Parte prima

14 novembre 1971

Guido sulla Long Valley Road. Giornata deliziosa; sole fulgido, cielo azzurro. Supero steccati a tre sbarre, dipinti di bianco. Un cavallo mi scruta. Paesaggi di campagna a Los Angeles. Giù per un pendio della strada, su dal versante opposto. Domenica mattina. Molta pace. Alberi del pepe sui due lati della strada; le foglie che si muovono nella brezza.

Me ne sono quasi andato. Da Bob e da Mary, dalla loro casa, dal mio cottage per gli ospiti sul retro; da Kit che veniva a trovarmi mentre lavoravo, batteva le zampe per terra, sospirava, sbuffava, gemeva, e quando non riusciva ad attirare la mia attenzione e a ottenere qualcosa da mangiare, sbatteva il naso contro la parete. Basta.

L’ultimo dosso della strada, l’ultima accelerazione. Davanti a me, la Ventura Freeway e il mondo. ADIOS AMIGOS scritto sul cartello sopra una casa cantoniera. Addio, Hidden Hills.


Fermo nell’autolavaggio. Stranamente deserto. Tutti in chiesa? È appena uscita una Mercedes-Benz beige. Ho sempre desiderato comprarmene una, un giorno o l’altro. Un altro progetto da cancellare. Bevo una sbroda di birra presa al distributore automatico. Arriva la mia Galaxie blu scuro. Posata, accettabile, e moderatamente costosa; il mio tipo di automobile. La accolgono i boccagli delle pompe a spruzzo; sputano le loro lunghe, esili scie di schiuma saponata.

Nel parcheggio vuoto davanti all’ufficio postale. Ultima visita alla mia casella. Non li avvertirò di interrompere il servizio. Ho pagato l’ultima bolletta del telefono e l’ultimo abbonamento a “Broadway”.


Fermo a uno stop di Topanga Boulevard. Adesso si apre un varco nel traffico. Svolto in fretta a sinistra, decelero, svolto a destra, imbocco la rampa, e sono sulla Ventura Freeway. Addio, Woodland Hills.

Giornata davvero splendida. Il cielo d’un azzurro luminoso; una piccola scia candida di nubi. L’aria è come un vino bianco fresco. Supero la Gemco e il Valley Music Theatre. Me li sono lasciati alle spalle, non sono più reali. Adesso mi tuffo nel solipsismo.

Prima di partire, ho lanciato una moneta: testa nord, croce sud. Sono diretto a San Diego. Strano pensare che se avessi fatto un lancio diverso con la moneta, verso sera starei arrivando a San Francisco.

Ho pochi bagagli: due valigie. In una, il mio vestito marrone scuro, la mia giacca sportiva verde scuro, calzoni, qualche camicia, maglieria intima, calzini, scarpe e fazzoletti, la mia borsa di articoli da toilette. Nell’altra valigia, il mio giradischi, le cuffie, e dieci sinfonie di Mahler. Al mio fianco, il vecchio e fedele registratore a cassette. Il vestito che ho addosso, ed è tutto qui. A parte, ovviamente, i traveler’s checks e i contanti. Cinquemilasettecentonovantadue dollari e trentaquattro cents.

Buffo. Venerdì, quando sono andato alla Bank of America e mi sono messo in fila, ho cominciato a spazientirmi. Poi è arrivato il mio turno. Non c’era più nessun bisogno di essere impaziente. Ho guardato tutti quanti, mi sono sentito triste per loro. Erano ancora schiavi dell’orologio e del calendario. Libero da quella servitù, mi sono calmato.


Mi sono appena perso lo svincolo per la San Diego Freeway. E chi se ne frega. Tanto vale cominciare subito col mio piano elastico. Cambierò percorso. Scenderò in centro, prenderò la Harbor Freeway, e raggiungerò San Diego con un’altra strada.

Più avanti, un cartellone che tesse le lodi di Disneyland. Dovrei fare un’ultima visita al Regno Magico? Non ci sono più stato dal 1969, quando mamma è venuta a trovarci e Bob e Mary e i loro ragazzi e io ce l’abbiamo portata. No: Disneyland è esclusa. L’unica attrazione, per me, sarebbe la Casa degli Spettri.

Un altro cartellone pubblicitario. LA OUEEN RACCOMANDA LONG BEACH. Mi sembra già meglio. Mai stato sulla Queen; Bob ci ha attraversato l’Oceano, nella seconda guerra mondiale. Perché non darle un’occhiata?


Alla mia sinistra, l’obelisco, la grande pietra tombale nera: Universal Tower. Quante volte sono entrato lì per un appuntamento? Strano rendersi conto che non vedrò mai più un altro produttore, non preparerò mai più una sceneggiatura. Che non dovrò mai più chiamare il mio agente. — Ehi, Cristo, dov’è il mio assegno? Ho il conto in rosso. — Un’idea che mi dà pace. E anche il tempismo è super: andarmene quando praticamente nessuno lavora più.

Quasi all’Hollywood Bowl. Non ci sono più stato dalla fine di agosto. Ci ho portato quella segretaria della Screen Gems. Come si chiamava? Joan, June, Jane? Non ricordo. Tutto quello che ricordo è che diceva di adorare la musica classica. Le ho fatto due palle così. Un tipo insignificante, roba da Bowl. Il secondo concerto di Rachmaninoff? Joanjunejane non lo aveva mai sentito nominare.

Dopo tanti anni, sarebbe logico aspettarsi che avessi incontrato qualcuno. Karma negativo? Qualcosa di negativo. Non riuscire mai, in vita tua, a incontrare una donna che ti arrivi dentro? Incredibile. Qualcosa sepolto nel mio passato, non c’è dubbio. Un’ossessione per il mio triciclo. Pussa via, Freud. Non possiamo semplicemente accettare il fatto che io non abbia mai conosciuto una donna che potessi amare?

In mezzo al traffico pesante, nei pressi della Harbor Freeway. Automobili che mi circondano. Uomini e donne da per tutto. Non mi conoscono. Qui c’è smog. Spero che l’aria sia pulita, a San Diego. Non ci sono mai stato; non so come sia. È una descrizione che va bene anche per la morte.

Il Music Center. Posto da capogiro. Ci sono stato una settimana fa circa, a.C. : avanti Crosswell. Era in cartellone la seconda sinfonia di Mahler. Mehta ha fatto un lavoro brillante. Quando è entrato piano il coro nel movimento finale mi sono venuti i brividi.

Quanti centri cittadini vedrò? Denver? Salt Lake City? Kansas City? Devo fermarmi a Columbia un giorno o due.

Un’idea divertente. Diventerò un criminale perché non ho intenzione di pagare nemmeno un’altra rata dell’automobile. E la sa una cosa, signor Ford? Non me ne frega niente.

Gesù!


Un camion mi si è parato di fronte all’improvviso e io ho dovuto cambiare corsia al volo. Il mio cuore si è messo a battere forte perché non ho avuto il tempo di controllare se nella corsia ci fosse qualcuno subito dietro me.

Il mio cuore batte ancora forte, e io mi sento sollevato al pensiero di essere in salvo.

Fino a dove può arrivare la stupidità?


Adesso vedo i suoi tre fumaioli rossi, con la punta nera. È cementata lì? Mi sento già triste per lei. Relegare sulla terraferma una nave del genere è come impagliare un’aquila. Può ancora apparire imponente, ma i suoi giorni di gloria sono finiti.

La Queen ha appena parlato; un urlo assordante che ha fatto tremare l’aria. Quanto è enorme. Un Empire State Building coricato di fianco.


Ho pagato alla cassa rossa, ho infilato la scala mobile, e adesso percorro lentamente la passeggiata coperta, avvicinandomi a lei. Alla mia destra c’è il porto di Long Beach, con l’acqua molto azzurra e molto agitata. A sinistra, un ragazzino mi fissa. Chi è l’uomo buffo che parla in una scatola nera?

Più avanti, un’altra scala mobile, molto lunga. Quanto è alta la Queen? Venti piani, direi.


Seduto nel salone centrale. Finiture in legno degli anni Trenta. Strano che le giudicassero chic. Grandi colonne. Tavoli, sedie. Una pista da ballo. Sul palco, un pianoforte a coda.


Una galleria; negozi attorno a una piazza col pavimento a piastrelle. In alto, lampadari grossi come ruote da autocarro. E un tempo tutto questo galleggiava? Incredibile. Come sono andate le cose sul Titanic? Provate a immaginare un posto come questo spazzato da un mare gelido. Una visione spaventosa.

Mi piacerebbe sgattaiolare sotto, nella parte buia, dove si trovano le cabine. Camminare fra i corridoi muti, immersi nell’ombra. Chissà se sono infestati.

Ovviamente non lo farò. Obbedirò alle regole.

Le vecchie abitudini sono più dure a morire di chi le pratica.


Un ingrandimento fotografico sulla paratia. Gertrude Lawrence con il suo cane bianco. Come quello che hanno usato nell’Oliver Twist di David Lean: brutto, tozzo, e con le orecchie a punta.

La signorina Lawrence sorride. Mentre passeggia sul ponte della Queen, non si rende conto di avere alle calcagna la mortalità.


Fotografie in una vetrina con la placca che dice MEMORABILIA.

David Niven che esegue una danza scozzese. È molto allegro. Non sa che sua moglie morirà presto. Guardo quel momento congelato e provo l’inquietante sensazione di essere dio.

C’è Gloria Swanson in pelliccia. C’è Leslie Howard; com’è giovane. Ricordo di averlo visto in un film che si intitolava La strana realtà di Peter Standish. Ricordo che viaggiava all’indietro nel tempo fino al diciottesimo secolo.

In un certo senso, in questo momento sto facendo una cosa simile. Stare su questa nave significa trovarmi parzialmente negli anni Trenta. Anche la musica che ho attorno è in clima con l’epoca. Deve essere la musica che si suonava sulla Queen a quei tempi; è così datata, così magnificamente ritmata.

Un cartello sulla parete dice: VARATA DA SUA MAESTÀ LA REGINA IL 26 SETTEMBRE 1934. Cinque mesi prima che nascessi io.


Seduto nel bar belvedere. Però non ho attorno uomini in completo scuro, non c’è un bicchiere sul mio tavolo. Solo turisti e caffè nero in una tazza di plastica, una mela caramellata cotta in un forno di Anaheim.

Le dispiace? mi chiedo. La Queen accetta la caduta in disgrazia? Oppure è arrabbiata? Io lo sarei.

Guardo dalla parte del bancone. Come si viveva a quei tempi? Dacci un gin and tonic, Harry. Un bicchiere di vino bianco. J.B. on the rocks, per favore. Adesso, sandwiches incellofanati e latte freddo come ghiaccio e caffè bollente.

Sopra il bancone c’è un affresco. Gente che danza, che si tiene per mano, in un ovale allungato, dai bordi sottili. Chi dovrebbero essere? Tutti quanti sono surgelati come questa nave.

Provo una strana sensazione allo stomaco. Un po’ come quella che provo guardando un film sulle corse automobilistiche quando c’è una scena ripresa dall’interno dell’auto: il mio corpo sa di essere immobile, però visivamente viaggio ad alta velocità, e l’insolubile contrasto mi dà la nausea.

Qui la sensazione è capovolta e altrettanto sgradevole. Qui sono io a muovermi, e l’ambiente della Queen è fermo. Ha senso? Ne dubito. Ma questo posto comincia a mettermi i brividi.

L’area per gli ufficiali. Ci sono soltanto io, nell’intervallo fra un giro turistico e il successivo. Adesso la sensazione è intensa; qualcosa che preme sul mio plesso solare. I suoni la aumentano; annunci fatti tanto tempo fa a bordo della Queen: — La signorina Molly Brown è pregata di contattare l’ufficio informazioni. — L’Inaffondabile?

Una campana rintocca mentre guardo nella stanza di riposo del capitano. La gente era più piccola, a quell’epoca? Quelle sedie mi paiono minuscole. Un altro annuncio: — Angela Hampton ha un telegramma che la attende nell’ufficio del commissario di bordo. — Dov’è Angela adesso? Ha avuto il suo telegramma? Spero portasse buone notizie.

Biglietti d’invito sulla parete. Uniformi immobili dietro vetrine. Libri sugli scaffali. Tende, orologi. Una scrivania, un telefono bianco chiaro. Tutto immobile, statico.


Il ponte di navigazione. Lo chiamavano “centro nevralgico”. Lucido, luminoso, e morto. Quelle ruote non gireranno mai più. Quel telegrafo non trasmetterà più ordini alla sala motori. Quello schermo radar resterà sempre scuro.


Ho dovuto lasciare la parte della nave riservata ai giri guidati. Mi sento ancora strano. Sto seduto su una panchina nel museo. Qui è tutto estremamente moderno, sfasato rispetto a quello che ho visto. Sono depresso. Ma perché sono venuto qui? Una brutta idea. A me serve una foresta, non un cimitero isolato dal mare.

Be’, okay, mi passerà. Sono fatto così. Non mi fermo mai a metà. Non pianto mai lì un libro, per quanto noioso. Non esco mai prima della fine da un film o una rappresentazione teatrale o un concerto, anche se è insopportabile. Mangia tutto quello che c’è nel piatto. Sii gentile con gli anziani. Non tirare calci ai cani.

Alzati, per la miseria. “Muoviti.”

Cammino nella sala centrale del museo. Il gigantesco ingrandimento di una prima pagina cattura la mia attenzione: The Long Beach Press-Telegram. Il titolo dice: IL CONGRESSO DICHIARA LA GUERRA.

Signore. Un’intera divisione su questa nave. C’è stato anche Bob. Ha mangiato da un vassoio come quello, con posate come quelle. Ha indossato un lungo cappotto marrone come quello, un berretto di lana marrone, un elmetto con calotta interna come quello, stivali da combattimento come quelli. Ha usato una sacca da viaggio come quella e ha dormito in una brandina come una di queste qui, disposte l’una sopra l’altra a tre a tre. È questo il ricordo memorabile della Queen che avrà mio fratello. Non una danza scozzese o un cane bianco con le orecchie a punta. Solo avere diciannove anni e attraversare l’oceano, diretto a una probabile morte.


Di nuovo quella sensazione. Un nucleo di morte fermo nel mio stomaco.


Altri memorabilia. Tessere del domino. Dadi in un contenitore di cuoio. Una matita a scatto. Libri per le funzioni religiose: protestanti, cattolici, ebrei, mormoni, scientisti cristiani. Uno dei libri mi appare vecchio, familiare. Mi sento come un archeologo che scavi in un tempio. Altre fotografie. Don Ameche e signora. Harpo Marx. Eddie Cantor. Sir Cedric Hardwicke. Robert Montgomery. Bob Hope. Laurel e Hardy. Churchill. Tutti sospesi nel tempo, in un eterno sorriso.

Devo uscire.


Di nuovo in macchina, distrutto. È questo che provano i sensitivi entrando in una casa colma di una presenza del passato? L’ho sentita crescere di continuo in me, un’inquietudine contorta che mi risucchiava. Su quel vascello c’è il passato. Dubito che sopravvivrà al passaggio di tutta quella gente. Tra un po’ si sarà dissipato. Ma adesso c’è.

Però può darsi che sia stata solo colpa della mela al forno.

Le due e venti. In viaggio per San Diego. Ascolto musica strana, cacofonica: nessuna linea melodica, nessun contenuto.

Dio, ci siamo un’altra volta. Rallentato da un camper, mi sposto nella corsia accanto, accelero e sorpasso, guizzo qua e là per farmi strada. Ma non capisci proprio, R.C.?

La musica è finita. Non ho capito cosa fosse. Adesso inizia un pezzo di Stravinskij, Ragtime per undici strumenti a fiato. Spengo la radio.


Los Angeles è svanita. Come Long Beach e la Queen. San Diego è una fantasia. La realtà è solo qui: questo pezzo di autostrada che si dispiega davanti a me.

Dove mi fermerò, a San Diego? Ammesso che esista, è ovvio. E che differenza fa? Troverò un posto, uscirò a mangiare; magari un ristorante giapponese. Vedrò un film, leggerò una rivista o farò una passeggiata. Berrò, raccatterò una ragazza, mi fermerò su un molo, lancerò sassi alle barche. Lo deciderò quando sarò arrivato. Niente programmi studiati a tavolino, per favore.

Ehi, su di morale, ragazzo! Sarà una bomba! Hai davanti mesi e mesi!


C’è un ristorante con specialità di mare. Penso che mi metterò a mangiare il pesce spada. Aprirò i miei pasti con zuppiere di creme alla francese da grand gourmet.


San Juan Capistrano è kaput.

Sensazione divina, far sparire intere comunità con un colpo di pensiero.


Le nubi più avanti sono come montagne di neve ammucchiate in forme giganti; castelli che si stagliano contro il cielo azzurro.


Non ho proprio carattere. Ho appena riacceso la radio. Trasmettono Les Préludes di Liszt. La musica del diciannovesimo secolo mi va meglio.

Adesso le nubi sono come fumo. Pare che l’intero mondo stia bruciando.

La sensazione allo stomaco ritorna. Non ha senso, ora che mi sono lasciato la Queen alle spalle.

Deve essere proprio stata la mela al forno.


Il traffico aumenta, mentre entro a San Diego. Devo uscirne.

Non c’è un posto che si chiama “Sea World” in città? Mi pare di sì. Vedrò una balena che salta nel cerchio.


Centro città. Intasamento. Cartelloni pubblicitari che spuntano come funghi velenosi. Le quattro appena passate. Mi sto innervosendo.

Perché sono venuto qui? Adesso mi sembra assurdo. Più di duecento chilometri per cosa?

Domani ripartirò verso est. Mi alzerò presto, mi farò passare il mal di testa, prenderò la strada di Denver.


Cristo, è come essere ancora a Los Angeles! Circondato da automobili che cambiano corsia, da fanalini rossi che lampeggiano, da facce di autisti incazzati.

Ah. Un ponte più avanti. Lo attraverserò. Non mi interessa dove porti. Basta andarmene da qui.

CORONADO dice il cartello.


Guido diritto verso il sole. Mi acceca. Un fulgido disco dorato.

Scogliere in lontananza. Il Pacifico.

Cos’è quell’affare in riva all’acqua? Una struttura grande, strana.

Pago il pedaggio e vado a dare un’occhiata.


Ho appena svoltato a sinistra sulla A Avenue. Sembra vecchia, questa zona. Alla mia destra c’è un cottage all’inglese. Niente traffico, qui. Una strada tranquilla, delimitata da alberi. Forse potrei fermarmi per la notte. Ci sarà un motel, da qualche parte. Vedo una casa antica, una specie di villa del diciannovesimo secolo. È di mattoni; bovindi, comignoli giganteschi.

E lì? Ma guarda quella torre col tetto ad assicelle rosse.

Non riesco a crederci.


Sono arrivato dalla parte sbagliata. Adesso sono fermo in un parcheggio dietro la costruzione. Deve avere sessanta, settant’anni. Un posto enorme. Cinque piani più il pianterreno, mura dipinte di bianco, tetto ad assicelle rosse.

Devo trovare l’ingresso.


Dall’altra parte della strada c’è un motel, se questo non dovesse essere… È un hotel!


Sono nella stanza 527. Guardo da una finestra che dà sull’oceano. Il sole è quasi tramontato; ne resta una fetta color arancione vivo sopra l’orizzonte, a sinistra del profilo scuro di una scogliera. Non c’è nessuno sulla distesa perlacea della spiaggia. Vedo e sento i frangenti, un tuono che va e viene. Sono le quattro e mezzo passate da poco. Questo posto è così rilassante che potrei anche restarci per più di una notte.

Devo dare uno sguardo in giro.


Alla luce del tramonto, il patio appare irreale; tutto è enorme, con sentieri curvi e verdi prati ben tenuti. Il cielo somiglia a uno sfondo da stùdio cinematografico. Forse questa è la Disneyland del sud.

Prima sono arrivato in macchina davanti all’hotel, e un inserviente ha parcheggiato la mia automobile, un ragazzo ha preso i miei bagagli; mi è parso un po’ stupito dal peso della mia seconda valigia. L’ho seguito su per una rampa di scale con la passatoia rossa fino al foyer, ho aggirato un banco in metallo bianco con una fioriera al centro, sono entrato nella hall, ho firmato il registro, e mi hanno accompagnato a questo patio. C’erano uccelli che strillavano come pazzi sugli alberi, ma il fogliame è talmente fitto che non sono nemmeno riuscito a vederli.

