CAPITOLO SECONDO CIÒ CHE VOLEVA IL PRESIDENTE

Torraway pensava spesso all’uomo che era un mostro. Provava per lui un interesse particolare.

Era seduto al posto di secondo pilota, a ventiquattromila metri sopra il Kansas e guardava un blip che usciva placido dallo schermo radar IDF. — Merda, — disse il pilota. Il blip era un Concordski III sovietico; il loro CB-5 aveva continuato a gareggiare in velocità con l’apparecchio russo fin da quando lo avevano inquadrato, sopra il lago artificiale di Garrison.

Torraway sorrise ironicamente e spostò la cloche per aumentare un poco la velocità. Con quell’aumento della velocità relativa, il blip che rappresentava il Concordski accelerò. — Stiamo per perderlo, — disse torvo il pilota. — Dove crede che sia diretto? Magari in Venezuela?

— Speriamolo, — disse Torraway, — tenuto conto del carburante che state consumando tutti e due.

— Già, sicuro, — disse il pilota, per nulla imbarazzato dal fatto di aver superato di parecchio il limite di 1,5 Mach, fissato dal trattato internazionale. — Che cosa succede a Tulsa? Di solito ci lasciano atterrare subito, con un V.I.P. come lei.

— Probabilmente in questo momento sta atterrando un V.I.P. più importante di me, — disse Roger. Non tirava a indovinare, perché sapeva chi era quel V.I.P.: e non ne esistono di più importanti del presidente degli Stati Uniti.

— Guida molto bene questo apparecchio, — dichiarò generosamente il pilota. — Vuol farlo atterrare lei. quando ce lo permetteranno, voglio dire?

— Grazie, no. Sarà bene che io vada dietro a tirar fuori le mie cianfrusaglie. — Ma restò al suo posto, a guardare giù. Avevano iniziato la discesa, e sotto di loro c’era la distesa irregolare dei cumuli L-1: potevano sentire i sobbalzi causati dalle correnti d’aria ascensionale, sopra lo strato di nubi. Torraway tolse le mani dai comandi, e lasciò che li prendesse il pilota. Presto sarebbero passati sopra Tonka, un po’ sulla destra. Si chiese come stava il mostro.

Il pilota si sentiva ancora generoso. — Non vola più tanto, vero?

— Solo quando me lo permette qualcuno come lei.

— Non occorrono sviolinate. Ma che cosa fa, se posso chiederlo? Voglio dire, oltre a fare il V.I.P.

Torraway aveva già una risposta pronta. — Attività amministrative, — disse. Rispondeva sempre così, quando qualcuno gli chiedeva cosa faceva. Qualche volta coloro che gli rivolgevano la domanda avevano le dovute autorizzazioni, non soltanto da parte del governo ma anche dal radar personale che lui aveva nella mente e che gli diceva di fidarsi di una persona piuttosto che di un’altra. Poi aggiunse: — Fabbrico mostri. — Se ciò che gli altri gli rispondevano, allora, indicava che erano al corrente anche loro, poteva spingersi più avanti di una frase o due.

Il Progetto Esomedicina non era un segreto. Tutti sapevano che a Tonka preparavano gli astronauti a vivere su Marte. Era segreto il modo in cui lo facevano: il mostro. Se Torraway avesse detto una parola di troppo avrebbe messo in pericolo la sua libertà e il suo lavoro. E a Roger il suo lavoro piaceva. Serviva a mantenere la sua bella moglie con il laboratorio di ceramica. Gli dava la sensazione di far qualcosa che la gente avrebbe ricordato, e lo portava in posti interessanti. Ai tempi in cui era un astronauta in servizio effettivo era stato in posti ancora più interessanti, ma si trovavano nello spazio ed erano piuttosto desolati. Preferiva i luoghi dove arrivava con i jet privati, e dove trovava ad accoglierlo diplomatici complimentosi e signore impressionabili della buona società. Naturalmente, c’era il mostro cui pensare, ma in realtà Torraway non se ne preoccupava. Non se ne preoccupava molto.

Sorvolarono il fiume Cimarron, o meglio, l’irregolare canalone rossiccio che sarebbe tornato ad essere un fiume alle prime piogge; regolarono i reattori per scendere, ridussero la velocità e atterrarono dolcemente.

— Grazie, — disse Roger al pilota, e andò a prendere la sua roba dalla cabina riservata ai V.I.P.

