11. Nel sole che un tempo era giovane

Di tutti loro, Paul era il più difficile da conoscere. Parthena aveva avuto ragione asserendo che parte della difficoltà era dovuta alla sua mente ormai non più lucida, e che anzi non lo era più da molto tempo. Paul sembrava avere un legame spirituale con il secolo precedente e con l’epoca anteriore alle cupole. Aveva nove anni quando l’Apollo 11 raggiunse la Luna, tredici quando le missioni Apollo ebbero termine, e lui ricordava entrambe le cose.

— Le ho viste alla TV — disse.

Parlava con molta più lucidità della sua adolescenza trascorsa in California che dei fatterelli quotidiani del ricovero. Un altro dei suoi argomenti preferiti era la possibilità di raggiungere non un’imprecisata e sicuramente corrotta vita oltre la morte, bensì l’immortalità del corpo. Infatti il suo unico contatto concreto con il presente era la gioia allo stato puro che provava la domenica pomeriggio, quando offriva delle onorevoli prestazioni e si comportava da uomo maturo. A quanto pareva, le occhiate maliziose e gli ammiccamenti erano gli involontari residui di una gioventù sprecata.

— È diventato sclotico, qui dentro — disse Parthena, dandosi un colpetto sulla testa — per la vita che ha condotto e per la vecchiaia stessa — (Zoe intuì che sclotico stava per sclerotico.) — Droghe, alcool, donne, il gioco. Si vanta di non aver mai avuto un lavoro vero e proprio, ad eccezione del gioco d’azzardo, con cui si guadagnava da vivere. Mr. Leland non se la sente di somministrargli nuovi farmaci che potrebbero rallentare il deperimento delle sue cellule cerebrali. Potrebbe essere il colpo di grazia.

E con quegli occhi da weimaraner e le labbra sottili e screpolate, Paul a volte sembrava il fantasma di se stesso, anziché un essere vivente. Ma poteva muoversi ancora senza troppa fatica. Andava qua e là senza problemi, come un fantasma. Un giorno, tre settimane dopo l’arrivo di Zoe, Paul le si avvicinò nella sala comune, dopo pranzo, (mentre era intenta a esporre in una bacheca le sue foto) e le spinse accanto una sedia. Lei piegò il capo e vide le labbra sottili che incominciavano a muoversi.

— È il momento di una delle mie funzioni — disse. — Tu non assisti a quelle Orto-Urbaniste con Helen e Parthena, per questo credo ti potrà interessare una delle mie. La terrò questa mattina, proprio qui.

— Che tipo di funzione?

— Vedrai. — Ammiccò, forse involontariamente. — La Vera Parola. La predico quattro volte all’anno, una volta al mese secondo il nuovo calendario.

— La Vera Parola su che cosa? Ognuno di noi ha la sua vera parola.

— Su come non morire, donna. È la base di ogni religione.

— No — replicò Zoe. — Non di tutte: solo di quelle che non sanno come regolarsi con questo mondo.

Le labbra sottili si strinsero e gli occhi si dilatarono. Poteva benissimo averlo offeso. In ottant’anni nessuno gli aveva detto che un sistema ontologico non doveva necessariamente concentrare ogni sua dottrina sul problema del «come non morire». O se qualcuno l’aveva fatto, Paul l’aveva dimenticato. Tuttavia, egli cercò di nascondere la sorpresa. — La base — disse maliziosamente — di ogni religione che si rispetti.

Jerry, che aveva casualmente ascoltato la conversazione, raggiunse il tavolo da lavoro: — Porcherie, Paul. Del resto, se domani ci venisse garantita la vita eterna, noi non saremmo niente altro che struldbrug.

Zoe inarcò le sopracciglia: struldbrug? Paul non replicò.

— È qualcuno che non può morire — spiegò Jerry, — ma che tuttavia continua ad invecchiare e a peggiorare la sua infermità. Fra duecento anni potremmo essere tutti dei poveri vegliardi immortali. Risparmiatemi questa fortuna.

E questo pose fine alla conversazione. Come un fantasma dalle sembianze umane, Paul lasciò la stanza.

