimo, quel tanto che le bastò per riconoscerlo controluce, ma il suo effetto su Toller fu strano. Gli sembrò di vedere Gesalla per la prima volta, una dea dagli occhi luminosi come il sole, e in quell’istante si sentì inesplicabilmente come se avesse perso qualcosa, non beni materiali ma tutto il potenziale della vita stessa. La sensazione svanì in fretta com’era venuta, ma lo lasciò triste e stranamente mite.
— Oh, sei tu — disse Gesalla con voce fredda. — Pensavo che fosse Lain.
Toller sorrise, chiedendosi se avrebbe potuto iniziare un nuovo e costruttivo rapporto con lei.
— Uno scherzo della luce.
— Come mai sei di ritorno così presto?
— Ah… la riunione non è andata secondo il previsto. C’è stata qualche difficoltà. Te ne parlerà Lain; sta venendo a casa anche lui.
Gesalla scosse la testa e si mosse, ancora in piena luce. — Perché non puoi dirmelo tu? È stato qualcosa che ha a che fare con te?
— Con me?
— Sì. Avevo avvisato Lain di non lasciarti gironzolare vicino al palazzo.
— Bene, forse si sta stancando quanto me delle tue prediche torrenziali. — Toller cercò di smettere di parlare, ma una specie di febbre si era impossessata di lui. — Forse ha cominciato a pentirsi di aver sposato un pezzo di legno secco invece di una vera donna.
— Grazie. Passerò a Lain tutti i tuoi commenti. — Le labbra di Gesalla presero un’espressione ironica, mostrando che, ben lungi dall’essere ferita, era invece compiaciuta di aver provocato il genere di reazione incontrollata che forse avrebbe portato a bandire Toller dalla Casa Quadrata. — Devo dedurne che il tuo concetto di donna vera è incarnato dalla sgualdrina che sta aspettando nel tuo letto in questo momento?
— Puoi desumere… — Toller si accigliò, cercando di far capire che si era completamente dimenticato della sua compagna notturna. — Dovresti frenare la lingua! Felise non è affatto una sgualdrina.
Gli occhi di Gesalla scintillarono. — Il suo nome è Fera.
— Felise o Fera, non è una sgualdrina.
— Non voglio discutere di definizioni con te — disse lei, usando adesso toni fatui, freddi ed esasperanti. — Il cuoco mi ha detto che hai lasciato istruzioni perché alla tua… ospite venisse dato tutto il cibo che desiderava. E se quello che ha già mangiato durante l’antigiorno è un metro di valutazione, dovresti ritenerti fortunato di non doverla mantenere come moglie.
— Ma lo faccio! — Toller lo disse più che altro per ripicca, una frecciata, una reazione automatica, senza curarsi delle conseguenze. — Stavo cercando di dirti che ho dato a Fera lo status di mediamoglie prima di uscire, stamattina. Sono sicuro che imparerai presto ad apprezzare la sua compagnia nella conduzione della casa, e poi saremo tutti amici. Ora, se vuoi scusarmi…
Sorrise, assaporando lo sbigottimento e l’incredulità sul viso di Gesalla, poi si voltò e andò senza fretta verso la scala principale, cercando di nascondere a se stes so l’intontita confusione per quello che uno scatto d’ira aveva fatto alla sua vita. L’ultima cosa, che voleva era la responsabilità di una moglie, fosse anche di quarto grado, e poteva solo sperare che Fera avrebbe rifiutato la proposta che si era impegnato a offrirle.
Il generale Risdel Dalacott si svegliò alle prime luci e, seguendo un’abitudine che raramente aveva trascurato nei suoi senssantotto anni di vita, lasciò il letto immediatamente.
Fece diverse volte il giro della stanza, e il suo passo diventava sempre più sicuro man mano che la rigidezza e il dolore liberavano gradualmente la sua gamba sinistra. Erano passati quasi trent’anni da quel dopogiorno, durante la prima campagna di Sorka, in cui una pesante lancia Merilliana gli aveva spezzato il femore proprio sopra il ginocchio. La ferita lo aveva ciclicamente tormentato, in quei trent’anni, e ora i periodi in cui lo lasciava in pace stavano diventando sempre più brevi e sempre più rari.
Appena fu soddisfatto dalla forma della gamba entrò nell’adiacente stanza da bagno e tirò la leva di brakka smaltato sulla parete. L’acqua calda che schizzò su di lui dal soffitto bucherellato gli ricordò che non si trovava nei suoi spartani alloggiamenti di Trompha. Poi mise da parte quell’irrazionale senso di colpa, e si godette il piacere del calore che lo avvolgeva e gli scioglieva i muscoli.