Adesso gli alberi sono calmi, il patio è calmo. Lo sto guardando dal balcone del quinto piano; vedo sedie e tavoli con ombrelloni, aiuole fiorite. È un posto di sogno.


Vedo una bandiera americana che sventola alta sopra la torre. Cosa ci sarà lassù? Chissà.


Ho troppa fame per aspettare che servano la cena: alle sei nella saletta Principe di Galles, alle sei e trenta nella sala del Diadema. Sono soltanto le cinque. Se bevo per un’ora, l’appetito mi passerà, e non voglio. Desidero assaporare questo posto.

Sono seduto nella sala del Diadema, quasi deserta, vicino a una delle finestre panoramiche; ho chiesto informazioni, e mi hanno detto che è disponibile un servizio cucina limitato. Qui accanto c’è l’enorme sala della Corona, che viene usata soltanto, presumo, per i banchetti. Fuori, vedo l’area dove sono arrivato in automobile. Sono passati appena quaranta minuti?

La sala è splendida. Alle pareti, pannelli di stoffa rosso e oro; più sopra, pannelli in legno dalle ricche finiture che si incurvano verso un soffitto alto almeno tre o quattro piani. Tavoli con tovaglie bianche, candele accese in candelieri giallo scuro, alti calici di metallo che attendono i commensali. Tutto molto aggraziato.

La cameriera mi ha appena portato la zuppa.

La sto mangiando: superba. Una densa zuppa di fagioli con dadini di prosciutto. Deliziosa. Ho proprio fame. Il che, in prospettiva, può anche essere inutile, ma al momento è un piacere da godere. Questa sala incredibile. Questa ottima zuppa calda.

Mi chiedo se ho soldi a sufficienza per restare qui a scadenza indeterminata. A venticinque dollari al giorno, le mie risorse non possono durare troppo. Immagino abbiano tariffe mensili speciali, ma anche così è probabile che mi ritrovi senza una lira prima di andarmene per sempre.

Da quanto tempo esiste questo hotel? Nella mia stanza c’è un foglio informativo che guarderò più tardi. Comunque, è un posto vecchio. Mentre raggiungevo l’atrio passando per un corridoio che parte dalla saletta Principe di Galles, ho attraversato un vecchio, meraviglioso bar con un bancone degno di un palazzo; domani devo andarci a bere qualcosa. Ho visto anche una galleria con un negozio da barbiere e una gioielleria, ho dato un’occhiata a una sala piena di macchine da gioco, ho intravisto fotografie d’epoca appese alla parete. Studierò anche quelle. Più tardi, quando avrò nutrito il mio corpo affamato.

Adesso fa troppo buio per riuscire a vedere molto dell’esterno. Qui davanti ci sono alberi invasi dall’ombra, qualche automobile, e più oltre, in distanza, le luci multicolori di San Diego. Nella finestra si riflette l’enorme lampadario, una corona di luci sospesa nella sera. Stare qui non è come trovarsi sulla logora, impotente Queen Mary. Questa è la Mary ancora regina del mare.

C’è una sola cosa che non va: la musica. È inadatta. Dovrebbe essere più dolce. Un quartetto d’archi che suona Lehar.


Sono seduto su una poltrona gigantesca, nel mezzanino sopra l’atrio. Davanti a me c’è un enorme lampadario con file di lampadine dietro paralumi rossi e collane di cristallo che pendono dal fondo. Il soffitto in alto è massiccio, con decorazioni complesse; i pannelli scuri sono tirati a lucido. Vedo un’imponente colonna a pannelli, lo scalone centrale, e la struttura a graticci dorati della tromba dell’ascensore. Sono passato da un’altra scala; il silenzio era così completo che me lo sentivo nella carne.

La poltrona è un universo a sé. Lo schienale arriva molto sopra la mia testa, con due putti paffuti a fianco del ghirigoro ornamentale in alto. I due braccioli terminano in draghi alati, e le forme serpentine, squamose, scendono fino al sedile. Sul retro, dove i braccioli si uniscono, due figure: una un Bacco giovanile, l’altra un Pan con le zampe pelose e lo sguardo fisso, intento a suonare il suo flauto.

Chi si è seduto su questa poltrona prima di me? Quante persone hanno superato con lo sguardo la ringhiera per scrutare, nell’atrio, uomini e donne seduti, o in piedi; la gente che chiacchierava, che entrava e usciva? Negli anni Trenta, e Venti, e Dieci.

Anche prima dell’inizio del secolo?


Siedo nel salone vittoriano, con un drink in mano, e fisso una vetrata dipinta. Sala deliziosa. Ricche fodere rosse nei separé; direi velluto. Colonne a pannelli di legno, soffitto a riquadri di legno, un lampadario con pendenti di cristallo.

Nove e venti di sera. Ho fatto la doccia. Con una stanchezza mortale nelle gambe, mi sono coricato sul letto e leggo il foglio informativo. Questo posto è stato costruito nel 1887. Incredibile. E sapevo che aveva qualcosa di vagamente familiare. Purtroppo, non si trattava di “déjà-vu.” Billy Wilder lo ha usato per girare A qualcuno piace caldo.

Cito dal foglio:

“Struttura simile a quella di un castello.”

“L’ultimo degli stravaganti hotel in riva al mare.”

“Un monumento al passato.”

“Torrette, alte cupole, colonne in legno scolpito a mano e appariscenti decorazioni vittoriane.”

Sto ascoltando un suono che non ho più udito dalla mia infanzia: l’ansito ritmico dei termosifoni.

Un silenzio stupefacente nei corridoi. Come se il tempo stesso vi si fosse raccolto, fino a riempire l’aria.

Mi chiedo se riempia anche questa stanza. La mia camera contiene qualcosa che appartiene al passato? Il tappeto a chiazze oro-marrone-giallo? Ne dubito. Il bagno? Probabilmente tanti anni fa il bagno non esisteva nemmeno. Le sedie di vimini? Può darsi. Di sicuro non i letti o i comodini o le lampade; e di certo non il telefono. Quelle stampe alla parete? Improbabile. Le tende o le persiane alla veneziana? No. Probabilmente è stato sostituito anche il vetro della finestra. Il cassettone o lo specchio appeso sopra? Non credo. Il cestino per la carta straccia? E come no. E il televisore? Oh, già, già.

Qui dentro c’è ben poco del passato. Che peccato.


Mi chiamo Richard Collier. Ho trentasei anni, e di professione scrivo per la televisione. Sono alto un metro e ottantasette e peso ottantaquattro chili. Mi hanno detto che somiglio a Newman; forse alludevano al cardinale. Sono nato a Brooklvn il 20 febbraio 1935, mi hanno quasi spedito in Corea ma poi la guerra è finita, mi sono laureato all’Università del Missouri nel 1957, in giornalismo. Dopo la laurea ho trovato un posto alla ABC di New York, ho cominciato a vendere sceneggiature nel 1958, mi sono trasferito a Los Angeles nel 1960. Mio fratello ha portato la sua tipografia a L.A. nel 1965, e lo stesso anno io sono andato a vivere nel cottage per gli ospiti dietro casa sua. Sono partito da lì stamattina perché morirò nell’arco dei prossimi quattro o sei mesi, e ho pensato di viaggiare e scrivere un libro su questa mia esperienza.

Quanta verbosità per costringermi a dire queste parole. Okay, le ho dette. Ho un tumore al lobo temporale; non si può operare. Ho sempre creduto che le emicranie del mattino fossero dovute alla tensione. Alla fine sono andato dal dottor Crosswell; Bob ha insistito, mi ci ha portato lui stesso. Quel duro di Bob che dirige la sua azienda con la mano di ferro. Ha pianto come un bambino quando il dottor Crosswell ci ha informati. Io ho il tumore, e a piangere era Bob. Che uomo adorabile.

Tutto questo, meno di due settimane fa. Sino ad allora pensavo di vivere a lungo. Papà ha reso l’anima a sessantadue anni solo perché beveva troppo. La mamma a settantatré, sana e attiva. Credevo di avere un sacco di tempo per sposarmi, farmi una famiglia; non mi sono mai lasciato prendere dal panico, anche se non ho mai incontrato la Donna Della Mia Vita. Adesso è finita. I raggi X, i prelievi di tessuti e tutto il resto lo confermano. Collier è kaput.

Potevo restare con Bob e Mary. Fare la terapia dei raggi X. Vivere qualche mese in più. No. Mi è bastato vedere l’occhiata che loro due si sono scambiati; l’occhiata addolorata, impotente e nervosa che qualcuno lancia sempre in presenza di chi è destinato a morire. Ho capito che dovevo tagliare la corda. Non potevo restare lì a vedere quell’occhiata giorno dopo giorno.


Sto scrivendo questa parte del libro, anziché dettarla al registratore. Comunque, il fatto di dettare tutte le sceneggiature era una cattiva abitudine. Perdere la sensazione di mettere le parole sulla carta è negativo, per uno scrittore.

Adesso non posso dettare perché sto ascoltando in cuffia la Decima di Mahler: Ormandy, la Philadelphia. È un po’ difficile dettare, se non senti nemmeno il suono della tua voce.

Cook ha fatto un lavoro sorprendente, nell’orchestrare gli abbozzi incompiuti. Sembra proprio Mahler. Forse un po’ meno ricco del solito, ma indiscutibilmente lui.

So perché amo questa musica; l’ho appena capito. Perché lui c’è “dentro”. Il passato infesta questo hotel, e Mahler infesta la propria opera. In questo momento, lui è nella mia testa. “Continua a vivere nel suo lavoro” è un luogo comune banale, raramente vero. Nel caso di Mahler, è la pura e semplice verità. Il suo spirito risiede nella sua musica.

Sono all’ultimo movimento. Inevitabilmente, la sensazione di rilassamento agli angoli degli occhi, il deglutire, il gonfiarsi delle emozioni nel mio petto.

La musica ha mai saputo esprimere in maniera più lacerante l’addio alla vita?

Lasciatemi morire con Mahler nella testa.


Sto guardando una faccia nello specchio. Non la mia faccia: Paul Newman, attorno al 1960. L’ho fissata per tanto tempo che mi sento obiettivo. A volte succede: guardi la tua immagine riflessa nello specchio, e a un certo punto, zac!, quella che ti guarda è la faccia di un estraneo. Certe volte, una faccia spaventosa, talmente è estranea.

L’unica cosa che mi riporti alla realtà è il fatto che vedo muoversi le labbra di Paul Newman, e stanno dicendo le parole che io mi sento dire. Quindi, quella faccia deve essere mia, anche se mi pare che non abbia nessun rapporto con me.


Il ragazzo che possedeva quella faccia era bello; glielo ripetevano di continuo, se lo sentiva sempre dire. E a cosa gli è servito? Gli adulti, persino gli estranei, gli sorridevano, e a volte gli carezzavano i capelli di un biondo molto chiaro e fissavano i suoi tratti angelici. E a cosa gli è servito? Anche le ragazze lo fissavano. Di sbieco, in genere. A volte diritto negli occhi. Il ragazzino arrossiva molto spesso. E sanguinava: i bulli adoravano prendere a pugni quella faccia. Purtroppo, il ragazzo aveva grandi capacità di sopportazione. Solo quando lo chiudevano in angolo e cominciavano a tempestarlo di botte anche “lui” perdeva le staffe e si metteva a rispondere ai colpi. Il povero ragazzo non ha mai chiesto quella faccia. Non ha mai tentato di specularci sopra. Per lui, è stato un piacere crescere, perché da una certa età in poi, i bulli si affidano a tattiche più sottili.

Al diavolo, me ne sto qui a parlare della mia faccia. Perché abbandonarmi al giochetto della terza persona? Sono io, gente. Richard Collier. Un uomo molto bello. Posso parlarne finché ne ho voglia. Non c’è nessuno a origliare dal buco della serratura. Eccomi qui, mondo. Tatan-tatan! E a cosa è mai servita quella faccia al ragazzo che se la porta appresso? Lo salverà? Quella faccia impugnerà una spada e farà a pezzetti l’infido tumore? Ma nemmeno per idea. Per cui, in definitiva, quella faccia è inutile: non può trattenere il suo proprietario in questo mondo un giorno più del previsto. Be’, per i vermi sarà un bel picnic… Gesù, che cosa schifosa da dire!

Che cosa stupida, idiota.


Quasi mezzanotte.

Sdraiato al buio, ascolto la risacca: colpi di cannoni lontani.

Sono le ore più difficili.

Questo posto mi piace, ma è chiaro che non mi fermerò più di qualche giorno, Che senso avrebbe?

Fra un po’ di giorni, una mattina mi alzerò e partirò per Denver. In direzione est.

O magari est-ovest.

Lascia perdere le battute da sbronzo, Collier.


Le quattro e ventisette del mattino. Mi sono appena alzato per bere un bicchiere d’acqua. Non mi piace affatto quel sapore di cloro. Vorrei avere un depuratore, come a casa.

A casa?

15 novembre 1971

Sette del mattino. Ho tentato di alzarmi. Sono sceso dal letto, mi sono vestito, mi sono lavato la faccia e i denti, ho preso le vitamine, eccetera. Poi, subito dopo, di nuovo a letto. L’emicrania è troppo forte. Non riesco ad affrontarla.

Che peccato. Una giornata splendida, almeno dal poco che posso vedere a occhi socchiusi. Cielo e oceano azzurri. Una distesa deserta di spiaggia sotto il sole. Aria fresca, frizzante.

Non riesco più a parlare.


Otto e cinquantasei. Il patio immobile nel sole del mattino. Mi sporgo dalla ringhiera e guardo i prati verdi, così verdi, le siepi tosate alla perfezione, le fioriere quadrate al centro, i lampioni su ogni lato. Tavolini, sedie bianche.

Oltre il tetto rosso dell’hotel, vedo l’oceano.


Le nove. Colazione nella sala del Diadema. Caffè nero e un pezzetto di pane tostato. Altre dodici persone con me.

Troppa luce, qui. La sala ondeggia davanti ai miei occhi. La cameriera entra ed esce dalla mia visuale partendo e tornando al bagliore color giallo limone che vedo. Non so perché sono venuto qui. Potevo chiamare il servizio in camera.

Ho un’aria ambigua mentre borbotto nel mio microfono.


Più tardi. Non so che ora sia, non me ne importa. Sono di nuovo sdraiato sulla schiena. Non so come sono arrivato qui. Forse mi sono addormentato. O sono svenuto.

Wow! Quegli aerei scendono così bassi. Ne ho appena intravisto uno. Cosa fa? Atterra sulla spiaggia?

Deve esserci un aeroporto, nei paraggi.


Le dieci e trentasette del mattino. Coricato a letto. Guardo il “San Diego Union”. Non ricordo di averlo comperato. Deve essere successo nel mio periodo di nebbia. È una fortuna essere riuscito a tornare in camera.

Questo giornale ha centoquattro anni di vita. Un bel po’ di tempo.

Avevo deciso di non tenermi aggiornato sui fatti del mondo, e invece lo sto facendo. Pechino ci sta già addosso. Il Mariner Nove individua un punto caldo su Marte. L’ultimo disegno di legge per la protezione costiera silurato a Sacramento.

Lascia perdere, Collier. Puoi anche cavartela senza le notizie del giorno.

Domani, luna nuova. Non ti occorre sapere altro.


Faccio una passeggiata. Respiro l’aria fresca, pulita dell’oceano. L’odore è meraviglioso. Cammino sotto la torre. Ho scoperto che lì, a pianterreno, c’è una sala da ballo. Alla mia sinistra, una piscina olimpionica: acqua azzurra, chiara. Vedo di fronte a me sdraio ripiegate; un tendone aperto, tavolini da ping pong. Tutto deserto.

Grande giornata. Sole caldo, cielo azzurro, nubi soffici.

Cammino sui bordi del campo da tennis. Un quartetto di donne gioca un doppio; vedo corti gonnellini bianchi e carnagioni scure come cuoio. Più avanti c’è la spiaggia. Cento metri fino alla schiuma bianca, ribollente.

Adesso guardo l’hotel. Una struttura massiccia, con la torre come un gigantesco minareto: otto lati, e su ogni lato due file di piccoli bovindi. In cima, quella che sembra una torretta d’osservazione. Chissà se i clienti possono salirci.


Sto tornando indietro. Qui c’è un edificio moderno, un grattacielo; un condominio residenziale o qualcosa del genere. Fa uno strano effetto, in contrasto all’hotel.

Guardo una vecchia torre di mattoni, dall’altra parte. Quella che un tempo doveva essere la rimessa per le barche dell’hotel, adesso trasformata in ristorante. Quelli che sembrano binari ferroviari fuori uso. Immagino che, a quei tempi, qui arrivassero treni che portavano i clienti.


Sono seduto nel vecchio stabilimento balneare. Si chiama sala Casinò. Il locale è chiuso; molto tranquillo. Il bancone deve essere lungo quindici metri, bellissimo, splendidamente rifinito. A un’estremità c’è quello che pare un tempietto, e all’interno ia statuina di un moro che regge una lampada.

Quanti piedi hanno consumato quel parapetto d’ottone?

Poco fa, guardavo le fotografie delle star del cinema che sono state qui. June Haver. Robert Stack. Kirk Douglas. Eva Marie Saint. Ronald Reagan. Donna Reed. E si arriva fino alle bellezze della compagnia Paola Negri, a Mary Pickford, a Marie Callahan delle Ziegfeld Follies. Quanto torna indietro nel tempo questo luogo.


Voglio annotare il momento esatto: le undici e ventisei del mattino.

Tornando attraverso il patio, diretto alla mia stanza, ho visto il cartello che segnala il salone della Storia del seminterrato.

Posto affascinante. Fotografie come nella galleria. Una camera da letto di fine Ottocento o dei primi del Novecento. Vetrine con oggetti della storia dell’hotel: un piatto, un menù, un portatovagliolo, un ferro da stiro, un telefono, un registro dell’hotel.

E in una delle vetrine c’è il programma di una rappresentazione tenuta nel teatro dell’hotel (non so dove sia) il 20 novembre 1896: Il piccolo ministro di J.M. Barrie, con un’attrice che si chiamava Elise McKenna. Vicino al programma c’è una foto del suo viso: il volto più splendidamente delizioso che io abbia visto in vita mia.

Mi sono innamorato di lei.

Tipico del sottoscritto. Trentasei anni, una cotta qui e una cotta là, una serie casuale di storie che scimmiottavano l’amore. Ma niente di vero, niente che durasse.

Adesso, malato allo stadio terminale, riesco finalmente a perdere il cuore per una donna che deve essere morta almeno da vent’anni.

Bell’impresa, Collier.


Quel viso mi perseguita.

Sono tornato a guardarlo. Mi sono fermato davanti alla vetrina per tanto tempo che un uomo che entrava e usciva periodicamente dalla porta di un ufficio dell’hotel si è messo a fissarmi. Aveva l’aria di chiedersi se avessi piantato radici lì.

Elise McKenna. Nome delizioso. Volto squisito.

Come mi sarebbe piaciuto sedere a teatro (si trovava nella sala da ballo, l’ho scoperto da una foto del museo) e guardarla recitare. Deve essere stata superba.

E come posso saperlo? Forse faceva schifo. No, non ci credo.

Mi pare di avere già sentito il suo nome. Non ha interpretato Peter Pan? Se è chi penso io, era un’attrice splendida.

Di certo era bella.

No, c’è qualcosa in più della bellezza. È l’espressione del suo viso che mi perseguita e mi conquista. Quell’espressione dolce, onesta. Vorrei poterla avere conosciuta.

Sto sdraiato a fissare il soffitto come un ragazzino malato d’amore. Ho trovato la donna dei miei sogni.

Descrizione calzante. Dove potrebbe esistere, se non nei miei sogni?

Be’, perché no? La donna dei miei sogni è sempre stata irraggiungibile. Che differenza possono fare tre miserabili quarti di secolo?


Non riesco a fare niente, se non pensare a quel volto. Pensare a Elise McKenna e a ciò che era.

Dovrei prepararmi per Denver, per l’odissea che avevo progettato. Invece, me ne sto qui come uno straccio, col volto di Elise stampato nella mente. Sono sceso giù altre tre volte. Un ovvio tentativo di sfuggire alla realtà. La mente che si rifiuta di accettare il presente e si rifugia nel passato.

