Windle si domandò come si faceva a chiedere la cittadinanza Klatchiana dopo morti.

E in quel momento le pietre del selciato gli vennero incontro.

Solitamente questo è un modo poetico per dire che uno cade faccia a terra. In questo caso, le pietre del selciato gli vennero davvero incontro. Si alzarono a fontana, volteggiarono silenziose nel vicolo per un momento, poi piovvero giù come pietre.

Windle le fissò. Anche Lupine.

«Questa è una cosa che non si vede spesso» disse l’uomo mannaro dopo un po’. «Anzi, non credo di aver mai visto pietre volanti prima d’ora».

«E nemmeno piovere pietre» disse Windle. Ne toccò una con la punta dello stivale. Sembrò perfettamente soddisfatta del ruolo che la gravità le aveva assegnato.

«Tu sei un mago…»

«Ero un mago» disse Windle.

«Eri un mago. Qual è la causa di tutto questo?»

«Credo che sia stato un fenomeno inspiegabile» disse Windle. «Ce ne sono parecchi in giro. Vorrei sapere perché».

Toccò di nuovo una pietra con il piede. Non mostrò alcuna inclinazione al movimento.

«È meglio che vada» disse Lupine.

«Com’è essere un uomo mannaro?» chiese Windle.

Lupine scrollò le spalle. «Solitario».

«Mmm?»

«Vedi, è che sei sempre fuori posto. Quando sono un lupo ricordo come ci si sente a essere uomini, e viceversa. Ecco… cioè… a volte… a volte, sì, quando sono un lupo, corro su per le colline… d’inverno, sai, quando c’è la luna crescente e la neve si ghiaccia e le colline non finiscono mai… gli altri lupi sentono com’è, certo, ma non lo sanno come lo so io. Sentire e sapere allo stesso tempo. Nessun altro sa com’è. Nessun altro al mondo può sapere com’è. Quella è la parte brutta. Sapere che non c’è nessun altro…»

Windle capì di essere in bilico sull’orlo di un abisso di lagna. Non sapeva mai cosa dire in momenti come questi.

Lupine si rischiarò. «A proposito… com’è essere uno zombie?»

«Non tanto male, in fondo».

Lupine annuì.

«Ci si vede in giro» disse, e si allontanò.

Le strade iniziavano a riempirsi; Ankh-Morpork cominciava il cambio di turno informale tra il popolo della notte e quello del giorno. Tutti evitavano Windle. La gente fa a meno di andare a sbattere contro uno zombie, se può.

Arrivò ai cancelli dell’Università, che ora erano aperti, e si avviò verso la sua camera.

Avrebbe avuto bisogno di soldi, se avesse voluto andarsene. Aveva risparmiato parecchio nel corso degli anni. Aveva fatto testamento? Negli ultimi dieci anni era stato piuttosto confuso. Forse l’aveva fatto. Era stato tanto confuso da lasciare i suoi risparmi a se stesso? Sperava di sì. Non c’erano casi noti di persone che fossero riuscite a impugnare con successo il proprio testamento…

Sollevò l’asse del pavimento ai piedi del letto, e tirò fuori una borsa di monete. Ricordò che le aveva messe da parte per la vecchiaia.

C’era la sua agenda. Era un’agenda quinquennale, il che significava (fece un rapido calcolo) che aveva sprecato circa tre quinti dei suoi soldi.

O anche di più, se ci pensavi bene. Dopotutto non c’era granché scritto dentro. Per anni Windle non aveva fatto niente che valesse la pena riportare, o perlomeno niente che a sera fosse in grado di ricordare. C’erano fasi lunari, liste di feste religiose, e di tanto in tanto una caramella attaccata a una pagina.

Sotto il pavimento c’era anche qualcos’altro. Rovistò nello spazio polveroso e trovò un paio di sfere lisce. Le tirò fuori e le guardò, confuso. Le agitò, e osservò le minuscole nevicate. Lesse le scritte, notando che più che altro erano disegni di scritte. Poi raccolse il terzo oggetto: era una piccola rotella di metallo piegata. Una rotellina di metallo. E accanto, una sfera rotta.

Windle rimase a guardarle.

Naturalmente non era stato nel pieno possesso delle sue facoltà mentali negli ultimi trent’anni circa, e forse aveva indossato la biancheria sopra i vestiti e sbavato un po’, ma… aveva anche collezionato souvenir? E rotelline?

Qualcuno tossì, alle sue spalle.

Windle lasciò ricadere gli oggetti misteriosi nel buco e si guardò intorno. La stanza era vuota, ma sembrava ci fosse un’ombra dietro la porta aperta.

«C’è nessuno?» disse.

Una voce profonda e molto diffidente rispose: «Sono io, signor Poons».

Windle aggrottò la fronte, cercando di ricordare.

«Schleppel?» disse.

«Esatto».

«L’uomonero?»

«Sì».

«Dietro la mia porta?»

«Esatto».

«Perché?»

«È una porta accogliente».

Windle si avvicinò alla porta e la chiuse esitando. Dietro non c’era altro che intonaco vecchio, anche se ebbe l’impressione di sentire uno spostamento d’aria.

«Ora sono sotto il letto, signor Poons» disse la voce di Schleppel da… sotto il letto. «Non le dispiace, vero?»

«Be’, no. Direi di no. Ma non dovresti essere in qualche armadio? Quando ero piccolo l’uomonero era sempre nell’armadio».

«È difficile trovare un buon armadio, signor Poons».

Windle sospirò. «Va bene. Vada per sotto il letto. Mettiti pure comodo».

«Preferirei tornare ad appostarmi dietro la porta, se per lei è lo stesso, signor Poons».

«Oh, per me…»

«Le dispiace chiudere un momento gli occhi?»

Windle eseguì, obbediente.

Ci fu un altro spostamento d’aria.

«Ora può guardare, signor Poons».

Windle aprì gli occhi.

«Ehi» disse la voce di Schleppel, «ha perfino un attaccapanni qua dietro».

Windle osservò i pomelli di ottone del letto che si svitavano.

Un tremito scosse il pavimento.

«Che sta succedendo, Schleppel?» chiese.

«Accumulo di forza vitale, signor Poons».

«Vuoi dire che lo sai?»

«Oh, sì. Ehi, ma c’è anche una serratura, una maniglia e un lucchetto d’ottone… c’è tutto qua dietro!»

«Che significa, un accumulo di forza vitale?»

«E i cardini sono ottimi, mai avuta una porta così…»

«Schleppel!»

«È solo forza vitale, signor Poons. Sa, quel genere di forza che si trova nelle cose vive. Credevo che voi maghi le sapeste, queste cose».

Windle Poons aprì la bocca per dire qualcosa del tipo ‘Ma certo che le sappiamo’ prima di procedere diplomaticamente alla scoperta di che diavolo stesse parlando l’uomonero, poi gli venne in mente che ora non era obbligato a comportarsi in quel modo. Era quello che avrebbe fatto da vivo, ma malgrado ciò che affermava Reg Scarpa, era difficile restare orgogliosi da morti. Un po’ rigidi sì, ma orgogliosi no.

«Mai sentita nominare» disse. «E perché si accumula?»

«Non lo so. È molto fuori stagione. Dovrebbe stare morendo tutto, ora» disse Schleppel.

Il pavimento tremò di nuovo. Poi l’asse sconnessa del pavimento che teneva nascosto il piccolo tesoro di Windle scricchiolò e cominciò a mettere i germogli.

«Fuori stagione in che senso?» chiese Windle.

«Se ne vede parecchia in primavera» disse la voce da dietro la porta. «Spinge i narcisi fuori dal terreno e via discorrendo».

«Mai sentita» disse Windle, affascinato.

«Credevo che voi maghi sapeste tutto di tutto».

Windle guardò il suo cappello da mago. La sepoltura e lo scavo del tunnel non gli avevano fatto molto bene, ma dopo oltre un secolo di vita, comunque, non era proprio l’ultimo grido in fatto di moda.

«C’è sempre qualcosa di nuovo da imparare» disse.