Dopo essersi asciugato si fermò davanti a uno specchio fissato al muro, fatto di due strati di vetro chiaro con indici di rifrazione diversi, e passò a un’attenta valutazione della sua immagine. Nonostante l’età avesse lasciato inevitabili segni sul corpo un tempo energico, l’austera disciplina del suo modo di vivere l’aveva quanto meno mantenuto snello. Il suo viso lungo, pensieroso, si era coperto di profonde rughe, ma il grigio che si era fatto strada nei suoi corti capelli si confondeva con il loro color biondo, e il suo aspetto complessivo era quello di chi gode di ottima forma e salute.
“Ancora efficiente”, pensò. “Ma farò ancora solo un altro anno. L’esercito ha già preso troppo da me”.
Indossando un abito borghese blu, si concentrò sulla giornata che lo aspettava. Era il dodicesimo compleanno di suo nipote Hallie, e una parte del rituale previsto per entrare all’accademia militare esigeva che il ragazzo dovesse combattere da solo contro i ptertha. Era un momento importante, e Dalacott ricordava ancora l’orgoglio che aveva provato quando suo figlio, Oderan, aveva superato a suo tempo la stessa prova. La carriera militare di Oderan era stata poi spezzata dalla morte, a trentatré anni, in uno scontro aeronavale a Yalrofac, e toccava a Dalacott rappresentarlo nelle celebrazioni della giornata.
Finì di vestirsi, lasciò la stanza da letto e scese in sala da pranzo, dove nonostante l’ora mattutina trovò Conna Dalacott seduta al tavolo rotondo. Era una donna alta, dal viso aperto, con una figura appena appesantita dall’incipiente mezza età.
— Buon antigiorno, Conna — disse, notando che era sola. — Hallie dorme ancora?
Il giorno del suo dodicesimo compleanno? — La donna fece un cenno del capo verso il giardino recintato, di cui si vedeva un angolo dalla porta-finestra. — È lì fuori da qualche parte, a esercitarsi. Non ha nemmeno guardato la sua colazione.
— È un grande giorno per lui. Per tutti noi.
— Sì. — Qualcosa nel timbro della sua voce diceva a Dalacott che Conna era tesa. — Un giorno meraviglioso.
— So che è stressante per te — disse lui dolcemente — ma Oderan avrebbe piacere di sapere che stiamo facendo del nostro meglio per il bene di Hallie.
Conna gli sorrise calma. — Vuoi sempre solo porridge per colazione? Non posso tentarti con un po’ di salmone? Salsiccia? Torta farcita di carne?
— Sono vissuto troppo a lungo con le razioni militari — protestò lui, preferendo evitare l’argomento. Conna aveva mandato avanti la casa e la sua vita, da sola, in maniera impeccabile, nei dieci anni dalla morte di Oderan, e sarebbe stato quantomeno presuntuoso da parte sua intromettersi nel suo ménage.
— Molto bene — disse lei, cominciando a servirlo da uno dei piatti coperti sulla tavola — ma scordati le razioni militari nel banchetto della piccola notte.
— D’accordo! — Mentre Dalacott mangiava il suo delicato porridge scherzando con la nuora, i suoi pensieri seguivano implacabili un altro corso, e come succedeva spesso da un po’, il ricordo del figlio che aveva perso evocava quello del figlio che non aveva mai rivendicato. Guardando indietro alla sua vita, ancora una volta dovette constatare come spesso le svolte più importanti fossero irriconoscibili come tali, e come alle volte ci si arrivasse partendo da una cosa insignificante.
Se tutti quegli anni prima non avesse abbassato la guardia durante una scaramuccia da niente, a Yalrofac, non avrebbe riportato la grave ferita alla gamba. La ferita lo aveva costretto a una lunga convalescenza nella quiete della provincia di Redant; ed era stato lì, mentre camminava lungo il fiume Bes-Undar, che gli era capitato di trovare il più strano oggetto naturale che avesse mai visto, e che ancora portava con sé ovunque andasse. Era in suo possesso da quasi un anno quando, in una delle sue rare visite alla capitale, l’aveva impulsivamente portato al quartiere scientifico di Greenmount per farlo esaminare e scoprirne eventuali proprietà.
Non aveva scoperto niente sull’oggetto, ma molto su se stesso.
Come soldato di carriera, aveva preso una solisposa quasi come un dovere per la sua posizione, per assicurarsi un erede e per provvedere ai suoi bisogni tra una campagna e l’altra. I suoi rapporti con Toriane erano stati piacevoli, regolari e caldi, e lui si era sempre considerato soddisfatto fino al giorno in cui era entrato nel cortile di una Casa Quadrata a Greenmount, e aveva visto Aytha Maraquine. Il suo incontro con la giovane donna dal corpo sottile, come una miscela di cristalli verdi e porpora aveva prodotto una violenta esplosione di passione e di estasi e, infine, un dolore intensissimo che non avrebbe mai creduto possibile.