Questa volta il suo giro l’aveva portato a Beirut, Roma, Siviglia e Saskatoon, prima di ricondurlo in Oklahoma: e ognuno di quei posti era più caldo ed afoso dell’altro. Poiché erano attesi per il briefing ufficiale da parte del presidente, Dorrie lo aspettava al motel dell’aeroporto. Roger si cambiò in fretta, indossando l’abito che gli aveva portato la moglie. Era felice di essere a casa, lieto di poter riprendere a fabbricare mostri e di essere di nuovo con sua moglie. Quando stava per uscire dalla doccia ebbe un rapido e potente impulso erotico. Aveva nella testa un orologio che scandiva il tempo a disposizione, perciò non doveva consultare l’orologio da polso: c’era tempo. Non avrebbe avuto importanza, se fossero arrivati con qualche minuto di ritardo. Ma Dorrie non era più sulla poltrona dove l’aveva lasciata; il televisore era acceso, la sigaretta si consumava sul portacenere, ma lei era sparita. Roger sedette sull’orlo del letto, avvolto nell’asciugamani, fino a che il suo orologio mentale gli disse che ormai non c’era più tempo sufficiente. Allora cominciò a vestirsi. Si stava facendo il nodo alla cravatta quando Dorrie bussò alla porta. — Scusami, — disse quando lui andò ad aprirle. — Non riuscivo a trovare il distributore della Coca. Una per te e una per me.

Dorrie era alta quasi come Roger: era bruna per scelta, e aveva gli occhi verdi per natura. Prese dalla valigia una spazzola e gli pulì la schiena e le maniche della giacca, poi toccò con la lattina della Coca quella di lui e bevve. — Sarà meglio che andiamo, — disse. — Sei splendido.

— E tu desiderabile, — disse Roger, posandole una mano sulla spalla.

— Mi sono data ora il rossetto, — rispose lei, girando la testa e concedendogli di baciarla sulla guancia. — Ma mi fa piacere constatare che le señoritas non ti hanno consumato del tutto.

Roger ridacchiò gaiamente: scherzavano sempre, fingendo che lui andasse a letto con una ragazza diversa in ogni città. Quello scherzo gli faceva piacere. Ma non era vero. I suoi due o tre tentativi di adulterio erano stati più squallidi e fastidiosi che soddisfacenti; ma amava considerarsi un uomo la cui moglie dovesse preoccuparsi delle attenzioni delle altre donne. — Non facciamo aspettare il presidente, — disse. — Pagherò il conto mentre tu prendi la macchina.


In realtà, non fecero aspettare il presidente: dovettero passare più di due ore prima che riuscissero a vederlo.

Roger era abituato, in generale, a venir perquisito, poiché gli era già accaduto altre volte. Non era solo il presidente degli Stati Uniti che prendeva precauzioni al duecento per cento per timore di finire assassinato, di quei tempi. Roger aveva impiegato un giorno intero per venir ricevuto dal papa; e una guardia svizzera armata di Beretta gli era rimasta alle spalle per tutto il tempo che lui si era trattenuto nello studio del pontefice.

Per il briefing era presente una buona metà degli alti papaveri del laboratorio. Il salone dei dirigenti era stato pulito e lucidato per l’occasione e non sembrava più lo stesso. Persino le lavagne e i tovaglioli di carta erano spariti. Agli angoli erano stati eretti paraventi pieghevoli, e le veneziane delle finestre più vicine erano state discretamente abbassate: era per le perquisizioni, Roger lo sapeva. Quindi avrebbero avuto colloqui con gli psichiatri. Poi, se tutti avessero superato l’esame, se non si fossero scoperte siringhe letali camuffate da spilloni per cappelli e se non fossero emerse manie omicide, sarebbero stati ammessi tutti nell’auditorio, e lì li avrebbe raggiunti il presidente.

Quattro agenti del servizio segreto partecipavano al compito di frugare, perquisire, identificare e controllare con i magnetometri gli ospiti maschi, sebbene soltanto due di essi vi avessero parte attiva. Gli altri due si limitavano a restarsene lì, presumibilmente pronti a sfoderare le pistole e a sparare, se fosse stato necessario. Alcune donne del Servizio segreto (venivano chiamate «segretarie,» ma Roger vide benissimo che erano armate di pistola) perquisirono le mogli e Kathleen Doughty. Le donne venivano perquisite dietro uno dei paraventi che arrivavano all’altezza delle spalle, ma Roger poté leggere dall’espressione del viso di sua moglie i movimenti delle mani curiose. A Dorrie non piaceva sentirsi toccare dagli estranei. Qualche volta non le piaceva essere toccata comunque, ma in particolare dagli estranei.