Domenica mattina, comunque, Luther scese nella sala comune per prendere uno scatolone di pezzi d’alluminio, il più grande dei quali assomigliava ad un tamburo cilindrico; l’aveva trovato nello sgabuzzino dove tenevano i bersagli delle freccette, l’equipaggiamento da croquet e le carte da gioco, poi assemblò questi pezzi d’alluminio in un… cavallo a dondolo, abbastanza grande per farci salire un uomo.

Era uno splendido cavallo a dondolo, e sulla sua testa, fra gli occhi dipinti, c’era raffigurato uno scarabeo che sospingeva davanti a sé una specie di palla di sterco cosmica. Zoe, che si trovava nella sala comune con tutti i Phoenix, escluso Paul, si avvicinò alla creatura metallica per esaminarla. L’emblema a forma di scarabeo era così particolareggiato che dovette avvicinare gli occhi per distinguere l’immagine che il cavallo recava sulla fronte. Un minuscolo insetto blu. Una pallina rossa. Be’, è diverso dal solito: divertente e misteriosa al tempo stesso. — Che cos’è? — chiese a Luther, il quale, borbottando tra sé, cercava di risistemare lo scatolone nello sgabuzzino.

— Un pulpito — disse. Pensava che lei si riferisse a tutto l’insieme. Rinunciò a spiegarsi, perché lui continuava ad armeggiare con lo scatolone. Ma pulpito era davvero un sinonimo curioso per cavallo a dondolo.

Dopo aver sistemato lo scatolone nello sgabuzzino, Luther tirò fuori anche una sottile bottiglia di metallo e la portò vicino al biomonitor, di fianco all’orpianola di Toodles. Quindi la posò a terra e raggiunse le sedie disposte a semicerchio davanti al cavallo a dondolo. Una stupidaggine, dall’inizio alla fine. Zoe appoggiò un dito sulla fronte del cavallo, proprio sulla figura dell’insetto, e spinse. Il cavallo, così leggero che solo i robusti pattini ricurvi lo trattenevano dal rovesciarsi, cominciò ad andare su e giù, annuendo con grazia. Nessuno parlava. Zoe si unì al gruppo e si strinse nelle spalle. Era come se bisognasse minacciarli di ricorrere ad un’autopsia prematura per avere qualche spiegazione.

— Non fare domande — le disse Jerry alla fine. — Ma dal momento che te lo sei chiesta, ti dirò che è per tenerlo allegro. Paul aveva richiesto il cavallo due mesi dopo la cerimonia contrattuale del ’35, e il dottor Tanner aveva acconsentito. Adesso, quattro volte all’anno, gioca a fare il cowboy ottantenne, e cavalca nel tramonto dei suoi sogni di fronte a tutti noi. Non è un gran fastidio starlo ad ascoltare.

Zoe osservò quei cinque che se ne stavano lì seduti con il timore che lei non riuscisse a capire: cinque vecchie facce titubanti. Lei si sentiva in imbarazzo. Erano preoccupati quella mattina perché non sapevano come lei avrebbe reagito di fronte allo scheletro vivente che tenevano nell’armadio di famiglia: il decrepito cavaliere delle praterie Paul Erik Ferrand-Phoenix. Era senza parole. Tutto quello che potevano fare era di riconoscere che lei si trovava terribilmente a disagio. — O gente di poca fede — fu sul punto di dire, — andate ad arrostire i vostri cuori avvizziti sulla griglia di Yuichan. Anche se poi non rimarrebbe nulla da mangiare. — Ma non disse nulla: si sedette con gli altri e attese. Forse loro non credevano che lei avesse compassione per Yuichan, forse la ritenevano inadatta a sostituire il loro caro, defunto giapponese…

In quel momento Paul si fece avanti silenziosamente: un’entrata ad effetto. Senonché pareva non curarsi affatto di ciò che gli altri potevano pensare di lui, dimentico del suo passato splendore. Vestito di bianco immacolato da capo a piedi (un abbigliamento ora di moda persino tra i giovani, i gambali intonati con la tunica) si appoggiò al cavallo metallico senza guardarli. Poi, lentamente, vi montò sopra, sfiorando i pattini dell’animale con la punta delle bianche pantofole.