— Il carro è arrivato, nonno — gridò Hallie, bussando alla portafinestra. — Siamo pronti per andare sulla collina.
— Arrivo. — Dalacott fece un cenno con la mano al ragazzo biondo che nel patio stava ballando per l’eccitazione. Hallie era alto e robusto, ben capace di tenere in mano le grandi bacchette anti-ptertha che tintinnavano appese alla sua cintura.
— Non hai finito il tuo porridge — disse Conna alzandosi, con un tono pratico che non riusciva affatto a nascondere la sua emozione.
— Sai, non c’è assolutamente ragione che tu ti preoccupi — disse lui. — Un ptertha che si sposta sul terreno aperto, alla luce del giorno, non rappresenta una minaccia per nessuno. È un gioco da bambini, e in ogni caso starò vicino a Hallie per tutto il tempo.
— Grazie. — Conna si rimise seduta, fissando il suo piatto ancora intatto, finché Dalacott ebbe lasciato la stanza.
Lui uscì nel giardino che, come era normale in campagna, era cintato da alti muri sormontati da schermi anti-ptertha, che potevano essere chiusi in alto durante la notte, o quando calava la nebbia. Hallie venne correndo verso di lui, ricreando l’immagine di suo padre alla stessa età, e gli prese la mano. Camminarono verso il carro nel quale aspettavano tre uomini, amici di famiglia, che sarebbero stati i testimoni dell’entrata del ragazzo nell’età adulta. Dalacott, che aveva rinnovato la loro conoscenza la sera precedente, scambiò con loro i debiti saluti mentre lui e Hallie prendevano posto sulle panche imbottite del grande carro. Il cocchiere schioccò la frusta sui quattro blucorni e il veicolo si allontanò.
— Oho! Abbiamo qui un esperto veterano? — disse Geliate, un mercante in pensione, sporgendosi in avanti per dare un colpetto a una bacchetta anti-ptertha a forma di “Y” che spiccava tra le armi di Hallie in mezzo a quelle classiche Kolcorriane a forma di croce.
— È Balliniana — rispose il ragazzo con fierezza, accarezzando il legno levigato e finemente decorato dell’arma, che Dalacott gli aveva regalato un anno prima. — Vola più lontano delle altre. Efficace a trenta iarde. Anche i Gethani le usano. I Gethani e i Cissoriani.
Dalacott restituì i sorrisi indulgenti suscitati dallo sfoggio di conoscenza del ragazzo. Su Mondo, bacchette di una forma o di un’altra, come difesa contro i ptertha, erano in uso sin dai tempi antichi praticamente dappertutto, e si erano sempre rivelate efficaci. I globi misteriosi scoppiavano come bolle di sapone una volta raggiunta la distanza mortale per un uomo, ma prima mostravano una sorprendente capacità di resistenza. Un proiettile, una freccia e persino una lancia potevano passare attraverso un ptertha senza causargli alcun danno; il globo avrebbe soltanto tremolato un attimo mentre riparava i fori nella sua pelle trasparente. Ci voleva un’arma rotante, qualcosa di dirompente, per poterne disgregare la struttura e disperdere nell’aria la sua polvere velenosa.
Anche le bolas si erano dimostrate valide contro i ptertha, ma erano difficili da controllare e troppo pesanti per essere portate in quantità, mentre una bacchetta da lancio multilama era piatta, leggera, e facilmente trasportabile. Era fonte di meraviglia per Dalacott che persino gli indigeni più primitivi avessero imparato che fabbricando ogni lama con una punta arrotondata e un’altra appiattita si otteneva un’arma capace di sostenersi in aria come un uccello, e che volava molto più in là di un normale proiettile. Senza dubbio era stata questa proprietà quasi magica ad indurre gente come i Balliniani a prodigare tanta cura nell’intaglio e nella decorazione delle loro bacchette. Per contrasto, i più pratici Kolcorriani preferivano un modello più semplice a quattro lame, più adatto alla produzione in serie perché costituito da due barre dritte unite insieme al centro.
Il carro si lasciò lentamente alle spalle i campi di grano e gli orti di Klinterden e cominciò a salire le pendici del Monte Pharote, finché arrivò a un punto in cui la strada moriva in un tappeto erboso, oltre il quale il terreno si alzava ripido tra nebbie che il sole non aveva ancora dissolto.
— Eccoci qui — disse giovialmente Gehate ad Hallie quando il veicolo si fermò scricchiolando. — Non vedo l’ora di vedere che cosa sarà in grado di fare questa tua strana bacchetta. Trenta iarde, dici?
