11 Leggende

«Lo mangi o no, quel panino?», chiese Paul a Jacob, con gli occhi fissi sui resti del banchetto che i licantropi avevano appena consumato. Jacob si appoggiò alle mie ginocchia e si mise a giocare con un hot dog infilzato nel metallo di una gruccia riadattata a spiedino; le fiamme del falò lambivano la pelle rigonfia del würstel. Sospirò e si massaggiò lo stomaco. Chissà come, era ancora piatto, nonostante avessi perso il conto di quanti panini aveva ingurgitato dopo il decimo. Per non parlare della busta di patatine giganti e della bottiglia di birra da due litri.

«Credo di sì», disse Jake lentamente. «Sono così sazio che sto per vomitare, ma penso di riuscire a farlo scendere: Non me lo godrò per niente, però». Sospirò di nuovo, triste. Paul, che ne aveva mangiati tanti quanti Jacob, strinse i pugni e lo guardò torvo.

«E dai», Jacob rise. «Sto scherzando, Paul. Ecco qui». Buttò in mezzo al cerchio formato da noi lo spiedino fatto in casa. Mi aspettavo che s’infilzasse dritto nella sabbia, ma senza alcuna difficoltà Paul lo afferrò con precisione dal verso giusto.

A furia di frequentare solo persone con abilità straordinarie rischiavo di farmi venire dei complessi.

«Grazie, fratello», disse Paul, che aveva già superato il breve momento d’ira.

Il fuoco crepitava e pian piano si abbassò. Le scintille scoppiavano veloci come bolle color arancione brillante sullo sfondo del cielo nero. Non mi ero neppure accorta che il sole era tramontato. Doveva essere tardi, ma non sapevo che ora fosse. Avevo perso completamente il senso del tempo. Stare insieme ai miei amici Quileute era più semplice di quanto mi aspettassi. Mentre Jacob e io portavamo la mia moto in garage — e lui aveva ammesso con rammarico che quella del casco era una buona idea, a cui avrebbe dovuto pensare prima — avevo iniziato a preoccuparmi per la serata. Chissà, forse i licantropi mi avrebbero considerato una traditrice. Si sarebbero arrabbiati con Jacob per avermi invitata? Avrei rovinato la festa?

Ma quando spuntai con Jacob dalla foresta e raggiunsi il luogo d’incontro in cima alla scogliera — il fuoco ruggiva già, più luminoso del sole oscurato dalle nuvole — tutto divenne molto semplice e informale.

«Ehi, ragazza vampiro!», mi aveva salutato squillante Embry. Quil era saltato in piedi per darmi il cinque e baciarmi sulla guancia. Emily mi aveva preso la mano quando ci eravamo sedute sulla pietra fredda accanto a lei e Sam.

A parte qualche lamento provocatorio, più che altro di Paul, perché si tenesse sottovento la puzza dei succhiasangue, tutti mi trattavano come una di loro.

Non c’erano solo i ragazzi ad attendermi. Anche Billy era lì, con la sedia a rotelle posizionata su quella che sembrava la testa naturale del cerchio. Accanto a lui, su una sdraio pieghevole, c’era l’anziano, bianchissimo nonno di Quil, che si chiamava come lui. Aveva un aspetto fragile e rugoso. Al suo fianco Sue Clearwater, la vedova di Harry, l’amico di Charlie, insieme ai suoi due figli, Leah e Seth, seduti per terra come noi. Vedere i tre mi sorprese: allora dovevano essere al corrente del segreto. Dal modo in cui Billy e il vecchio Quil parlavano con Sue, sembrava che lei avesse rimpiazzato Harry nel consiglio. Questo rendeva automaticamente anche i suoi figli membri della società più segreta di La Push?

Chissà che cosa terribile doveva essere per Leah sedersi in cerchio di fronte a Sam ed Emily. Il suo viso grazioso non tradiva alcuna emozione, ma non staccava mai lo sguardo dalle fiamme. Ne osservai la perfezione del volto e non potei evitare di confrontarla con il volto sfregiato di Emily. Cosa pensava Leah di quelle cicatrici ora che ne conosceva la vera causa?

Ai suoi occhi sembrava un atto di giustizia?

Il piccolo Seth Clearwater non era più così piccolo. Con il suo sorriso ampio e gioioso e il corpo snello e slanciato mi ricordava molto Jacob da ragazzino. La somiglianza mi fece sorridere, e sospirare. Anche Seth era condannato a veder cambiare la sua vita drasticamente, come gli altri ragazzi? Era forse per quel futuro che lui e la sua famiglia si ritrovavano a partecipare alla serata?

C’era tutto il branco: Sam con la sua Emily, Paul, Embry, Quil e Jared con Kim, la ragazza del suo imprinting.

Di primo acchito, Kim mi sembrò gentile, un po’ timida, quasi anonima. Aveva il viso largo, gli zigomi pronunciati e occhi troppo piccoli per compensarli. Anche il naso e la bocca erano troppo larghi rispetto ai canoni tradizionali di bellezza. I capelli neri e lisci erano sottili e scompigliati dal vento, che non smetteva di soffiare in cima alla scogliera. Quella era stata la prima impressione. Ma, dopo aver osservato per qualche ora le occhiate che le riservava Jared, non riuscii a trovare più niente di insignificante in lei.

Come la guardava! Era come un cieco che vedeva il sole per la prima volta. Come un collezionista che scopre un Leonardo sconosciuto, come una madre che guarda negli occhi il figlio appena nato. Gli occhi meravigliati di lui mi fecero scoprire nuovi dettagli: la pelle di Kim alla luce del fuoco sembrava seta color mattone, la forma delle sue labbra era una perfetta doppia curva, i denti erano bianchissimi e le ciglia lunghissime le sfioravano le guance se abbassava lo sguardo.