Era di fronte a loro. Dietro di lui, come un sipario, uno stendardo trapuntato: blu-marino con una fenice cremisi dalle ali spiegate nel centro. Zoe non poté fare a meno di pensare che ogni dettaglio dell’entrata di Paul ed i suoi gesti fossero stati accuratamente studiati. O forse questo rituale trimestrale li aveva coinvolti a tal punto che ormai non sentivano più la necessità di prepararlo in anticipo. Comunque Zoe, pur consapevole dell’assurdità di tutto ciò, dovette ammettere che lievi impulsi, simili a scosse elettriche, le scendevano lungo la spina dorsale. Come quando si era messa a cucire per la prima volta col gruppo.

Lentamente, con movimenti ipnotici, Paul cominciò a dondolarsi. E iniziò a sussurrare debolmente la Vera Parola. — Quando eravamo giovani — disse, — c’era il fuoco, e il cielo, e l’erba, e l’aria, e creature che non erano umane. Il cervello umano era collegato a tutto questo, il cervello umano funzionava con le batterie del fuoco e del cielo e di tutto ciò che si trovava all’esterno.

— Amen! — intervenne Luther, senza interrompere la cadenza di Paul, ma tutto ciò che Zoe riuscì a pensare fu «la Città ha ancora creature che non sono umane: i piccioni». Ma il cavallo a dondolo cominciò a muoversi più velocemente, ed anche la voce del cavaliere acquistò velocità, ed un impeto che seguiva un proprio ritmo. Mentre Paul parlava e pregava, di tanto in tanto un — Amen! — o un — Sì, fratello! — punteggiavano occasionalmente qualche passo particolarmente inatteso o efficace del suo sermone. Tutto faceva parte del rituale. A un certo punto Zoe si trovò ad essere coinvolta in un modo consapevole. Molto strano: si sorprese a rispondere alle assurde asserzioni di Paul con — Amen! — o — Preghiamo! — o altre convinte esclamazioni che non aveva mai pronunciato prima. La sua partecipazione crebbe ulteriormente quando il dondolio divenne forsennato e gli occhi di Paul cominciarono a lampeggiare come sinistre luci stroboscopiche, mentre il cavallo continuava ad andare su e giù.

— Poi, prima di giungere a metà della nostra vita, ci misero nella tomba. Dissero che eravamo morti anche se potevamo sentire scorrere in noi la linfa vitale, e l’energia scaturire nella nostra testa. Le tombe si innalzarono, lassù. Non importava ciò che provavamo, non importava che fossimo ancora collegati con la vita fuori della tomba, con l’aria e il fuoco e il cielo. Perché con le tombe là in alto, tu cominci veramente a morire, cominci veramente a perdere l’energia che scorre fra te e l’esterno. Guardati, guarda tutti noi. — (C’era qualcosa di più ridicolo di quel ragionamento?) — Quella corrente, quel fluido preziosissimo sta scivolando via. Perché il nostro cervello è collegato con il sole o con la luna, inseriti a turno, ed ora ci hanno relegati in un luogo dove la corrente non scorrerà.

Zoe, per quanto avesse risposto con un — Sissignore! —, pensava che Paul dovesse essere stato collegato con la luna: un pazzo furioso.

Ma da un certo punto di vista, anche se un po’ paradossale, c’era un che di logico in quel folle ragionamento. Anche se tutti erano consapevoli che il mondo stava diventando un inferno, prima della costruzione delle cupole, be’, tuttavia c’era qualcosa di vero in quelle insulsaggini.

Forse, ad un certo punto della tua vita (che per Zoe era già passato) impari a giudicare gli altri, anche negativamente, ma senza condannare. Era proprio quello che Zoe stava facendo, adesso.