Thessaro, un banchiere dal viso florido, aggrottò la fronte e scosse la testa. — Non istigare il ragazzo all’esibizionismo. Non è bene lanciare troppo presto.
— Ti accorgerai che sa il fatto suo — disse Dalacott una volta sceso dal carro con Hallie, guardandosi intorno. Il cielo era una cupola di brillantezza perlacea che sfumava in un blu pallido sopra di loro. Non c’erano stelle, e anche il grande disco di Sopramondo, visibile solo in parte, appariva pallido e diafano. Dalacott aveva dovuto viaggiare nel sud della provincia di Kail per andare a far visita alla famiglia di suo figlio, e a quelle latitudini Sopramondo era molto spostato a nord. Il clima era più temperato di quello della zona equatoriale di Kolcorron, e questo, combinato con una piccola notte molto più corta, faceva della regione una delle migliori zone agricole dell’impero.
— Abbondanza di ptertha — disse Gehate puntando un dito verso l’alto, dove si potevano vedere le macchioline violacee spostarsi nelle correnti d’aria che spiravano giù dalla montagna.
C’è sempre grande abbondanza di ptertha in questi giorni — commentò Ondobirtre, il terzo testimone. — Giurerei che sono in aumento, anche se dicono il contrario. Ho sentito che molti sono penetrati persino nel centro di Ro-Baccanta, qualche giorno fa.
Gehate scosse la testa sbuffando.— Non vanno dentro le città.
— Sto solo dicendo quello che ho sentito.
Sei troppo credulone, amico mio. Dai ascolto a troppe storie assurde.
— Non è il momento di bisticciare— intervenne Thessaro. — Questa è un’occasione importante. — Aprì il sacco di lino che aveva con sé e cominciò a contare sei bacchette da ptertha per Dalacott e per gli altri uomini.
— Non ne avrai bisogno, nonno — disse Hallie, con aria offesa. — Non mancherò un colpo.
— Questo lo so, Hallie, ma è l’usanza. Inoltre, qualcuno degli altri potrebbe avere bisogno di un po’ di esercizio. — Dalacott mise un braccio attorno alle spalle del ragazzo e camminò con lui verso l’imboccatura di un cunicolo formato da due alte reti. Strettamente legate e sostenute da pioli, correvano parallele attraverso il prato e arrivavano fino al pendio per scomparire poi nel soffitto nebbioso. Era il sistema tradizionale per guidare i ptertha giù dalla montagna a piccoli gruppi. I globi potevano facilmente sfuggire fluttuando verso l’alto, ma ce n’erano sempre alcuni che seguivano i cunicoli di quel genere fino in fondo, come se fossero creature senzienti motivate dalla curiosità. Simili stranezze di comportamento avevano fatto pensare, e molti lo pensavano ancora, che possedessero un qualche tipo d’intelligenza, sebbene Dalacott fosse sempre rimasto scettico data la loro assoluta mancanza di struttura interna.
— Adesso puoi lasciarmi, nonno — disse Hallie. — Sono pronto.
Molto bene, giovanotto. — Dalacott indietreggiò di una dozzina di passi e si fermò fianco a fianco con gli altri uomini. Era la prima volta che pensava a suo nipote come a qualcosa di più che un ragazzo, ma Hallie stava affrontando la sua prova con coraggio e dignità, e non sarebbe mai più stato lo stesso bambino che aveva giocato in giardino solo quella mattina. Si rese conto che a colazione aveva dato a Conna un’assicurazione fasulla e che lei sapeva fin troppo bene che non avrebbe mai riavuto il suo bambino. Era un’intuizione che Dalacott avrebbe dovuto annotare nel suo diario, quella sera. Anche alle mogli dei soldati era richiesto di passare delle prove, e il loro avversario era il tempo.
— Sapevo che non avremmo dovuto aspettare molto a lungo — sussurrò Ondobirtre.
Dalacott spostò la sua attenzione da suo nipote al muro di foschia all’estremità della recinzione. Nonostante la sua fiducia in Hallie, sentì uno spasmo di allarme quando vide che era apparsa una coppia di ptertha. I lividi globi, ciascuno di due iarde buone di diametro, si spostavano bassi con un movimento serpeggiante, e diventava difficile vederli chiaramente mentre si muovevano lungo il pendio in direzione della zona erbosa. Hallie, che aveva in mano una bacchetta a quattro lame, cambiò leggermente posizione e si preparò a lanciare.