Un’altra alba. Cyril il gallo si agitò sul trespolo.

Le parole scritte con il gesso si intravedevano nella luce fioca.

Si concentrò.

Respirò a fondo.

«Chiccoroccò!»

Ora che il problema della memoria era risolto, restava solo quello della dislessia.


Su, sui campi, il vento era forte e il sole intenso e vicino. Bill Porta andava avanti e indietro sull’erba rasata della collina come una spoletta in una trama verde.

Si chiese se aveva mai sentito prima il vento e il sole. Sì, sicuramente. Ma non ne aveva mai fatto esperienza così; del modo in cui il vento ti spingeva, e il sole ti faceva sentire caldo. Il modo in cui sentivi il Tempo che passava.

E ti portava via.


Qualcuno bussò timidamente alla porta della stalla.

SÌ?

«Scendi giù, Bill Porta».

Scese la scala nel buio e aprì cautamente la porta.

La signorina Flitworth riparava una candela con la mano.

«Ehm» disse.

COME, SCUSI?

«Puoi venire in casa, se vuoi. Per la sera. Non per la notte, naturalmente. Insomma, non mi piace l’idea che te ne stai qua tutto solo mentre da me c’è il fuoco e tutto il resto».

Bill Porta non era bravo a leggere le espressioni dei volti. Era una dote che non gli era mai servita. Guardò il sorriso fisso, preoccupato, implorante della signorina Flitworth come un babbuino che cerca di interpretare la Stele di Rosetta.

GRAZIE, disse.

Lei trotterellò via.

Quando lui arrivò in casa lei non era in cucina. Seguì uno scalpiccio lungo uno stretto corridoio e una porticina. La signorina Flitworth era nella piccola stanza sul retro, in ginocchio, e cercava febbrilmente di accendere un fuoco.

Alzò gli occhi, confusa, quando lui bussò educatamente alla porta.

«Non vale la pena sprecare un fiammifero per una persona sola» mormorò, a mo’ di spiegazione imbarazzata. «Siediti. Faccio un po’ di tè».

Bill Porta si piegò in una delle poltrone accanto al fuoco e si guardò intorno.

Era una stanza insolita. Apparentemente, tra le sue funzioni non c’era quella di essere abitata. Mentre la cucina era una specie di spazio all’aperto con un tetto e il fulcro delle attività della fattoria, quella stanza assomigliava più che altro a un mausoleo.

Contrariamente a quanto si crede, Bill Porta non aveva grande familiarità con gli arredi funerari. La morte di solito non avviene nelle tombe, se non in casi rari e sfortunati. L’aria aperta, il fondo dei fiumi, la bocca degli squali, tutte le stanze da letto che volete… ma non nelle tombe.

Il suo lavoro era la separazione del germe di grano dell’anima dalla pula del corpo mortale, e quello abitualmente si concludeva molto prima di qualunque rito associato, in parole povere, a una forma reverenziale di smaltimento dei rifiuti.

Ma quella stanza sembrava la tomba di uno di quei re che vogliono portarsi tutto dietro.

Bill Porta sedette con le mani sulle ginocchia, guardandosi intorno.

Innanzitutto i soprammobili. C’erano più teiere di quante se ne potevano immaginare. Cani di porcellana dallo sguardo fisso. Strane alzate per torte. Statue assortite e piatti dipinti con allegri messaggi scritti sopra: ‘Ricordo di Quirm’, ‘Lunga Vita e Felicità’. Coprivano ogni superficie piana in assoluta democrazia, così che un candelabro d’argento di un certo valore stava accanto a un cane di porcellana colorata con un osso in bocca e un’espressione di colpevole idiozia.

Le pareti erano nascoste sotto i quadri; la maggior parte erano dipinti nelle sfumature del fango e mostravano scene di mandrie depresse in paesaggi umidi e nebbiosi.

In effetti le suppellettili nascondevano quasi del tutto la mobilia, ma non era una gran perdita. A parte due poltrone che gemevano sotto il peso di un cumulo di coprischienali, il resto dei mobili non sembrava avere altro scopo se non quello di reggere i ninnoli. Ovunque c’erano tavolini rachitici. E. pavimento era coperto di tappeti fatti a mano con gli stracci. Qualcuno ci si era divertito parecchio. E sopra ogni cosa, a permeare tutto, c’era l’odore.

L’odore di lunghi pomeriggi noiosi.

Su una mensola coperta da una tovaglia c’erano due piccoli forzieri di legno ai lati di uno più grande. Devono essere i famosi tesori, pensò.

Si accorse del ticchettio.

Sulla parete c’era un orologio. Qualcuno, un tempo, aveva avuto l’idea di fare un orologio a forma di gufo: doveva essergli sembrata un’idea simpatica. A ogni oscillazione del pendolo, gli occhi del gufo facevano avanti e indietro, in un modo che a un individuo a totale digiuno di divertimenti doveva sembrare spiritoso. Dopo un po’ gli occhi cominciavano a oscillare anche a te, per solidarietà.

La signorina Flitworth entrò con un vassoio carico. Si dedicò attivamente alla cerimonia alchemica del preparare il tè, imburrare le brioche, disporre i biscotti, prendere le zollette di zucchero con le pinze…

Si appoggiò allo schienale. Poi, come se si fosse riposata per una ventina di minuti trillò, leggermente senza flato: «Be’… carino, no?»

SÌ, SIGNORINA FLITWORTH.

«Non ho spesso l’occasione di aprire il salotto, di questi tempi».

NO.

«Non da quando ho perso mio padre».

Per un momento Bill Porta si chiese se avesse perso il defunto signor Flitworth in quel salotto. Forse aveva preso una strada sbagliata tra le suppellettili. Poi ricordò che gli umani hanno modi buffi di dire certe cose.

AH.

«Si sedeva proprio su quella poltrona, a leggere l’almanacco».

Bill Porta frugò nella memoria.

UN UOMO ALTO, azzardò. CON I BAFFI? GLI MANCAVA LA PUNTA DEL MIGNOLO DELLA MANO SINISTRA?

La signorina Flitworth lo fissò da sopra la tazza di tè.

«Lo conoscevi?» chiese.

L’HO INCONTRATO UNA VOLTA «Non ha mai parlato di te» disse in tono malizioso. «Non per nome. Non come Bill Porta».

NON CREDO CHE AVREBBE PARLATO DI ME, disse lentamente Bill Porta.

«Non c’è problema» disse la signorina Flitworth. «So tutto. Papà faceva anche un po’ di contrabbando. Sì, insomma, non è una grande fattoria. Non dà proprio da vivere. Lui diceva sempre che uno deve fare quello che può. Credo che tu fossi nel suo stesso ramo. Ti ho osservato, e ne sono sicura».

Bill Porta pensò intensamente.

SETTORE TRASPORTI, disse.

«Direi che ci siamo. Hai famiglia, Bill?»

UNA FIGLIA.

«Che bello».

PURTROPPO ABBIAMO PERSO I CONTATTI.

«È un peccato» disse la signorina Flitworth, e diceva sul serio. «Qui si stava bene, ai vecchi tempi. Quando il mio ragazzo era vivo, naturalmente».

HA UN FIGLIO?, chiese Bill Porta, che stava perdendo il filo.

Lei gli lanciò un’occhiata tagliente.

«Ti invito a riflettere bene sulla parola ‘signorina’» disse. «Qui prendiamo molto sul serio certe cose».

DOMANDO SCUSA.

«Si chiamava Rufus. Era un contrabbandiere, come papà. Non altrettanto bravo, però, lo devo ammettere. Era più un tipo artistico. Mi portava un sacco di regali dai paesi stranieri. Gioielli e cose del genere. Andavamo a ballare, mi ricordo che aveva ottimi polpacci. Mi piacciono gli uomini con delle buone gambe».

Fissò il fuoco per un po’.

«E un giorno… non è tornato. Poco prima che ci sposassimo. Papà diceva che non avrebbe mai dovuto tentare di oltrepassare le montagne con l’inverno alle porte, ma io sapevo che voleva farlo per portarmi un regalo come si deve. Voleva fare soldi e fare colpo su papà, che era contrario…»

Prese l’attizzatoio e sferrò al fuoco un colpo molto più feroce di quanto meritasse.