Quando venne il turno di Roger, comprese la fredda collera che aveva scorto in faccia a sua moglie. Furono eccezionalmente meticolosi. Gli frugarono sotto le ascelle. Gli slacciarono la cintura e frugarono nella fenditura tra le natiche. Gli palparono i testicoli. Tirarono fuori tutto ciò che aveva nelle tasche: il fazzoletto del taschino venne spiegato e scosso e rapidamente ripiegato, più in ordine di prima. La fibbia della cintura e il cinturino dell’orologio vennero studiati con una lente.

Subirono tutti lo stesso trattamento, persino il direttore, che si guardava intorno con aria di gioviale sopportazione mentre le dita degli agenti gli frugavano il pelo sotto le braccia. L’unica eccezione fu Don Kayman, che aveva indossato la tonaca per l’occasione, e che, dopo una breve discussione sottovoce, fu scortato in un’altra stanza per togliersela. — Ci scusi, padre, — disse la guardia. — Ma sa com’è.

Don alzò le spalle, se ne andò con l’agente e tornò poco dopo, irritato. Anche Roger cominciava a irritarsi. Sarebbe stato più ragionevole, pensò, mandarli dagli psichiatri via via che le perquisizioni venivano completate. Dopotutto, erano personaggi importanti, e il loro tempo valeva parecchio danaro. Ma il Servizio segreto aveva i suoi sistemi e procedeva per stadi. Soltanto quando tutte le perquisizioni finirono, il primo gruppo di tre persone venne condotto nella sala delle dattilografe, evacuata apposta per lasciare spazio ai colloqui.

Lo psichiatra di Roger era ufficialmente negro: in realtà aveva una carnagione color caffelatte. Sedettero su due normali sedie; tra le loro ginocchia c’erano cinquanta centimetri. Lo psichiatra disse: — Cercherò di rendere il colloquio breve e indolore il più possibile. I suoi genitori sono vivi?

— No, sono morti tutti e due. Mio padre due anni fa, mia madre quando ero ancora studente.

— Che lavoro faceva suo padre?

— Noleggiava barche da pesca in Florida. — Con metà della sua mente, Roger descrisse la rimessa delle barche a Key Largo, mentre con l’altra metà manteneva su se stesso quella sorveglianza che durava ventiquattro ore su ventiquattro. Dimostrava abbastanza irritazione nel venire interrogato in quel modo? O ne dimostrava troppa? Era abbastanza rilassato? O più del necessario?

— Ho visto sua moglie, — disse lo psichiatra. — Una donna molto sexy. Le dispiace se lo dico?

— No, affatto, — rispose Roger, esasperato.

— Certi bianchi non sopporterebbero di sentirlo dire da me. Lei cosa prova?

— Lo so, che mia moglie è sexy, — scattò Roger. — È per questo che l’ho sposata.

— Le dispiacerebbe se mi spingessi ancora più oltre e le chiedessi come vanno i rapporti sessuali?

— No, naturalmente no… beh, diavolo. Sì, mi dispiace, — disse rabbioso Roger. — Vanno più o meno come quelli di tutti gli altri, credo. Dopo qualche anno di matrimonio.

Lo psichiatra si appoggiò alla spalliera della sedia, e guardò pensoso Roger. Poi disse: — Nel suo caso, dottor Torraway, questo colloquio è più che altro una formalità. Lei è stato sottoposto a controlli trimestrali durante gli ultimi sette anni, e ogni volta i risultati sono stati normali. Non c’è nulla di violento o di instabile nella sua cartella clinica. Mi permetta solo di chiederle se si sente a disagio all’idea di incontrare il presidente.

— Ho un po’ di soggezione, forse, — rispose Roger, cambiando marcia.

— È abbastanza naturale. Lei ha votato per Dash?

— Sicuro… ehi, aspetti un momento. Questo non è affar suo.

— Giusto, dottor Torraway. Può tornare in sala, adesso.

In effetti non lo lasciarono tornare nella stessa sala, ma in una delle salette da riunione più piccole. Kathleen Doughty lo raggiunse quasi subito. Lavoravano insieme da due anni e mezzo, ma lei usava ancora toni molto formali: — Sembra che abbiamo superato l’esame, dottor colonnello Torraway, — disse, e fissò come al solito lo sguardo su di un punto sopra la spalla sinistra di lui, tenendo tra loro la sigaretta. — Ah, bene, un piccolo rinfresco, — aggiunse, e allungò la mano.