“Non ancora” ordinò Dalacott mentalmente, ben sapendo che la presenza di due ptertha avrebbe reso più forte la tentazione di distruggerne uno prima possibile. La polvere che liberavano scoppiando diventava innocua quasi subito quando veniva a contatto con l’aria, quindi la distanza minima di sicurezza poteva essere anche solo di sei passi, secondo la direzione del vento. A quella distanza era praticamente impossibile mancare il colpo, il che significava che il ptertha non sarebbe stato un problema per un uomo capace di mantenersi freddo, ma Dalacott aveva visto novizi perdere improvvisamente le loro capacità di giudizio e di coordinazione. Alcuni subivano uno strano, affascinante e disarmante ipnotismo dalle sfere tremolanti, specialmente quando nell’avvicinare la loro preda cessavano di spostarsi a caso e la circondavano silenziosamente con propositi mortali.
I due globi che fluttuavano verso il ragazzo erano ormai a meno di trenta passi da lui, e scivolavano appena sopra l’erba cercando alla cieca da una rete all’altra. Hallie portò indietro il braccio destro, provò i movimenti del polso, ma non lanciò. Guardando la figura solitaria dalla schiena eretta che manteneva la sua posizione mentre il ptertha si faceva sempre più vicino, Dalacott provò un misto di fierezza, affetto e sacrosanta paura. Tenne pronta una delle sue bacchette e si preparò a lanciare. Hallie si avvicinò di più alla rete sulla sua sinistra, ancora con la prima bacchetta in mano.
— Vedi perché il piccolo demonio è in piedi? — mormorò Gehate. — Io credo che stia…
In quel momento il girovagare senza meta dei ptertha li portò a trovarsi insieme, uno dietro l’altro, e Hallie tirò. Le lame dell’arma cruciforme divennero sfocate mentre volavano dritte sul bersaglio, e un istante dopo i globi violacei non esistevano più.
Hallie divenne di nuovo un ragazzo, giusto il tempo necessario per fare un salto esultante nell’aria, poi riprese la sua posizione guardinga mentre un terzo ptertha emergeva dalla nebbia. Staccò un’altra bacchetta dalla cintura, e Dalacott vide che era l’arma Balliniana a forma di “Y”.
Gehate diede di gomito a Dalacott. — Il primo lancio è stato per te, ma penso che questo sarà a mio beneficio, per insegnarmi a tenere la bocca chiusa.
Hallie permise al globo di avvicinarsi a non più di trenta passi prima di fare il secondo lancio. L’arma volteggiò luccicando lungo il cunicolo come un uccello colorato, quasi senza abbassarsi, e stava appena cominciando a perdere stabilità quando colpì di taglio il ptertha e lo distrusse. Hallie, sorridente, si voltò verso gli uomini che lo osservavano e fece loro un elaborato inchino. Aveva ottenuto le tre vittorie necessarie, e con ciò era entrato ufficialmente nella fase adulta della sua vita.
— Il ragazzo ha avuto un po’ di fortuna questa volta, ma l’ha meritata — commentò Gehate senza risentimento. — Oderan sarebbe dovuto essere qui.
— Sì. — Dalacott, tormentato da emozioni contrastanti, si limitò a quella laconica risposta, e fu sollevato quando gli altri si allontanarono, Gehate e Thessaro per abbracciare Hallie, Ondobirtre per andare a prendere la rituale fiaschetta di brandy dalla carrozza. Il gruppo dei sei, incluso il cocchiere, si riunì di nuovo quando Ondobirtre distribuì minuscoli bicchieri emisferici dai bordi modellati irregolarmente che rappresentavano i ptertha sconfitti. Dalacott lanciò un’occhiata a suo nipote mentre assaggiava il suo primo sorso di liquore bruciante, e rimase divertito quando il ragazzo, che aveva appena sopraffatto un mortale nemico, fece una smorfia grottesca.
— Io spero — disse Ondobirtre mentre riempiva di nuovo il bicchiere degli adulti, — che tutti i presenti abbiano notato l’aspetto insolito dell’uscita di questa mattina.
Gehate sbuffò. — Sì. Tu non ti sei attaccato al brandy prima che noi altri ci arrivassimo vicino.
— Non è questo — disse Ondobirtre gravemente, rifiutando la provocazione. — Pensate pure che io sia un idiota, ma in tutti gli anni in cui siamo venuti a testimoniare alla prova, avete mai visto una volta che tre globi siano apparsi prima che i blucorni avessero smesso di scoreggiare dopo la salita? Vi sto dicendo, cari amici dalla vista corta, che i ptertha sono in aumento. Infatti, a meno che non sia in preda ai fumi dell’alcol, abbiamo un’altra coppia di visitatori.
La compagnia si voltò a guardare lo spazio tra le due reti e vide che altri due ptertha erano scesi dall’oscurità del tetto di nuvole e stavano fiutando per trovare la strada lungo le barriere di corda.