«Insomma, certi dissero che era scappato a Farferee o ad Ankh-Morpork o chissà dove, ma io so che non avrebbe mai fatto niente del genere».

Lanciò a Bill Porta un’occhiata penetrante che lo inchiodò alla sedia.

«Tu che ne pensi, Bill Porta?» chiese, in tono secco.

Bill Porta si sentì molto fiero per aver capito la domanda nella domanda.

SIGNORINA FLITWORTH, LE MONTAGNE POSSONO ESSERE TRADITRICI IN INVERNO.

Lei parve sollevata. «È quello che dico sempre anch’io» disse. «E sai una cosa, Bill Porta? Sai cosa ho pensato allora?»

NO, SIGNORINA FLITWORTH.

«Come ho detto, era il giorno prima del nostro matrimonio. E uno dei suoi cavalli è tornato da solo, e gli uomini sono partiti e hanno trovato la valanga… e sai cosa ho pensato? Ho pensato che era ridicolo. E stupido. Tremendo, no? Oh, naturalmente dopo ho pensato anche altre cose, ma la prima è stata che il mondo non doveva funzionare come una specie di romanzo. Non è terribile aver pensato una cosa così?»

NEMMENO IO MI SONO MAI FIDATO DEI ROMANZI, SIGNORINA FLITWORTH.

Lei non stava ascoltando.

«E ho pensato: ‘Ora la vita si aspetta da me che vada in giro per anni a fare la matta con l’abito da sposa addosso ed esca di testa. Vuole proprio questo’. Ah! Invece ho messo il vestito da parte per fare stracci e abbiamo comunque invitato tutti al pranzo di nozze, perché sprecare tutto quel cibo era un delitto».

Tornò ad attaccare il fuoco, poi gli rivolse un altro sguardo al fulmicotone.

«Secondo me è sempre importante capire cosa è reale e cosa no, tu che dici?»

SIGNORINA FLITWORTH?

«Sì?»

LE DISPIACE SE FERMO L’OROLOGIO?

Lei guardò il gufo con gli occhi in fuori.

«Cosa? Ah. Perché?»

TEMO CHE MI DIA SUI NERVI.

«Ma non è tanto forte, no?»

Bill Porta voleva dire che ogni tic era come un colpo di mazza ferrata su una colonna di bronzo.

È SOLO PIUTTOSTO FASTIDIOSO, SIGNORINA FLITWORTH.

«Be’, fermalo se vuoi, lo tengo carico solo per compagnia».

Bill Porta si alzò, avanzò cautamente nella foresta di suppellettili e afferrò il pendolo a forma di pigna. Il gufo di legno lo guardò malissimo e il ticchettio si fermò, perlomeno nel regno del suono. Era consapevole del fatto che altrove il pulsare del Tempo continuava. Come faceva la gente a tollerarlo? Accoglievano il Tempo nelle loro case, come un amico.

Tornò a sedersi.

La signorina Flitworth aveva cominciato a sferruzzare furiosamente.

Il fuoco scoppiettava nel camino.

Bill Porta si appoggiò allo schienale della poltrona e fissò il soffitto.

«Si diverte il tuo cavallo?»

PREGO?

«Il tuo cavallo. Sembra che si diverta sui prati» suggerì la signorina Flitworth.

OH. SÌ.

«Corre come un matto, come se non avesse mai visto l’erba prima».

GLI PIACE L’ERBA.

«E a te piacciono gli animali. Si vede».

Bill Porta annuì. Le sue riserve di conversazione, mai molto fornite, erano a zero.

Rimase in silenzio per le successive due ore, stringendo i braccioli della poltrona, finché la signorina Flitworth non annunciò che andava a letto. Allora tornò alla stalla, e dormì.


Bill Porta non l’aveva sentita arrivare. Ma eccola là, una figura grigia che fluttuava nell’oscurità della stalla.

In qualche modo si era impadronita della clessidra d’oro.

Gli disse: Bill Porta, c’è stato un errore.

Il vetro andò in frantumi. Fini secondi d’oro scintillarono in aria per un istante, poi si posarono.

Gli disse: Ritorna. C’è del lavoro da fare. C’è stato un errore.

La figura svanì.

Bill Porta annuì. Certo che c’era stato un errore. Chiunque poteva vederlo. Lui lo sapeva fin dall’inizio, che c’era stato un errore.

Gettò gli indumenti da lavoro in un angolo e riprese la veste di nero assoluto.

Be’, era stata un’esperienza. E, doveva ammetterlo, del genere che non aveva voglia di ripetere. Si sentiva come liberato da un grosso peso.

Era così che ci si sentiva davvero a essere vivi? La sensazione dell’oscurità che ti trascina in avanti?

Come facevano a conviverci? Eppure lo facevano, e sembravano anche divertirsi, mentre l’unica reazione ragionevole sarebbe stata di disperarsi. Straordinario. Sentire che eri solo una piccola cosa viva, stretta fra due abissi di oscurità. Come facevano a sopportarlo?

Ovviamente bisognava esserci nati.

Morte sellò il cavallo e cavalcò oltre i campi. Il grano ondeggiava, come il mare. La signorina Flitworth avrebbe dovuto trovare qualcun altro che l’aiutasse nel raccolto.

Che strano. C’era una sensazione. Rimpianto? Era quello? Ma era un sentimento di Bill Porta, e Bill Porta era… morto. Non era mai vissuto. Era di nuovo se stesso, al sicuro in un luogo senza emozioni e senza rimpianti.

Mai nessun rimpianto.

E ora era nel suo studio, ed era strano, perché non ricordava come ci era arrivato. Un minuto prima a cavallo, e un minuto dopo nello studio, con i suoi libri mastri e i segnatempo.

Era più grande di come lo ricordava. Le pareti si intravedevano ai limiti del campo visivo.

Era il campo visivo di Bill Porta. Certamente a lui sarebbe sembrato grande, e probabilmente c’era ancora un po’ di lui da qualche parte. Bisognava tenersi occupati, buttarsi nel lavoro.

C’erano già alcune clessidre sulla scrivania. Non ricordava di avercele messe, ma non importava, la cosa importante era mettersi al lavoro…

Prese la più vicina, e lesse il nome.


«Checcherecché!»

La signorina Flitworth si alzò a sedere sul letto. Nel dormiveglia aveva sentito un altro rumore, che doveva aver svegliato il gallo.

Cincischiò con un fiammifero finché non riuscì ad accendere la candela, e poi cercò a tastoni sotto il letto l’elsa di una sciabola corta che era stata molto usata dal defunto signor Flitworth nei suoi viaggi d’affari oltre le montagne.

Corse giù per le scale cigolanti e uscì fuori nell’alba gelida.

Esitò davanti alla porta della stalla, e poi l’aprì quel tanto che bastava a scivolare dentro.

«Signor Porta?»

Il fieno frusciò, poi ci fu un silenzio vigile.

SIGNORINA FLITWORTH?

«Mi hai chiamato? Sono sicura di aver sentito gridare il mio nome».

Ci fu un altro fruscio, e la testa di Bill Porta apparve sul bordo del soppalco.

SIGNORINA FLITWORTH.

«Sì. Chi ti aspettavi? Stai bene?»

EHM, SÌ. SÌ, CREDO DI SÌ.

«Sei sicuro? Hai svegliato Cyril».

SÌ. SÌ. È STATO SOLO… CREDEVO CHE… SÌ.

Lei soffiò sulla candela. La luce dell’alba era già sufficiente a vedere.

«Be’, se ne sei sicuro… Ora che sono in piedi tanto vale che metta su il porridge».

Bill Porta si distese di nuovo sulla paglia finché non si fidò abbastanza delle sue gambe per alzarsi, poi scese giù e si avviò barcollando nell’aia fino alla fattoria.

Non disse nulla mentre lei metteva il porridge in una scodella davanti a lui e lo affogava nella panna. Alla fine non fu più capace di trattenersi. Non sapeva come porre le domande, ma aveva davvero bisogno di risposte.