Ma… Anima mia, in questo momento mi sento vittima di uno scherzo sadico. Non ho il minimo desiderio di abbandonarmi all’autocommiserazione, però, Gesù Cristo!, lanciare una moneta, guidare per più di duecento chilometri fino a una città che non ho mai visto, uscire dalla superstrada per una bizza dei nervi, attraversare un ponte per scoprire un hotel che non sapevo nemmeno esistesse, e lì vedere la fotografia di una donna morta da tanti anni, e, per la prima volta in vita mia, innamorarmi?

Cosa dice sempre Mary? “Troppo peso per il cuore.”

È esattamente ciò che provo io.


Ho fatto una passeggiata sulla spiaggia. Ho bevuto un drink nel salone vittoriano. Ho fissato di nuovo la fotografia. Sono tornato in spiaggia e mi sono seduto sulla sabbia e ho guardato le onde.

Non è servito a niente. Non so sfuggire a quella sensazione. Con gli scarsi rimasugli di razionalità, mi rendo conto “giuro!” che sto cercando qualcosa a cui aggrapparmi, che non è necessario che questo qualcosa sia reale, e che Elise McKenna è diventata quel qualcosa.

Capirlo non mi aiuta. Questa cosa sta crescendo in me; diventa un’ossessione. Prima, nel salone della Storia, mi è occorsa tutta la mia forza di volontà per non rompere il vetro della vetrinetta, rubare la fotografia, e scappare.

Ehi! Un’idea! Potrei fare qualcosa. Niente che fermi quello che mi sta succedendo, niente che mi garantisca di non peggiorare la situazione, però qualcosa di concreto, invece di continuare a piangermi addosso.

Andrò in una libreria del posto, o forse, meglio, di San Diego, e troverò qualche volume su di lei. Sono sicuro che debbono essercene almeno uno o due. Il programma del salone la definisce “la famosa attrice americana”.

Sì, certo! Scoprirò tutto il possibile sul mio amore perso per sempre. Perso? Okay, okay. Sul mio amore che non ha mai saputo di essere il mio amore perché è diventata il mio amore solo dopo essere morta.

Chissà dove è sepolta.


Un brivido. L’idea di lei sepolta mi raggela. Quel viso, morto?

Impossibile.

Negli anni del college, ricordo che la mia padrona di casa (una seguace di scientologia cristiana, ottantasette anni) si occupava di una donna di novantasei anni per la quale aveva lavorato in passato. La donna più anziana, la signorina Jenny, non poteva alzarsi dal letto. Era paralizzata, era sorda, era cieca, se la faceva addosso a letto. Era più vegetale che animale. Il mio compagno di stanza e io (me ne vergogno, adesso) scoppiavamo a ridere quando lei strillava con quella sua vocina esile: — Signorina Ada, signorina Ada! Voglio alzarmi! — Giorno e notte, erano quelle le uniche parole a uscire dalle labbra di una donna che non avrebbe mai potuto alzarsi.

Un giorno, entrato nel soggiorno della signorina Ada per usare il suo telefono, ho scoperto la foto di una splendida ragazza in abito a collo alto, con capelli scuri e lunghi e soffici: la signorina Jenny da giovane. E ho provato uno stranissimo senso di disorientamento. Perché quella ragazza mi attraeva, ma sentivo anche, nella stanza vicina, la signorina Jenny che lanciava richiami con la sua voce antica, cieca e sorda e totalmente paralizzata. Voleva alzarsi. È stato un momento di raggelante ambivalenza, un momento che a diciannove anni non ero in grado di affrontare molto bene.

Non so ancora affrontarlo.


L’inserviente ha portato davanti all’hotel la mia automobile. Non la uso solo da ieri pomeriggio, però mi sembra strana: più un oggetto estraneo che una cosa mia. Guidarla è ancora più strano. Nel giro di una notte ho perso tutto il mio feeling per questa macchina.

Ho telefonato a qualche libreria di Coronado; non avevano niente. Mi hanno detto di rivolgermi a Wahrenbrock, a San Diego. L’inserviente mi ha spiegato come arrivarci: attraversare il ponte, prendere a nord sulla superstrada, uscire alla Sesta, continuare fino alla Broadway.


Sono sul ponte. Vedo davanti la città; montagne sullo sfondo. Una sensazione bizzarra: più mi allontano dall’hotel, e più mi allontano da Elise McKenna. Lei appartiene al passato. Come l’hotel. È una specie di tempio per la preservazione e la cura di ciò che è stato ieri.


Non troppo traffico sulla superstrada. Più avanti c’è un cartello: LOS ANGELES. Stanno cercando di ingannarmi, di convincermi che quella città esiste ancora.

La Sesta Strada esiste, più giù.


Più tardi. Sto tornando, sull’orlo di una crisi. Cristo, se sono nervoso. San Diego mi ha steso. La frenesia, la folla, il caos, la “presenza” pulsante, allucinante della città. Sono stravolto, stordito.

Grazie a Dio non ho avuto problemi a trovare la libreria, e grazie a Dio era un’oasi di pace nel deserto dell’adesso. In una situazione diversa, mi ci sarei fermato per ore, a curiosare tra le migliaia e migliaia di volumi, fra due piani (più seminterrato) di puro fascino.

Però ero in cerca di qualcosa, e sentivo il bisogno di tornare all’hotel. Così ho comperato tutto ciò che ho trovato; non troppo, temo. Il tizio mi ha detto che, per quanto ne sa, non esistono volumi dedicati solo a Elise McKenna. Probabilmente, Elise non era poi tanto importante. Non per il pubblico, comunque, o per la storia. Per me, significa tutto.

Vedo in lontananza l’hotel, e un’ondata di desiderio mi invade. Vorrei poter trasmettere quello che provo, la sensazione di tornare a casa.

Sto tornando, Elise.


Nella mia stanza. Sono le tre appena passate. Incredibile la forza della sensazione che ho provato rientrando all’hotel. Non si è costruita gradualmente, come ieri; mi è piombata addosso d’un colpo. Mi ci sono subito sentito immerso, consolato: l’abbraccio del passato. Non saprei trovare altre descrizioni.

Una volta, ho letto un articolo sulla proiezione astrale, sui viaggi che il cosiddetto corpo immateriale che tutti noi dovremmo possedere fa mentre dormiamo. La mia esperienza è similare. È stato come se, andando a San Diego, io abbia lasciato una parte di me nell’atmosfera dell’hotel, e come se l’altra parte vi fosse collegata da una lunga corda sottile, sempre più tesa. A San Diego, quella corda era tesa al massimo, e sottilissima, il che mi rendeva vulnerabile all’impatto del presente.

Poi, mentre tornavo, la corda ha cominciato ad accorciarsi, a ispessirsi, ed è riuscita a trasmettermi molto più di quest’atmosfera accogliente. Quando ho intravisto la struttura possente dell’hotel sopra gli alberi lontani, ho quasi urlato di gioia. Quasi un corno. Ho urlato.

Adesso sono di nuovo qui, e ho riconquistato la pace. Circondato da questa fortezza senza tempo sulla spiaggia, non andrò mai più a San Diego. È certo.


Ho ripreso a scrivere. Ascolto in cuffia la Quinta di Mahler. Bernstein e la New York Philharmonic. Splendido. La adoro.

Ma veniamo ai libri.

Il primo è di John Fraser. Si intitola Astri del teatro americano. Sto leggendo le due pagine dedicate a lei.

Sulla pagina di sinistra, in alto, c’è una serie di foto che la ritraggono dall’infanzia alla vecchiaia. Già mi turba vedere quel volto splendido che invecchia passando da sinistra a destra.

Nella seconda fila ci sono due foto più grandi: una di lei molto anziana, una in cui è molto giovane; e una simile alla foto del salone della Storia: quel volto franco, squisito, con i lunghi capelli che cadono sulle spalle; Elise com’era in Il piccolo ministro.

Nella terza fila di fotografie, indossa un costume delizioso e tiene le mani delicatamente intrecciate in grembo; è un’immagine tratta da una commedia intitolata Quality Street. Poi veste i panni di Peter Pan (allora lo ha interpretato davvero): una specie di tuta mimetica militare e un berretto con le piume, e suona lo stesso flauto del Pan scolpito sulla poltrona a pianterreno.

Nell’ultima fila ci sono foto di altri personaggi che ha interpretato: L’Aiglon, Porzia, Giulietta; mio Dio, è persino travestita da gallo in Chanticleer.

La pagina di fronte è occupata per intero da una foto del suo viso, di profilo. Non mi piace. Anzi, non mi piace nessuna di queste fotografie. Non ce n’è una sola dotata del fascino della prima che ho visto. Il che scatena una strana sensazione. Se la foto nel salone sotto fosse stata come una di queste, io avrei tirato diritto, non avrei provato niente.

Forse adesso sarei in viaggio per Denver.

Lascia perdere. Leggi.

Un breve resoconto dice che è stata una delle attrici più stimate della scena americana, l’artista capace di procurare i maggiori incassi al botteghino per molti anni. (Allora come mai non esiste un intero volume su di lei?) È nata a Salt Lake City l’11 novembre 1867. Ha lasciato la scuola a quattordici anni per diventare attrice; è arrivata a New York con la madre nel 1888 ed è apparsa in The Paymaster. Ha recitato con E.H. Southern; è stata la primadonna di John Drew per cinque anni prima di diventare una stella. Era estremamente schiva, rifuggiva dalla vita di società. Nonostante il fisico delicato, si dice che non abbia mai saltato una sola rappresentazione nella sua intera carriera. Non si è mai sposata ed è morta nel 1953.

Perché non si è mai sposata?


Secondo libro. Martin Ellsworth: Storia fotografica del teatro americano. Altre fotografie, però non raggruppate; sono sparse per tutto il volume, e la ritraggono in ordine cronologico dal suo primo ruolo all’ultimo: da The Wandering Boy del 1878 a Il mercante di Venezia del 1931. Una lunga carriera.

Ecco qui una foto di Elise che interpreta Giulietta con William Faversham. Scommetto che era bravissima.


Ancora Il piccolo ministro. Dato che ha aperto a New York nel settembre 1896, qui deve esserci stata una rappresentazione di rodaggio.

Dio, che torrente di capelli! Il colore sembra chiaro, non biondo, e nemmeno castano chiaro. Ha una vestaglia da camera sulle spalle e guarda l’obiettivo della macchina fotografica; guarda me.

Quegli occhi.


Terzo libro. Paul O’Neil: Broadway.

Parla dell’impresario di Elise, William Fawcett Robinson. Dice che Elise corrispondeva alla perfezione al concetto di Robinson (e di quell’epoca) di ciò che l’attrice ideale doveva essere. Anticipando di decenni l’adulazione riservata alle star del cinema, è stata la prima attrice a creare un alone mistico attorno a se stessa: mai vista in pubblico, mai citata dalla stampa, apparentemente priva di una vita personale. La quintessenza dell’isolamento.

Robinson approvava tutto ciò, dice O’Neil. Ci sono state frizioni fino al 1897, ma da quell’anno in poi, lei si è dedicata solo al lavoro; ha sublimato ogni aspetto della propria vita a favore dell’arte di recitare.

O’Neil dice che come attrice possedeva una qualità magica. Anche alle soglie della quarantina poteva impersonare una giovane ragazza o un folletto. Il suo fascino, hanno scritto i critici, era “etereo, luminoso, fulgido”. O’Neil aggiunge: “Queste qualità non sempre si rivelano nelle sue fotografie.”

Amen.

“Sotto questa superficie così spontanea, però, c’era un’interprete rigorosa, soprattutto dopo il 1897, quando iniziò a dedicarsi esclusivamente al lavoro.”

Comunque, non possedeva l’istinto innato del palcoscenico, nota O’Neil. Nei primi anni, la sua recitazione era piuttosto scarsa. Dopo che Robinson divenne suo impresario, Elise si impegnò e riuscì a ottenere un grande successo; il pubblico giunse ad amarla, anche se i critici la consideravano “senz’altro affascinante, ma priva di profondità”.

Poi giunse il 1897, e critici e pubblico la strinsero in quello che O’Neil definisce un “abbraccio eterno”.

Barrie adattò per lei il suo romanzo Il piccolo ministro. In seguito, scrisse per lei Quality Street, poi Peter Pan, poi What Every Woman Knows, poi A Kiss for Cinderella. Peter Pan fu il maggiore trionfo di Elise (anche se non la sua interpretazione preferita, che restò sempre Il piccolo ministro). “Non ho mai visto a teatro un’adulazione così spiccatamente emotiva” scrisse un critico. “Una reazione isterica. I suoi ammiratori hanno fatto piovere un diluvio di fiori sul palco.” “E in risposta, aggiunge O’Neil, lei tenne il solito, brevissimo discorso che faceva sempre all’ultima chiamata alla ribalta. ‘Grazie. Grazie, a nome di tutti noi. Buonanotte.’ ”

Nonostante l’enorme successo, la sua vita privata resta un mistero. I suoi pochi amici intimi erano persone estranee al teatro. Una sua collega avrebbe detto: “Per molti anni è stata simpaticissima e allegra. Poi, nel 1897, ha cominciato a diventare l’originale che pretende la solitudine a tutti i costi.”

Chissà perché.

Un’altra citazione. L’attore Nat Goodwin dice: “Elise McKenna è un nome così familiare. Simboleggia tutto ciò che rappresenta la vera e virtuosa femminilità. All’apice della fama, ha tessuto da sé un manto e lo ha posto sul piedistallo sul quale si erge sola. Eppure, guardando in quegli occhi da cerbiatta, mi sono posto delle domande. Ho notato piccole rughe in quel volto arguto, e nette linee verticali sulla sua fronte. La sua pelle mi è parsa secca, i gesti tesi, il modo di parlare convulso. Ho provato la tentazione di prendere nella destra quella sua mano da artista e di dirle: ‘Piccola donna, temo che inconsciamente tu stia sfuggendo alla cosa più grande della vita, l’avventura romantica.’ ”


Cosa so di lei, sinora? A parte il fatto di essermene innamorato, è ovvio.

Che, fino al 1897, era espansiva, aveva successo, la sua carriera procedeva bene, e litigava col suo impresario.

Che, dopo il 1897, è diventata: uno, una reclusa; due, una star assoluta; e tre, il concetto del suo impresario della star assoluta.

L’opera di transizione, se così possiamo chiamarla, è stata Il piccolo ministro, che lei ha interpretato in questo hotel circa un anno prima del debutto ufficiale a New York.

Cos’è successo in quell’anno?

Una veloce selezione dall’ultimo libro, il secondo volume di Storia del teatro americano di V.A. Bentley.

“Dopo il 1896, il suo assurgere alle lodi della critica è stato rapido, quasi fenomenale. E anche se in precedenza, nonostante il successo e la venerazione, non aveva manifestato nessuna particolare dote interpretativa, in seguito non si è mai cimentata in maniera meno che magnifica con nessun ruolo.”

Il libro dice che l’interpretazione di Giulietta rappresenta il simbolo di questo cambiamento. Aveva già recitato la parte nel 1893, con tiepide accoglienze da parte della critica. Quando vi si è cimentata di nuovo nel 1899, le lodi sono state unanimi.

Si parla anche del suo impresario. “Uomo di tempra prepotente, Willian Fawcett Robinson non era amato da molti. Privo del vantaggio di una buona cultura, ha comunque dimostrato audacia e coraggio nelle sue svariate iniziative.”

Dio. È morto sulla Lusitania.

Chissà se la amava. Deve essere stato così. Riesco quasi a immaginare cosa provasse per lei. Incolto, forse rozzo, probabilmente non le ha mai parlato dei propri sentimenti per l’intera durata del loro rapporto. La considerava troppo al di sopra di sé. Ha consacrato tutti i suoi sforzi a tenerla alta sul piedistallo, e così ha fatto in modo che Elise non fosse disponibile nemmeno per qualcun altro.

E questo era l’ultimo libro.


Seduto davanti alla finestra. Detto di nuovo. Sono quasi le cinque, il sole sta calando. Un’altra giornata.

Provo una terribile irrequietezza interiore e non ho modo di risolverla. Perché mi sono lasciato coinvolgere in questa maniera? Elise è morta. È nella fossa. È solo un mucchietto di ossa e polvere.

Non è vero!

Le persone della stanza accanto, che stavano chiacchierando, si sono zittite. Le mie urla devono averle sconcertate. Charlie, c’è un pazzo nella stanza vicina, chiama il bureau.

Ma… Dio, Dio, mi odio per averlo detto. Elise non è morta. Non l’Elise McKenna che io amo. Quell’Elise McKenna è viva.

Meglio coricarmi, chiudere gli occhi. Vacci piano. Ti stai lasciando sfuggire di mano la situazione.


Sdraiato al buio, ossessionato dal mistero di lei.

Devo trasformarmi in detective, tentare di risolverlo?

“Posso” trasformarmi in detective? Oppure è tutto perso, sepolto sotto le sabbie del tempo?

Devo uscire da questa stanza.


Cammino nel corridoio del quinto piano, uno stretto passaggio col soffitto a pochi centimetri dalla mia testa.

Lei ha mai percorso questo corridoio? Ne dubito; aveva troppo successo. Si sarà fermata al primo piano, davanti all’oceano. Una grande camera da letto, un salotto.

Mi sono fermato. Sto qui, a occhi chiusi, e sento l’atmosfera dell’hotel insinuarmisi dentro.

Qui c’è il passato, su questo non ho dubbi.

Però non credo che qui potrebbero aggirarsi spettri. Troppi ospiti sono arrivati e ripartiti; azzererebbero un singolo spirito.

D’altra parte, il passato, come un immenso spettro collettivo, è presente qui al di là di ogni possibilità di esorcismo.


Sono su una terrazza esterna del quinto piano. Guardo le stelle.

Per l’occhio umano, le stelle si muovono molto lentamente. Considerati i loro movimenti relativi a noi, in questo momento lei e io potremmo avere sotto gli occhi praticamente lo stesso spettacolo.

Lei è nel 1896, io nel 1971.


Sono seduto nella sala da ballo. Prima deve esserci stata una festa; vedo tovaglie gettate a terra, sedie sparse dappertutto. Sto guardando il palco su cui ha recitato Elise McKenna. È a meno di quindici metri da me.

Adesso mi sono alzato e cammino verso il palco. I sei giganteschi lampadari sono spenti. L’unica luce proviene da lampade alle pareti, all’ingresso della sala. Le mie scarpe non producono alcun rumore sul parquet.


Adesso sono sul palco. Chissà se da allora ne hanno modificato forma o dimensioni. È probabile. E comunque, a un certo punto di Il piccolo ministro lei deve per forza essersi trovata qui, dove sono io. Forse si è fermata qui, magari per un po’.

La scienza ci dice che nulla si può distruggere. Quindi, in un senso molto reale, una parte di lei deve essere rimasta qui. Un’essenza che ha trasudato mentre recitava. Qui. Adesso. In questo punto. La sua presenza che si mescola alla mia.

Elise.


Perché sono tanto attratto da lei, e cosa posso fare? Non sono un ragazzo. Un ragazzo potrebbe urlare: — Ti amo! — sospirare, gemere, sbarrare gli occhi, godersi in pieno la catarsi. Io non posso. La consapevolezza della follia di ciò che provo paralizza ogni sensazione.

Vorrei essere di nuovo un ragazzo, incapace di porre domande, senza il bisogno di analizzare il momento. Ho provato quella sensazione la prima volta che ho visto la sua fotografia: un sovraccarico emotivo. Adesso, la realtà mi assedia. Sono tirato contemporaneamente in due direzioni, verso il desiderio e verso la ragione. E in momenti come questo che odio il cervello. Costruisce sempre più barriere di quante sappia scavalcare.


Seduto sul letto, scrivo, di nuovo con le cuffie stereo; la Sesta, questa volta. La sua atmosfera cupa riflette il mio stato d’animo.

Quando mi è venuta fame, la sala del Diadema era chiusa. Così ho comperato un sacchetto di Fritos, dell’arrosto di vitello, una bottiglietta di Mateus e della soda. Adesso mastico e bevo Mateus alla soda; ho ordinato il ghiaccio al servizio in camera. Non direi che gli echi della masticazione che mi risuonano nella testa rendano un buon servizio a Mahler.

Guardo di nuovo i libri, cerco qualcosa in più su lei.

Però non ce nient’altro. Sono frustrato. Deve esserci altro materiale su di lei. Ma dove lo trovo?

Cristo onnipotente, Collier, diventi più stupido ogni giorno che passa. Mai sentito parlare delle biblioteche pubbliche?

Povera Elise. Un idiota si è innamorato di te.