La pelle di Kim si faceva più scura quando incontrava lo sguardo di venerazione di Jared; i suoi occhi si abbassavano per l’imbarazzo, ma non le riusciva facile distogliere troppo a lungo l’attenzione da lui. Osservandoli, sentii di capire meglio quello che Jacob mi aveva detto dell’imprinting:è difficile resistere a un tale livello di coinvolgimento eadorazione.

Kim era appoggiata contro il petto di Jared, che la cingeva con un braccio. Chissà come stava al caldo, in quella posizione.

«Si sta facendo tardi», mormorai a Jacob.

«Non cominciare», mi sussurrò in risposta, anche se di sicuro almeno metà del gruppo aveva un udito tanto sensibile da sentirci. «La parte migliore sta per arrivare».

«E cosa sarebbe? Tu che divori una mucca in un solo boccone?». Jacob ghignò con il suo riso basso e rauco. «No. Quello è il finale. Non ci siamo incontrati solo per ingozzarci di cibo. Tecnicamente questa è una riunione del consiglio. Per Quil è la prima volta, non ha ancora sentito le nostre storie. Be’, le ha sentite, ma oggi per la prima volta saprà che sono vere. Perciò vi starà più attento. Anche per Kim, Seth e Leah è la prima volta».

«Storie?».

Ero appoggiata contro una bassa cresta di roccia e Jacob scivolò all’in-dietro per avvicinarsi. Mi cinse la spalla con il braccio e mi parlò ancora più piano all’orecchio.

«Quelle che abbiamo sempre pensato fossero leggende», disse. «Le storie su come siamo nati. La prima narra degli spiriti guerrieri». Il morbido sussurro di Jacob aveva fatto da introduzione. Attorno al fuoco basso, di colpo l’atmosfera cambiò. Paul ed Embry si alzarono in piedi. Jared prese Kim e la sollevò gentilmente da terra.

Emily tirò fuori un quaderno a spirale e una penna, come un’alunna pronta per una lezione importante. Sam, accanto a lei, si mosse quel tanto da guardare nella stessa direzione del vecchio Quil, seduto al suo fianco. E all’improvviso capii che gli anziani del consiglio non erano tre, ma quattro. Leah Clearwater, il cui viso era una splendida maschera priva di emozioni, chiuse gli occhi non per stanchezza, ma per concentrarsi. Suo fratello si sporse di più verso gli anziani, entusiasta. Il fuoco scoppiettò e un’altra esplosione di scintille brillò nella notte. Billy si schiarì la voce e, senza alcun’altra introduzione a parte il sussurro di suo figlio, cominciò a raccontare, con voce ricca e profonda. Le parole uscivano precise, come se le conoscesse a memoria, ma anche con sentimento e un ritmo sottile. Come una poesia recitata dal suo autore.

«Fin dagli inizi i Quileute erano un piccolo popolo», disse Billy. «E siamo ancora un piccolo popolo, ma non siamo mai scomparsi. Questo perché nel nostro sangue c’è sempre stato un potere magico. Non è sempre stato il potere di cambiare forma. Quello è venuto dopo. All’inizio, eravamo spiriti guerrieri». Non avevo mai notato il tono maestoso della voce di Billy Black, ma in quel momento mi resi conto dell’autorità che da sempre esercitava. La penna di Emily si muoveva velocissima sul foglio, cercando di stargli al passo.

«All’inizio, la tribù si stabilì in questo golfo e divenimmo abili pescatori e costruttori di barche. Ma la tribù era piccola e il golfo ricco di pesce. Altri desideravano la nostra terra, ma noi troppo pochi per difenderla. Una tribù più numerosa ci attaccò e noi ricorremmo alle nostre barche per scappare. Kaheleha non fu il primo spirito guerriero, ma non ricordiamo le storie che la precedono. Non ricordiamo chi fu il primo a scoprire questo potere o se esso fosse stato già usato. Nella nostra storia Kaheleha è stato il primo grande Spirito Supremo e in quel terribile frangente usò la magia per difendere la nostra terra. Lui e i guerrieri lasciarono la barca non con il corpo, ma con lo spirito. Le loro donne vegliarono sui corpi e sulle onde, mentre gli spiriti degli uomini tornavano al golfo. Non potevano toccare la tribù nemica, ma avevano altre risorse. Le storie ci narrano che potevano soffiare poderosi venti negli accampamenti nemici; nel vento potevano sollevare urla terribili per spaventare i rivali. Le storie ci narrano anche che gli animali potevano vedere gli spiriti guerrieri, e che li capivano; gli animali erano dalla loro parte. Kaheleha guidò il suo esercito di spiriti e seminò distruzione tra gli aggressori. La tribù di invasori aveva branchi di cani enormi, dal pelo foltissimo, che trainavano le loro slitte tra i ghiacci del nord. Gli spiriti guerrieri fecero rivoltare i cani contro i loro padroni, poi scatenarono una tremenda invasione di pipistrelli, evocandoli dalle cavità della scogliera. Usarono l’urlo dei venti per aiutare i cani a confondere gli uomini. I cani e i pipistrelli vinsero. I superstiti fuggirono, gridando che il nostro golfo era un luogo maledetto. Quando gli spiriti guerrieri li liberarono, i cani tornarono alla vita selvaggia. I Quileute raggiunsero i propri corpi e le proprie mogli, vittoriosi. Le altre tribù vicine, gli Hoh e i Makah, strinsero un patto con i Quileute. Non volevano avere niente a che fare con la nostra magia. Vivemmo in pace con loro. Quando un nemico provava ad attaccarci, gli spiriti guerrieri lo scacciavano. Trascorsero diverse generazioni. Poi arrivò l’ultimo Spirito Supremo, Taha Aki. Era celebre per la sua saggezza e la sua indole pacifica. La gente viveva felice e serena sotto la sua protezione. Ma c’era un uomo, Utlapa, che non era sereno». Un sibilo cupo corse attorno al fuoco. Non feci in tempo a vedere da dove arrivava. Billy lo ignorò e proseguì con la leggenda.