— Sono miei — gridò Gehate correndo in avanti. Si fermò, si bilanciò e scagliò due bacchette in rapida successione, distruggendo entrambi i globi con facilità. La polvere macchiò l’aria per un attimo.
— Qui ti volevo! — Urlò Gehate. — Non hai bisogno di essere tirato su come un soldato per imparare a difenderti. Posso ancora insegnarti due o tre cose, giovane Hallie!
Hallie restituì il bicchiere a Ondobirtre e corse vicino a Gehate, ansioso di competere con lui. Dopo il secondo brandy anche Dalacott e Thessaro li raggiunsero e fecero a gara nel distruggere ogni globo che appariva, smettendo solo quando la nebbia si ritirò dall’estremità del cunicolo e i ptertha la seguirono verso quote più alte. Dalacott era impressionato: nello spazio di un’ora erano scesi nel cunicolo circa quaranta globi, molti più di quanti sarebbe stato ragionevole aspettarsi. Mentre gli altri stavano raccogliendo le loro bacchette in vista della partenza, ne discusse con Ondobirtre.
— È quello che sto dicendo da tanto tempo — disse l’altro, che era rimasto a bere brandy tutto il tempo e si faceva sempre più pallido e imbronciato. — Ma tutti pensano che io sia un idiota.
Quando la carrozza fu di ritorno a Klinterden, il sole era ormai vicino al margine orientale di Sopramondo, e la festa della piccola notte in onore di Hallie stava per cominciare.
I veicoli e gli animali degli ospiti vennero riuniti nel cortile anteriore della villa, mentre un certo numero di bambini giocava nel giardino. Hallie, primo a saltare giù dalla carrozza, corse in casa a cercare sua madre. Dalacott lo seguì a passo più calmo, dato che il dolore alla gamba era tornato per la lunga immobilità cui l’aveva costretto la carrozza. Aveva poco entusiasmo per le grandi feste né lo attraeva troppo il resto della giornata, ma sarebbe stato scortese da parte sua non restare per la notte. Un’aeronave militare lo avrebbe preso a bordo il giorno successivo per riportarlo al quartier generale della Quinta Armata a Trompha.
Conna lo salutò con un caldo abbraccio quando entrò in casa. — Grazie per esserti preso cura di Hallie — disse. — È stato così superbo come dice?
— Assolutamente! Una splendida prestazione. — Dalacott era contento di vedere che Conna ora aveva un’aria allegra e serena. — Ha fatto in modo che Gehate fosse tutt’orecchie, te lo garantisco.
— Ne sono felice. Ora, ricorda quello che mi hai promesso a colazione. Voglio vederti mangiare, non solo piluccare il cibo.
— L’aria fresca e l’esercizio mi hanno fatto venire fame — mentì Dalacott. Lasciò la nuora a dare il benvenuto ai tre testimoni e andò nella parte centrale della casa, affollata di uomini e donne che conversavano animatamente in piccoli gruppi. Contento che nessuno avesse notato il suo arrivo, prese con calma un bicchiere di succo di frutta dal tavolo dei bambini e si avvicinò a una finestra. Da quel punto poteva vedere un buon tratto di strada verso ovest, in un panorama di terra coltivata che sfumava all’orizzonte in una fila di basse colline verde-blu. Le strisce di campi mostravano una successione di morbide tinte, dal verde chiaro delle nuove piantagioni al giallo scuro delle messi mature per la mietitura.
Mentre guardava, le colline e i campi più distanti scintillarono di tutti i colori dell’iride, poi la luce bruscamente si attenuò. La banda scura dell’ombra di Sopramondo correva sul paesaggio a velocità orbitale, immediatamente seguita dal suo cono d’ombra. Ci volle appena la frazione di un minuto perché il veloce muro di oscurità raggiungesse e avvolgesse la casa: la piccola notte era iniziata. Era un fenomeno che Dalacott non si era, mai stancato di guardare. Mentre i suoi occhi si adattavano alle nuove condizioni di luce, il cielo sembrò fiorire di stelle, spirali indistinte e comete, e lui si ritrovò a chiedersi se davvero ci fossero, come alcuni asserivano, altri mondi abitati che ruotavano attorno a soli lontanissimi. In passato l’esercito aveva assorbito troppe delle sue energie mentali per lasciargli modo di pensare seriamente a cose del genere, ma di recente aveva trovato conforto nell’idea che poteva esistere un’infinità di pianeti, e che su uno di essi poteva esserci un’altra Kol corron, identica a quella che conosceva sotto ogni aspetto tranne uno. Era possibile che esistesse un altro Mondo, sul quale le persone amate che aveva perduto erano ancora vive?