Un cameriere in livrea (no, si disse Roger, un agente del Servizio segreto in livrea da cameriere) offriva un vassoio carico di bicchieri. Roger prese un whiskey and soda, la grossa protesiologa accettò un bicchierino di sherry secco. — Lo beva tutto, — bisbigliò, rivolgendosi alla schiena di Roger. — Credo che ci abbiano messo dentro qualcosa.

— Qualcosa di che genere?

— Per calmare la gente. Se non lo beve tutto, le metteranno una guardia armata dietro la schiena.

Per accontentarla Roger vuotò il bicchiere, ma si chiese come una donna con quelle illusioni e quelle paure avesse potuto ottenere così rapidamente il visto dello psichiatra. I cinque minuti che lui aveva trascorso con il frugacervelli aveva rafforzato il suo spirito di autoosservazione, e con una parte della mente era intento ad analizzare. Perché si sentiva inquieto in presenza di quella donna? Non certo perché aveva modi così tradizionalisti e conservatori. Forse perché lei ammirava tanto il suo coraggio. Roger aveva tentato di spiegarle che per fare l’astronauta non occorreva più coraggio che per pilotare un aereo da trasporto, probabilmente meno che per guidare un tassi. Certo, era realmente pericoloso essere la riserva del progetto Man Plus: ma solo se tutti gli uomini che lo precedevano nell’elenco si fossero tolti di mezzo, e le probabilità non erano tali da preoccuparlo molto. Comunque, Kathleen Doughty continuava a guardarlo con un’intensità che in certi momenti sembrava ammirazione e in altri pietà.

Con l’altra parte della sua mente, come sempre, Roger pensava a sua moglie. Quando entrò, finalmente, era furiosa e, per lei, in disordine. Aveva impiegato un’ora a raccogliersi sulla testa i capelli, e adesso erano sciolti. Le arrivavano alla cintura, ed erano una magnifica cascata di spuma nera che la faceva somigliare a un’Alice disegnata da Tenniel, se Tenniel a quei tempi avesse lavorato per Playboy. Roger si precipitò a placarla, un’impresa che assorbì la sua attenzione, al punto che fu colto di sorpresa quando sentì un movimento improvviso intorno a sé e udì qualcuno annunciare, con voce non troppo alta né troppo formale: — Signore e signori, il Presidente degli Stati Uniti.


Fitz-James Deshatine entrò dispensando grandi sorrisi e cenni del capo; era identico a quel che sembrava in televisione, però era più basso. Senza bisogno che nessuno li istruisse, quelli del laboratorio si disposero in semicerchio, e il presidente fece il giro, stringendo la mano a tutti, con il direttore del progetto al fianco, che faceva le presentazioni. Deshatine era stato splendidamente informato. Da buon politico, aveva l’abitudine di ricordare ogni nome e di formulare qualche osservazione personale. A Kathleen Doughty disse: — Mi fa piacere vedere un’irlandese in questo gruppo, dottoressa Doughty. — A Roger disse: — Noi ci siamo già incontrati, colonnello Torraway. Dopo la magnifica impresa con i russi. Vediamo, deve essere stato sette anni fa, quando ero presidente della commissione senatoriale. Forse lo ricorderà. — Roger ricordava, certamente: e fu lusingato, consapevolmente, che il presidente ricordasse. A Dorrie disse: — Santo cielo, Mrs. Torraway, come mai una bella donna come lei si è sprecata con uno di questi noiosi scienziati? — Roger si irrigidì un po’ nell’udire quella frase: non perché sminuisse lui, ma perché era il genere di complimento ozioso che Dorrie aveva sempre sdegnato. Ma questa volta lei non lo sdegnò. Poiché veniva dal presidente degli Stati Uniti, le fece brillare gli occhi. — Che bell’uomo, — mormorò, seguendolo con lo sguardo mentre faceva il giro.

Quando Deshatine ebbe completato il semicerchio, balzò sul piccolo podio e disse: — Bene, amici, io sono venuto qui per guardare e ascoltare, non per parlare. Ma voglio ringraziarvi tutti per aver sopportato con tanta pazienza i controlli cui vi hanno sottoposti. Mi dispiace. Non è stata un’idea mia. Mi dicono che è necessario, finché ci sono in giro tanti pazzi. E finché i nemici del Mondo Libero sono quello che sono, e noi continuiamo ad essere così aperti e così fiduciosi. — Rivolse un sorriso a Dorrie, direttamente. — Mi dica, le hanno fatto immergere le unghie in qualcosa, prima di lasciarla entrare?

Dorrie rise, una risata musicale che sbalordì suo marito. (Si era lamentata, rabbiosamente, che le avevano rovinato lo smalto.) — Certo, signor presidente. Proprio come la mia manicure, — rispose.