«Utlapa era uno dei più forti spiriti guerrieri del Supremo Taha Aki. Un uomo molto potente, ma anche molto avido. Pensava che il nostro popolo dovesse usare la magia per espandere il proprio territorio, per rendere schiavi gli Hoh e i Makah e costruire un impero. Ora, quando i guerrieri erano nei loro spiriti, potevano leggere ognuno i pensieri dell’altro. Taha Aki vide quali erano i sogni di Utlapa e si adirò con lui. Utlapa ricevette l’ordine di lasciare la tribù e di non usare mai più il suo spirito. Utlapa era un uomo forte, ma i guerrieri del Supremo erano in gran numero. Non ebbe altra scelta che andarsene. Furioso, l’uomo si nascose nella foresta vicina, in attesa dell’occasione per vendicarsi sul Supremo. Anche in tempo di pace, lo Spirito Supremo vigilava per proteggere la sua gente. Spesso andava in un luogo segreto fra le montagne. Lasciava il suo corpo lì e scendeva attraverso le foreste e lungo la costa, per allontanare le minacce. Un giorno che Taha Aki partì per compiere il suo dovere, Utlapa lo seguì. All’inizio, Utlapa pensò semplicemente di ucciderlo, ma questo piano presentava degli svantaggi. Di sicuro gli spiriti guerrieri avrebbero cercato di distruggerlo ed erano in grado di seguirlo più veloci di quanto lui non potesse scappare. Mentre si nascondeva fra le rocce e osservava il Supremo prepararsi a lasciare il suo corpo, gli venne in mente un altro piano.

Taha Aki lasciò il suo corpo nel luogo segreto e volò con il vento per vegliare sulla sua gente. Utlapa aspettò, finché non fu sicuro che lo spirito del Supremo si fosse allontanato abbastanza. Quando Utlapa lo raggiunse nel mondo degli spiriti, Taha Aki se ne accorse subito e intuì anche il suo piano omicida. Tornò rapido al luogo segreto, ma neanche i venti furono così veloci da salvarlo. Al suo arrivo, il suo corpo era già sparito. Il corpo di Utlapa giaceva abbandonato, ma Utlapa non aveva lasciato a Taha Aki vie di fuga: aveva sgozzato il proprio corpo con le mani di Taha Aki. Taha Aki seguì il suo corpo lungo la montagna. Urlò a Utlapa, ma Utlapa lo ignorò, come se fosse il vento. Disperato, Taha Aki vide Utlapa prendere il suo posto come capo dei Quileute. Per qualche settimana, Utlapa non fece altro che assicurarsi che tutti lo credessero il vero Taha Aki. Poi le cose iniziarono a cambiare e il primo editto di Utlapa fu impedire a ogni guerriero di entrare nel mondo degli spiriti. Dichiarò di avere avuto una visione, un presagio, ma in realtà aveva paura. Sapeva che Taha Aki avrebbe atteso quell’occasione per raccontare la verità. Inoltre, Utlapa stesso aveva paura di entrare nel mondo degli spiriti, perché sapeva che Taha Aki avrebbe subito reclamato il proprio corpo. Così i suoi desideri di conquista grazie all’esercito degli spiriti guerrieri divennero irrealizzabili e cercò di accontentarsi del potere che aveva sulla tribù. Divenne un parassita, pretese privilegi che Taha Aki non aveva mai reclamato, si rifiutò di lavorare con i suoi guerrieri, ebbe una seconda moglie, più giovane di lui, e poi una terza, malgrado la prima fosse ancora viva, cosa inaudita per la tribù. Taha Aki osservava, furioso ma impotente. Alla fine, Taha Aki provò a uccidere il proprio corpo per salvare la tribù dagli eccessi di Utlapa. Fece scendere un lupo feroce dalle montagne, ma Utlapa si nascose dietro i suoi guerrieri. Quando il lupo uccise un giovane che cercava di proteggere il capo impostore, Taha Aki si sentì devastare dal dolore. Ordinò al lupo di andarsene.

Le storie narrano che non era facile essere spirito guerriero. Liberarsi del proprio corpo era più spaventoso che esaltante. Ecco perché quel potere veniva usato solo in caso di necessità. I viaggi solitari di perlustrazione del capotribù erano uno sforzo e un sacrificio. Essere senza corpo turbava; era scomodo, orribile. Taha Aki era stato lontano dal suo corpo così a lungo che ormai viveva nei tormenti. Si sentiva condannato: non avrebbe mai potuto attraversare l’Ultima Terra, dove i suoi antenati lo aspettavano. Sarebbe rimasto bloccato per sempre nello strazio di quel nulla. Il grande lupo seguì lo spirito di Taha Aki nei boschi, mentre si contorceva fra i tormenti. Il lupo era molto grande per la sua razza, e bellissimo. All’improvviso Taha Aki si sentì invidioso dell’animale. Non sapeva parlare, ma almeno aveva un corpo. Una vita. Persino vivere da animale sarebbe stato meglio di quell’orribile coscienza incorporea. Così Taha Aki ebbe l’idea che ha cambiato il destino di tutti noi. Chiese al grande lupo di fargli spazio nel suo corpo, di dividerlo con lui. Il lupo acconsentì. Taha Aki entrò nel corpo del lupo con sollievo e gratitudine. Non era il suo corpo umano, ma era meglio del vuoto del mondo degli spiriti.

Ormai divenuti una cosa sola, l’uomo e il lupo tornarono al villaggio sul golfo. La gente scappò impaurita, invocando l’arrivo dei guerrieri che accorsero per colpire il lupo con le loro lance. Utlapa, ovviamente, rimase ben nascosto al sicuro. Taha Aki non attaccò i propri guerrieri. Si ritirò lentamente, parlando loro con gli occhi e cercando di guaire le canzoni del suo popolo. I guerrieri iniziarono a capire che quel lupo non era un animale qualunque, che era sotto l’influenza di uno spirito. Uno dei guerrieri più anziani, un uomo di nome Yut, decise di disobbedire all’ordine del capo impostore e provò a comunicare con il lupo. Non appena Yut ebbe fatto ingresso nel mondo degli spiriti, Taha Aki lasciò il lupo, in docile attesa del suo ritorno, per parlare con lui. In un attimo Yut comprese la verità e salutò il ritorno del suo vero Capo Supremo. In quel momento arrivò Utlapa, per vedere se il lupo era stato sconfitto. Quando vide il corpo di Yut giacere a terra senza vita, protetto dagli altri guerrieri, capì cos’era accaduto. Sfoderò il coltello e si affrettò a uccidere Yut prima che potesse tornare al suo corpo.