L’odore evocativo di candele e di lanterne a olio appena accese portò indietro i suoi pensieri alle poche notti preziose che aveva passato con Aytha Maraquine. Nel primo periodo d’ardore Dalacott era sicuro, con assoluta certezza, che avrebbero vinto tutte le difficoltà, superato tutti gli ostacoli che sbarravano la strada del loro eventuale matrimonio. Aytha, che aveva il grado di solisposa, avrebbe dovuto sopportare il duplice peso di divorziare da un marito malato e di risposarsi infrangendo la più grande di tutte le barriere sociali, quella che separava la classe militare da tutte le altre. Lui avrebbe dovuto far fronte allo stesso tipo di problemi, con l’ulteriore complicazione che il divorzio da Toriane, figlia di un governatore militare, avrebbe rischiato di mettere in pericolo la sua stessa carriera.
Ma niente di tutto ciò aveva importanza per Dalacott nella sua passione febbrile. Poi era venuta la campagna Paladiana, che sarebbe dovuta essere breve ma che in realtà lo aveva costretto a rimanere separato da Aytha per quasi un anno. Poi era arrivata la notizia che lei era morta dando alla luce un figlio maschio. Il primo impulso di Dalacott era stato quello di rivendicare il bambino, mantenendo la parola data ad Aytha, ma poi erano intervenute le fredde voci della logica e dell’interesse personale. Che scopo c’era a macchiare il buon nome di Aytha, e nello stesso tempo pregiudicare la sua carriera e portare l’infelicità nella sua famiglia? Non ne avrebbe beneficiato nemmeno il ragazzo: molto meglio per Toller crescere tra le comodità e l’affetto di parenti e amici materni.
Alla fine Dalacott aveva scelto la razionalità. Non aveva neppure cercato di vedere suo figlio, e gli anni erano scivolati via, e le sue capacità lo avevano portato all’alto grado di generale. Ora, in quella tarda fase della sua vita, tutta la storia pareva emergere da un sogno e non gli portava più dolore, tranne il fatto che altre domande e dubbi avevano cominciato a turbare le sue ore di solitudine. Nonostante le sue affermazioni solenni, aveva realmente inteso sposare Aytha? Non si era sentito sollevato, magari inconsciamente, quando la morte di lei aveva eliminato la necessità di prendere una decisione in un senso o nell’altro? In breve, lui, il generale Risdel Dalacott, era l’uomo che aveva sempre creduto di essere? O era un…?
— Sei qui! — esclamò Conna, avvicinandosi con un bicchiere di vino di grano che mise a forza nella sua mano libera togliendogli dall’altra il succo di frutta. — Devi unirti agli ospiti, sai. Altrimenti sembrerà che ti consideri troppo famoso e importante per accettare i miei amici.
— Mi dispiace. — Le fece un sorriso di sbieco. — Più invecchio più guardo dentro al passato.
— Stavi pensando a Oderan?
— Stavo pensando a molte cose. — Dalacott sorseggiò il vino e andò con sua nuora a scambiare le solite parole con gli altri invitati. Notò che pochissimi di loro avevano una formazione militare, probabilmente un’indicazione dei reali sentimenti di Conna per l’organizzazione che le aveva preso il marito e che stava ora puntando gli occhi sul suo unico figlio. Lo sforzo della conversazione improvvisata con puri e semplici estranei era pesante per lui, e fu quasi con sollievo che accolse l’invito ad andare a tavola. Era suo dovere, adesso, tenere un breve discorso formale sulla maggiore età di suo nipote; poi sarebbe stato libero di confondersi in mezzo agli altri meglio che poteva. Aggirò il tavolo diretto verso la sedia dall’alto schienale addobbata con fiori di menta blu in onore di Hallie, e si accorse che non vedeva il ragazzo da un po’.
— Dov’è il nostro eroe? — disse ad alta voce un uomo.— Fate entrare l’eroe!
— Dev’essere andato in camera sua — disse Conna. — Vado a chiamarlo.
Con un sorriso di scusa si allontanò. Passò forse un minuto prima che ricomparisse sulla porta, con il viso lavato di ogni espressione, come congelato. Fece un segno a Dalacott e uscì di nuovo senza parlare. Lui la seguì, dicendosi che la sensazione di ghiaccio nel suo stomaco non significava niente, e camminò lungo il corridoio verso la camera di Hallie. Il ragazzo giaceva supino nel letto stretto. Il suo viso era bollente di febbre e brillante di sudore, e i suoi arti stavano facendo piccoli movimenti scoordinati.
“Non può essere”, pensò Dalacott atterrito mentre si avvicinava al letto. Guardò Hallie, vide il terrore nei suoi occhi, e seppe immediatamente che il tremito delle sue braccia e delle sue gambe erano inutili tentativi di muoversi normalmente. Paralisi e febbre!