SIGNORINA FLITWORTH?

«Sì?»

COME SI CHIAMA… DI NOTTE… QUANDO SI VEDONO DELLE COSE CHE PERÒ NON SONO REALI?

Lei si fermò, con la pentola del porridge in una mano e il mestolo nell’altra.

«Vuoi dire i sogni?» chiese.

SONO QUELLI I SOGNI?

«Tu non sogni? Credevo che tutti sognassero».

COSE CHE STANNO PER SUCCEDERE?

«Ah, le premonizioni, cioè. Io non ci ho mai creduto. Non mi stai mica dicendo che non sai cosa sono i sogni?»

NO. NO. CERTO CHE NO.

«Cos’è che ti preoccupa, Bill?»

ALL’IMPROVVISO SO CHE DOBBIAMO MORIRE.

Lei lo guardò pensierosa.

«Be’, tocca a tutti» disse. «Ed è questo che hai sognato? Tutti ogni tanto si sentono così. Io non mi preoccuperei, se fossi in te. La cosa migliore è tenersi occupati e allegri, lo dico sempre».

MA MORIREMO!

«Oh, non lo so» disse la signorina Flitworth. «Dipende tutto da che tipo di vita hai fatto, credo».

PREGO?

«Sei religioso?»

VUOL DIRE CHE QUELLO CHE SUCCEDE DOPO LA MORTE È QUELLO CHE UNO CREDE CHE SUCCEDA?

«Be’, se fosse così non sarebbe male, no?» disse allegramente lei.

MA VEDE, IO SO COSA CREDO. IO NON CREDO… NULLA.

«Siamo un po’ tetri stamattina, eh?» disse la signorina Flitworth. «La cosa migliore che puoi fare ora è finire quel porridge. Dicono che fa bene alle ossa».

Bill Porta guardò la scodella.

POSSO AVERNE ANCORA?

Bill Porta passò la mattina a spaccare legna. Era piacevolmente monotono.

Stancarsi. Questo era l’importante. Doveva aver dormito anche prima della notte scorsa, ma forse era così stanco che non aveva sognato. Ed era ben deciso a non sognare più. L’ascia saliva e scendeva sui ciocchi, precisa come un orologio.

No! Non come un orologio!

La signorina Flitworth aveva diverse pentole sul fuoco quando lui entrò in casa.

CHE BUON PROFUMO, disse volenterosamente Bill. Allungò la mano verso il coperchio sobbalzante. La signorina Flitworth si voltò.

«Non toccare! Quella non è roba per te. È per i topi».

I TOPI NON SI NUTRONO DA SOLI?

«Ci puoi scommettere. È per questo che gli diamo un piccolo extra prima del raccolto. Un paio di cucchiaiate di questo attorno ai buchi… e niente più topi».

A Bill Porta ci volle un po’ per fare due più due, ma quando gli riuscì fu come lo scontro fra due megaliti.

QUESTO È VELENO?

«Essenza di spikkle, mescolata con pappa d’avena. Non fallisce mai».

E MUOIONO?

«All’istante. Stesi a zampe in aria. Per noi pane e formaggio» aggiunse. «Non mi metto a cucinare due volte in un giorno, e stasera abbiamo pollo. A proposito di pollo, vieni un po’…»

Prese una mannaia dalla rastrelliera e uscì sull’aia. Cyril il gallo la guardò sospettoso dalla cima di un mucchio di letame. Il suo harem di galline grasse e alquanto vecchiotte, che razzolavano nella polvere, caracollò verso la signorina Flitworth con la corsa da mutande-con-l’elastico-rotto tipica delle galline. Lei si chinò e ne acchiappò rapidamente una.

Quella guardò Bill Porta con occhi lucenti e stupidi.

«Sai spiumare un pollo?» chiese la signorina Flitworth.

Bill guardò alternativamente lei e la gallina.

MA LI NUTRIAMO, disse impotente.

«Esatto. Poi loro danno da mangiare a noi. Questa sta qui da mesi. È così che funziona nel mondo dei polli. Il signor Flitworth gli tirava il collo ma io non ci ho mai preso la mano; la mannaia sporca e poi continuano a correre in giro per un po’, ma sono morti e lo sanno».

Bill Porta rifletté sulle proprie possibilità. Il pollo aveva fissato su di lui il suo occhio tondo. I polli sono assai più stupidi degli umani, e non hanno i sofisticati filtri mentali che impediscono loro di vedere ciò che hanno davanti. Il pollo sapeva dove si trovava e chi lo stava guardando.

Bill Porta guardò quella piccola e semplice vita e vide gli ultimi secondi che scorrevano via.

Non aveva mai ucciso. Aveva preso delle vite, ma solo quando erano alla fine. C’era una differenza tra il rubare e tenersi una cosa trovata.

LA MANNAIA NO, disse stancamente. MI DIA IL POLLO.

Voltò le spalle per un momento, poi rese alla signorina Flitworth il pollo inerte.

«Bel lavoro» disse lei, e tornò in cucina.

Bill Porta sentì lo sguardo accusatore di Cyril su di lui.

Aprì la mano. Una minuscola luce fluttuava sul palmo.

Ci soffiò delicatamente sopra, e quella svanì.

Dopo pranzo sistemarono il veleno per i topi. Si sentì un assassino.


Morirono un sacco di topi.

Nei cunicoli sotto la stalla (nei più profondi, scavati molto tempo prima da roditori ancestrali) qualcosa apparve nel buio.

Sembrò che avesse qualche difficoltà a decidere cosa essere.

Cominciò come un pezzo di formaggio dall’aria molto sospetta. Ma non funzionava.

Poi provò con qualcosa che somigliava molto a un piccolo terrier nervoso. Anche questa fu respinta.

Per un momento fu una trappola d’acciaio a scatto. Chiaramente fuori luogo.

Si guardò intorno in cerca di nuove idee e con sua grande sorpresa una arrivò subito, come se fosse stata sempre lì. Non tanto una forma quanto il ricordo di una forma.

La provò e scoprì che nonostante fosse del tutto inadatta allo scopo, con una certa, profonda soddisfazione era l’unica forma possibile.

Si mise al lavoro.


Quella sera gli uomini si esercitavano nel tiro con l’arco sui prati. Bill Porta si era accuratamente fabbricato una reputazione come peggior arciere della storia del tiro con l’arco; non era mai venuto in mente a nessuno che spedire le frecce tra i cappelli degli astanti richiedeva molta più abilità che scagliarle su un bersaglio decisamente grande a soli cinquanta metri di distanza.

Era incredibile quanti amici ti facevi facendo male le cose, ammesso che i tuoi errori fossero buffi.

Perciò poté sedersi sulla panca fuori dalla taverna, insieme agli anziani.

Nella casa accanto, le scintille uscivano dal camino dell’officina del fabbro del villaggio e salivano a spirale nella luce del tramonto. Da dietro le porte chiuse veniva un furioso martellare. Bill Porta si chiese come mai le porte fossero sempre chiuse. Di solito i fabbri lavoravano con la porta aperta, così che la loro bottega diventava la sala riunioni informale del paese. Questo invece era preso dal lavoro…

«Ciao, schelitro».

Bill Porta si voltò.

La bambina piccola della casa lo guardava con gli occhi più penetranti che avesse mai visto.

«Tu sei uno schelitro, vero» disse. «Si vede dalle ossa».

TI SBAGLI, PICCOLA.

«Invece no. Le persone diventano schelitri quando muoiono. E dopo non se ne vanno in giro».

AH, AH, AH. MA SENTILA, LA BIMBA.

«Tu perché vai in giro, allora?»

Bill Porta guardò gli anziani. Erano presi dal gioco.

SENTI UN PO’, disse disperatamente, SE TE NE VAI TI DO MEZZO PENNY.

«Io ho una maschera da schelitro per fare dolcetto-o-scherzetto la sera di Soul Cake» disse lei. «È di carta. Poi ti danno i dolci».