Osservava il vecchio Paul sul cavallo a dondolo secondo due prospettive diametralmente opposte, e non aveva alcun desiderio di conciliarle. Infatti, la maledizione avveniva, stava avvenendo, indipendentemente dalla sua volontà. Come sempre, dopo la morte di Rabon. Era il vecchio fenomeno binoculare che operava su di un piano filosofico anziché fisico. Molto tempo prima era capitato anche a Helen, la «mediatrice» dei Phoenix. E mentre i piccoli occhiali di Helen mettevano a fuoco l’immagine del mondo, la duplice visione che Zoe aveva in quel momento riportava nella sfera della sua comprensione i due Paul a cavallo, quello demoniaco e quello umano, e li fondeva. Perché ne era così sorpresa, dato che non era la prima volta che le capitava?

— … Ed è il cervello l’unico mezzo per conseguire l’immortalità conservando anche il corpo. Esso è ciò che noi siamo. Dobbiamo di nuovo collegarci con il sole, con il sole e con la luna. Nessuno può farlo senza risorgere dalla tomba in cui siamo stati rinchiusi ancor prima di aver trascorso metà della nostra vita…

Il cavallo dondolava freneticamente, e la voce di Paul scandiva ciascuna frase, spesso ripetuta, con lampi di misurata isteria. Il braccialetto al polso di Zoe sembrava emettere dei suoni. Diede un’occhiata al biomonitor a fianco dell’orpianola, e vide l’oscilloscopio sintonizzato sulle onde cerebrali e sul battito cardiaco di Paul tracciare fasci di pallide comete attraverso lo schermo, su e giù, su e giù. Anche gli altri sei monitor segnalavano rapide pulsazioni, e lei si domandò se qualcuno, là sotto, stesse prendendo nota di questa attività. Comunque, tutti erano certamente vivi: molto vivi.

Ora Paul aveva gli occhi fuori dalle orbite e il cavallo lo stava trasportando in un territorio dove infanzia e maturità erano eternamente immutabili. Lui era solo, là, solo con il suo cervello e gli impulsi di desiderio che scaturivano dal suo corpo. Ancora preghiere. Ancora declamazioni. Finché l’ultima parola venne pronunciata. Allora Paul cadde in avanti sul collo del suo destriero di alluminio, svenuto. O forse morto.

Zoe si alzò, anzi scattò in piedi. Con sua sorpresa gli altri Phoenix, Toodles, Helen, Jerry e Parthna, stavano applaudendo. Luther non si unì a loro per andare a sostenere Paul prima che cadesse dal cavallo ancora in movimento e si rompesse la testa.

— La migliore funzione degli ultimi tempi — disse Parthena. Poiché l’applauso continuava, Zoe fu presa da una specie di follia e si unì a loro. E mentre tutti applaudivano (i sermoni si concludevano tutti come questo, con la congrega dei fedeli che prorompeva in una spontanea ovazione?), Luther sorresse Paul fino al biomonitor, lo fece stendere, e gli somministrò dell’ossigeno dalla bomboletta metallica che poco prima aveva preso dallo sgabuzzino. Quindi lo spettrale cowboy sollevò leggermente il capo e con un debole sorriso ringraziò per l’applauso ricevuto. Infine Luther lo mise a letto.

— Devi dirgli qualcosa — disse Toodles. — Altrimenti il vecchio bastardo penserà che non ti sia piaciuto.

Ma Paul non si sentì molto bene nei tre giorni successivi al sermone. Restò nella camera comune a dormire o a fissare il soffitto. La prima notte, Zoe gli rimase seduta accanto, aiutandolo a sorbire del brodo con la cannuccia flessibile. Vuotò la scodella in pochi minuti e Zoe, credendo che volesse dormire, si alzò per andarsene. Paul allungò il braccio per afferrarle il polso, ma mancò la presa. Zoe se ne accorse e tornò indietro. La mano di Paul batté sul letto: siediti. Così Zoe si lasciò cadere sulla seggiola e prese quella mano rubizza fra le sue. E la tenne per più di un’ora, rimanendo seduta. Poi le labbra sottili e screpolate si socchiusero, e Paul disse: — Ho paura, Zoe.

— Anch’io ho paura — rispose lei. — Qualche volta. — Come l’aveva in quel momento, dovette ammettere.

La bocca restò socchiusa e gli occhi da weimaraner diventarono vitrei. Paul si passò la lingua sulle labbra sottili. — Puoi venire a letto con me, se ti va.

Chiuse gli occhi. E si addormentò.

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