16 novembre 1971

Sono appena rientrato dalla maggiore biblioteca di San Diego. È a un isolato circa dalla libreria dove sono stato ieri. Ero già là quando ha aperto.

Mi sono alzato alle cinque e ho passeggiato sulla spiaggia per tre ore, per liberarmi dall’emicrania. Alle otto e mezzo il mal di testa cominciava a diminuire, così ho preso una tazza di caffè e un po’ di pane tostato, mi sono fatto portare l’automobile dall’inserviente, gli ho chiesto indicazioni, e sono partito per la biblioteca.

All’inizio ho pensato di essere nei guai. Una giovane impiegata mi ha detto che non posso prendere libri a prestito con la tessera di una biblioteca di Los Angeles. Sapevo di non poter trascorrere la giornata lì a leggere; mi stavo già innervosendo. Poi una caposezione più anziana e saggia ha avuto la meglio. Con un documento d’identità e il cartellino della chiave della mia stanza all’hotel, mi ha concesso una tessera provvisoria e il prestito dei libri. Stavo quasi per baciarla sulle guance.

Venti minuti più tardi ero fuori. Ringrazio Dio di avere creato le tessere provvisorie. Ho guidato a velocità sostenuta, e avvicinandomi al Coronado ho provato la stessa sensazione: come se quel grande castello di legno bianco fosse diventato casa mia. Ho lasciato l’auto all’inserviente e mi sono tuffato nel tranquillo abbraccio dell’hotel. Ho dovuto sedere sul patio e chiudere gli occhi, lasciare che tutto tornasse nelle mie vene, il patio è ottimo, per quello: il cuore dell’hotel. Seduto lì, mi sono sentito circondato dal suo passato. La pace mi ha invaso. Ho inspirato a pieni polmoni, riaperto gli occhi, e mi sono alzato. Ho preso uno degli ascensori, sono salito al quinto piano, e sono rientrato nella mia stanza coi libri che avevo trovato.


C’è un libro su di lei che si intitola Elise McKenna: una biografia intima, di Gladys Roberts. Lo terrò per ultimo perché, nonostante il senso d’anticipazione che provo adesso, so che quando avrò finito la biografia sarà tutto svanito, e voglio assaporare questa eccitazione il più a lungo possibile.

Scrivo ascoltando la Quarta: la sinfonia più semplice, mi pare, la meno impegnativa. Voglio concentrarmi su Elise.

Il primo volume è di John Drew. Si intitola I miei anni sul palcoscenico.

Drew scrive che la sua prima impressione di Elise McKenna è stata di avere di fronte una donna troppo fragile. A quei tempi, come ho capito dalle foto che ho visto, nel mondo del teatro andavano le donne forti, grosse. Eppure, anche lui ripete ciò che ho già letto: Elise non ha mai mancato una sola recita.


All’inizio, sua madre ha recitato con lei. È stata Madame Bergomat (la figlia era Susan Blondet) in Un ballo in maschera; la signora Ossian (Elise era Miriam) in Butterflies. Qui dice che hanno portato quest’ultimo allestimento in California. Probabilmente le compagnie teatrali si esibivano spesso sulla Costa Occidentale, il che spiegherebbe lo spettacolo qui all’hotel.


Anche se ho trascritto quasi tutto, ho ancora l’impressione di avere attraversato questo libro troppo in fretta, attirato dalla biografia: come un affamato che non trovi alcuna soddisfazione negli antipasti e non veda l’ora di arrivare al primo.

Mi costringerò a rallentare.

Il libro successivo è Attori e attrici celebri, pubblicato nel 1903. Il capitolo che mi interessa si apre così: “Elise McKenna vende legname, maiali e pollame” e continua dicendo che, a parte il palcoscenico, l’unica cosa che le interessi è la sua fattoria di Ronkonkoma, a Long Island. Se non fosse un’attrice, prosegue l’autore, sarebbe una contadina. Trascorre tutti i momenti liberi dal teatro chiusa nella sua fattoria di duecento acri. Il suo vagone ferroviario privato la porta lì appena ha un po’ di tempo. “Lì può sentirsi libera, lontana da occhi curiosi.”

Sempre quell’isolamento.

E c’è dell’altro. “Della sua vita privata si sa meno di quanto si sappia di tutte le altre celebrità del teatro. Per la maggioranza delle persone, ciò che possono sapere di lei si ferma dove finisce la luce dei riflettori. Per proteggere la propria privacy, ha affidato alle cure del suo impresario tutto ciò che concerne i rapporti con la stampa. Se un giornalista chiede un’intervista, lei lo rimanda al signor Robinson, il quale risponde subito di no, in parte per rispetto al desiderio di privacy di Elise McKenna, in parte per una precisa politica che ha adottato subito dopo essere diventato il suo impresario, circa dieci anni fa.”

Il che sembra confermare l’opinione che mi sono fatto di Robinson.


Qui c’è una contraddizione. Immagino ne emerga sempre qualcuna, in qualunque ricerca. “Non ha mai mancato una recita perché ammalata, non è mai venuta meno ai suoi impegni, salvo una volta, nel 1896, quando il treno su cui viaggiava con la sua compagnia per spostarsi da San Diego a Denver è stato bloccato da una tormenta.”

Ancora il 1896.


Qui c’è una fotografia deliziosa. Elise porta soprabito nero e guanti neri, e un cravattino nero. Ha i lunghi capelli raccolti da pettini, e le sue mani riposano su una colonna. È splendida. Mi sto innamorando un’altra volta di lei; provo la stessa sensazione della prima volta che ho visto la sua foto nel salone della Storia. Ti lasci prendere dalle ricerche e cominci a perdere il coinvolgimento emotivo. Adesso ho visto questa foto, e l’emozione è tornata. Folle o no, per quanto possa essere assurdo, sono innamorato di Elise McKenna.

E non credo che mi passerà.


Un’ultima citazione, molto pregnante.

“C’era un uomo follemente invaghito della signorina McKenna, nel 1898. Le riservava grandi attenzioni. Accompagnava lei e la madre a teatro ogni sera, e poi le scortava a casa. Dopo un certo periodo di tempo, la signora McKenna gli disse: ‘Ritengo giusto avvertirla che lei sta sprecando il suo tempo. Elise non si sposerà mai. È troppo dedita alla sua arte per poter prendere in considerazione un’idea simile.’ ”

Perché non dovrei crederci? Eppure, non ci credo. Per reazione, mi viene da pensare alle parole di Nat Goodwin.

Esiste una soluzione al mistero di Elise McKenna?


Ho di nuovo i brividi. Sono arrivato così in fretta all’ultimo libro. Un ultimo pasto mentale, e poi la fame assoluta.


Niente Mahler. Voglio concentrarmi esclusivamente su questo volume, la sua biografia.

Nel frontespizio, una fotografia del 1909. Pare la foto scattata a una seduta medianica: una giovane donna che guarda l’obiettivo della macchina da un altro mondo. A un primo sguardo, sembra che sorrida. Poi ci si accorge che la sua potrebbe anche essere un’espressione di dolore.

Ancora una volta mi torna alla mente l’osservazione di Nat Goodwin.


“Mai” scrive l’autrice nella prima riga del libro “è esistita un’attrice con una personalità più sfuggente di quella di Elise McKenna.”

Siamo d’accordo.

Ecco la prima descrizione dettagliata di lei: “Una figura aggraziata con capelli oro-castano, occhi di un verde che tende al grigio, e zigomi alti, delicati.”


Una citazione dalla prima recensione di una certa importanza, nel 1890. “Elise McKenna è una soubrette graziosa come tante ragazze che si possono incontrare in una passeggiata pomeridiana, un dolce e tenero bocciolo sull’albero del teatro.”


Non saltare troppo! Detta tutti i fatti importanti. Questo è l’ultimo libro, Collier!

Dio. Le persone della stanza vicina si sono zittite di nuovo.


Recensioni di sue interpretazioni. Le leggerò dopo.


Un dato interessante. No, affascinante.

Nel 1924, ha bruciato tutti i suoi appunti, i diari, la corrispondenza; tutto ciò che aveva scritto. Ha fatto scavare un profondo pozzo nella sua fattoria di Ronkonkoma, ha buttato dentro tutto, ha versato sopra il cherosene, e ha appiccato il fuoco.

È rimasto solo un frammento di pagina trascinato via dal vento. Lo ha trovato un uomo di fatica, lo ha conservato, e più tardi lo ha dato a Gladys Roberts, che lo trascrive nel libro.


(M)io amore, dove sei adesso?

(D)a quale luogo sei venuto a [me]?

(A) quale luogo torni?


Era una poesia che Elise amava? Una poesia scritta da lei? Nel primo caso, perché le piaceva? Nel secondo, perché l’ha scritta? In un modo o nell’altro, questi versi sembrerebbero sconfessare ciò che sua madre disse a quell’uomo.

Il mistero diventa sempre più fitto. Ogni strato che rimuovo svela sotto un altro strato.

Dove sta il nucleo centrale?


Una recensione della sua Giulietta, nel 1893.

“La signorina McKenna non dovrebbe restare né sorpresa né ferita nel constatare, grazie a questa esperienza, che la natura non ha mai voluto farla interprete delle eroine tragiche di Shakespeare.”

Quanto deve averle fatto male. Come mi sarebbe piaciuto poter tirare un pugno sul naso a quel maledetto critico.


Una citazione interessante sul suo viaggio in Egitto con Gladys Roberts, nel 1904. Al tramonto, in mezzo al deserto, Elise ha detto: “Qui sembra che ci sia soltanto il tempo”.

Deve avere provato le stesse sensazioni che ho io in questo hotel.


Si parla dei compositori che amava. Grieg, Debussy, Chopin, Brahms, Beethoven…

Mio Dio.

Il suo compositore preferito era Mahler.


Adesso sto ascoltando la Nona di Mahler, eseguita da Bruno Walter con la New York Philharmonic.

Sono d’accordo con Alban Berg. Sul retro della copertina del disco, è riportato il suo commento quando lesse il manoscritto originale della sinfonia: “La cosa più celestiale che Mahler abbia mai scritto”. E Walter ha detto: “La sinfonia è ispirata da un’intensa agitazione spirituale, dal senso della scomparsa”. Del primo movimento, ha detto che “fluttua in un’atmosfera di trasfigurazione.”

Come mi sento vicino a Elise.

Ma torniamo al libro.


Un regalo inatteso. Pagine di fotografie.

Ormai sono quindici minuti che ne fisso una in particolare. Per me, trasmette di Elise più cose di tutte le altre foto che ho già visto. È stata scattata nel gennaio 1897. Lei siede su una grande poltrona di colore scuro; porta una camicetta bianca a collo alto, con lo jabot, e una giacca a tessuto spinato. Ha i capelli fermati da pettini o forcine, le mani intrecciate in grembo. Tiene gli occhi puntati sull’obiettivo della macchina fotografica.

La sua espressione è angosciata.

Mio Dio, quegli occhi! Sono così “persi”. Quelle labbra. Si apriranno mai più a un sorriso? Non ho mai incontrato tanta tristezza, tanta desolazione su un volto.

In una fotografia scattata due mesi dopo che lei si è trovata qui, in questo hotel.


Non riesco a staccare gli occhi da quel volto. Il volto di una donna che ha subito una prova durissima. Che è rimasta priva di ogni risorsa spirituale. Che è vuota.

Se solo potessi essere con lei, stringerle la mano, dirle di non provare tanta tristezza.


Mi batte forte il cuore.

Mentre fissavo quel viso, qualcuno ha cercato di aprire la porta della mia stanza; e all’improvviso, ho avuto l’idea folle che fosse lei.

Sto impazzendo.


Mi sono ripreso. I miei nervi, più o meno, sono a posto.

Altre fotografie. Sue interpretazioni: La dodicesima notte, Giovanna d’Arco, La leggenda di Leonora. Mentre riceve una laurea ad honorem dell’Union College. A Hollywood, nel 1908.


“A volte penso che l’unica vera soddisfazione della vita sia il constatare di avere fallito quando si cercava di fare del proprio meglio.”

Non mi sembrano le parole di una donna felice.


La sua generosità. Gli incassi delle sue interpretazioni mandati a San Francisco dopo il terremoto; a Dayton, Ohio, dopo l’inondazione del 1913. Le sue matinées gratuite per i soldati di leva al tempo della prima guerra mondiale; le sue recite e il lavoro come assistente in campi militari e ospedali.


Un’altra contraddizione.

“L’unica occasione in cui non si presentò in teatro fu dopo una rappresentazione di Il piccolo ministro all’hotel del Coronado, in California.”

Però non fu bloccata da una tormenta. Forse questo accadde alla sua compagnia, ma lei non era con gli altri. Si era fermata all’hotel. Nemmeno sua madre o il suo impresario erano rimasti con lei.

Questo è singolare; non lo aveva mai fatto, prima. Da ciò che l’autrice racconta (per quanto con estrema discrezione), il gesto di Elise fu uno shock inatteso per tutti. “Ma ne riparleremo più avanti” scrive Gladys Roberts. Cosa significa? Un altro mistero?

Il capitolo continua: “L’opera, che era stata rappresentata in anteprima sulla Costa Occidentale, si fermò lì, e per un po’ di tempo parve che l’allestimento di Il piccolo ministro fosse destinato a venire annullato.”

Dieci mesi più tardi, ci fu la prima ufficiale a New York.

Nel periodo intermedio, nota l’autrice, nessuno vide Elise McKenna. Si chiuse nella sua fattoria; trascorse le giornate ad aggirarsi per la sua proprietà.

Perché?


Il suo vino preferito era il Bordeaux rosso a temperatura ambiente. Me lo procurerò. Poi potrò ascoltare il suo compositore preferito mentre bevo il suo vino preferito, qui, nel luogo dove lei è stata.


Un altro aspetto del mistero.

“Prima che Il piccolo ministro aprisse a New York, la sua recitazione era stata molto gradevole, ma da quel giorno in poi le sue interpretazioni acquistarono una luminosità e una profondità che nessuno è ancora riuscito a spiegare.”

Sarà meglio tornare alle recensioni.


Commenti alla sua recitazione fino al 1896.

“Deliziosamente delicata. Un affascinante riserbo. Una semplice sincerità. Fascino personale. Aggraziata modestia. Felicità di toni. Capace e intelligente. Notevolmente promettente.”

E in seguito:

Il piccolo ministro: “C’è una nuova vitalità, un nuovo calore, una vivida vita emotiva nella recitazione della McKenna.”

L’Aiglon: “Più fulgida di Sarah Bernhardt come le stelle sono più fulgide della luna.”

Quality Street: “Una grazia infinita e un pathos semplicemente innegabile.”

Peter Pan: “La sua recitazione esprime la forza della vita nel modo più semplice e più bello.”

’Op o’ Me Thumb: “L’attrice dipinge ogni fitta di disperazione, di assoluta infelicità e totale desolazione che strazia il cuore di questa donna non amata, impossibile da amare. L’apice del vero pathos.”

Romeo e Giulietta: “Che diversità dalla sua prima interpretazione di questa parte. Finemente emotiva e assolutamente coinvolgente nel lato tragico. Intensità totale. La sensazione della perdita emotiva viene trasmessa con brillante convinzione e autorità. La Giulietta più vera, più umana e più convincente che abbiamo mai visto.”

What Every Woman Knows: “Ha raggiunto l’apice nelle scene in cui l’agonia dello spirito viene soffocata ed emerge il tono filosofico del pacato martirio.”

La leggenda di Leonora: “Un’interpretazione squisita e coinvolgente della signorina McKenna, che non ha mai recitato con tocchi più raffinati, con una più ricca capacità di incarnare la vera femminilità e tenerezza.”

A Kiss for Cinderella: “La signorina McKenna è così impavida e dolcemente patetica che riesce quasi a spezzare il cuore.” (Detto da Alexander Woollcott in persona.)

Giovanna d’Arco: “Il trionfo della sua carriera. Un gioiello di interpretazione perfetto e splendidamente lavorato.”


Quando si è verificato il cambiamento, esattamente?

Non posso fare a meno di pensare che sia stato nel corso del periodo che lei ha trascorso qui all’hotel.

Ma cos’è successo?

Mi farebbe comodo l’aiuto di Sherlock Holmes, Dupin, ed Ellery Queen, al momento.

Sto guardando di nuovo la fotografia.

Cosa ha messo sul suo viso quell’espressione di disperata accettazione?


Forse c’è una risposta in questo capitolo. Sono quasi alla fine del libro. Il sole tramonta un’altra volta. Come le mie speranze. Quando avrò terminato il libro, cosa ne sarà di me?

“Il palcoscenico è la sua vita, hanno sempre detto i suoi amici intimi. L’amore non fa per lei. Però una volta, in un momento di abbandono, un momento che non si è mai più ripetuto, mi ha lasciato capire che c’era stato qualcuno. Mentre me ne parlava, ho visto nei suoi occhi una luce di tragedia che non avevo mai visto prima. Non mi ha offerto particolari, a parte l’allusione al ‘mio scandalo del Coronado’, con un sorriso triste.”

Allora è successo!


L’ultimo capitolo. La sua morte. Sento in me un peso atroce.

Cito: “È morta di infarto cardiaco nell’ottobre 1953, dopo… dopo avere partecipato a un party allo Stephens College di Columbia, Missouri, dove aveva insegnato recitazione per diversi anni.”

Allora, lei e io ci siamo già trovati nello stesso posto.

Però nello stesso periodo.

Perché mi sento così strano?


Sono citate le sue ultime parole. Nessuno, dice l’autrice, ne ha mai capito il significato.

— E amore, dolcissimo.

Cosa mi ricordano?

Un inno della scienza cristiana. Però le parole sono: “E la vita, dolcissima, da cuore a cuore, parla teneramente quando ci incontriamo e lasciamo.”

Mio Dio.

Credo di essere stato a quel party.

Credo di averla vista.

Mi è difficile respirare. Mi pulsano le tempie, i polsi. Ho la testa intorpidita.

È successo davvero?


Sì. C’ero. Lo so. È stato dopo una rappresentazione allo Stephens. Sono andato con una ragazza al party per gli interpreti.

E ricordo che lei mi disse… Non ricordo che faccia avesse, o come si chiamasse, però ricordo le sue parole…

“Hai un’ammiratrice, Richard.”

Ho guardato dall’altra parte della stanza, e… c’era una vecchia seduta su un divano con qualche ragazza.

Mi guardava.

Buon Dio, non può essere stato.

Perché quella donna mi guardava?

Come se mi conoscesse.

Perché?

È quella sera che morì Elise McKenna?

La vecchia era davvero lei?

Sto guardando di nuovo la foto.

Elise. Mio Dio, Elise.

Sono stato io a mettere quell’espressione sul tuo volto?


È buio, nella stanza.

Non mi muovo da ore.

Me ne sto sdraiato qui a fissare il soffitto. Fra un po’ mi porteranno via con l’ambulanza.

Perché l’ho detto?

Cose simili sono impossibili.

Insomma, ho una mente aperta e tutto il resto, però…

Una cosa del genere?

D’accordo, mi ha guardato come se mi conoscesse. Le ricordavo qualcuno, tutto qui. L’uomo che aveva conosciuto all’hotel.

Tutto qui.

Allora perché, di tutti i posti dello stato e del paese, sono finito qui? Senza volerlo. Per puro capriccio. Ho solo “lanciato una moneta”, per amor di Dio!

Perché in novembre?

Perché la stessa settimana in cui lei è stata qui?

Perché sono sceso a pianterreno quando sono sceso? Perché ho visto quella fotografia? Perché mi ha tanto colpito? Perché mi sono innamorato di lei, ho cominciato a leggere di lei? Coincidenze?

Non posso crederlo.

Okay, intendo dire che non voglio crederlo.

Sono stato davvero io?


Credo che la mia testa stia per scoppiare. Ho ripensato a tutto tante volte che mi sento stordito.

Dato di fatto: lei è venuta qui con la sua compagnia.

Dato di fatto: è rimasta qui dopo che gli altri sono ripartiti.

Dato di fatto: non ha più recitato per dieci mesi.

Dato di fatto: si è chiusa nella sua fattoria.

Dato di fatto: era completamente diversa da ciò che era sempre stata.

Dato di fatto: quando ha ripreso a lavorare, era completamente cambiata come attrice, come persona.

Dato di fatto: non si è mai sposata.


Da quale luogo sei venuto a me?

Da quale luogo?