Bill Porta ripeté l’errore fatto da milioni di altre persone con i bambini piccoli in circostanze vagamente simili. Si affidò alla ragione.

ASCOLTA disse, SE FOSSI DAVVERO UNO SCHELETRO, BIMBA, SONO SICURO CHE QUESTI SIGNORI AVREBBERO QUALCOSA DA DIRE.

Lei guardò gli anziani all’altro capo della panca.

«Tanto sono quasi schelitri anche loro» disse. «Secondo me non ne vogliono vedere un altro».

Lui cedette.

DEVO AMMETTERE CHE SU QUESTO HAI RAGIONE.

«Perché non ti rompi?»

NON LO SO. NON MI SONO MAI ROTTO.

«Io ho visto schelitri di uccelli e altre cose, e si rompono».

FORSE PERCHÉ SONO QUALCOSA CHE ERA, MENTRE QUESTO È CIÒ CHE IO SONO.

«Il farmacista che fa le medicine da Chambly ha uno schelitro appeso a un gancio con tutti i fili che tengono insieme le ossa» disse la bambina, con l’aria di impartire informazioni ottenute dopo una minuziosa ricerca.

IO NON HO FILI.

«C’è differenza tra gli schelitri vivi e quelli morti?»

SÌ.

«Allora quello che ha lui è uno di quelli morti?»

SÌ.

«Stava dentro qualcuno?»

SÌ.

«Bleah».

La bambina guardò il paesaggio per un po’, poi disse: «Io ho i calzini nuovi».

SÌ?

«Puoi guardarli se vuoi».

Tese un piede sudicio per farlo esaminare.

BENE, BENE. MA GUARDA UN PO’. CALZINI NUOVI.

«Mamma me li ha fatti coi ferri. Dalla pecora».

MA PENSA.

Altra ispezione dell’orizzonte.

«Lo sai» disse. «Lo sai… che è venerdì?»

SÌ.

«Ho trovato un cucchiaio».

Bill Porta si ritrovò ad aspettare con una certa curiosità. Non era pratico dì persone in cui la durata dell’attenzione era inferiore a tre secondi.

«Tu lavori dalla signorina Flitworth?»

SÌ.

«Mio papà dice che ti sei piazzato come si deve».

Bill Porta non riuscì a pensare a una risposta, perché non aveva idea di cosa volesse dire. Era una di quelle affermazioni neutre che fanno gli umani, ma che in realtà nascondevano qualcosa di più sottile, spesso suggerito dal tono o da uno sguardo; ma nessuno di questi era il caso della bambina.

«Papà dice che ha delle casse di tesori».

DAVVERO?

«Io ho due pence».

SANTO CIELO.

«Sal!»

Guardarono tutti e due in su quando la signora Lifton apparve sulla soglia.

«È ora di dormire. Smettila di scocciare il signor Porta».

OH, LE ASSICURO CHE NON MI STA…

«Di’ buonanotte, ora».

«Come fanno gli schelitri a dormire? Mica possono chiudere gli occhi…»

Lui sentì le voci attutite nella taverna.

«Non devi chiamare il signor Porta in quel modo solo perché… è… molto magro…»

«Sì che posso. Non è uno di quelli morti».

La voce della signora Lifton aveva il familiare tono preoccupato di chi non riesce a credere all’evidenza. «Forse è stato molto malato».

«Secondo me più malato di così si muore».

Bill Porta s’incamminò verso casa, pensieroso.

C’era una luce accesa in cucina, ma lui andò dritto alla stalla, salì la scala a pioli del fienile, e si sdraiò.

Poteva rinviare il sogno, ma non sfuggire al ricordo.

Fissò il buio.

Dopo un po’ si accorse di un suono di passetti. Si voltò.

Una fila di pallidi spettri a forma di ratto corse lungo l’asse sopra la sua testa, svanendo mentre correvano, così che in breve rimase solo il suono.

Erano seguiti da… una forma.

Era alta circa quindici centimetri e indossava una veste nera. In una zampetta scheletrica teneva una piccola falce. Un naso bianco con aridi baffetti grigi sporgeva dal cappuccio nero.

Bill Porta allungò una mano e la sollevò. Non fece resistenza, ma lo guardò dal palmo della mano come un professionista che si rivolge a un collega.

Bill Porta disse: E TU SARESTI…?

La Morte dei Ratti annuì.

SQUITT.

MI RICORDO QUANDO ERI UNA PARTE DI ME, disse Bill Porta.

La Morte dei Ratti squittì di nuovo.

Bill Porta rovistò nelle tasche della tuta da lavoro. Ci aveva messo qualcosa da mangiare. Ah sì, ecco.

IMMAGINO, disse, CHE AZZANNERESTI UN PEZZO DI FORMAGGIO?

La Morte dei Ratti accettò con garbo.

Bill Porta ricordò di essere andato a troncare un uomo una volta (solo una volta) che aveva passato quasi tutta la sua vita rinchiuso nella cella di una torre per qualche presunto crimine, e aveva addestrato degli uccellini per avere compagnia durante la sua condanna a vita. Quelli defecavano sul suo letto e mangiavano il suo cibo, ma lui li tollerava e sorrideva guardandoli volare dentro e fuori dall’alta finestra con le sbarre. Morte all’epoca si era chiesto perché mai avesse fatto una cosa del genere.

NON VOGLIO TRATTENERTI, disse. IMMAGINO CHE TU ABBIA COSE DA FARE, RATTI DA VEDERE. SO COME FUNZIONA.

E ora capiva.

Posò di nuovo la figurina sulla trave, e si distese sulla paglia.

FERMATI QUANDO PASSI DI QUA.

Bill Porta tornò a fissare l’oscurità.

Sonno. Lo sentiva in agguato, con la sua manciata di sogni.

Resistette.


La signorina Flitworth lo fece sobbalzare con un urlo.

La porta della stalla si aprì di botto.

«Bill! Scendi giù subito!»

Lui appoggiò i piedi sulla scaletta.

CHE COSA SUCCEDE SIGNORINA FLITWORTH?

«Qualcosa sta bruciando!»

Attraversarono l’aia di corsa fino alla strada. Il cielo sul villaggio era rosso.

«Andiamo!»

MA NON È IL NOSTRO INCENDIO.

«Lo sarà presto! Sui tetti di paglia sarà qui in un lampo!»

Raggiunsero l’incrocio con ambizioni di piazza La taverna era già in fiamme, il tetto di paglia saliva verso le stelle in milioni di scintille.

«Guardali, se ne stanno tutti fermi» ringhiò la signorina Flitworth. «Lì c’è la pompa, ci sono secchi dappertutto, perché la gente non ragiona?»

Ci fu un po’ di subbuglio poco lontano, mentre un paio di clienti cercavano di impedire a Lifton di correre nell’edificio. Lui stava urlando.

«La bambina è ancora dentro» disse la signorina Flitworth. «Ha detto questo?»

SÌ.

Le fiamme avvolgevano tutte le finestre del piano superiore.

«Deve esserci un modo» disse la signorina Flitworth. «Forse se trovassimo una scala…»

NON DOBBIAMO.

«Cosa? Dobbiamo provare. Non possiamo lasciare là dentro della gente!»

LEI NON CAPISCE, disse Bill Porta. GIOCARE CON IL DESTINO DI UN SINGOLO PUÒ DISTRUGGERE IL MONDO INTERO.

Lei lo guardò come se fosse matto.

«Che cavolate stai dicendo?»

VOGLIO DIRE CHE PER TUTTI ARRIVA LA PROPRIA ORA.

Lei lo fissò. Poi prese lo slancio e gli mollò un ceffone in piena faccia.

Era più duro di quanto si aspettasse. Urlò e si portò le nocche alla bocca.

«Tu sparisci dalla mia fattoria stanotte, signor Porta» disse rabbiosamente. «Capito?» Poi girò sui tacchi e corse verso la pompa.

Alcuni uomini avevano portato dei lunghi ganci per tirare giù dal tetto la paglia in fiamme. La signorina Flitworth organizzò una squadra per portare una scala fino a una delle finestre delle camere da letto, ma quando riuscirono a convincere uno a salire, protetto da una coperta bagnata, la cima della scala era già in cenere.