"Traditore", gridò, mentre i guerrieri non sapevano cosa fare. Il capo aveva stabilito che era proibito tornare nel mondo degli spiriti, e spettava a lui decidere come punire i trasgressori. Yut saltò di nuovo nel suo corpo, ma Utlapa gli puntava già il coltello alla gola e con una mano gli copriva la bocca. Il corpo di Taha Aki era forte, mentre Yut era già avanti con gli anni. Yut non ebbe il tempo di dire neanche una parola per avvisare gli altri, perché Utlapa lo ridusse per sempre al silenzio. Taha Aki vide lo spirito di Yut entrare in quelle ultime terre che a lui erano bandite per l’eternità. Provò una grande rabbia, più intensa di qualsiasi sensazione avesse mai provato. Entrò di nuovo nel corpo del grande lupo, deciso a sgozzare Utlapa. Ma, non appena fu di nuovo dentro al lupo, avvenne la grande magia. La rabbia di Taha Aki era la rabbia di un uomo. L’amore che provava per la sua gente e l’odio contro il suo oppressore erano troppo vasti, troppo umani per il corpo del lupo. Il lupo iniziò a tremare e, davanti agli occhi sconvolti dei guerrieri e di Utlapa, si trasformò in uomo. Il nuovo uomo non somigliava a Taha Aki. Era molto più grande. Era l’incarnazione terrena dello spirito di Taha Aki. Tuttavia i guerrieri lo riconobbero all’istante, perché avevano volato con lui in forma di spirito. Utlapa provò a scappare, ma nel suo nuovo corpo Taha Aki possedeva la forza del lupo. Afferrò l’impostore e ne distrusse lo spirito prima che potesse uscire dal corpo rubato. Una volta capito che cos’era successo, la gente si rallegrò. Taha Aki rimise velocemente le cose a posto, tornando a lavorare con il suo popolo e restituendo le giovani spose alle loro famiglie. L’unico cambiamento che mantenne in vigore fu la fine dei viaggi nella terra degli spiriti. Ora che la possibilità di rubare una vita ad altri si era fatta concreta, egli sapeva che quei viaggi erano troppo pericolosi. Gli spiriti guerrieri scomparvero per sempre. Da quel momento, Taha Aki fu più di un semplice uomo e più di un lupo. Fu battezzato Taha Aki il Grande Lupo, o Taha Aki l’Uomo Spirito. Guidò la tribù per molti, molti anni, senza più invecchiare. Quando un pericolo si avvicinava, assumeva l’identità di lupo per combattere o spaventare il nemico. La gente visse in pace. Taha Aki fu padre di molti figli e alcuni di questi, divenuti adulti, scoprirono che anch’essi potevano trasformarsi in lupi. I lupi erano tutti diversi l’uno dall’altro, poiché erano spiriti e riflettevano l’uomo che c’era dentro di loro».

«Ah, ecco perché Sam è tutto nero», bofonchiò Quil sotto voce, ridendo.

«Cuore nero, pelo nero».

Ero così presa dalla storia che rimasi scossa nel tornare al presente, al cerchio attorno al fuoco morente. E con altrettanto turbamento mi resi conto che attorno al cerchio erano riuniti i pronipoti — di chissà quanti gradi — di Taha Aki.

Il fuoco lanciò una scarica di scintille in cielo, che tremarono e danzarono, componendo forme quasi indecifrabili.

«E il tuo pelo color cioccolato cosa rappresenta?», sussurrò Sam in risposta a Quil. «Quanto sei dolce?». Billy ignorò la schermaglia. «Alcuni dei figli divennero guerrieri insieme a Taha Aki, e non invecchiarono più. Altri, che non amavano la trasformazione, rifiutarono di unirsi al branco degli uomini-lupo. Iniziarono di nuovo a invecchiare e la tribù scoprì che anche gli uomini-lupo sarebbero cresciuti come tutti gli altri, se avessero rinunciato ai loro spiriti. La vita di Taha Aki durò quanto quella di tre uomini. Dopo la morte delle prime due, prese una terza moglie e in lei trovò la compagna migliore per il suo spirito. Aveva amato le altre, ma per lei sentiva qualcosa di diverso. Decise di rinunciare al suo spirito di lupo, per morire insieme a lei. Questo è il racconto di come la magia è giunta fino a noi... ma non è la fine della storia...».

Poi guardò il vecchio Quil Ateara, che si spostò sulla sedia, raddrizzando le spalle fragili. Billy bevve da una bottiglia d’acqua e si asciugò la fronte. Emily aveva trascritto senza sosta.

«Quella era la storia degli spiriti guerrieri», cominciò il vecchio Quil con flebile voce tenorile. «Questa è la storia del sacrificio della terza moglie. Molti anni dopo la rinuncia di Taha Aki al proprio spirito di lupo, quando era ormai vecchio, a nord ci furono problemi con la tribù dei Makah. Molte loro giovani erano scomparse e di ciò incolpavano i lupi, verso i quali provavano paura e diffidenza. Quando assumevano le sembianze dell’animale, gli uomini-lupo potevano ancora leggersi nel pensiero, proprio come i loro antenati facevano da spiriti. Sapevano che nessuno di loro era colpevole di quel misfatto. Taha Aki provò a rasserenare il capo Makah, ma la paura era troppa. Taha Aki non voleva trovarsi in guerra. Non aveva più l’età per guidare la sua gente da guerriero. Incaricò il suo figliolupo maggiore, Taha Wi, di trovare i veri colpevoli prima che iniziassero le ostilità. Taha Wi guidò gli altri cinque uomini-lupo del suo branco in missione sulle montagne, in cerca di qualche indizio delle Makah scomparse. Trovarono qualcosa di assolutamente nuovo per loro: uno strano, dolce odore nella foresta, che bruciava il naso fino a far male». Mi strinsi al fianco di Jacob. Vidi l’angolo della sua bocca contrarsi divertito e mi cinse con un braccio.