— Mi rincresce. Dicono che serve ad assicurare che lei non abbia qualche veleno biochimico segreto per graffiarmi quando ci diamo la mano. Beh, bisogna fare quel che dicono loro, credo. Comunque, — aggiunse, ridacchiando, — se voi belle signore pensate che sia una seccatura, dovreste vedere come si comporta la mia vecchia gatta quando lo fanno a lei. È stata una fortuna che non avesse del veleno sulle unghie, l’ultima volta. Ha graffiato tre uomini del Servizio segreto, mio nipote e due dei suoi micini, prima che la scena fosse finita. — Deshatine rise, e Roger fu un po’ sorpreso quando si accorse che Dorrie e gli altri gli facevano eco.

— Comunque, — disse il presidente, entrando in argomento, — vi sono grato per la vostra cortesia. E vi sono mille volte più grato per l’impegno con cui lavorate al progetto Man Plus. E superfluo che io vi dica cosa significa per il Mondo Libero. Lassù c’è Marte, l’unico territorio del sistema solare che valga la pena di conquistare, a parte quello su cui ci troviamo in questo momento. Entro la fine del decennio dovrà appartenere a qualcuno. Le possibilità sono soltanto due. O apparterrà a loro, o apparterrà a noi. E io voglio che sia nostro. Voi siete quelli che lo renderanno possibile, poiché sarete voi a darci il Man Plus, l’Uomo Più che vivrà su Marte. Desidero ringraziarvi sinceramente, dal più profondo del cuore, in nome di tutti gli esseri umani dei paesi democratici del Mondo Libero, perché rendete possibile questo sogno. Ed ora, — aggiunse, smorzando con un cenno della mano un tentativo di applauso educato, — credo sia ora che io smetta di parlare e incominci ad ascoltare. Voglio vedere come va il nostro Man Plus. Generale Scanyon, ora tocca a lei.

— Bene, signor presidente.

Vern Scanyon era il direttore del laboratorio del Grissom Memorial Institute of Space Medicine. Era anche un generale con due stelle in pensione, e si comportava sempre come tale. Controllò l’orologio, diede un’occhiata al suo assistente (qualche volta lo chiamava «il mio aiutante di campo») per chiedere conferma e disse: — Manca ancora qualche minuto prima che il comandante Hartnett termini i test preparatorii. Seguiamolo per un minuto sul circuito chiuso. Poi cercherò di spiegare quanto accadrà oggi.


Le luci si abbassarono.

Dietro il podio si illuminò un teleschermo. Si udì uno scalpiccio, quando uno dei «camerieri» spostò una sedia per far accomodare il presidente. Questi borbottò qualcosa. La sedia venne tirata più indietro, e il presidente annuì, scuro nel riflesso luminoso dello schermo, e alzò la testa.

Il teleschermo mostrava un uomo.

Non sembrava un uomo. Si chiamava Will Hartnett. Era un astronauta, democratico, metodista, marito, padre, suonatore dilettante di timpano, ottimo ballerino. Ma non sembrava niente di tutto questo. A vederlo, era un mostro.

Non pareva affatto umano. Gli occhi erano globi sfaccettati, rossolucenti. Le narici si aprivano tra le pieghe della carne, come il muso d’una talpa stellata. La pelle era artificiale e aveva il colore di una normale abbronzatura, ma la robustezza della pelle di un rinoceronte. Non c’era nulla, in lui, che avesse l’aria di essere una caratteristica innata. Occhi, orecchi, polmoni, naso, bocca, sistema circolatorio, centri della percezione, cuore, pelle… tutto era stato sostituito o potenziato. I cambiamenti visibili altro non erano che la punta dell’iceberg. Ciò che avevano fatto dentro di lui era di gran lunga più complesso e più importante. Hartnett era stato ricostruito, con l’unico scopo di metterlo in condizioni di restare in vita, senza l’aiuto di apparecchi esterni, sulla superficie del pianeta Marte.

Era un cyborg: un organismo cibernetico. Era in parte uomo e in parte macchina, e le due sezioni distinte erano fuse insieme in modo che lo stesso Will Hartnett, guardandosi nello specchio le rare volte in cui gli era permesso di vederne uno, non sapeva quanto di lui fosse veramente suo e quanto fosse stato aggiunto.