Bill Porta guardava le fiamme.

Tirò fuori dalla tasca la clessidra d’oro. Il fuoco la faceva risplendere di rosso. La rimise in tasca.

Parte del tetto crollò.

SQUITT.

Bill Porta guardò in basso. Una piccola figura con un manto nero avanzò tra le sue gambe verso la porta in fiamme.

Qualcuno urlò a proposito di certi barili di brandy.

Bill Porta tirò fuori di nuovo la clessidra. Il suo sibilo sovrastava il fragore del fuoco. Il futuro scorreva nel passato, e c’era molto più passato che futuro, ma quello che scorreva era sempre ora.

La rimise in tasca.

Morte sapeva che giocare con il destino di un singolo poteva distruggere il mondo intero. Lo sapeva, e basta.

Per Bill Porta, invece, era tutto da vedere.

OH, PORCA MISERIA, disse.

Ed entrò nella casa in fiamme.


«Ehm. Sono io, Bibliotecario» disse Windle, cercando di gridare attraverso il buco della serratura. «Windle Poons».

Cercò di bussare ancora.

«Ma perché non risponde?»

«Non lo so» disse una voce alle sue spalle.

«Schleppel?»

«Perché mi stai dietro?»

«Io devo stare dietro a qualcosa, signor Poons. È questo che fa l’uomonero.»

«Bibliotecario?» disse Windle bussando ancora.

«Oook».

«Perché non mi fa entrare?»

«Oook».

«Ma devo fare una ricerca»

«Oook oook!»

«Be’, sì, è vero. E allora? Cosa c’entra?»

«Oook!»

«Ma non è giusto!»

«Che sta dicendo, signor Poons?»

«Non mi fa entrare perché sono morto!»

«È normale. È proprio il genere di cosa di cui Reg Scarpa parla sempre».

«C’è qualcun altro che capisce qualcosa di forza vitale?»

«C’è sempre la signora Torta, direi. Però è un po’ strana».

«Chi è la signora Torta?» Poi Windle si rese conto di ciò che l’altro aveva appena detto. «Ti ricordo che sei l’uomonero».

«Non conosce la signora Torta?»

«No».

«Non credo che le interessi la magia… e comunque il signor Scarpa dice che non dovremmo parlare con lei. Dice che sfrutta i morti».

«E come?»

«È una medium. Oddio, più una small».

«Davvero? Bene, andiamo a parlarle. E… Schleppel?»

«Sì?»

«È inquietante sapere che mi stai sempre alle spalle».

«Mi agito molto se non sto dietro qualcosa, signor Poons».

«Non ti puoi appostare dietro qualcos’altro?»

«Cosa suggerisce, signor Poons?»

Windle ci pensò su. «Sì, potrebbe funzionare» disse piano, «se trovo un cacciavite».


Modo il giardiniere era in ginocchio a pacciamare le dalie quando sentì un grattare e un battere ritmico alle sue spalle, come se qualcuno stesse cercando di spostare un oggetto pesante.

Si voltò.

«’Sera, signor Poons. Ancora morto, eh?»

«’Sera, Modo. L’hai proprio messo su bene, questo posto».

«C’è qualcuno che sposta una porta dietro di lei, signor Poons».

«Sì, lo so».

La porta avanzava cautamente lungo il vialetto. Passando accanto a Modo ruotò goffamente su se stessa, come se chiunque la stesse portando volesse nascondercisi dietro il più possibile.

«È una specie di porta di sicurezza» disse Windle.

Fece una pausa. Qualcosa non andava. Non era ben sicuro di cosa, ma all’improvviso sembrava tutto molto sbagliato, come una stonatura in un’orchestra. Si guardò intorno.

«Cos’è quella cosa in cui metti le erbacce?» chiese.

Modo lanciò un’occhiata all’oggetto che aveva accanto.

«Bello, eh?» disse. «L’ho trovato accanto ai mucchi del compost. La mia carriola si è rotta, ed ecco che è comparso…»

«Mai visto niente di simile prima» disse Windle. «Chi mai farebbe un cesto di fil di ferro così grande? E poi le ruote sembrano troppo piccole».

«Ma si spinge bene, per il manico» disse Modo. «È strano che qualcuno l’abbia buttato via. Chi butterebbe via una cosa del genere, signor Poons?»

Windle fissava il carrello. Non riusciva a togliersi la sensazione che il carrello stesse fissando lui.

Si sentì dire: «Forse è arrivato qui da solo».

«Esatto, signor Poons! Voleva un po’ di pace, secondo me!» disse Modo. «Lei è un fenomeno!»

«Sì» disse Windle, in tono infelice. «Sembra proprio che sia così».

Si avviò in città, conscio dei rumori alla porta dietro di lui.

Se qualcuno un mese fa mi avesse detto, pensò, che pochi giorni dopo la mia morte mi sarei ritrovato a camminare per strada seguito da un uomonero timido nascosto dietro una porta… gli avrei riso in faccia.

No, invece no. Avrei detto «Eh?» e «Cosa?» e «Parla più forte!» e non avrei capito niente comunque.

Accanto a lui, qualcuno abbaiò.

Un cane lo stava guardando. Era un cane molto grosso. In effetti, l’unica ragione per cui si poteva dire che era un cane e non un lupo era che tutti sanno che in città non ci sono lupi.

Il cane ammiccò. Windle pensò: ‘Non c’era luna piena ieri’.

«Lupine?» azzardò.

Il cane annuì.

«Sai parlare?»

Il cane scosse la testa.

«Allora cosa fai adesso?»

Lupine scrollò le spalle.

«Vuoi venire con me?»

Un’altra scrollata che quasi dette voce al pensiero: perché no? Che altro ho da fare?

Se qualcuno un mese fa mi avesse detto, pensò, che pochi giorni dopo la mia morte mi sarei ritrovato a camminare per strada seguito da un uomonero timido nascosto dietro una porta e accompagnato da una specie di negativo di un lupo mannaro… probabilmente gli avrei riso in faccia. Dopo essermi fatto ripetere tutto un paio di volte. A voce alta.

La Morte dei Ratti radunò gli ultimi clienti, molti dei quali venivano dal tetto di paglia, e li condusse attraverso le fiamme verso il posto in cui andavano i bravi ratti dopo morti.

Vide con sorpresa una figura in fiamme farsi strada nella massa incandescente di travi e assi crollate. Salendo le scale infuocate tolse qualcosa dai frammenti disintegrati dei suoi abiti e se lo mise con cura fra i denti.

La Morte dei Ratti non aspettò di vedere cosa succedeva dopo. Mentre, per certi versi, era antica quanto il primo protoratto, aveva anche meno di un giorno di vita e ancora stava cercando la sua strada come Morte; e avvertiva che quel rombo cupo che scuoteva l’edificio era il rumore del brandy che cominciava a bollire nei barili.

La cosa particolare del brandy che bolle è che non bolle a lungo.


La sfera di fuoco lanciò pezzi di taverna a mezzo miglio di distanza. Fiamme incandescenti eruppero dai buchi che erano stati porte e finestre. Le mura esplosero. Travi infuocate mulinarono nell’aria. Qualcuna andò a seppellirsi sotto i tetti vicini, appiccando nuovi incendi.

Rimase solo una luce da far lacrimare gli occhi.

E poi piccole pozze d’ombra, nella luce.

Si riunirono a formare la sagoma di un’alta figura che correva in avanti, portando qualcosa.

Passò tra la folla coperta di vesciche e si avviò per la strada buia e fredda verso la fattoria. La gente la seguì, muovendosi nella penombra come la coda di una cometa scura.

Bill Porta salì nella stanza da letto della signorina Flitworth e posò la bambina sul letto.

HA DETTO CHE DA QUESTE PARTI C’È UN FARMACISTA.

La signorina Flitworth si fece strada tra la folla in cima alle scale.

«Ce n’è uno a Chambly» disse. «Ma c’è anche una strega sulla via di Lancre».