Le due e sette del mattino. Impossibile dormire; la mia mente non si spegne. Non posso sradicare l’idea. Continua a crescere, a crescere.

Ammesso che una cosa simile sia possibile, non sarebbe più possibile in un posto come questo che altrove? Perché, in un posto come questo, una parte del viaggio è già stata fatta. Qui ho sentito il passato entrare in me.

Ma posso tornarvi in maniera totale?


Meglio spegnere la luce.

Sto guardando la sua foto; l’ho ritagliata dal libro. Denunciatemi per danni a una proprietà pubblica. Però sbrigatevi a portarmi in tribunale.


Sdraiato… in questa stanza in penombra… in questo hotel… il suono della risacca in lontananza… la sua fotografia davanti a me… la tristezza infinita di quegli occhi che mi scrutano…

Credo sia possibile.

In qualche modo.

17 novembre 1971

Le sei e ventinove del mattino. Emicrania piuttosto forte. Quasi non riesco ad aprire gli occhi.

Ascolto e riascolto ciò che ho detto ieri sera e stanotte. Ascolto nella, aperte virgolette, fredda luce del giorno, chiuse virgolette.

Deve essere stato un momento di pazzia.


Undici e quarantasei del mattino. Il servizio in camera mi ha appena portato la mia colazione all’europea: caffè, succo d’arancia, tartine con burro e marmellata di mirtilli, e io me ne sto seduto, col cervello intorpidito, a mangiare e bere come se fossi un uomo normale, non un pazzo.

Lo strano è che adesso, che il peggio del dolore è passato, adesso, seduto allo scrittoio con la spiaggia battuta dal sole sotto gli occhi, e le onde dell’oceano azzurro che si frangono bianche sulla sabbia grigia, adesso, mentre sarebbe logico aspettarsi che la razionalità del giorno avesse scacciato l’idea, l’idea invece resiste. Perché, non so.

Insomma, guardiamoci in faccia: nella summenzionata fredda luce del giorno, l’idea appare come la progenitrice di tutte le idee svitate. Tornare indietro nel tempo? Fino a che punto si può diventare scemi? Eppure, una profonda, indefinibile convinzione mi sprona. Non ho idea di come un’idea simile possa avere senso, però per me lo ha.

Prove a sostegno della mia ottimistica convinzione? Ben poche. Eppure, quell’unico fatto mi sembra sempre più grande ogni volta che ci penso: lei mi ha guardato come se mi conoscesse e, quella stessa sera, è morta di infarto.

Un pensiero improvviso.

“Perché non mi ha parlato?”

Non essere ridicolo. Come poteva farlo? Quasi sulla novantina, parlare a un ragazzo non ancora ventenne di un amore che potevano avere vissuto cinquantasette anni prima?

Fossi stato al suo posto, avrei fatto la stessa cosa: sarei rimasto zitto, per poi morire.


Un’altra riflessione.

Ancora più difficile da accettare.

Se davvero ho fatto tutto questo, non sarebbe più pietoso non tornare indietro? La sua vita continuerebbe, indisturbata. Forse lei non arriverebbe alle stesse vette di celebrità, ma se non altro…

Ho dovuto interrompermi per ridere.

Con quanta indifferenza me ne sto qui a parlare di cambiare la storia.


Un’altra considerazione.

Realizzare la mia idea mi appare più possibile che mai.

Ho letto quei libri. Molti sono stati pubblicati decenni fa, addirittura una generazione fa.

Ciò che è stato fatto a Elise è già stato fatto.

Quindi, non ho scelta.

“Devo” tornare indietro.


Ho dovuto ridere un’altra volta. Rido ancora, mentre parlo. Non una risata divertita, vero; più la risata che denota la presenza di un pazzo.

Stabilito questo, esaminiamo la gatta da pelare nei particolari.

Per quanto io voglia o senta o creda di poter fare, la mia mente e il mio corpo, ogni mia cellula sanno che è il 1971.

Come potrei liberarmi da questo condizionamento?

Non confondermi coi fatti, Collier. Per lo meno, non con i fatti che dimostrano che non si può fare. Adesso devo riempirmi la testa di fatti che dimostrino che “si può” fare.

Ma dove trovo questi fatti?


Un altro rapido viaggio a San Diego. Questa volta non me ne sono quasi accorto. Devo avere avuto con me l’influenza dell’hotel; l’ho indossata a mo’ di armatura.

Sono stato di nuovo da Wahrenbrock. Fortuna immediata. J.B. Priestley ha scritto un volume gigantesco sull’argomento, L’uomo e il tempo. Mi aspetto di poterne trarre molte indicazioni.

Ho comperato anche una bottiglia di Bordeaux rosso. E una cornice per la fotografia di Elise. Deliziosa. Sembra oro antico, con un ovale al centro del passepartout. Anche il passe-partout pare di oro antico, con delicate volute ornamentali che si intrecciano come una vite dorata attorno alla testa di Elise. Adesso sì che lei è al suo posto. Non chiusa in un libro, come se facesse parte della storia. In una cornice, sul comodino.

Viva. Il mio amore vivo.

L’unica cosa che mi turba ancora è sapere che sarò io a far nascere quell’espressione tragica sul suo volto.


Per adesso non ci penserò. Le possibilità sono molte. Farò una doccia e poi, seduto sul letto, con la sua musica preferita nella testa, col suo vino preferito che mi scende giù per la gola, comincerò a imparare qualcosa di quel tempo che voglio raggirare.

E tutto questo, qui. In questo hotel. In questo preciso posto dove, lontana da me settantacinque anni, anche mentre pronuncio queste parole, Elise McKenna respira e si muove.


(Richard dedica molto spazio alla trascrizione e all’analisi del libro di Priestley. Quindi, è in questa parte del suo manoscritto che ho operato la maggiore quantità di tagli: l’argomento, per lui tanto affascinante, tende a rallentare notevolmente il ritmo del suo resoconto.)


Il capitolo iniziale è dedicato agli strumenti per la misurazione del tempo. Non vedo che valore potrebbe avere per me, ma lo studierò lo stesso; prenderò appunti come facevo all’università.

Ecco come devo considerare la situazione: sto seguendo un corso universitario sul tempo.


Capitolo due: Immagini e metafisica del tempo.

L’acqua in movimento, scrive Priestley, è sempre stata la nostra immagine preferita del tempo. “Il tempo, come un fiume in perenne movimento, trascina via tutti i suoi figli.”

Da un punto di vista intellettuale, l’immagine è insoddisfacente, perché i fiumi hanno rive. Quindi, siamo costretti a chiederci cosa resti fermo mentre il tempo scorre. E noi dove ci troviamo? Sulla riva o nell’acqua?


Capitolo tre: Il tempo e gli scienziati.

“Il tempo non ha un’esistenza indipendente al di là dell’ordine degli eventi con cui lo misuriamo.” Lo ha detto Einstein.

In questo “regno misterioso”, come lo chiama Priestley, non esiste un luogo dove poter scoprire il senso ultimo dello spazio e del tempo.

Gustav Stromberg sostiene l’esistenza di un universo a cinque dimensioni che includerebbe il mondo dello spazio-tempo a quattro dimensioni descritto dalla fisica. Lo chiama “regno dell’eternità”. Si trova al di là dello spazio e del tempo in senso fisico. In questo regno, passato, presente e futuro sono privi di significato.

C’è solo la totalità dell’esistenza.


Capitolo quattro: Il tempo nella narrativa e nel teatro.

“Diciamo che un uomo è nato nel 1900” scrive Priestley. “Se il 1890 esiste ancora da qualche parte, l’uomo potrebbe visitarlo. Ma potrebbe farlo solo come osservatore, perché il 1890 più il suo intervento fisico non sarebbe più il 1890 che è stato.

“Se l’uomo non volesse limitarsi a guardare il 1890, se volesse sperimentarlo come esperienza di vita, dovrebbe usare la parte non-temporale della propria mente per entrare nella mente di qualcuno che abbia vissuto nel 1890.

“A rendere vincolante questa limitazione” sostiene Priestley “non è il viaggio in sé ma la destinazione. Un uomo nato nel 1900 e morto nel 1970 è prigioniero di quei settant’anni di tempo cronologico. Quindi, a livello fisico, non potrebbe fare parte di nessun altro tempo cronologico, si tratti del 1890 o del 2190.”

L’idea mi turba. Devo rifletterci su.


No. Non è il mio caso.

Perché io sono già stato là.

Il 1896, “senza” il mio intervento fisico, non sarebbe più il 1896 che è stato.

Quindi, devo tornare.


Parte seconda: Le idee del tempo.

Sono ore che leggo e prendo appunti. Mi fa male il polso, ho gli occhi a pezzi, avverto in sottofondo un accenno di emicrania.

Però non riesco a fermarmi. Devo imparare tutto il possibile, per poter trovare il modo di tornare da lei. Il desiderio è una chiave ovvia. Ma deve esserci una tecnica, un metodo. Devo ancora scoprirlo.

Ma ce la farò, Elise.


Il mondo dell’uomo antico, scrive Priestley, trovava basi non nella cronologia ma nel Grande Tempo, nel Tempo Eterno del Sogno: passato, presente e futuro facevano parte di un Istante Eterno.

Mi pare la stessa cosa della teoria del “regno dell’eternità” di Stromberg. Mi pare simile anche alla teoria di Newton di un tempo assoluto, che “scorre costante senza rapporti con alcunché di esterno”. La scienza ha rifiutato questa teoria, ma forse Newton aveva ragione.

L’idea del Grande Tempo ci perseguita in molti modi, continua Priestley; stimola la nostra mente e le nostre azioni. L’uomo pensa di continuo di “tornare indietro”, lontano da tutte le pressioni del mondo; di raggiungere un luogo che non cambia mai, dove uomini-ragazzi giocano per sempre.

Forse il nostro vero io, la nostra vera essenza, esiste in questo regno dell’eternità, e la consapevolezza che ne abbiamo è limitata dai sensi fisici.

La morte sarebbe la fuga finale da queste restrizioni, ma è concepibile anche una fuga prima della morte, Il segreto deve essere l’allontanamento dalle restrizioni dell’ambiente. Non possiamo farlo a livello fisico, quindi lo facciamo a livello mentale, grazie a quella che Priestley chiama la “parte non-temporale” della mente.

In breve: è la mia consapevolezza dell’ora a tenermi inchiodato qui.


Maurice Nicoll dice che l’intera storia è un presente vivo. Noi non sperimentiamo una sola scintilla di vita nel mezzo di un grande, morto deserto. Esistiamo invece in un certo punto “di un ampio processo di esseri viventi che ancora pensano e provano emozioni ma a noi sono invisibili.”

Devo solo spostarmi a un punto in alto dal quale possa vedere, e poi raggiungere, la zona di questa processione che mi interessa raggiungere.


L’ultimo capitolo. Poi dovrò cavarmela da solo.

Priestley parla di tre tempi. Li chiama tempo 1, tempo 2 e tempo 3.

Il tempo 1 è il tempo in cui nasciamo, invecchiamo e moriamo; il tempo pratico, concreto; il tempo del cervello e del corpo.

Il tempo 2 si stacca da questo semplice binario. Nel suo raggio d’azione rientrano la coesistenza di passato, presente, e futuro. Nessun orologio o calendario ne condiziona l’esistenza. Entrandovi, usciamo dal tempo cronologico e lo osserviamo come una totalità immobile, non come un insieme in perenne movimento di attimi.

Il tempo 3 è la zona dove esiste “il potere di collegare o scollegare fra loro il potenziale e il reale”.

“Il tempo 2 potrebbe essere l’aldilà” sostiene Priestley. “Il tempo 3 potrebbe essere l’eternità”.


Adesso cosa credo?

Che il passato esiste ancora da qualche parte, come componente del tempo 2.

Che per raggiungerlo devo, non so come, staccare la mia consapevolezza cosciente dal tempo 1.

Oppure il mio subconscio? È quello che mi tiene prigioniero? Il condizionamento interiore di tutta una vita?

Se è così, ho qualcosa di preciso con cui lavorare. Ricorrendo ai principi della psicocibernetica, posso “riprogrammarmi” e convincermi di esistere non nel 1971, ma nel 1896.

L’hotel mi aiuterà, perché fra queste mura esiste ancora moltissimo del 1896.

Il posto è perfetto. Il metodo, sicuro.

Funzionerà! So che funzionerà!


Ho dedicato tante ore a questo libro. Ore preziose, senz’altro. Però è strano che, per lunghi periodi di tempo, io abbia del tutto dimenticato i motivi che mi hanno spinto a studiarlo.

Ma adesso prendo la fotografia dal comodino e guardo di nuovo il suo volto.

La mia splendida Elise.

Il mio amore.

Presto sarò con te. Lo giuro.


Ho appena chiamato il servizio in camera per la cena. Zuppa di verdure. Agnello arrosto. Insalata mista. Dessert molto abbondante. Caffè. E finirò il Bordeaux.

Me ne sto sdraiato a sfogliare la sua biografia. Tutto ciò che ho letto si insinua nel mio subconscio, lo modifica. Domani, mi concentrerò sull’idea di modificarlo in maniera completa.

Ho appena scoperto qualcosa di affascinante. In appendice al libro c’è un elenco che non avevo ancora visto. Una lista dei libri che lei ha letto.

Uno dei libri è Esperimento col tempo di J.W. Dunne.

Deve averlo letto dopo il 1896, perché è uscito dopo quella data.

Chissà perché lo ha letto.


Le sette e diciannove del pomeriggio. Ho appena mangiato. A stomaco pieno, mi sento soddisfatto. Rassicurato.

Sono sdraiato e penso a Bob.

È sempre stato così dolce con me. Così buono.

Non è stato molto bello lasciare un semplice biglietto e sparire. So che sarà preoccupato per me. Perché non ci ho pensato prima?

Perché non gli ho telefonato subito, per dirgli che sto bene? Forse è già frenetico. Forse ha chiamato la polizia, tutti gli ospedali.

Sarà meglio fargli sapere che sto bene, prima del mio grande viaggio.


Mary?

Ciao.

Oh, non troppo lontano.

Sì. Sto benissimo. C’è Bob?

Ciao, Bob.

Be’… preferirei non farti sapere se…

È solo una cosa mia, Bob. Non c’entra niente con…

Dovevo farlo, Bob. Credevo di averlo spiegato nel biglietto.

Be’, in sostanza è tutto qui. Viaggerò sul serio.

Andrò dove voglio. Insomma…

Sto bene, Bob. Sto…

No, non te lo voglio dire. Cerca di capire. Sto bene. Voglio solo fare questa cosa a modo mio.

Senti, sto benissimo. Ho chiamato per dirtelo. Così non ti preoccupi.

Be’, lascia perdere. Non ce n’è bisogno. Sto bene.

Sì. Non so dirti perché. Però sto bene.

No, Bob. Niente. Se mi occorrerà qualcosa, te lo farò sapere.

Non troppo lontano. Senti, adesso devo…

No, Bob, non posso. Non voglio…

Perché ho…

Lasciami fare le cose a modo mio, okay?

Bob, Cristo santissimo!


Sto guardando Carol Burnett.

È divertente.

Anche Harvey Korman.

Divertenti.

Volete sapere perché li guardo, gente? Non potete sentire quello che dico, ma ve lo dirò lo stesso. Perché sto guardando Carol Burnett, invece di mettermi a dormire e prepararmi per l’assalto al tempo di domani?

Ve lo dirò.

Perché ho perso la mia grinta.


Non so quando. Probabilmente è cominciato mentre parlavo con Bob. È peggiorato riascoltando la mia voce che parlava con lui. Non conosco l’esatto momento in cui tutto è svanito.

So solo che è svanito.

All’inizio, non potevo crederci. Ho pensato che me lo stessi immaginando. Ho aspettato che il vuoto si riempisse. Ma non è successo, e mi sono arrabbiato. Poi mi sono spaventato.

Poi ho capito.

È finita.


Io che viaggio nel tempo?

Gesù, dovrei stare Ai confini della realtà, non in questo hotel. Sono un idiota. Questo hotel non è un’isola del passato. È una costruzione che invecchia sulla spiaggia. Ed Elise McKenna?

Un’attrice morta diciotto anni fa. Senza drammi. Di vecchiaia.

Niente di drammatico, di sensazionale, le è accaduto settantacinque anni fa. La sua personalità è semplicemente cambiata, tutto qui.

Forse è andata a letto con Robinson. O con un inserviente dell’hotel. O con…

Oh, zitto!


Lascia perdere, Collier. Fregatene, sbattitene, ignora, azzera. Solo un cretino continuerebbe su questa strada.


Le undici e trentuno di sera. Dopo la fine dello show di Carol Burnett, sono sceso all’edicola-tabaccheria. Ho comperato il “San Diego Union” e il “Los Angeles Times”. Seduto nella hall, li ho letti tutti e due da cima a fondo, testardamente, come un alcolizzato a secco che debba rifare il pieno. Ho reimmesso nel mio sistema il veleno del 1971. Per la voglia rabbiosa di mettere a tacere tutto ciò che ho provato prima.

Ho lasciato i giornali sul divano della hall. Sono andato nel salone vittoriano. Ho bevuto un Bloody Mary. Ho firmato il conto del bar. Mi sono alzato e sono sceso alla galleria. Sono entrato nella sala giochi e ho fatto una partita di baseball, una partita di quiz col computer, una partita di golf, una partita al flipper. La sala era deserta, le macchine emettevano un enorme frastuono, e io avrei voluto fracassarle tutte, dalla prima all’ultima, con un martello.

Sono tornato su. Gente in abito da sera. Grande evento nella sala da ballo: un convegno sul problema degli incidenti stradali. Avrei voluto fermare tutti. Raccontare come ci si sente quando il proprio spirito ha una collisione frontale con la realtà.

Un altro Bloody Mary nel salone vittoriano. La coppia del séparé accanto litigava. Li ho invidiati; erano vivi. Io me ne stavo lì svuotato, eviscerato, sventrato, e squartato. Ho bevuto un terzo Bloody Mary. Ho firmato il conto: stanza 527, Richard Collier. Sono salito con l’intenzione di buttarmi giù dalla finestra. Non ne ho avuto il fegato. Mi sono messo a guardare la tivù.


Non mi sono mai sentito così vuoto in vita mia. Così totalmente privo di scopo. Con uno stato d’animo del genere, si muore. La voglia di vivere è tutto. Quando scompare quella, scompare anche il corpo.

Sono sospeso sul nulla. Come il personaggio di un cartone animato che da un dirupo balza nel vuoto ma continua a correre per un po’ in aria, prima di accorgersene.

Io me ne sono accorto.

Adesso comincio a cadere.

18 novembre 1971

Le dieci e dodici del mattino. Queste sono le ultime parole che scriverò all’hotel. Fra poco parto per Denver. Non ho voglia di scrivere. Però non c’è motivo di rinunciare al mio libro solo perché ho rinunciato a un’illusione idiota.

Sono seduto allo scrittoio. Bevo succo d’arancia, caffè, e mangio una tartina alla marmellata di mirtilli: la mia ultima colazione all’europea prima di partire.

La natura, accidenti a lei, è riuscita a riflettere il mio stato d’animo. Per la prima volta da che sono arrivato qui, non c’è sole; c’è grigio, freddo, e vento. Sopra l’oceano verdastro, agitato, un cumulo di nubi nere. Adesso vedo che probabilmente a Point Loma c’è un faro. C’è una luce che lampeggia in continuazione: il raggio del faro, immagino.

Vedo un uomo che fa jogging in riva all’acqua. Un elicottero militare, scuro, ha appena sorvolato la linea costiera come un’enorme pulce d’acqua. Il parcheggio sotto è invaso da foglie morte, gialle. Il vento ne spazza via alcune con tanta forza da farle sembrare topolini chiari che corrono sull’asfalto. Un uomo calvo, in tuta verde, si aggira nel parcheggio su una bicicletta rossa. In alto c’è un gabbiano; svanisce inseguendo le correnti d’aria.

Adesso preparo le valigie; forse farò un’ultima passeggiata. Non posso restare qui più a lungo.


Adesso l’oceano non ha alcun colore. Linee grigie che si muovono verso il marrone cupo della spiaggia.

Fa freddo. Il vento mi entra nelle ossa. Ma perché sono uscito?


Sto entrando nel salone della Storia per l’ultima volta. Cammino sulle mattonelle bianche e nere. Supero la fotografia, incorniciata in oro, dell’hotel com’era un tempo. Davanti all’ingresso c’è un carro con quattro cavalli. C’è un uomo appoggiato alla bicicletta.