«Non sapevano quale creatura lasciasse un tale odore, ma la seguirono», continuò il vecchio Quil. La sua voce vibrante non aveva la stessa maestà di quella di Billy, ma irradiava un tono pressante, strano e vigoroso. Con il ritmo del racconto aumentarono anche i battiti del mio cuore.

«Lungo il percorso trovarono deboli tracce di odore e sangue umani. Senz’altro era quello il nemico che stavano cercando. Il viaggio li aveva spinti così lontano verso nord che Taha Wi decise di rimandare indietro metà del branco, i tre lupi più giovani, per riferire a Taha Aki ciò che avevano scoperto. Ma Taha Wi e i suoi due fratelli non fecero mai ritorno. I fratelli minori cercarono quelli maggiori, ma trovarono soltanto silenzio. Taha Aki mise il lutto per i suoi figli. Avrebbe voluto vendicarne la morte, ma era vecchio. Andò dal capo dei Makah e gli raccontò tutto ciò che era accaduto. Il capo dei Makah credette al suo dolore e la tensione fra le due tribù finì. Un anno dopo, una notte, due fanciulle Makah scomparvero dalle loro case. I Makah chiamarono subito i lupi Quileute, che riconobbero nel villaggio lo stesso odore dolce sentito nella foresta. I lupi si misero di nuovo in caccia. Solo uno tornò vivo. Era Yaha Uta, il figlio maggiore della terza moglie di Taha Aki, e il più giovane del branco. Aveva portato con sé qualcosa che non si era mai visto in tutta la storia dei Quileute: uno strano cadavere, duro come la pietra, che aveva fatto a pezzi. Tutti i consanguinei di Taha Aki, anche coloro che non si erano mai trasformati in lupi, sentivano l’odore penetrante di quella creatura senza vita. Ecco chi era il nemico dei Makah.

Yaha Uta raccontò cos’era accaduto: lui e i suoi fratelli avevano sorpreso la creatura — che aveva l’aspetto di un uomo, ma era duro come una roccia — con le due fanciulle Makah. Una delle ragazze era già morta, riversa a terra pallida e dissanguata. L’altra era intrappolata fra le braccia della creatura, con la gola sotto la sua bocca. Forse era ancora viva quando sorpresero l’orrenda scena, ma all’avvicinarsi dei lupi la creatura le spezzò subito il collo e ne gettò a terra il corpo inanimato. Le sue labbra bianche erano coperte di sangue e gli occhi emettevano un bagliore rosso. Yaha Uta descrisse la forza maestosa e la velocità della creatura. Uno dei fratelli l’aveva sottovalutata e fu il primo a caderne vittima: la creatura lo squarciò come una bambola. Yaha Uta e gli altri furono più guardinghi. Si mossero insieme, avvicinandosi alla creatura dai lati, cercando di vincerla con l’astuzia. Avrebbero dovuto sfruttare fino al limite la loro forza e la velocità di lupi, come mai prima di allora. La creatura era dura come la pietra e fredda come il ghiaccio. Scoprirono che solo con i denti avrebbero potuto ferirla. Mentre si battevano, iniziarono a farla a brandelli, strappandole la carne a morsi. Ma la creatura imparava velocemente e presto capì come contrattaccare. Mise le mani sul fratello di Yaha Uta. Yaha Uta trovò un varco sulla gola della creatura e le si scagliò contro. Con i denti le staccò la testa, ma le sue mani non smettevano di stritolare il fratello. Yaha Uta ridusse la creatura a brandelli, nel disperato tentativo di salvarlo. Era troppo tardi per riuscirci, ma alle fine ebbe la meglio sul mostro. O così pensavano tutti. Yaha Uta fece esaminare dagli anziani i brandelli puzzolenti che aveva raccolto. Accanto al braccio di granito del mostro giaceva una mano, staccata. Quando gli anziani iniziarono a tastarla con dei bastoncini, i due monconi si toccarono e la mano si mosse verso il braccio cercando di riattaccarsi. Terrorizzati, gli anziani diedero fuoco ai resti. Una grande nube di fumo, intossicante e nauseabondo, avvelenò l’aria. Alla fine separarono le ceneri in tanti piccoli sacchetti e li sparpagliarono ovunque: alcuni nell’oceano, altri nella foresta o nelle grotte della scogliera. Taha Aki ne conservò uno e se lo legò al collo: se mai la creatura avesse provato a ricomporsi di nuovo, l’avrebbe saputo».

Quil il vecchio fece una pausa e guardò Billy. Billy mostrò il nastrino di cuoio che portava al collo. Da un’estremità penzolava un sacchetto, scurito dal tempo. Qualcuno sussultò. Probabilmente lo feci anch’io.

«Lo chiamarono il Freddo, o il Bevitore di Sangue, e vissero nel tormento che non fosse solo. Ormai era rimasto un solo lupo protettore, il giovane Yaha Uta. Non dovettero aspettare a lungo per scoprire la verità. Il mostro aveva una compagna, un’altra Bevitrice di Sangue, che giunse nel villaggio dei Quileute in cerca di vendetta.