NIENTE STREGHE. NIENTE MAGIA. MANDATE A CHIAMARLO. E TUTTI GLI ALTRI, FUORI.

Non era un suggerimento. Non era nemmeno un ordine. Era semplicemente un’affermazione inconfutabile.

La signorina Flitworth agitò le braccia magre.

«Avanti, lo spettacolo è finito! Sciò! Siete nella mia camera da letto! Forza, tutti fuori!»

«Come ha fatto?» disse qualcuno, in fondo al gruppo. «Nessuno sarebbe potuto uscire vivo da lì! Abbiamo visto esplodere tutto!»

Bill Porta si voltò lentamente.

CI SIAMO NASCOSTI, disse. IN CANTINA.

«Ecco! Visto?» disse la signorina Flitworth. «In cantina. Si capisce».

«Ma la taverna non ha una…» iniziò il dubbioso, e s’interruppe. Bill Porta lo stava fulminando con lo sguardo.

«In cantina» si corresse. «Certo. Giusto. Astuto».

«Molto astuto» disse la signorina Flitworth. «Ora andatevene, tutti».

La sentì mandare tutti via, fuori di casa e nella notte. La porta sbatté. Non la sentì tornare su per le scale con una ciotola di acqua fredda e un panno. La signorina Flitworth riusciva ad avere un passo molto leggero, se ci si metteva.

Entrò e si chiuse la porta alle spalle.

«I suoi genitori vorranno vederla» disse. «Sua madre è svenuta e Big Henry il mugnaio ha steso suo padre che voleva entrare nella taverna, ma saranno qui subito».

Si chinò e passò il panno sulla fronte della bambina «Dov’era?»

SI ERA NASCOSTA IN UNA CREDENZA.

«Da un incendio?»

Bill Porta scrollò le spalle.

«È incredibile come tu possa averla trovata con quel calore e quel fumo» disse.

DICIAMO CHE HO AVUTO FORTUNA.

«E non ha nemmeno un graffio».

Bill Porta ignorò la domanda implicita.

HA MANDATO A CHIAMARE IL FARMACISTA?

«Sì».

NON DEVE PORTARE VIA NULLA.

«Che vuoi dire?»

RIMANGA QUI QUANDO ARRIVA. NON DOVETE PORTARE VIA NULLA DA QUESTA STANZA.

«Che stupidaggine. Perché dovrebbe portare via qualcosa?»

È MOLTO IMPORTANTE. ORALA DEVO LASCIARE.

«Dove vai?»

NELLA STALLA. CI SONO COSE CHE DEVO FARE. NON RIMANE MOLTO TEMPO.

La signorina Flitworth fissò la piccola figura sul suo letto. Sentiva di non avere piede in quelle acque, e di non poter fare altro che tenersi a galla.

«Sembra che stia dormendo» disse, impotente. «Ma che cos’ha?»

Bill Porta si fermò in cima alle scale.

STA VIVENDO UN TEMPO PRESO IN PRESTITO, disse.


C’era una vecchia fucina dietro la stalla. Non veniva utilizzata da anni. Ma ora scintille gialle e rosse pulsavano come un cuore nell’aia.

E c’era anche un battito regolare. A ogni colpo la luce splendeva di blu.

La signorina Flitworth entrò in silenzio dalla porta aperta. Se fosse stato il tipo di persona che giurava, avrebbe potuto giurare di non aver fatto alcun rumore udibile con lo scoppiettio del fuoco e i colpi del martello, ma Bill Porta si voltò, tenendo fra le mani una lama ricurva.

«Sono io!»

Lui si rilassò, o quanto meno passò a un diverso livello di tensione.

«Che diavolo stai facendo?»

Lui guardò la lama come se la vedesse per la prima volta.

HO PENSATO DI AFFILARE LA FALCE, SIGNORINA FLITWORTH.

«All’una del mattino?»

Lui la guardò con occhi vuoti.

È PUR SEMPRE SMUSSATA ANCHE ALL’UNA DEL MATTINO, SIGNORINA FLITWORTH.

E tornò a martellarla sull’incudine.

E NON RIESCO AD ARROTARLA COME SI DEVE!

«Credo che il calore ti abbia dato alla testa» disse lei, e gli prese il braccio.

«Oltretutto, a me sembra già…» cominciò, poi si interruppe. Le sue dita passarono sull’osso del braccio. Si ritrassero un istante, poi si chiusero di nuovo.

Bill Porta rabbrividì.

La signorina Flitworth non esitò a lungo. In settantacinque anni aveva affrontato guerre, carestie, innumerevoli animali malati, un paio di epidemie e migliaia di minuscole tragedie quotidiane. Uno scheletro depresso non rientrava nemmeno nella sua top ten del peggio.

«Allora sei davvero tu» disse.

SIGNORINA FLITWORTH, IO…

«Ho sempre saputo che saresti arrivato, un giorno».

CREDO CHE FORSE…

«Sai, ho passato la maggior parte della mia vita ad aspettare un cavaliere su un bianco destriero». La signorina Flitworth sorrise. «Bella figura da scema, eh?»

Bill Porta sedette sull’incudine.

«È venuto il farmacista» disse lei. «Ha detto che non poteva fare nulla. Ha detto che la bambina sta bene, ma non siamo riusciti a svegliarla. E sai, ci è voluta una vita a farle aprire la mano. La teneva così stretta».

HO DETTO CHE NON SI DOVEVA PORTARE VIA NULLA!

«Sì, lo so. Infatti gliel’abbiamo lasciata tenere».

BENE.

«Che cos’era?»

IL MIO TEMPO.

«Prego?»

IL MIO TEMPO. IL TEMPO DELLA MIA VITA.

«Assomiglia a un segnatempo per uova molto costose».

Bill Porta parve sorpreso.

IN UN CERTO SENSO, SÌ. LE HO DATO UN PO’ DEL MIO TEMPO.

«E com’è che tu hai bisogno di tempo?»

OGNI COSA VIVENTE HA BISOGNO DI TEMPO. E QUANDO FINISCE, SI MUORE. QUANDO QUEL TEMPO FINIRÀ, LEI MORIRÀ. E ANCHE IO, TRA POCHE ORE.

«Ma tu non puoi…»

INVECE SÌ. È DIFFICILE DA SPIEGARE.

«Fatti in là».

COSA?

«Spostati. Mi voglio sedere».

Bill Porta fece spazio sull’incudine, e lei si sedette.

«Perciò tu morirai» disse.

SÌ.

«E non ti va».

NO.

«Perché no?»

Lui la guardò come se fosse matta.

PERCHÉ DOPO NON CI SARÀ NIENTE. PERCHÉ NON ESISTERÒ.

«Anche per gli umani è così?»

NON CREDO. PER VOI È DIVERSO. È TUTTO ORGANIZZATO MOLTO MEGLIO.

Rimasero entrambi a guardare il fuoco che moriva nella fucina.

«Allora perché stavi affilando la falce?»

HO PENSATO CHE FORSE POTEVO… RESISTERE…

«Ha mai funzionato? Con te, intendo».

DI SOLITO NO. A VOLTE LA GENTE MI SFIDA A QUALCHE GIOCO, PER LA LORO VITA.

«E vincono?»

NO. L’ANNO SCORSO UNO HA PRESO TRE STRADE CON TUTTI GLI ALBERGHI.

«Eh? Che razza di gioco è?»

NON RICORDO. ‘POSSESSO ESCLUSIVO’, CREDO. IO ERO IL FUNGO.

«Un momento» disse la signorina Flitworth. «Se tu sei tu, chi verrà per te?»

MORTE. IERI SERA QUALCUNO HA PASSATO QUESTO SOTTO LA PORTA.

Morte aprì la mano e mostrò un pezzetto di carta sporco, su cui la signorina Flitworth lesse, con qualche difficoltà, la parola ‘OooooEEEeeOOOoooEEeeeOOOoooEEeee’.

HO RICEVUTO LA NOTA DELLA BANSHEE, ANCHE SE SCRITTA MALE.

La signorina Flitworth lo guardò con la testa inclinata di lato.

«Ma… correggimi se sbaglio…»

LA NUOVA MORTE.