La camera da letto. La supero. Un piatto dipinto a mano nella vetrina: bianco, con decorazioni verde e oro, e due angioletti azzurri.

Una fotografia, scattata nel 1914, del bus che andava a prendere i clienti al treno e li portava all’hotel.

Il programma di Il piccolo ministro. La foto di Elise.

La sto guardando attraverso un velo di nebbia.

Un ferro da stiro e un altro piatto su cui è dipinto l’hotel. Il telefono e il registro dell’hotel e il portatovagliolo e il menù e qualcosa che sembra una stampatrice. Supero tutto, percorro il corridoio in direzione della scala che porta al patio. Mi lascerò tutto alle spalle per…

Aspetta un secondo!


La gente mi ha fissato mentre correvo nel patio. Non me ne importava. Niente importava, a parte quello che stavo facendo. Non ho nemmeno tenuto aperta la porta dell’ingresso per una vecchia signora che mi seguiva. Ho spalancato la porta e mi sono precipitato dentro. Avrei voluto correre anche nell’atrio, ma mi sono controllato. Col cuore che mi pulsava in gola, ho attraversato l’atrio a lunghi passi e ho raggiunto il bureau.

— Sì, signore? Posso fare qualcosa per lei? — ha chiesto l’uomo.

Io ho cercato di sembrare indifferente, o per lo meno normale. Essere indifferente era al di là delle mie possibilità. — Mi chiedevo se potrei parlare col direttore — ho risposto.

— Mi spiace, al momento è in Florida.

Ho fissato l’uomo. Mi aspettava un’altra sconfitta?

— Forse può parlare col signor Lyons — ha suggerito l’uomo. — Fa lui le veci del direttore.

Io ho annuito. — Grazie.

Lui mi ha indicato una rientranza nella parete alla mia sinistra. L’ho ringraziato, mi sono spostato in fretta, ho visto una porta, e ho bussato. Non ha risposto nessuno, così sono entrato.

L’ufficio era deserto, ma alla mia destra c’era un altro ufficio con diverse persone che lavoravano. Una di loro, una segretaria, mi ha raggiunto. Le ho chiesto dove fosse il signor Lyons e lei mi ha risposto che era appena uscito, ma poteva tornare da un momento all’altro. Mi ha chiesto se poteva essermi utile.

— Sì — le ho detto. — Io scrivo per la televisione, e mi hanno incaricato di preparare uno special sulla storia dell’hotel.

Le ho detto che ero stato nel salone della Storia, nella biblioteca locale e nella principale biblioteca di San Diego, ma non ero riuscito a rintracciare materiale a sufficienza e mi trovavo a un punto morto e mi occorreva assistenza.

— Pensavo che forse potreste avere un po’ di materiale sul passato dell’hotel nei vostri archivi — ho detto.

Lei ha risposto che pensava di sì, ma non ne era certa. Però il signor Lyons poteva senz’altro aiutarmi, perché aveva cominciato a lavorare nell’hotel a quattordici anni, come ragazzo dell’ascensore.

Io ho annuito, sorriso, l’ho ringraziata, e ho lasciato l’ufficio. Come potevo aspettare il ritorno del signor Lyons, quando il bisogno di trovare ciò che volevo era una fame insaziabile? Ho attraversato l’atrio, mi sono seduto in poltrona, e ho fissato la porta dell’ufficio, in attesa del signor Lyons. Incitandolo mentalmente a tornare. — E dai, e dai — ho continuato a mormorare.

Alla fine non ho più resistito. Mi sono alzato e mi sono diretto all’ufficio. Contemporaneamente ne è uscita la segretaria. Quando mi ha visto, ha cambiato direzione, è venuta verso me. Mi è parso che ci raggiungessimo con una lentezza da sogno.

Poi, finalmente di fronte a me, la segretaria mi ha detto che forse mi conveniva parlare con Marcie Buckley, che lavora nell’ufficio di Lawrence (a quanto ho capito, Lawrence è il proprietario dell’hotel) e che ha scritto un opuscolo sulla storia dell’hotel, La gemma più fulgida della città della Corona.

Mi ha indicato la strada. L’ho ringraziata con un sorriso (penso di avere sorriso), ho attraversato la sala del Lungomare, ho salito una breve rampa di scale e aperto una porta a vetri. Nell’ufficio c’erano un vecchio e due giovani donne. Una sedeva a una scrivania appena dietro la porta.

— Vorrei parlare con Marcie Buckley — ho detto.

La donna, giovane, attraente, mi ha guardato. — Sono io Marcie Buckley — ha risposto.

Con un altro sorriso, ho ripetuto la mia bugia. Uno special televisivo, ricerche a un punto morto, necessità di ulteriori informazioni. Lei poteva aiutarmi?

È stata più carina di quanto mi aspettassi; di certo, più carina di quanto meritassi. Mi ha indicato una scrivania sul fondo dell’ufficio. Era coperta di libri e carte; documenti sull’hotel raccolti da lei. Avevo voglia di consultarli? mi ha chiesto. Potevo servirmene a piacere, a patto di lasciarli nello stesso ordine in cui li avevo trovati. Marcie Buckley stava lavorando a una lunga storia dell’hotel e si serviva di quel materiale per le sue ricerche.

L’ho ringraziata e mi sono seduto alla scrivania. Ho dato un’occhiata sommaria e ho visto, con una punta di dolore così forte da colpirmi a livello fisico, che quello che mi interessava non c’era.

Però non potevo andarmene così. Se ciò che cercavo esisteva da qualche parte, avrei dovuto chiedere l’aiuto della donna per trovarlo, e se mi fossi alzato e avessi detto che quel materiale raccolto con tanta cura da lei non mi serviva a niente, probabilmente lei si sarebbe offesa. Avrebbe avuto tutto il diritto di offendersi.

Così sono rimasto alla scrivania, distrutto, a guardare album con ritagli di giornale che parlavano di tornei di tennis e balli in costume e gare di torte; fotografie dell’hotel in varie stagioni della sua storia; libri con le copie carbone delle lettere scritte da svariati direttori dell’hotel. “Il medico che abbiamo assunto ha lavorato per molti anni a New York come specialista in ostetricia… Gli affari procedono splendidamente e prevediamo una stagione intensa… Sono lieto di comunicarle le tariffe invernali… Abbiamo ricevuto la sua comunicazione datata 14, ma per il momento non ci occorrono forniture di carne di maiale…” Ho finto di prendere nota delle informazioni.

Alla fine, quando mi è parso che fosse trascorso un intervallo decente, mi sono alzato e sono tornato alla scrivania di Marcie Buckley. Tutto bene, le ho detto; tutto molto utile. Però mi chiedevo se non ci fosse di più; magari un magazzino che funge da archivio del materiale?

Il mio cuore ha esultato quando lei mi ha risposto che quello che cercavo esiste. Ho pianto quando lei ha aggiunto che avrebbe cercato di mostrarmelo più tardi; al momento era troppo impegnata. Non ho osato mormorare niente di più di un grazie. Avrei voluto trascinarla via dalla scrivania e costringerla a portarmi all’archivio in quello stesso istante. Ovviamente, non potevo. Ho sorriso e annuito e le ho chiesto quando pensava di poterlo fare.

Lei ha guardato l’orologio e ha detto che avrebbe tentato di liberarsi verso mezzogiorno meno un quarto. L’ho ringraziata di nuovo e sono uscito. Ho guardato l’orologio. Erano appena passate le undici. Quei quaranta minuti mi sono parsi più lunghi di quei settantacinque anni.

Sono tornato alla poltrona nell’atrio e mi sono rimesso a sedere, intorpidito. Mi sentivo privo del minimo rapporto con tutta la gente che si muoveva attorno a me. È questo che prova un fantasma? mi sono chiesto. Ho cercato di non guardare l’orologio. Ho tentato di immergermi in un sogno a occhi aperti, di staccarmi dal tempo 1. “E se stessi facendo tutto questo per niente?” continuavo a domandarmi. Mi sembrava che non sarei riuscito a sopravvivere.

A mezzogiorno meno un quarto sono rientrato nell’ufficio di Lawrence. Lei stava ancora lavorando. Non ho potuto insistere. Che diritto avevo di assillarla, anche se la mia mente urlava per il bisogno di agire?

A mezzogiorno e tre minuti. Marcie Buckley si è alzata e abbiamo lasciato l’ufficio.

Non so cosa ho detto; non ricordo le parole. Lei ha continuato a farmi domande sullo special. Le mie bugie sono state atrocemente trasparenti. Ho pregato che lei non sapesse niente del mondo della televisione; se sapeva qualcosa, avrebbe capito che raccontavo frottole. Le ho detto che mi aveva assunto la ABC ma le ho dato il nome di un produttore che lavora a Ironside per la NBC. Le ho dato il nome del mio agente come regista. Ho mentito dall’inizio alla fine, e male. Le mie scuse, signorina Buckley.

Poi, in qualche modo, sono riuscito a spostare su lei il centro del discorso, così ho potuto ascoltare, invece di mentire.

Mi ha detto che assumersi l’incarico di storico dell’hotel era una sua iniziativa; che non ne è mai esistito uno, che gli archivi dell’hotel sono in condizioni terribili, e che lei stava cercando di rimediare al problema. So che mi ha fatto un’ottima impressione. Ama l’hotel e vuole salvarne la storia; vuole contribuire a renderlo un monumento nazionale, non solo locale, come in effetti è.

Parlando, mi ha guidato nel seminterrato, fra quelle che sembravano catacombe sterminate, sino a un ufficio dove si è fatta consegnare delle chiavi da un uomo.

A quel punto, mi pareva che la mia testa appartenesse a qualcun altro. Sentivo i miei passi rimbombare sul pavimento di cemento, ma avevo l’impressione che fosse un altro a portare le mie scarpe. In quel periodo, credo di essere stato più vicino che mai alla follia. Non so perché lei non se ne sia accorta. Forse lo ha notato, ma è troppo cortese e non ne ha parlato.

All’inizio siamo finiti nel posto sbagliato. Ci siamo aggirati fra una serie di stanze che un tempo erano cisterne; nelle pareti erano state create aperture, per collegare fra loro i locali. — Volevano usarle per raccogliere l’acqua piovana. — Sono certo che lo abbia detto; la frase mi è rimasta impressa.

Poi abbiamo ripreso a camminare spediti, e lei mi ha raccontato dell’hotel. Ciò che ha detto è vago e frammentario nella mia memoria. Mi pare che abbia parlato della solidità strutturale delle travi portanti. Di un tunnel da qualche parte. Del fatto che ogni stanza dell’hotel ha un arredo diverso da tutte le altre; ma devo avere capito male. Di una stanza circolare in una torre dove una vecchia signora vive da sempre.

Alla fine, dopo sterminati corridoi nelle cantine, risalita una scala, attraversata la rumorosa cucina, le sale per i banchetti; dopo essere usciti, avere fatto il giro dell’hotel e avere superato un’altra porta, ci siamo trovati nel corridoio che sfocia nella saletta Principe di Galles, e lei si è fermata davanti a una porta color marrone, l’ha aperta.

Siamo entrati. La stanza era calda. C’erano sedie ammucchiate. Abbiamo dovuto spostarle per raggiungere un’altra porta. — Quest’altra stanza è caldissima — ha detto lei, aprendo la porta, accendendo una lampadina polverosa che pendeva dal soffitto. La stanza era circa tre metri per due, con un soffitto molto basso, pochi centimetri sopra la mia testa, attraversato da una ragnatela di tubi. La signorina Buckley aveva ragione sul caldo. Era incredibile; come entrare in un forno. — Quelli devono essere tubi del riscaldamento — ha detto. — È un posto osceno per conservare documenti importanti.

Mi sono guardato attorno. Le pareti erano in cemento, col bianco di calce ormai sbiadito. Da per tutto, scaffali colmi di libri; una pigna di libri su un tavolo. Libri immensi, alcuni con una base di cinquanta centimetri e quasi trenta d’altezza, spessi parecchi centimetri. Tutto era coperto da uno strato di polvere grigia come non ne ho mai visti in vita mia: la polvere di un solaio o una cantina lasciati indisturbati per generazioni.

— Sta cercando qualcosa in particolare? — ha chiesto lei.

— Non esattamente. — Un’altra bugia. — Solo il colore locale… Informazioni generali.

Lei si è fermata nella stanza accanto, e mi guardava. Io ho passato il pollice sui dorsi logori, in pelle rossa, dei libri. Il pollice è diventato grigio. Ho sollevato un pesante volume e una nube di polvere si è alzata in aria. Ho tossito, ho messo giù il libro. Il sudore mi scendeva già giù per il collo. Mi sono dato una pulita alle mani e ho tolto la giacca.

Lei pareva esitante, ma alla fine ha detto: — Io vado a mangiare qualcosa. Vuole restare qui intanto che pranzo?

— Se per lei va bene — ho risposto.

— Be’… — Ho capito che era preoccupata per i suoi documenti. — Mi raccomando, stia attento.

— Non abbia paura. — Ho imbastito un sorriso. — E le sono grato dell’aiuto, signorina Buckley. È stata molto gentile.

Lei ha annuito. — Non c’è problema.

Mi sono trovato solo, e l’ansia che avevo cercato di nascondere è saltata fuori di prepotenza. Ho cominciato a muovermi, respirando con la bocca. Dietro il tavolo c’erano scatole coperte. Mi sono accoccolato per togliere uno dei polverosi coperchi e ho visto dentro mucchi di conti e ricevute ingiallite, pesanti libri mastri. Ho messo giù il coperchio e mi sono rialzato; al movimento, la stanza è diventata scura ai miei occhi. Barcollando, mi sono aggrappato al tavolo, ho scosso la testa. Dopo essermi ripreso, ho estratto il fazzoletto e me lo sono passato sulla faccia.

Mi sono spostato da scaffale a scaffale, passando le dita sugli spessi dorsi dei libri. Tutto ciò che toccavo o in cui inciampavo faceva alzare una polvere grigia nell’aria. Ho continuato a schiarirmi la gola e a tossire. Ho sentito orribili tentacoli di dolore alla testa. Dovevo finire presto, o non ce l’avrei mai fatta.

Ho trovato un dorso datato 1896, incastrato tra due pesanti libri contabili, e l’ho tirato giù, boccheggiando alla polvere che si è coagulata attorno alla mia testa. Era una raccolta di copie carbone di lettere. L’ho sfogliata in fretta; forse poteva esserci qualcosa.

Molte pagine erano vuote, completamente sbiadite. Il mio cuore ha dato un tuffo quando ho visto una lettera datata 6 ottobre che iniziava con “Mia cara signorina McKenna.” Gocce di sudore mi sono scese negli occhi, facendoli bruciare. Li ho sfregati. Ho raccolto gocce di sudore dalle sopracciglia e le ho scrollate a terra. “È un grande piacere rispondere alla sua missiva del 30 settembre. Attendiamo con ansia il suo arrivo e la rappresentazione di Il piccolo ministro all’hotel.”

La lettera proseguiva dicendo che il direttore era spiacente di non aver potuto ospitare lo spettacolo nella stagione estiva, quando c’erano più ospiti all’hotel; ma “senza alcun dubbio preferiamo ospitarlo adesso piuttosto che rinunciarvi.”

Ho scrollato la testa. Mi sentivo quasi svenire. Mi sono asciugato di nuovo viso e collo. Il fazzoletto era praticamente fradicio. Il sudore mi colava giù per la schiena e sul petto. Ho dovuto trasferirmi nella stanza attigua per qualche attimo. Per quanto anche lì facesse caldo, il contrasto mi ha dato la sensazione di riemergere nell’aria fresca. Mi sono appoggiato alla parete di cemento, boccheggiante. Riuscivo a pensare una sola cosa: “Se lì non c’è… Se lì non c’è…”

Sono tornato nell’altro locale, ho cominciato a passare mani veloci, impazienti, sui dorsi dei volumi. “Avanti” borbottavo. Ho continuato a ripeterlo e ripeterlo come un bambino disperatamente testardo che non si permette di capire che ciò che vuole è irraggiungibile. “Avanti, avanti.” Grazie a Dio, Marcie Buckley non è tornata in quel momento. Se fosse riapparsa, si sarebbe sentita costretta a chiamare un medico, ne sono certo. Non ero più, per usare una pietosa frase di circostanza, nel “pieno controllo delle mie facoltà mentali”. Una sola, esile ancora mi impediva di scivolare del tutto nella pazzia: la cosa che cercavo.

Ho dovuto concentrarmi su quella perché, ormai, ero furibondo con l’hotel, furibondo con tutti i suoi dirigenti del passato che avevano permesso a quei documenti di finire in uno stato simile. Se solo avessero provveduto ad archiviare il materiale nella maniera giusta, avrei ottenuto la mia risposta in pochi secondi. Invece, i minuti si trascinavano insopportabili mentre io proseguivo l’inutile ricerca dell’unica prova concreta che mi avrebbe permesso di sopravvivere. Mi sentivo come Jack Lemmon nella scena di I giorni del vino e delle rose in cui diventa una furia nella serra, in cerca di una bottiglia di whisky. Non saprò mai cosa mi abbia impedito di diventare una furia; il mio obiettivo, immagino. Senza quello, mi sarei messo a ululare e rantolare e scaraventare libri e carte in giro e piangere e bestemmiare e mi sarei trasformato in un povero demente.

A quel punto, non asciugavo nemmeno più il sudore. Che senso aveva? Il mio fazzoletto era fradicio; la biancheria intima mi si era incollata addosso come se mi fossi tuffato vestito in piscina. La mia faccia doveva essere di un rosso scarlatto. Avevo perso ogni cognizione del tempo e del luogo. Come un sonnambulo, cercavo e cercavo, sapendo che la mia ricerca era inutile, ma talmente preso della mia follia da non potermi fermare.

Per poco non mi è sfuggito. La mia vista non era quasi più a fuoco. Continuavo a prendere libri e metterli da parte. Ho messo da parte anche quello giusto. Poi qualcosa, Dio sa cosa, è penetrato nelle nebbie del mio cervello e, con un gemito ansante, sono tornato al volume, lo ho ripreso in mano. L’ho aperto, ho sfogliato le pagine con mano tremante, finché non ho rintracciato quella su cui era scritto, a enormi lettere rosse, GIOVEDÌ 19 NOVEMBRE 1896/HOTEL DEL CORONADO/DIRETTORE E. S. BABCOCK/CORONADO, CALIFORNIA.

Probabilmente, ero così disidratato e stordito che non sono riuscito, per quelli che mi sono parsi istanti eterni, a capire che la stessa data cade in un diverso giorno della settimana a seconda degli anni, con coincidenze periodiche. Ho fissato la pagina con stupefatta incredulità; poi, di colpo, rabbiosamente, me ne sono reso conto.

I miei occhi sono corsi alle colonne con le intestazioni “Nome, Residenza, Stanza, Ora;” le ho scorse in fretta. Non riuscivo più a leggere. Era tutto confuso. Mi sono passato sugli occhi una mano tremante. “E.C. Penn. Conrad Scherer e moglie” (ricordo di avere pensato che era una formula piuttosto strana). “K.B. Alexander, C.T. Laminy.” Ho fissato in assoluta confusione la sigla ID ripetuta varie volte nelle colonne. Solo adesso capisco che significava “Idem” e che all’epoca veniva usata al posto delle virgolette di cui ci serviamo oggi.

Ho letto tutta la pagina, fino in fondo, ma quello che cercavo non c’era. Devo avere emesso un gemito di dolore. Ho fissato l’inchiostro sbiadito del registro. L’odore della carta ammuffita e della polvere mi riempiva narici e polmoni. Esausto, ho voltato pagina e sono arrivato al 20 novembre 1896, venerdì.

E mi sono messo a piangere. Non piangevo più così da quando avevo dodici anni; non di tristezza, ma di gioia. Improvvisamente privo di forze, sono crollato a gambe incrociate sul pavimento, col pesante registro dell’hotel in grembo, con le lacrime che mi scendevano giù per le guance, mescolate ai rivoletti di sudore. I miei gemiti singhiozzanti erano l’unico suono nella stanza torrida come una fornace.

Era il terzo nome della lista.

“R.C. Collier, Los Angeles. Stanza 350. 9,18 a.m.”