Sebbene quasi tutti i presenti avessero contribuito a creare il cyborg, sebbene tutti ne conoscessero bene le fotografie, la sua immagine televisiva e la sua persona, si udirono esclamazioni soffocate. Quando la telecamera lo inquadrò, Hartnett stava eseguendo, senza sforzo, interminabili esercizi di sollevamento. L’obiettivo era a circa un metro da quella testa dalla forma strana, e quando Hartnett si sollevava sulle braccia, gli occhi venivano a trovarsi all’altezza delle telecamere, e lanciavano scintillii dalle sfaccettature che consentivano una visione multipla dell’ambiente.

Aveva un aspetto molto alieno. Roger, ricordando i vecchi film visti alla televisione da bambino, pensò che il suo vecchio amico sembrava ancora più strano delle carote ambulanti e degli scarafaggi giganti delle storie dell’orrore. Hartnett era nato a Danbury, nel Connecticut. Tutto ciò che aveva addosso era stato confezionato in California, Oklahoma, Alabama o New York. Ma non c’era niente in lui che avesse un aspetto umano, e neppure terrestre. Aveva un’aria marziana.

Ed era marziano, nel senso che la forma si adegua alla funzione. Era stato foggiato per Marte. E in un certo senso, era già su Marte. I laboratori del Grissom avevano le più splendide vasche biologiche marziane del mondo, e Hartnett eseguiva i suoi esercizi ginnici su sabbie d’ossido di ferro, in una camera a pressione dove il peso del gas era ridotto a dieci millibar, soltanto l’uno per cento di quello esistente all’esterno delle doppie pareti di vetro. La temperatura delle molecole rarefatte di gas intorno a lui era mantenuta a quarantacinque gradi sotto zero. Le batterie di lampade ultraviolette inondavano la scena con l’esatto spettro solare di una giornata marziana d’inverno.

Se il luogo in cui Hartnett si trovava non era veramente Marte, gli somigliava abbastanza da ingannare persino un marziano (se mai i marziani erano esistiti), eccettuato un particolare. A parte quel particolare, Ras Thavas di E.R. Burroughs o un mollusco di Wells avrebbero potuto scuotersi dal sonno, guardarsi intorno e convincersi di essere davvero su Marte, in una giornata di tardo autunno, alle latitudini medie, poco dopo il levar del sole.

Vi era un’unica anomalia, cui era impossibile ovviare. Hartnett era soggetto alla normale gravità terrestre anziché a quella fortemente inferiore che esisteva sulla superficie di Marte. Gli ingegneri erano arrivati a calcolare quanto sarebbe costato installare l’intera vasca a bordo di un jet modificato, e lanciarlo in una parabola calcolata per simulare, almeno per dieci o venti minuti alla volta, gli esatti pesi marziani. Poi avevano deciso di non farne nulla a causa dei costi; e pensandoci bene, avevano stimato, considerato e infine giudicato poco importanti gli effetti di quell’unica anomalia.

L’unica cosa di cui nessuno aveva paura era che il nuovo corpo di Hartnett fosse troppo debole per sopportare le tensioni e gli sforzi cui sarebbe stato sottoposto. Era già in grado di sollevare pesi da duecento chili. Quando fosse giunto veramente su Marte, avrebbe potuto portare più di mezza tonnellata.

In un certo senso, sulla Terra Hartnett era più orrendo di quanto sarebbe stato su Marte, perché i suoi apparecchi telemetrici erano mostruosi quanto lui. Le ventose per il controllo del polso, della temperatura e della resistenza della pelle erano fissate alle spalle e alla testa. Vi erano sonde che penetravano sotto la coriacea pelle artificiale per misurare la circolazione e le resistenze interne. Dallo zaino spuntavano le antenne della trasmittente, simili a una ramazza da contadino. Tutto ciò che avveniva dentro al suo organismo era continuamente misurato, cifrato e trasmesso ai registratori a banda larga, che giravano alla velocità di cento metri al secondo.

Il presidente bisbigliò qualcosa. Roger Torraway si sporse, involontariamente, e afferrò la fine della frase: — … può sentire quello che diciamo qui?

— No, finché non ci inseriamo nella sua rete di comunicazioni, — rispose il generale Scanyon.

— Uh-uh, — fece adagio il presidente: ma non disse ciò che forse avrebbe voluto dire se il cyborg non avesse potuto udirlo. Roger lo capì. Lui stesso doveva scegliere con cura ciò che diceva quando il cyborg poteva sentirlo, e aveva finito per censurare le sue parole anche quando il vecchio Hartnett non era collegato. Semplicemente, non era giusto che un essere il quale aveva bevuto birra e aveva generato un figlio potesse essere così brutto. Ogni parola che avesse un senso coerente sarebbe stata un’offesa.