“Non lo permetterò!”, gridò Dalacott dentro di sé mentre cadeva in ginocchio. “Non è permesso!”.
Mise la mano sul corpo magro di Hallie proprio sotto la cassa toracica: immediatamente trovò il gonfiore della milza, un indizio, e un gemito di vera e propria angoscia gli sfuggì dalle labbra.
— Hai promesso che avresti badato a lui — disse Conna con voce priva di vita. — È solo un bambino! Dalacott si alzò e la strinse per le spalle. — C’è un dottore qui?
— A cosa serve?
— So cosa pensi, Conna, ma Hallie non è mai stato a meno di venti passi da un globo e non c’era neanche un fil di vento. Ascoltando la sua stessa voce, la voce di uno sconosciuto, Dalacott cercava di convincersi sulla scorta dei dati di fatto. — Inoltre, ci vogliono due giorni perché la pterthacosi si sviluppi. Non può assolutamente accadere in questo modo. Adesso, c’è un dottore?
— Visigann — sussurrò lei, gli occhi traboccanti di lacrime che gli scrutavano il volto in cerca di speranza. — Lo farò venire. — Si voltò e corse fuori.
Starai benissimo, Hallie — disse Dalacott mentre si inginocchiava di nuovo vicino al nipote. Usò l’orlo di un copriletto per asciugare il sudore dal viso del ragazzo e fu atterrito nello scoprire che poteva davvero sentire il calore emanato dalla sua pelle madida. Hallie lo fissò in silenzio, con le labbra che tremarono quando cercò di sorridere. Dalacott notò che la bacchetta da ptertha Balliniana era posata sul letto. La prese e gliela mise in mano chiudendo le dita senza forza del ragazzo intorno al legno levigato, poi lo baciò sulla fronte. Lo baciò a lungo, come cercando di travasare la febbre che consumava il nipote nel suo proprio corpo, e solo lentamente si rese conto di due fatti strani: che Conna ci stava mettendo troppo a tornare con il dottore, e che una donna stava gridando da un’altra parte della casa.
— Torno subito, soldato — disse. Si alzò in piedi, come ipnotizzato, ripercorse la strada verso la sala da pranzo e vide che gli ospiti erano riuniti intorno a un uomo che giaceva sul pavimento.
L’uomo era Gehate, e dal suo colorito acceso e dal debole sussultare delle mani era evidente che era in uno stato avanzato di pterthacosi.
Mentre stava aspettando che venissero tolti gli ormeggi all’aeronave, Dalacott fece scivolare una mano in tasca e tastò il curioso oggetto senza nome che aveva trovato decenni prima sulle rive del Bes-Undar. Il suo pollice si muoveva in una traiettoria circolare sulla superficie lucente del ciottolo, levigato da anni di frizioni come quella, e lui tentava di farsi una ragione dell’enormità di quello che era successo nei nove giorni passati. Le semplici statistiche dicevano poco dell’angoscia che stava inaridendo il suo spirito.
Hallie era morto prima della fine della piccola notte del suo compleanno. Gehate e Ondobirtre erano stati sopraffatti dalla nuova terrificante forma di pterthacosi alla fine della giornata, e la mattina seguente aveva trovato morta anche Conna, per la stessa causa, nella sua stanza. Quella era stata la prima prova che la malattia era contagiosa, e le implicazioni stavano ancora cercando un ordine nella sua testa quando gli era arrivata la notizia della sorte toccata agli altri ospiti della festa.
Della quarantina di uomini, donne e bambini invitati alla villa, non meno di trentadue, e tutti i bambini, erano stati spazzati via la notte stessa. E ancora il flusso della morte non aveva esaurito il suo mortale potere. Il numero degli abitanti del villaggio di Klinterden e del distretto circostante era sceso da circa trecento ad appena sessanta nel giro di tre giorni. A quel punto l’invisibile assassino aveva apparentemente perso la sua virulenza, ed erano cominciati i funerali.
La navicella dell’aeronave traballò e dondolò un poco quando fu libera dagli ormeggi. Dalacott si avvicinò a un oblò e, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta, guardò il panorama familiare di abitazioni dai tetti rossi, di frutteti, di campi striati di grano. Il suo placido aspetto mascherava i profondi cambiamenti di quei nove giorni, proprio come il suo inalterato aspetto fisico nascondeva il fatto che in nove giorni era diventato vecchio.
Quella sensazione, una cupa apatia, sfiducia in ogni speranza, era nuova per lui, ma non aveva nessuna difficoltà ad accettarla perché, per la prima volta in vita sua, poteva vedere un motivo per invidiare chi era morto.