L’una e ventisette del pomeriggio. Sdraiato a letto, invaso da un delizioso senso di attesa. Ho fatto la doccia, ho lavato via polvere e sporcizia e sudore; ho gettato i vestiti nel sacco della lavanderia. Per fortuna sono riuscito a chiudere a chiave la stanza usata come archivio e ad andarmene prima che Marcie Buckley tornasse. Ho telefonato al suo ufficio un po’ di tempo fa per ringraziarla di nuovo.

La tentazione (visto che mi sento così bene, così sicuro) è fare nulla. Restare qui e aspettare che accada l’inevitabile.

Eppure, nonostante tutte le rassicurazioni, intuisco che non c’è niente di inevitabile. Devo ancora fare in modo che accada. Sono assolutamente convinto che sia già stato fatto, ma dopo avere letto il libro di Priestley, sono anche convinto che esistano possibilità multiple non solo per il futuro ma anche per il passato.

Potrei ancora fallire.

Quindi, il mio lavoro non è finito. Anche se credo, al di là di ogni dubbio, che domani sera la vedrò interpretare Il piccolo ministro, credo anche di dovere fare notevoli sforzi per renderlo possibile.

Fra un po’ mi metterò all’opera. Per adesso, voglio crogiolarmi. Nel seminterrato, l’esperienza è stata orribile, finché non ho scoperto il registro dell’hotel col mio nome. Ho bisogno di riprendere le forze, prima di cominciare.

Chissà perché ho scritto “R.C. Collier.” Non ho mai scritto il mio nome in quel modo.

Mi sono anche chiesto se non sia il caso di trasferirmi alla stanza 350, ma ho deciso di no. Non so esattamente perché, ma non mi è parso giusto. E siccome devo affidarmi soprattutto alle sensazioni, sarà meglio che le segua.


È il 19 novembre 1896. Sei sdraiato a occhi chiusi sul tuo letto, rilassato, ed è il 19 novembre 1896. Nessuna tensione. Nessuno stress. Se senti suoni all’esterno, saranno le ruote di un carro, gli zoccoli di un cavallo. Niente di più; non sentirai nient’altro. Sei in pace, completamente in pace. È il 19 novembre 1896. 19 novembre 1896. Sei coricato su un letto dell’hotel del Coronado ed è il 19 novembre 1896. In questo momento, Elise McKenna e la sua compagnia si trovano nell’hotel. Si sta allestendo il palco per la rappresentazione di domani sera di Il piccolo ministro. È giovedì pomeriggio. Sei sdraiato sul letto nella tua stanza all’hotel del Coronado ed è giovedì pomeriggio, 19 novembre 1896. La tua mente accetta questo in maniera assoluta. Non ci sono dubbi, nella tua mente. È il 19 novembre 1896, giovedì, 19 novembre 1896. Tu sei Richard Collier. Trentasei anni. Sdraiato sul letto del tuo hotel, a occhi chiusi, il giovedì pomeriggio del 19 novembre 1896. 1896. 1896. Stanza 527. Hotel del Coronado. Giovedì pomeriggio, 19 novembre 1896. In questo stesso momento, Elise McKenna si trova nell’hotel. In questo stesso momento, sua madre si trova nell’hotel. Il suo impresario, William Fawcett Robinson, si trova nell’hotel in questo stesso momento. Adesso. In questo stesso momento. Qui, Elise McKenna. Tu. Elise McKenna e te. Tutti e due all’hotel del Coronado, in questo pomeriggio di giovedì 19 novembre 1896.


(Questa litania auto-ipnotica di mio fratello continua per l’equivalente di altre ventuno pagine.)


Adesso ho quarantacinque minuti registrati su cassetta. Mi rimetterò a letto, chiuderò gli occhi, e ascolterò.


Le due e quarantasei del pomeriggio. Mi sento più fiducioso che mai. È una strana sensazione che va al di là della logica, ma sono convinto che questa transizione si verificherà. La convinzione forma una corrente sotterranea di eccitazione, dietro la calma mentale che anche provo; la tranquillità di una sicurezza assoluta.

Sdraiato a letto per quei quarantacinque minuti, non so se mi sono addormentato o sono entrato in stato ipnotico o cosa. So solo che ho creduto a ciò che ascoltavo. Dopo un po’, era come se mi parlasse una voce diversa dalla mia. Una personalità disincarnata che mi dava istruzioni da una zona senza spazio, senza tempo. Ho creduto a quella voce senza riserve.

Com’è la frase che ho letto tanti anni fa? Ne sono rimasto talmente colpito che, a un certo punto, ho pensato di farla incidere su un pezzo di legno da appendere alla parete del mio ufficio.

Sì, ricordo. “Ciò in cui credi diventa il tuo mondo.”

Coricato sul letto, ho creduto che la voce che udivo mi dicesse la verità e che io fossi sdraiato su questo letto, a occhi chiusi, non nel 1971 ma nel 1896.

Lo farò e lo rifarò finché quella convinzione non mi avrà penetrato in maniera talmente completa da trasportarmi letteralmente là, e allora mi alzerò e uscirò dalla stanza e andrò da Elise.


Tre e trentanove del pomeriggio. Fine di un’altra sessione. Risultati simili. Convinzione; pace; sicurezza. A un certo punto, ho addirittura provato la voglia di aprire gli occhi e guardarmi attorno per controllare se fossi ancora nella mia stanza.

Mi è appena venuta un’idea bizzarra.

E se, quando riaprirò gli occhi nel 1896, mi capitasse di vedere qualcun altro nella stanza con me, qualcuno che mi fissa stupefatto? Riuscirei ad affrontare la situazione? E se per caso (mio Dio!) una coppia sposata avesse appena cominciato a concedersi un “rapporto coniugale” e io apparissi all’improvviso nel letto con loro, probabilmente sopra o sotto uno dei due? Grottesco. Ma come posso evitarlo? Devo stare coricato sul letto. Forse potrei sdraiarmici sotto, come misura precauzionale, ma la scomodità inibirebbe la mia concentrazione mentale.

Dovrò correre il rischio, tutto qui. Non vedo alternative. La mia speranza, tenendo presente la lettera di Babcock a Elise, è che con la scarsità di clienti della stagione invernale, questa stanza non sia occupata.

In ogni caso, è un rischio che devo accettare. Di certo non permetterò a questo problema di mandare a monte il mio progetto.

Un breve periodo di riposo, poi una nuova immersione.


Quattro e trentasette del pomeriggio. Un problema; anzi, due: uno irrimediabile, l’altro con una speranza di soluzione.

Primo problema: il suono della mia voce, nel corso di questa terza sessione, ha cominciato a perdere il suo carattere astratto, è diventato più riconoscibile. Come mai? Dovrebbe farsi sempre più irriconoscibile ogni volta che lo ascolto, no?

Ma forse no. Forse la cosa è collegata al secondo problema, che è questo: anche se mentre ascoltavo la mia convinzione interiore è rimasta, ha però cominciato a svanire gradualmente perché non facevo altro che sentire e risentire le stesse parole, il che ha un notevole valore ipnotico, però non serve alla parte della mia mente che ha ancora come sovrana assoluta la logica. Alla fine, quell’area della mia mente si è decisa a formulare in maniera esplicita la domanda: è tutto qui quello che sai di quel giorno del novembre 1896?


Ci sono! Scenderò sotto e comprerò una copia del libro di Marcie Buckley in tabaccheria, lo leggerò in fretta, mi concentrerò sui dati di fatto che riguardano il 1896, poi registrerò un nuovo nastro di istruzioni da quarantacinque minuti, con prove più convincenti del fatto che io mi trovo qui il 19 novembre 1896; arricchirò la scena di maggiori particolari, per così dire.

Elise approverebbe.


Più tardi. Libro interessante. Be’, non esattamente un libro; Marcie sta lavorando alla versione lunga. Questo è più che altro un grosso opuscolo. Sessantaquattro pagine con disegni, capitoli sulla costruzione dell’hotel, una parte della sua storia e della storia di Coronado, fotografie dell’aspetto attuale e qualche immagine del passato, fotografie di celebrità che sono state ospiti dell’hotel (il principe di Galles, nientemeno), più commenti e schizzi dedicati al futuro che si prevede per l’hotel.

Ho raccolto elementi a sufficienza per arricchire le mie prossime istruzioni, che inizierò a registrare fra pochi minuti.


È giovedì 19 novembre 1896. Sei sdraiato sul tuo letto nella stanza 527, a occhi chiusi. Il sole è tramontato e adesso è buio. Sta scendendo la sera su questo giovedì all’hotel del Coronado, il giovedì 19 novembre 1896. Adesso nell’hotel stanno accendendo le luci. Gli impianti di illuminazione funzionano sia a elettricità che a gas, ma il gas non viene usato.

Proprio oggi, stanno installando un impianto di riscaldamento che sarà completato entro l’anno prossimo. Al momento, ogni stanza è riscaldata da un caminetto. Questa stanza, la 527, è riscaldata da un caminetto. In questo preciso momento, nel buio di questo giovedì 19 novembre 1896, di fronte a te c’è un camino col fuoco che arde. Le fiamme crepitano piano, trasmettono ondate di calore alla stanza, la illuminano della luce del fuoco.

Nelle loro stanze, altri ospiti si stanno vestendo per la cena nella sala della Corona. Elise McKenna si trova all’hotel in questo preciso momento; forse è in teatro, a controllare qualche particolare per la rappresentazione di Il piccolo ministro, prevista per domani sera; forse si sta cambiando d’abito nella sua stanza. Nell’hotel c’è sua madre. C’è anche il suo manager, William Fawcett Robinson. E c’è anche la sua compagnia. Tutte le loro stanze sono riscaldate da caminetti; come la mia, la stanza 527, in questa fine pomeriggio di giovedì 19 novembre 1896. Nella mia stanza c’è anche una cassaforte a parete.

Sei sdraiato tranquillo, in pace, a occhi chiusi, in questa stanza, il 19 novembre 1896. È il pomeriggio del 19 novembre 1896, giovedì. Presto ti alzerai e uscirai dalla stanza e incontrerai Elise McKenna. Presto aprirai gli occhi, in questo pomeriggio ormai buio del novembre 1896, e percorrerai il corridoio e scenderai a pianterreno e troverai Elise McKenna. Lei si trova nell’hotel. In questo stesso momento. Perché è il 19 novembre 1896. Il 19 novembre 1896. Il 19 novembre 1896.

(E così via, per altre venti pagine.)


Sei e quarantasette del pomeriggio. Mi sono fatto portare la cena in camera. Una zuppa, un sandwich. È stato un errore. Ero così preso dalla convinzione di trovarmi nel 1896, nonostante l’aspetto da 1971 della stanza, che l’ingresso del cameriere si è rivelato una stridente intrusione.

Non ci cadrò più. È stato un passo falso, ma non irrimediabile. Comprerò crackers, formaggio, eccetera, a pianterreno, e da adesso in poi mangerò in camera. Mi nutrirò di quello che basta a tenermi in piedi e continuerò col mio piano.

Un altro problema. A dire il vero, lo stesso di prima.

Il suono della mia voce.

Sta diventando una distrazione sempre maggiore. Per quanto la mia mente veleggi lontano, dentro di me so, in un nucleo di consapevolezza profonda refrattario a qualunque inganno, che quella che mi parla è la mìa voce. Non riesco a immaginare che altro potrei fare, ma è inquietante.

In qualche modo affronterò il problema, se dovesse sfuggirmi di mano. Forse non accadrà.


Penso sempre di più al fatto che, tornando indietro nel tempo, diventerò la causa della tragedia che segna questo volto: ho la sua fotografia di fronte a me, sullo scrittoio.

Ho il diritto di farle questo?

So di averlo già fatto. Però, in maniera sempre più spiccata, intuisco la presenza di una variabile nel passato come nel futuro. Non so perché abbia questa sensazione, ma è così. La sensazione di poter scegliere di non tornare, se lo volessi. Una sensazione molto intensa.

Ma perché dovrei non tornare indietro? Anche se sapessi (e non lo so) di poter avere solo pochi “momenti” con lei. Non tornare indietro, dopo tutto questo? Impensabile.

E sono assillato anche da altri pensieri. Pensieri sulle scelte che potrebbero rendere la situazione enormemente più complessa di quanto già non sia.

Cosa diceva Priestley? Devo ricontrollare.


Ecco cosa dice nell’ultimo capitolo, intitolato Un solo uomo e un solo tempo.

Parla dei sogni di una donna russa, la contessa Toutschkoff, nel 1812. La contessa sognò, tre volte in una sola notte, che suo marito, generale dell’esercito, sarebbe morto in battaglia in un posto che si chiamava Borodino. Quando si svegliò e ne parlò al marito, non riuscirono nemmeno a trovare il luogo su un atlante.

Tre mesi più tardi, suo marito morì nella battaglia di Borodino.

Priestley parla poi di un altro sogno, fatto da una donna americana nel ventesimo secolo. Questa donna sognò che il figlio annegava in un corso d’acqua. Qualche mese più tardi, si trovò nello stesso identico posto che aveva sognato, col figlio vestito come nel sogno e sul punto di finire vittima delle stesse circostanze che in sogno portavano all’annegamento.

La donna si rese conto del parallelismo della situazione e salvò la vita al figlio, evitando la tragedia.

Priestley suggerisce che è la portata dell’evento a decidere se sia possibile alterarlo in qualche modo. Per portare alla battaglia di Borodino si stava accumulando una tale infinità di singoli dettagli che nulla avrebbe potuto interferire con un evento così complesso.

Invece, la morte per annegamento di un singolo bambino (a meno che, presumo, quel bambino non sia un Cesare o un Hitler) costituisce un evento di natura talmente secondaria che è possibile intervenire per cambiarlo.

Se questo è vero per gli eventi futuri, ritengo che le stesse considerazioni siano valide per gli eventi passati. Io sono stato nel 1896 e ho provocato un cambiamento nella vita di Elise McKenna. Ma questo cambiamento non ha avuto la grande portata storica della battaglia di Borodino. È stato, come la morte di un bambino, un avvenimento insignificante.

Allora, perché non dovrei riuscire a tornare indietro, come già ho fatto, però dandole soltanto gioia, invece di provocarle tristezza? Di certo quella tristezza non è stata scatenata dall’incontro con me, o da qualcosa che io le ho fatto; è sorta perché lei mi ha perso per colpa dello stesso fenomeno temporale che mi ha portato a lei. Lo so che sembra folle, ma io ci credo.

Credo anche che, quando giungerà il momento, sarò in grado di alterare quel particolare fenomeno.


Mi è venuta in mente un’altra soluzione!

Ignorerò la nuova serie di istruzioni. Se il suono della mia voce mi distrae, lo eliminerò. Scriverò istruzioni per il mio subconscio, venticinque, cinquanta, cento volte l’una. Nel farlo, ascolterò in cuffia la Nona di Mahler: sarà la fiamma della mia candela, il mio pendolo che oscilla mentre io scrivo al mio subconscio che oggi è il 19 novembre 1896.


Una correzione. Ascolterò solo il movimento finale della sinfonia.

Il movimento dove, come ha scritto Bruno Walter: “Mahler dà un pacifico addio al mondo”.

Lo userò anch’io per dare l’addio a questo mondo; al 1971.


Io, Richard Collier, mi trovo oggi, 19 novembre 1896, all’hotel del Coronado.

Io, Richard Collier, mi trovo oggi, 19 novembre 1896, all’hotel del Coronado.

Io, Richard Collier, mi trovo oggi, 19 novembre 1896, all’hotel del Coronado.

(Scritto cinquanta volte da Richard.)


Oggi è giovedì 19 novembre 1896.

Oggi è giovedì 19 novembre 1896.

(Scritto cento volte.)


Elise McKenna è nell’hotel in questo momento.

(Cento volte.)


Ogni attimo mi porta più vicino a Elise.

(Cento volte.)


Adesso è il 19 novembre 1896.

(Sessantuno volte.)


Nove e quarantasette di sera. È successo.

Non ricordo esattamente quando. Stavo scrivendo “Adesso è il 19 novembre 1896.” Avevo polso e braccio indolenziti. Mi pareva di essere avvolto da una nebbia. Intendo in senso letterale. Attorno a me si stava raccogliendo una nebbia. Sentivo l’“adagio” nella testa. Lo ascoltavo per l’ennesima volta. Vedevo la matita muoversi sul foglio. Pareva scrivesse da sola. Ogni rapporto fra la matita e me era svanito. Ne fissavo i movimenti, ipnotizzato.

Poi è successo. Un “tremolio.” Non so trovare un termine migliore. Avevo gli occhi aperti, ma dormivo. No, non dormivo. Ero finito da qualche parte. La musica si è interrotta, e per un attimo (un attimo distinto, inconfondibile) sono stato lì.

Nel 1896.

È successo talmente in fretta, che forse non è durato più di un battito di ciglia.

So che sembra folle e poco convincente. Lo sembra persino a me, mentre ascolto la mia voce che lo racconta. Eppure è successo. Ogni fibra del mio corpo sapeva che ero seduto qui, in questo identico posto, non nel 1971, ma nel 1896.

Dio, il suono stesso della mia voce quando dico “1971” mi fa rabbrividire. Ho la sensazione di essere tornato in gabbia. Prima, ero libero. In quell’istante miracoloso, la porta si è aperta e io sono uscito e sono stato libero.

Ho anche la sensazione che la colpa della brevità del fenomeno sia delle cuffie stereo, per quanto io ami la musica. Mi inorridisce pensare che in quel momento avevo le cuffie sulle orecchie, che mi hanno trattenuto.

Adesso che so che funziona, che il mio piano si è semplificato al livello della ripetizione, mi viene in mente un importantissimo particolare pratico.

Gli abiti.

Terribile (e lo dico sul serio) che per tutto questo tempo non mi sia mai venuto in mente che trovarmi nel 1896 con gli abiti che indosso ora potrebbe essere talmente disastroso da far naufragare l’intero progetto.

È chiaro che devo trovare qualcosa da indossare che sia adatto all’epoca.

Ma dove lo trovo? Domani è venerdì. Non so perché mi sono formato la convinzione che debba accadere domani. Però ho questa convinzione, e non intendo combatterla.

Il che, per quanto concerne gli abiti, lascia una sola possibilità.


Sto sfogliando le Pagine Gialle. Cerco una ditta che noleggi costumi. È chiaro che non ho il tempo di farmene preparare uno su misura. Peccato non averlo previsto. Ma come potevo? Solo oggi, nel primo pomeriggio, ho accettato la possibilità di raggiungere Elise. Ieri sera e stamattina parlavo ancora di illusione. Illusione! Dio, è incredibile.

Ne ho trovata una. La San Diego Costume Company, Settima Strada. Ci andrò domattina, come prima cosa.

Inutile continuare stasera. Potrebbe persino essere pericoloso. E se per caso mi ritrovassi nel passato con questa maledetta tuta addosso? Nel 1896, avrei un aspetto molto bizzarro, vestito così.

Domani. Domani è la grande giornata. Ne sono talmente convinto che sarei pronto a scommettere…

Non c’è bisogno di scommettere. Questo non è un gioco d’azzardo.

Domani, sarò con lei.

19 novembre 1971

Le cinque e due del mattino. Mi sto alzando. La tentazione sarebbe quella di non muovermi. Però mi devo muovere, mi devo alzare e…

Brillare di luce mia? Maledettamente improbabile. Però mi alzerò. Anche se dovessi cadere. Mi vestirò e… scenderò giù e andrò sulla spiaggia, all’aria aperta. Farò a pezzi questa emicrania.

Perché oggi è il giorno.

Non puoi vincere, testa. “Oggi è il giorno.”


Le otto e quarantatré del mattino. Sto andando a San Diego. Per l’ultima volta. Continuo a ripeterlo. Be’, questa volta è vero. Non avrò più bisogno di tornarci.

L’emicrania non è esattamente sparita, però non è tanto forte da impedirmi di guidare.

Strano come mi senta distaccato da tutto ciò che vedo intorno. È possibile che una parte di me sia già nel 1896, in attesa che arrivi il resto di me? Come è successo l’altro giorno, quando una parte di me è rimasta all’hotel mentre io andavo a San Diego?

Certo, è possibile. Chi sono io per negare qualcosa, a questo punto?


Nove e ventisette del mattino. Ottima fortuna. Non c’era molto tra cui scegliere, ma un abito della Costume Company sembrava fatto apposta per me. Adesso è sulla sedia al mio fianco, avvolto nella carta velina e chiuso nella scatola. Spero che a Elise piaccia.