Le storie narrano che la Fredda era la cosa più bella che occhi umani avessero mai visto. Quel giorno, quando entrò nel villaggio, sembrava la dea del mattino: il sole, che brillava come non mai, faceva scintillare la sua pelle bianca e accendeva i capelli dorati che le scendevano fino alle ginocchia. Il suo volto possedeva una bellezza magica, gli occhi erano neri nel viso bianchissimo. Qualcuno, vedendola, cadde ai suoi piedi per adorarla. Lei chiese qualcosa con voce acuta, penetrante, in una lingua che nessuno comprendeva. Tutti restarono basiti, non sapendo cosa risponderle. Fra i testimoni dell’evento non c’era nessun consanguineo di Taha Aki, tranne un bambino. Si strinse a sua madre e gridò che l’odore gli faceva male al naso. Un anziano, che si stava recando al consiglio, lo udì e capì chi era giunto fra loro. Gridò alla gente di scappare. Fu il primo a essere ucciso. In venti assistettero all’arrivo della Fredda. Ne sopravvissero due, solo perché tutto quel sangue la distrasse e la costrinse a placare la propria sete. Corsero da Taha Aki, seduto in consiglio con gli altri anziani, i figli e la sua terza moglie. Non appena udì la notizia, Yaha Uta si trasformò in spirito lupo. Si diresse da solo a distruggere la bevitrice di sangue. Tana Aki, la terza moglie, i figli e gli anziani lo seguirono. All’inizio non trovarono la creatura, ma solo le tracce della sua carneficina. C’erano cadaveri a brandelli, alcuni prosciugati di tutto il sangue, sparsi lungo la strada da dove era apparsa. Poi udirono le grida e corsero verso il golfo dove alcuni Quileute si erano rifugiati sulle barche. Lei, che li stava inseguendo in acqua nuotando come uno squalo, sfondò una prua con forza incredibile. Mentre la barca affondava, prese quelli che cercavano di fuggire a nuoto e straziò anche i loro corpi. Quando vide il grande lupo sulla spiaggia ignorò i fuggitivi. Nuotò così veloce che era difficile vederla e arrivò, bagnata e trionfante, davanti a Yaha Uta. Lo indicò con il suo dito bianchissimo e gli fece un’altra domanda incomprensibile. Yaha Uta attese. Fu una dura battaglia. Come guerriera, lei non valeva il suo compagno. Ma Yaha Uta era solo. Non c’era nessuno a distrarre la furia della Fredda. Yaha Uta fu sconfitto e Taha Aki iniziò a urlare in segno di sfida. Zoppicò in avanti e si trasformò in un lupo anziano, dal muso bianco. Il lupo era vecchio, ma era Taha Aki l’Uomo Spirito e la sua rabbia lo rendeva più forte. La battaglia ricominciò. La terza moglie di Taha Aki aveva appena visto il figlio morire. Ora suo marito stava lottando e lei sapeva che non c’erano speranze di vittoria. Aveva ascoltato ogni parola di ciò che i testimoni della carneficina avevano riportato al consiglio. Aveva sentito la storia della prima vittoria di Yaha Uta e sapeva che era stato l’intervento di suo fratello a salvarlo. La terza moglie prese un coltello dalla cintura di uno dei figli che le stavano accanto. Erano tutti ragazzi, non ancora uomini, e sapeva che sarebbero morti se il padre fosse stato sconfitto. La terza moglie corse verso la Fredda sollevando il pugnale. La Fredda sorrise, distraendosi appena dalla lotta contro il vecchio lupo. Non temeva la debole donna né il coltello che non le avrebbe neppure graffiato la pelle. Era sul punto di sferrare l’attacco mortale a Taha Aki. Ma in quel momento la terza moglie fece qualcosa che la Donna Fredda non si aspettava. Cadde in ginocchio ai piedi della bevitrice di sangue e affondò il coltello nel proprio cuore. Il sangue scrosciò fra le dita della terza moglie e schizzò contro la Fredda. La bevitrice non resistette alla tentazione del sangue fresco. Istintivamente si girò verso la donna morente, preda, per un secondo, della sua stessa sete. I denti di Taha Aki si serrarono sulla sua gola. La lotta non era ancora finita, ma ora Taha Aki non era solo. Alla vista della madre morente, due giovani figli provarono una rabbia enorme, capace di dare vita al loro spirito lupo, malgrado fossero solo ragazzi. Insieme al padre, finirono il mostro.

«Taha Aki non si riunì mai più alla tribù. Non riprese mai più le fattezze umane. Per un giorno intero restò sdraiato accanto al corpo della terza moglie, ringhiando a chiunque cercasse di toccarla; poi andò nella foresta e non tornò mai più. Da quel momento in poi, gli scontri con i Freddi capitarono di rado. I figli di Taha Aki vigilarono sulla tribù finché i loro figli furono grandi abbastanza da ereditarne il posto. Non si trasformarono mai in più di tre lupi alla volta. Era abbastanza. Di tanto in tanto un bevitore di sangue attraversava questi territori, ma veniva colto di sorpresa non sapendo dei lupi. A volte un lupo moriva, ma non furono mai più decimati com’era accaduto la prima volta. Avevano imparato a combattere i Freddi e si erano tramandati tale conoscenza di lupo in lupo, da mente a mente, da spirito a spirito, di padre in figlio. Il tempo trascorse e i discendenti di Taha Aki non si trasformarono più in lupi, raggiunta l’età adulta. I lupi sarebbero tornati soltanto in caso di necessità, nel caso in cui un Freddo si fosse avvicinato di nuovo. I Freddi giunsero sempre da soli o in due, e il branco restò piccolo. Giunse una congrega più grande e i vostri bisnonni si preparano a combatterla. Ma il capo dei nuovi venuti parlò a Ephraim Black con i modi di un uomo e gli giurò di non voler fare del male ai Quileute. I suoi strani occhi gialli, in qualche modo, provavano ciò che diceva: lui era diverso dagli altri bevitori di sangue. I lupi erano in svantaggio numerico: non aveva senso che i Freddi cercassero una tregua, quando avrebbero potuto vincerli. Ephraim accettò. I Freddi hanno sempre rispettato il patto, benché la loro presenza tenda ad attirarne altri. E il loro numero ha indotto il branco a ingrandirsi quanto mai prima», disse il vecchio Quil, e per un attimo i suoi occhi neri, sepolti in una cornice di rughe, sembrarono soffermarsi su di me. «Eccetto, ovviamente, che all’epoca di Taha Aki», disse.