Il cyborg sembrava intenzionato a continuare in eterno l’esercizio: ma qualcuno che aveva contato le cadenze: — «Uno, due, uno, due» — si interruppe, e anche il cyborg si fermò. Si alzò, metodicamente e abbastanza lentamente, come se si trattasse di un nuovo passo di danza. Con un’azione riflessa che non aveva più una funzione, si passò il dorso della mano coriacea sulla fronte liscia come plastica e priva di sopracciglia.

Nell’oscurità, Roger Torraway si spostò, in modo da vedere meglio, al di là del celebre profilo imperioso del presidente. E anche di profilo, notò che Deshatine aggrottava leggermente la fronte. Roger passò un braccio intorno alla vita della moglie, e pensò che cosa si doveva provare ad essere il presidente di trecento milioni di americani in un mondo così suscettibile e pronto al tradimento. Il potere che si irradiava dall’uomo davanti a lui era in grado di scagliare bombe a fusione in ogni angolo del mondo, nel volgere di novanta minuti. Era il potere della guerra, il potere della rappresaglia, il potere del danaro. Era stato il potere presidenziale che aveva portato alla realizzazione del progetto Man Plus. Il Congresso non aveva mai discusso lo stanziamento dei fondi, e conosceva solo a grandi linee ciò che accadeva; la legge relativa era stata presentata come «Progetto di legge per la creazione di mezzi supplementari per l’esplorazione spaziale a discrezione del presidente».

Il generale Scanyon disse: — Signor presidente, il comandante Hartnett sarebbe felice di mostrarle alcune delle capacità delle sue protesi. Sollevamento pesi, salti. Quello che lei preferisce.

— Oh, ha già faticato abbastanza, per oggi, — sorrise il presidente.

— Bene. Allora proseguiremo, signore. — Parlò a bassa voce nel microfono del comunicatore e poi si rivolse di nuovo al presidente: — La prova di oggi consiste nel riparare un corto circuito nell’apparecchio di comunicazione, nelle condizioni del campo. Abbiamo stimato che il lavoro richiederà sette minuti. Un gruppo di nostri specialisti, lavorando con tutti i loro utensili nel loro laboratorio, ha ottenuto una media di circa cinque minuti, perciò se il comandante Hartnett ci riesce nel tempo ottimale, sarà una dimostrazione del perfetto controllo motorio.

— Sì, capisco, — disse il Presidente. — E adesso cosa sta facendo?

— Aspetta, signore. Porteremo la pressione a centocinque millibar, in modo che possa udire e parlare un po’ più facilmente.

Il presidente osservò: — Credevo disponeste di apparecchi per parlare con lui anche nel vuoto assoluto.

— Beh, uhm, sì, signore, li abbiamo. Abbiamo avuto qualche lieve difficoltà. Attualmente, il nostro sistema fondamentale di comunicazione nelle condizioni marziane normali è visivo, ma contiamo di far funzionare presto il sistema a voce.

— Sì, lo spero anch’io, — disse il presidente.

Allo stesso piano della vasca, trenta metri al di sotto della saletta in cui si trovavano, uno studente laureato che fungeva da assistente di laboratorio obbedì a un segnale e aprì una valvola: non comunicava con l’atmosfera esterna, ma con i serbatoi del gas atmosferico marziano normale, che era già pronto nel cassone. Poco a poco la pressione salì con un sibilo sottile, sempre più intenso. L’aumento della pressione fino a 150 millibar non modificò in alcun modo il comportamento di Hartnett. Il suo corpo ricostruito era quasi insensibile ai fattori ambientali. Era in grado di tollerare allo stesso modo i venti artici, il vuoto assoluto e una giornata afosa all’equatore terrestre, con l’aria a 1080 millibar e un’altissima percentuale di umidità. Per lui andava bene tutto: o non andava bene affatto, perché Hartnett aveva riferito che il suo nuovo corpo era indolenzito, pieno di tic e di pruriti. Avrebbero anche potuto aprire le valvole e lasciare entrare nella vasca l’aria normale, ma poi sarebbero stati costretti ad estrarla tutta con le pompe, prima del prossimo test.

Finalmente il sibilo cessò, e udirono la voce del cyborg. Era acuta come quella d’una bambola parlante. — Grazzzie. Basssta cosssì. — La bassa pressione alterava la sua dizione, soprattutto perché non aveva più una trachea e Una laringe normali. Dopo un mese vissuto da cyborg, l’abitudine di parlare gli era divenuta estranea, perché stava perdendo quella di respirare.