È nero. La giacca è quella che chiamano una finanziera. Mostruosamente lunga; mi arriva alle ginocchia, Gesù. Il commesso ha cercato di farmi scegliere una “giacca a coda di rondine”, ma con quel davanti così stretto e quelle due code che scendevano dietro, mi è parsa molto poco pratica.

I calzoni (i pantaloni, signore) sono piuttosto aderenti, con costure guarnite di passamani sui lati. Ho anche una camicia bianca a colletto alto, un panciotto beige a semplice petto coi risvolti, e una cravatta a forma di ottagono tenuta ferma da un nastro che si allaccia dietro il collo. Sembro proprio un figurino. Spero che sia tutto adatto all’epoca. Nello specchio, mi stava bene. Anche gli stivaletti, corti e neri.

Parlare col tizio della ditta dei costumi è stata un’esperienza piuttosto strana. Strana perché mi sentivo solo parzialmente lì. Mi ha chiesto perché volessi il costume. Gli ho detto che domani sera devo andare a un party in costume imperniato sul tema dell’ultimo decennio dell’Ottocento; il che, adesso che ci penso, non è del tutto falso. Gli ho detto che desideravo un aspetto il più autentico possibile.

Per quanto tempo avevo intenzione di noleggiarlo? Mi è venuta la tentazione di rispondergli: per settantacinque anni. Per il weekend, gli ho detto.

Stavo per lasciare San Diego quando mi è venuto in mente che, per quanto ben vestito, nel 1896 non avrei potuto pagarmi nemmeno una tazza di caffè. È incredibile che mi fosse sfuggita la necessità di avere con me un po’ di contanti, in attesa di trovare un impiego. Ma cosa pensavo? Di chiedere soldi a Elise? L’idea mi dà i brividi. Ciao, ti amo, puoi prestarmi venti dollari? Dio onnipotente.

Di nuovo, un colpo di fortuna. Il primo negozio di monete e francobolli in cui sono entrato aveva un’obbligazione pagabile in oro da venti dollari. Mi è costata sessanta dollari, ma mi sono ritenuto fortunatissimo ad averla trovata. L’uomo del negozio mi ha parlato di un’altra obbligazione da venti dollari che non è mai entrata in circolazione, e a me è venuta voglia di comperarla; poi il tizio mi ha detto che mi sarebbe costata sui seicento dollari.

È una banconota molto graziosa, con un ritratto del presidente Garfield sul diritto, sigillo rosso, e le parole VENTI DOLLARI/ IN/ MONETE D’ORO/ PAGABILI AL PORTATORE SU RICHIESTA. Sul rovescio c’è il disegno, color arancione vivo, di un’aquila che stringe delle frecce tra gli artigli.

Ho anche comperato un’obbligazione pagabile in argento da dieci dollari, in condizioni ragionevoli (mi è costata quarantacinque dollari), con un ritratto di Thomas A. Hendricks sul diritto (chissà chi era). Sia questa che l’altra sono notevolmente più grandi delle banconote dei nostri giorni, e ovviamente, per me avranno un valore molto maggiore dei loro equivalenti di oggi. Quindi, in fatto di soldi, dovrei essere in buone condizioni.

“In fatto di soldi.” Bah. Che modo di dire poco vittoriano.

Probabilmente avrei dovuto dedicare più tempo alla ricerca del denaro, soprattutto perché quello che lascerò qui non mi servirà a niente, ma ero ansioso di tornare all’hotel e cominciare. Il tempo corre.

Mentre tornavo, ho avuto una buona idea. Non c’è bisogno di mettere le cuffie stereo. Ascolterò il disco mentre me ne starò seduto sul letto, nel mio abito di fine Ottocento, a scrivere le mie istruzioni e attendere che il viaggio cominci.


Le dieci e due del mattino. Pronto a partire.

Sono talmente ansioso di iniziare che ho parcheggiato l’auto dietro l’hotel, per risparmiare tempo. Adesso ho fatto la doccia e mi sono rasato e pettinato. Immagino che la lunghezza dei miei capelli vada bene; ma se fosse sbagliata non potrei farci niente.

Ho tolto le etichette del negozio a giacca, panciotto, camicia e cravatta. Per due motivi. Uno, non voglio che qualcuno le veda nel 1896; sarebbe impossibile spiegarle. Cosa più importante, non voglio vederle nemmeno io. Una volta là, intendo scacciare dalla mente ogni ricordo del 1971. Ho persino raschiato via la scritta stampata all’interno degli stivali; anche un particolare così minimo potrebbe rovinare tutto. Niente calzini, niente biancheria intima; avrebbero un aspetto troppo moderno.

Allora è tutto pronto. Del presente non resta nulla che possa venire con me; nulla di cui ci si possa accorgere, intendo. Scriverò le istruzioni su fogli che terrò accanto a me sul letto, e non in grembo come prima. Sono certo che così, quando succederà, la matita cadrà sul letto. Non ci saranno cuffie a fermarmi. Sono pronto a un cambiamento istantaneo.

Tranne che nel cervello, è ovvio. A questo dovrò pensare quando arriverò.

Ma certo! Quando sarò arrivato, continuerò a scrivere istruzioni! Per rafforzare la mia posizione nel 1896. Per togliermi a livello mentale dal 1971, finché, lo prevedo chiaramente, non dimenticherò da dove sono arrivato e sarò totalmente, anima e corpo, un figlio del 1896. Mi sbarazzerò di tutto e…

Buon Dio! Avevo quasi dimenticato l’orologio!

Mi sento scosso.

Sarà meglio aspettare che l’impronta del cinturino svanisca dal polso. Metterò l’orologio nel cassetto del comodino, per non vederlo. Ho messo il telefono sotto il letto, la lampada del comodino nell’armadio, ho tolto la coperta; l’unica cosa che vedrò con la coda degli occhi saranno lenzuola bianche.

Per amore di coerenza, nelle mie istruzioni continuerò a fare riferimento al 19 novembre. La logica dell’idea è ancora più soddisfacente perché oggi è davvero il 19 novembre.

Vediamo un po’. Ho trascurato qualcosa? Qualunque cosa?


Non mi pare.

Faccio partire la musica.

Un’ultima occhiata in giro. Sto per lasciare tutto questo.

Oggi.


Le undici e quattordici. Di nuovo!

La stessa cosa, questa volta più lunga. Non solo un breve lampo, un minuscolo istante fra un battito di ciglia e l’altro. È durato di più. Forse solo pochi secondi, forse cinque o sei; però, date le circostanze, per me la cosa è stata significativa come se fosse durata secoli.

Il processo si è messo in movimento.

È successo alla terza ripetizione dell’adagio. Stavo scrivendo l’istruzione “Mi trovo in questa stanza il 19 novembre 1896”. Ero a metà della trentasettesima trascrizione della frase quando si è verificato il cambiamento. La parola “novembre” si interrompe dopo le prime quattro lettere, con un tratto di matita che scende dalla “e” e poi scompare.

Quindi posso calcolare quando è successo. Il movimento della sinfonia era quasi finito quando io sono riemerso qui. Di conseguenza, il fenomeno deve essersi verificato circa un’ora dopo l’inizio della sessione: l’adagio dura ventun minuti.

Molto più in fretta del primo risucchio.

Lo chiamo “risucchio” perché, per ora, mi sembra la descrizione migliore. È come se, in un istante, venissi attirato da un’altra parte. Dapprima c’è la sensazione di andare alla deriva, un’impressione sempre più forte di disorientamento. Sento la musica, ma per me non ha più significato. Fisso la punta della matita che si muove, ma è un fenomeno distaccato dal mio io. Non sono io a scrivere le parole che appaiono sulla carta; si scrivono da sé. Attorno a me comincia a raccogliersi una nebbia, finché la mia area di visibilità si riduce alla punta della matita. La musica assume un suono bizzarro, distorto, come se stessi diventando sordo. Poi si interrompe del tutto. No, sbagliato. Non è che la musica si fermi; è che io, di colpo, non sono più presente. So che la musica continua. È solo che io mi trovo da qualche altra parte, e la musica non giunge alle mie orecchie.

Questa altra parte è il 1896.

Questa volta ho percepito la presenza lì anche del mio corpo. Ho sentito il materasso (o “un” materasso) sotto me. Ho sentito l’abito e mi sono accorto di respirare. Il che significa che, mentre la prima volta si è trattato esclusivamente di un viaggio mentale nel 1896, della consapevolezza momentanea di essere lì, questa volta ci sono stato in carne e ossa. A livello fisico, ero sdraiato in questa stanza nel 1896. Per cinque o sei secondi, sono stato totalmente là, mente e corpo.

Anche la sensazione del ritorno è stata diversa. La prima volta, è stata rapida, quasi violenta. In un certo senso, sono stato strappato via; un’esperienza sgradevole.

Questa volta è stato più come… scivolare? Non esattamente. Qualcosa di simile, però. Un po’ la sensazione fisica di scivolare all’indietro attraverso una membrana. Lasciamo perdere, non riesco a tradurlo in parole. So solo che è successo. Il punto è che la zona di congiunzione, di qualunque cosa si tratti (un passaggio, un’apertura, una membrana), è molto vicina e molto sottile.

E molto raggiungibile. La sento attorno a me anche adesso, qui nel 1971, mentre ne scrivo. La chiamerò “tempo 2”, in mancanza di una descrizione migliore. È lontana da noi, sempre, solo un battito di cuore. No, anche questo è sbagliato. Non è affatto lontana da noi. È con noi. Noi non siamo consapevoli della sua presenza, tutto qui. Applicandosi, però, si può percepire la sua presenza e la si può raggiungere.

Devo ritentare.

Mi sento così vicino. Mi chiedo se non dovrei fare a meno di matita e carta. Le istruzioni, scritte centinaia di volte, sono incise nella mia mente. Perché non dovrei semplicemente coricarmi e ripeterle mentalmente fra me, mentre ascolto la musica?

Già, perché no?


Una e quarantatré del pomeriggio. Devo dettare in fretta, prima di dimenticare i particolari.

Il disco si era fermato quando sono tornato dal risucchio, per cui non so quando sia successo.

Però so che è stato fantastico.

Deve essere durato più di un minuto. A me è parso molto più lungo, ma non voglio fare stime eccessive.

In ogni caso, è durato il tempo necessario per permettermi di vedere, appeso a una parete, un quadro che adesso non è più presente nella stanza.


Quando è successo, il primo sintomo è stato la mia convinzione. A quanto sembra, è una parte essenziale del fenomeno. Avevo gli occhi chiusi, però ero sveglio e sapevo di essere nel 1896. Forse lo “sentivo” attorno a me; non so. Comunque, nella mia mente non c’era il minimo dubbio. E ho avuto prove concrete ancora prima di riaprire gli occhi.

Sdraiato sul letto, ho udito un bizzarro crepitio. Non ho aperto gli occhi perché non volevo correre il rischio di uscire dal risucchio. Ho continuato a restare immobile sul materasso, che sentivo sotto di me, come sentivo l’abito, come sentivo il respiro entrare e uscire dal mio corpo, come sentivo il calore della stanza; e udivo quello strano crepitio. A un certo punto, senza riflettere, mi sono persino grattato il naso, perché prudeva. Non è un gesto molto importante, lo so, ma riflettete sulle implicazioni.

È stato il mio primo atto fisico nel 1896.

Ero lì. Il mio corpo era coricato in questa stanza nel 1896. Così saldamente radicato nel passato che sono riuscito ad alzare una mano e grattarmi il naso senza esserne sbalzato via. Per quanto l’azione fosse banale, è stato un momento portentoso.

Il tempo cronologico, però, non si era ancora reinserito nel mio sistema. Anche questo, a quanto pare, fa parte del processo. Per raggiungere il tempo 2, devo abbandonare in maniera completa il tempo 1. Ma una volta nel 1896, per potervi restare, devo reinstallare il tempo 1 nel mio sistema. Il che potrebbe spiegare perché la prima volta sono stato trascinato via in modo tanto violento: la mia autocoscienza era così totalmente immersa nel tempo 2 che io non possedevo un’ancora capace di trattenermi nel 1896. No, “ancora” è un termine troppo improprio. Diciamo che non avevo un tessuto connettivo, e che, per lo meno nella fase iniziale, quel tessuto connettivo era il tempo 1.

Questa volta, sono riuscito a creare in me una consapevolezza del tempo 1 sufficiente a permettermi di analizzare l’ambiente. Perché il crepitio, che per un po’ mi è risultato incomprensibile come le più avanzate teorie einsteiniane, alla fine mi ha svelato la propria natura.

Era il caminetto.

Ero coricato sul mio letto nel 1896 e udivo il crepitio del fuoco nel camino.

Il mio cuore batte forte, mentre lo dico.

Mi chiedo quale sia stata la reale durata del fenomeno. Una buona percentuale della mia coscienza, credo, è rimasta nel tempo 2; se così non fosse, io sarei ancora nel 1896. Quindi, la mia interpretazione del tempo cronologico trascorso nel 1896 deve essere inesatta. Sospetto di non esserci rimasto a lungo come ricordo.

Ma, a prescindere dalla durata del fenomeno, dopo un po’ ho aperto gli occhi.

Dapprima, non ho osato muovermi. Sì, mi ero grattato il naso, però non era stato un gesto voluto; lo avevo fatto, ritengo, proprio perché si trattava di un riflesso automatico. Invece, compiere un” gesto cosciente, un movimento deliberato, mi sembrava più pericoloso: una sfida alla situazione in cui mi trovavo.

Così non ho fatto niente. Sono rimasto immobile, a fissare il soffitto; ho cercato di udire altre cose, oltre al crepitio delle fiamme, ma non ci sono riuscito. Vedo due possibilità: o il crepitio del fuoco soffocava ogni altro suono, o io non ero completamente lì, e quindi non potevo sentire altri rumori.

La mia sensazione è di essermi trovato in una “sacca” del 1896. Forse, la meccanica è questa. Di certo non posso provarlo, e probabilmente non lo potrò mai. In questo momento, però, la migliore descrizione possibile mi sembra questa: per viaggiare nel tempo, si parte dal proprio nucleo (la mente, è chiaro) e si trasmette la sensazione all’esterno. I primi effetti coinvolgono il corpo, poi si raggiunge il contatto con l’ambiente circostante. La sensazione di attraversare una membrana potrebbe contraddistinguere il momento in cui si è riusciti a emanare la convinzione interiore oltre i limiti del corpo.

In sostanza, quindi, se la mia teoria è valida, io ero coricato sul letto nel 1896 e sentivo il rumore del caminetto che scoppiettava nel 1896; ma al di là di questo, a regnare era ancora il 1971.

Un’idea folle. Ma perché la mia convinzione è così forte? Perché, ad esempio, non ho udito la risacca del 1896? Avrei dovuto udirla con molta più chiarezza, perché all’epoca l’oceano era molto più vicino all’hotel. Però non l’ho sentita. E non ho sentito nemmeno la risacca del 1971 perché ero chiuso nel mio guscio di 1896. Oltre quel guscio, non udivo nulla. Il che, secondo me, indica che la mia teoria deve possedere una qualche validità.

Lasciamo perdere. Continuo a distrarmi, ad allontanarmi dal punto più cruciale.

Di nuovo, non so per quanto tempo sia rimasto a guardare il soffitto. Sapevo solo di essere nel 1896, che il letto sotto di me era nel 1896, come forse l’intera stanza. Il crepitio del camino continuava chiarissimo, e io vedevo bene il soffitto, e non era dello stesso colore che ha adesso.

Alla fine, ho trovato il coraggio di azzardare un movimento. Niente di trascendentale, certo; però, ancora una volta, trascendentale per le sue implicazioni. Perché è stato un gesto voluto, deliberato; calcolato.

Ho girato la testa sul cuscino. (Mi ero scordato di parlare del cuscino, ma c’era anche quello; nel 1896, senza dubbio.) Con infinita lentezza, debbo aggiungere; infinita trepidazione. Nella paura di perdere quel momento ed essere sbalzato un’altra volta nel 1971. La fiducia che provavo (e provo ancora) sulla mia capacità di raggiungere il 1896 non era con me, in quel momento. Sapevo benissimo di esserci, ma non ero certo di avere i mezzi per potervi restare.

È strano rendermi conto, adesso, che mentre accadeva tutto questo, non ho pensato una sola volta a Elise e al fatto che lei si trovasse nello stesso luogo in cui ero io. Forse non l’ho fatto perché in quel momento, in realtà, lei non c’era. Se la mia teoria è esatta, lei non era lì perché io mi trovavo solo in un frammento del 1896, non nella totalità di quell’anno.

Ma torniamo al punto. Ho mosso la testa sul cuscino, molto lentamente.

E ho visto un quadro appeso alla parete.

Vorrei descriverlo. C’erano due figure centrali: madre e figlio, mi è parso. La donna indossava un abito grigio e un grembiale bianco. Non era giovane. Aveva i capelli tirati all’indietro. Stava vicina al figlio. Gli teneva le mani sulle spalle. Mi correggo: la sua mano destra era sulla spalla sinistra del figlio. È stata solo una mia impressione che anche la sinistra fosse posata sulla spalla destra.

Il ragazzo era più alto della madre di una decina di centimetri. Indossava un soprabito e stringeva un cappello nella sinistra; il che, suppongo, significa che stava partendo. O forse era appena arrivato. No, non era questa la sensazione che il dipinto trasmetteva; dava l’idea di una partenza. Adesso ricordo un ombrello nero a sinistra della madre. Era appoggiato a qualcosa; non so cosa, non ho visto chiaramente quella parte del quadro. Vicino all’ombrello c’era anche un cane. Accucciato per terra. Di taglia media. Probabilmente guardava il ragazzo che partiva.

Sul lato opposto del dipinto c’erano figure. Un vecchio (o una vecchia) seduto a un tavolo. Ho scordato di dire che madre e figlio erano accanto a questo tavolo, e che dietro la madre c’era una sedia. L’espressione della madre non era felice. Il volto del ragazzo era di profilo. Non guardava la madre. Forse doveva trasmettere la sensazione di combattere le proprie emozioni; non so nemmeno questo.

Stavo strizzando le palpebre per guardare meglio quando sono stato riportato indietro.

Questa volta, il ritorno è stato ancora meno percettibile e rapido. Mentre strizzavo le palpebre, quadro e parete sono diventati sfuocati, e a me è parso che il mio intero corpo venisse risucchiato. Ho capito che stavo tornando indietro; ricordo di avere avuto il tempo per provare un senso di rimpianto. Quindi, non può essere accaduto in un battito di ciglia.

Poi, forse mi sono addormentato, o sono svenuto; chi lo sa? Io so solo che quando ho riaperto gli occhi ero di nuovo qui.

Cosa mi ha riportato indietro? Perché, quando ero là in maniera tanto forte, sono tornato? Sono necessarie diverse ripetizioni dell’esperienza? È quello che devo presumere. Come ho dovuto ripetere all’infinito, verbalmente e mentalmente e scrivendo, le istruzioni, apparentemente dovrò consolidare varie volte la mia posizione nel 1896 finché non si fisserà. L’idea è molto irritante, adesso che sono stato là in modo così vivido. Però devo accettarla. Il processo va rispettato. Farò tutto il necessario per renderlo permanente.

Ma devo tornare immediatamente; di questo sono sicuro. Ho la sensazione di avere ridotto il mio coinvolgimento nel presente. So che non posso, per “nessun” motivo, allontanarmi da qui e ampliare di nuovo quel coinvolgimento.

Devo superare un’altra volta la membrana, il più in fretta possibile.


Più tardi.

Ci sono stato di nuovo.

È durato minuti.

I minuti… di qui… sono gli stessi minuti di là? Quando sono… tornato… l’adagio stava suonando. Sono stato io a far ripartire il disco? Non ricordo. Mi sento molto… strano.

Irreale.

Il 1971 mi dà… la stessa sensazione… del 1896.

Non reale.

Stare coricato qui… è come…

Come era nel 1896.

Come se… Devo stare attento.

O lo perderò.

Strano.

Devo… girare la testa… descrivere un… quadro appeso alla parete?

Per dimostrare che sono qui?

Credo di sì.

Una sensazione di… precarietà.

Come se io fossi… in realtà… un uomo del 1896… che cerca di raggiungere…

Cosa?

Bizzarra sensazione.

Non resistere.

Sta arrivando.

Dio, lo sento arrivare.

Devo… smettere… di parlare. Chiudere gli… occhi, ristrutturare la mia…

mente.

Dire a me., a me…

a me stesso, a me stesso che…

Alla deriva.

Pesante.

Mi sento… così pesante.

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