«Perciò, oggi, i figli della nostra tribù portano di nuovo il fardello, e condividono il sacrificio che i loro padri hanno sopportato prima di loro». Per un momento interminabile rimase tutto in silenzio. I discendenti della leggenda e della magia si fissarono l’un l’altro attraverso il fuoco con la tristezza negli occhi. Tutti tranne uno.

«Fardello», schernì a bassa voce. «Secondo me è una figata». Il labbro pieno di Quil si gonfiò in un broncio.

Dall’altra parte del fuoco morente, Seth Clearwater — gli occhi pieni di adulazione per la fratellanza dei protettori della tribù — annuì il proprio consenso.

Billy ridacchiò piano e a lungo e la magia sembrò dissolversi nella brace scintillante. All’improvviso era di nuovo un cerchio di amici. Jared tirò un sassolino a Quil e tutti risero del suo spavento. Iniziò un chiacchiericcio sommesso, scherzoso e informale.

Gli occhi di Leah Clearwater non si aprirono. Mi parve di vedere qualcosa scintillare per un istante sulla sua guancia, forse una lacrima. Né io né Jacob parlammo. Era immobile accanto a me, il respiro tanto profondo e regolare che pensai stesse per addormentarsi. La mia mente era lontana mille anni. Non pensavo a Yaha Uta o agli altri lupi, oppure alla bellissima Fredda, che potevo immaginare fin troppo facilmente. No, pensavo a qualcuno che era totalmente al di fuori della magia. Cercavo di immaginare il viso della donna senza nome che aveva salvato l’intera tribù, la terza moglie.

Solo una donna umana, senza doni né poteri speciali. Fisicamente più debole e lenta di qualunque altro mostro della storia. Ma era stata lei la chiave, la soluzione. Aveva salvato il marito, i suoi giovani figli, la tribù. Avrei voluto conoscere il suo nome...

Qualcosa mi scosse il braccio.

«Forza, Bells», mi disse Jacob all’orecchio. «Siamo arrivati». Strizzai gli occhi confusa: il fuoco era sparito. Fissai l’oscurità inaspettata, cercando di dare un senso a ciò che mi circondava. Mi ci volle un po’ per capire che non ero più sulla scogliera. Jacob e io eravamo soli. Ancora avvolta dal suo braccio, ma non più seduta per terra. Come ero finita nella macchina di Jacob?

«Oh, merda!», protestai quando capii di essermi addormentata. «Che ore sono? Merda, dov’è quello stupido telefono?», mi toccai le tasche, nel panico.

«Facile. Non è ancora mezzanotte. L’ho già chiamato io. Guarda, ti sta aspettando lì».

«Mezzanotte?», ripetei come una stupida, ancora disorientata. Fissai nell’oscurità e il cuore sussultò quando riconobbi la sagoma della Volvo, trenta metri più avanti. Cercai la maniglia della portiera.

«Ecco qua», disse Jacob infilandomi qualcosa in mano. Il cellulare.

«Hai chiamato tu Edward per me?».

I miei occhi si erano ambientati abbastanza da vedere il bagliore luminoso del sorriso di Jacob. «Ho pensato che se mi comporto in modo carino, potrò passare più tempo con te».

«Grazie, Jake», dissi commossa. «Davvero, grazie. E grazie anche per avermi invitato stanotte. È stato...», le parole mi mancavano. «Caspita. È stato unico».

«E non hai nemmeno resistito per vedermi mangiare la mucca». Rise.

«No, mi fa piacere che tu sia stata bene. È stato... bello, per me. Averti qui».

Ci fu un movimento nel buio, a distanza. Qualcosa di chiaro si mosse come uno spettro contro gli alberi neri. Camminava inquieto?

«Be’, non è molto paziente, vero?», disse Jacob notando che mi ero distratta. «Vai ora. Ma torna presto, okay?».

«Certo, Jake», promisi e aprii la portiera scricchiolante. L’aria fredda mi accarezzò le gambe e mi fece rabbrividire.

«Dormi serena, Bells. Non preoccuparti di niente: ci sarò io a sorvegliarti, stasera». Mi fermai, con un piede per terra. «No, Jake. Riposati un po’, io starò bene».

«Certo, certo», disse, ma sembrava più una concessione che un accordo.

«'Notte, Jake. Grazie».

«'Notte, Bella», sussurrò mentre mi allontanavo nel buio. Edward mi prese sulla linea di confine.

«Bella», disse con un forte sollievo nella voce; le sue braccia si avvolsero strette attorno a me.

«Ciao. Scusa se ho fatto così tardi. Mi sono addormentata e...».

«Lo so. Mi ha già spiegato Jacob». Si diresse alla macchina, e lo seguii, intorpidita e rigida. «Sei stanca? Ti posso portare io».

«Sto bene».

«Meglio accompagnarti a casa e metterti a letto. Hai passato una bella serata?».

«Sì, è stato... davvero stupefacente, Edward. Avrei voluto ci fossi anche tu. Non posso neanche spiegarlo. Il padre di Jake ci ha raccontato le vecchie leggende ed è stato come... come una magia».

«Me le racconterai, ma dopo un buon sonno».

«Non sarò in grado», dissi, poi feci un grosso sbadiglio. Edward sogghignò. Mi aprì la portiera, mi fece entrare e mi passò la cintura di sicurezza attorno.

Un paio di fari brillarono e ci passarono davanti. Salutai Jacob con un gesto, ma forse non riuscì a vederlo.

Quella notte — dopo aver salutato Charlie, che non mi fece tutti i problemi che mi aspettavo, visto che Jacob aveva chiamato anche lui — invece di buttarmi subito a letto restai appoggiata alla finestra aperta, in attesa del ritorno di Edward. L’aria era inaspettatamente fredda, quasi invernale. Sulle scogliere ventose non l’avevo notato affatto; più che del fuoco acceso, forse era stato merito della vicinanza di Jacob. Gocce ghiacciate mi schizzarono sul viso mentre la pioggia iniziava a cadere.