Alle spalle di Roger, l’esperto dei sistemi visivi del laboratorio disse in tono lugubre: — Lo sanno che quegli occhi non sono fatti per sopportare improvvisi cambiamenti di pressione. Gli starebbe bene se se ne spaccasse uno. — Roger rabbrividì, provando una fitta di dolore immaginario all’idea di un globo oculare cristallino che si schiantava nell’orbita. Sua moglie rise.

— Siediti, Brad, — disse lei, liberandosi dell’abbraccio di Roger. Questi si spostò, distrattamente, fissando lo schermo. La voce che aveva contato le cadenze disse: — Pronti. Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno. Inizia la sequenza.

Il cyborg si acquattò goffamente davanti alla lastra di una cassetta metallica verniciata di nero. Senza fretta, infilò un cacciavite sottilissimo in una fenditura quasi invisibile, eseguì un meticoloso quarto di giro, ripeté il movimento in un altro punto e sollevò la lastra. Le grosse dita frugarono scrupolosamente tra gli spaghetti multicolori dei cavi interni; ne trovò uno bianco e rosso che era carbonizzato, lo staccò, lo accorciò per togliere l’isolante bruciato, tolse un piccolo tratto del rivestimento recidendolo semplicemente con le unghie, e lo accostò al punto d’attacco. La parte più lunga dell’operazione fu l’attesa che si scaldasse il saldatore; occorse più di un minuto. Poi la saldatura fu compiuta, gli spaghetti vennero rimessi a posto, la lastra risistemata e fissata, e il cyborg si alzò.

— Sei minuti, undici secondi e due quinti, — riferì la voce che aveva contato.

Il direttore del progetto diede il segnale degli applausi. Poi si alzò e tenne un discorsetto. Disse al presidente che il progetto Man Plus aveva lo scopo di modificare un corpo umano per metterlo in grado di sopravvivere sulla superficie di Marte con la stessa sicurezza con cui un uomo normale avrebbe potuto camminare su un campo di grano del Kansas. Fece il riepilogo dell’intero programma spaziale, dal volo suborbitale alle stazioni spaziali e alle sonde. Elencò alcuni dei dati principali relativi a Marte: area di terraferma maggiore di quella terrestre, nonostante il diametro inferiore, data l’assenza di oceani. Temperatura, adatta alla vita… a forme di vita adeguatamente modificate, era ovvio. Ricchezza potenziale, incalcolabile. Il presidente ascoltò con aria attenta sebbene, certamente, ne conoscesse ogni parola.

Poi disse: — Grazie, generale Scanyon. Mi consenta di dire una cosa.

Salì agilmente sul podio e rivolse agli scienziati un sorriso pensoso. — Quando ero un ragazzo, — incominciò, — il mondo era più semplice. Il problema principale era come aiutare le libere nazioni emergenti della Terra ad entrare nella comunità dei paesi civili. Erano i tempi della Cortina di Ferro. C’erano loro, isolati, ingabbiati, in quarantena. E dalla nostra parte c’eravamo tutti noi.

«Bene, — proseguì, — le cose sono cambiate. Il Mondo Libero ha passato brutti momenti. Quando lasciate il nostro continente nordamericano, che cosa trovate? Dittature collettiviste dovunque posiate gli occhi, a parte una o due roccheforti come la Svezia e Israele. E io non sono qui per rivangare la storia antica. Ciò che è fatto è fatto, ed è inutile cercare i responsabili. Sappiamo tutti chi fu a perdere la Cina e a consegnare Cuba all’altra parte. Sappiamo quale amministrazione ha lasciato cadere l’Inghilterra e il Pakistan. È superfluo parlare di queste cose. Dobbiamo invece guardare al futuro.

«Ed io vi dico, signore e signori, — disse di slancio, — che il futuro della libera razza umana è nelle vostre mani. Forse avete subito qualche scacco qui, sul nostro pianeta. Ma è una cosa superata. Possiamo guardare nello spazio. E che cosa vediamo? Vediamo un’altra Terra: il pianeta Marte. Come ha appena detto l’illustre direttore del vostro progetto, generale Scanyon, è un pianeta più grande di quello che ci ha dato i natali, dal punto di vista che conta. E potrà essere nostro.

«È in questo che consiste il futuro della libertà, e tocca a voi assicurarcelo. So che lo farete. So di poter contare su ciascuno di voi.»

Girò intorno lo sguardo pensoso, fissandoci negli occhi, uno ad uno. Il famoso carisma di Dash si fece sentire in tutta la saletta.

Poi il presidente sorrise all’improvviso, disse: — Grazie, — e se ne andò, tra una marea di agenti del Servizio segreto.

Загрузка...