Era troppo buio per vedere alcunché accanto ai triangoli neri degli abeti che si slanciavano e ondeggiavano al vento. Tesi comunque gli occhi, in cerca di altri profili nella foresta. Una sagoma pallida, che si muoveva come un fantasma nell’oscurità... o magari i contorni scuri di un enorme lupo... i miei occhi erano troppo stanchi. Poi sentii un movimento nella notte, proprio accanto a me. Edward scivolò attraverso la finestra aperta, con le mani più fredde della pioggia.

«C’è Jacob fuori?», chiesi, tremando, quando Edward mi abbracciò.

«Sì... da qualche parte. Ed Esme sta tornando a casa».

«Fuori piove e fa freddo. Che stupidaggine». Tremai di nuovo. Sorrise. «Fa freddo solo per te, Bella».

Quella notte fece freddo anche nei miei sogni, forse perché dormii fra le braccia di Edward. Sognai di essere dentro una tormenta, con il vento che mi frustava i capelli sul viso e mi chiudeva gli occhi. Ero ferma sullo spuntone di roccia di First Beach, cercando di riconoscere le forme che si muovevano veloci e che apparivano offuscate nell’oscurità, sul limitare della costa. All’inizio ci fu soltanto uno scintillio di nero e bianco, che sfrecciavano l’uno verso l’altro e si allontanavano danzando. Poi, come se a un tratto la luna fosse spuntata da dietro le nuvole, vidi tutto. Rosalie, con i capelli dorati e bagnati, sciolti e lunghi fino alle ginocchia, si era scagliata contro un enorme lupo, con il pelo del muso maculato d’argento, che riconobbi istintivamente come Billy Black. Iniziai a correre, ma mi muovevo con la lentezza frustrante dei sogni. Cercai di urlare che si fermassero, ma il vento spegneva la mia voce e dalla mia bocca non usciva neanche un suono. Agitai le braccia sperando di attirare l’attenzione. Qualcosa mi brillò nella mano destra e a un tratto notai che non era vuota.

Reggevo una lama lunga e affilata, antica, d’argento, incrostata di sangue secco e nero.

Rabbrividii lasciando cadere il coltello e i miei occhi si aprirono di scatto nella mia stanza silenziosa e buia. La prima cosa che notai fu che non ero sola; mi girai per seppellire il mio viso nel petto di Edward. Il dolce odore della sua pelle avrebbe scacciato gli incubi meglio di qualunque altra cosa.

«Ti ho svegliato?», sussurrò. Sentii un rumore di carta, di pagine che si sgualcivano, e un debole tonfo, come qualcosa di leggero che cadeva sul pavimento.

«No», farfugliai, sospirando di contentezza mentre le sue braccia mi stringevano. «Ho fatto un brutto sogno».

«Ne vuoi parlare?».

Scossi la testa. «Sono troppo stanca. Magari domani mattina, se me lo ricordo».

Sentii una risata silenziosa scuoterlo.

«Domani mattina», acconsentì.

«Cosa stavi leggendo?», bofonchiai, non del tutto sveglia.

«Cime tempestose », disse.

Increspai la fronte, mezza addormentata. «Pensavo che non ti piacesse».

«L’ho trovato in giro», mormorò, e la sua voce leggera mi cullò verso l’incoscienza. «E poi... più tempo trascorro con te, più le emozioni umane mi sembrano comprensibili. Sto scoprendo di avere molto in comune con Heathcliff, più di quanto credessi».

Risposi con un sospiro.

Disse qualcos’altro, a bassa voce, ma a quel punto dormivo già. Il giorno dopo, l’alba era grigio perla, immobile. Edward mi chiese del mio sogno, ma non riuscivo a venirne a capo. Ricordavo solo di aver sentito freddo e di essere stata contenta di risvegliarmi accanto a lui. Mi baciò, tanto a lungo da mandarmi il cuore a mille, poi si diresse a casa per cambiarsi e prendere l’auto. Mi vestii in fretta, avevo poco tra cui scegliere. Chiunque avesse saccheggiato la mia cesta aveva spaiato il mio guardaroba in maniera irreparabile. Se non ne fossi stata terrorizzata, mi sarei sentita parecchio infastidita. Mentre mi accingevo a scendere per la colazione, notai la mia copia sbrindellata diCime tempestose aperta sul pavimento, dove Edward l’aveva lasciata la notte precedente, aperta su una pagina a mo’ di segno, come facevo sempre io. La raccolsi, incuriosita, cercando di ricordare le sue parole. Aveva detto che Heathcliff, proprio lui, gli era simpatico, o qualcosa del genere. Non potevo crederci: forse mi ero sognata tutto.

Sulla pagina aperta, tre parole attirarono la mia attenzione; chinai la testa per leggere il paragrafo più da vicino. Era Heathcliff a parlare: conoscevo bene quel passaggio.

Ecco la differenza dei nostri sentimenti; se lui fosse stato al posto mio e io al suo, l’avrei odiato di un odio che mi avrebbe avvelenata la vita come fiele, pure non avrei mai levato una mano contro di lui. Mostrati incredula quanto ti pare e piace! Io non l’avrei mai privato della compagnia di Catherine finché ella avesse mostrato di desiderare la sua. Non appena tale desiderio fosse cessato, gli avrei strappato il cuore, e bevuto il sangue! Ma, prima d’allora... oh! tu non mi conosci... prima d’allora sarei morto a goccia a goccia, piuttosto che torcergli un capello!

Le tre parole che avevano catturato la mia attenzione erano «bevuto il sangue».

Rabbrividii.

Sì, sicuramente solo in sogno potevo aver udito Edward dire qualcosa di positivo su Heathcliff. E forse non era neanche la pagina che stava leggendo. Cadendo si era aperto a caso, di sicuro.

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