Bill Porta riprese la falce.

SARÀ TERRIBILE.

Rigirò la lama fra le mani. La luce blu scintillò sul taglio.

IO SARÒ IL PRIMO.

La signorina Flitworth guardò la luce, affascinata.

«Quanto terribile, esattamente?»

QUANTO RIESCE A IMMAGINARE?

«Ah».

ESATTAMENTE. COSÌ TERRIBILE.

La lama roteò.

«E anche per la bambina» disse la signorina Flitworth.

SÌ.

«Non credo di doverti favori, signor Porta. Non credo che ci sia qualcuno al mondo che ti deve un favore».

DIREI CHE HA RAGIONE.

«Bada bene, anche la vita ha due o tre cosette di cui rispondere. Quello che è giusto è giusto».

NON SAPREI DIRE.

La signorina Flitworth gli dette un’altra lunga occhiata di valutazione.

«C’è un’ottima mola nell’angolo» disse.

L’HO USATA.

«E c’è una pietra da cote nell’armadio».

HO USATO ANCHE QUELLA.

Lei credette di sentire un suono, simile a un gemito dell’aria, quando la lama si mosse.

«E non è ancora abbastanza affilata?»

Bill Porta sospirò.

POTREBBE NON ESSERLO MAI.

«Dai, amico. Non ha senso rinunciare» disse la signorina Flitworth. «Finché c’è vita… eh?»

FINCHÉ C’È VITA EH COSA?

«C’è speranza?»

C’È?

«Certo che c’è».

Bill Porta passò il dito ossuto lungo il taglio.

SPERANZA?

«Hai qualche altra idea?»

Bill scosse la testa. Aveva provato diverse emozioni, ma questa era nuova.

POTREBBE PRENDERMI L’AFFILATOIO?

Era passata un’ora.

La signorina Flitworth rovistava nella borsa degli stracci.

«E adesso?»

COSA ABBIAMO USATO FINORA?

«Vediamo… tela di sacco, cotonina, lino… che ne dici del raso? Eccone un pezzo».

Bill Porta prese la pezza e la passò delicatamente sulla lama.

La signorina Flitworth pescò in fondo al sacco e tirò fuori un campione di stoffa bianca.

SÌ?

«Seta» disse lei piano. «La miglior seta bianca. Roba autentica. Mai indossata».

Rimase a guardarla.

Dopo un po’ lui gliela tolse con garbo dalle mani.

GRAZIE.

«Bene» disse lei, riscuotendosi. «Abbiamo finito».

Quando lui roteò la lama, quella fece un rumore tipo whommmm. Il fuoco nella fucina era quasi spento, ma la lama splendeva di luce tagliente.

«Affilata sulla seta» disse la signorina Flitworth. «Chi ci crederebbe?»

EPPURE È ANCORA POCO AFFILATA.

Bill Porta si guardò intorno nell’officina buia, poi sfrecciò in un angolo.

«Cos’hai trovato?»

RAGNATELE.

Ci fu un lungo gemito acuto, come di formiche torturate.

«Funziona?»

ANCORA NON VA.

Vide Bill Porta uscire a grandi passi dall’officina, e gli corse dietro. Lui si fermò in mezzo all’aia, tenendo la falce con la lama contro la brezza leggera dell’alba.

Vibrò.

«Quanto si può affilare una lama, per la miseria?»

MOLTO PIÙ DI COSÌ.

Nel pollaio, Cyril il gallo si svegliò e guardò con occhi velati le parole traditrici scritte col gesso sulla lavagna. Respirò a fondo.

«Cuccuruccù!»

Bill Porta guardò l’orlo dell’orizzonte e poi, con occhio indagatore, la piccola collina dietro la casa.

Si lanciò in avanti, con le gambe che facevano clac sul terreno.


La luce del nuovo giorno inondò il mondo. La luce di Mondo Disco è vecchia, lenta e pesante; dilagò nel paesaggio come una carica di cavalleria. Di tanto in tanto una valle la rallentava per un momento; qua e là una catena montuosa la arginava finché non straripava dalla cima.

Attraversò il mare, invase la spiaggia e accelerò sulla pianura, guidata dal guinzaglio del sole.

Sul favoloso continente nascosto di Xxxx, da qualche parte vicino all’orlo, c’è una colonia perduta di maghi che porta tappi di sughero sulle punte dei cappelli e vive esclusivamente di gamberi. Là, la luce è ancora fresca e forte quando arriva dallo spazio, e i maghi scivolano come surfisti sull’interfaccia ribollente tra notte e giorno.

Se uno di loro fosse stato portato a migliaia di miglia nell’entroterra dall’alba, avrebbe potuto vedere, mentre la luce correva sulle pianure, una figura scheletrica che arrancava su per una piccola collina sulla via del mattino.

Raggiunse la cima proprio un istante prima dell’arrivo della luce, respirò e poi fece un giro su stessa, china, sorridendo.

Tra le braccia tese teneva una lunga lama.

La luce colpì… si divise… scivolò…

Non che il mago ci avrebbe fatto molto caso, preso com’era dal pensiero delle cinquemila miglia di cammino per tornare indietro.


La signorina Flitworth raggiunse ansimando la cima mentre il nuovo giorno arrivava. Bill Porta era assolutamente immobile, solo la lama si muoveva fra le sue dita mentre la rigirava controluce.

Finalmente sembrò soddisfatto.

Si voltò e menò qualche fendente di prova nell’aria.

La signorina Flitworth si piantò le mani sui fianchi. «Oh, dai» disse.

«Non si/ /niente con la/

/ può affilare / / luce».

Fece una pausa.

«Oh/ /buono».

/dio /

Giù nell’aia, Cyril tese il collo glabro per un altro round. Bill Porta sorrise, e tirò un fendente verso il suono.

«Schi/ /ccù!»

/ ccaru/

Poi abbassò la falce.

COSÌ È AFFILATA.

Il sorriso si spense, per quel che poteva.

La signorina Flitworth si voltò, seguendo lo sguardo di lui fino a incrociare una nebbia sui campi di grano.

Sembrava una veste grigio chiaro, vuota ma in qualche modo ancora sagomata su una forma umana, come un indumento appeso ad asciugare alla brezza.

«L’ho visto».

NON ERA LUI. ERANO LORO.

«Loro chi?»

SONO COME… (Bill Porta fece un gesto vago)… SERVI. OSSERVATORI. REVISORI. ISPETTORI.

La signorina Flitworth strinse gli occhi.

«Ispettori? Come quelli del Fisco?» disse.

IMMAGINO DI SÌ…

Lei si illuminò.

«Perché non l’hai detto?»

PREGO?

«Mio padre mi ha sempre fatto promettere di non aiutare mai quelli del Fisco. Anche solo a pensarci, diceva, gli veniva una testa così. Diceva che c’erano la morte e le tasse, ma le tasse erano peggio perché almeno la morte non veniva una volta l’anno. Dovevamo uscire dalla stanza quando attaccava con il Fisco. Creature cattive. Sempre a ficcanasare, a chiedere cosa avevi nascosto nella legnaia e dietro i pannelli segreti in cantina, e altre robe che non sono proprio affari di nessuno».

Tirò su col naso.

Bill Porta era colpito. La signorina Flitworth riusciva a dare alla parola ‘Fisco’ tutta la perentorietà della parola ‘feccia’.

«Avresti dovuto dirlo, che ti stavano alle costole» continuò lei. «Il Fisco non è molto popolare da queste parti, sai. Ai tempi di mio padre ogni volta che uno del Fisco veniva a ficcanasare qui da solo, gli legavano dei pesi alle caviglie e lo buttavano nello stagno».

MA LO STAGNO È PROFONDO SOLO UN PALMO, SIGNORINA FLITWORTH.

«Lo so, ma vedere loro che lo scoprivano era divertente. Avresti dovuto dirlo. Tutti qui pensavano che avessi a che fare con le tasse».

NO. LE TASSE NO.

«Bene, bene. Non sapevo ci fosse un Fisco anche Lassù».

SÌ. IN UN CERTO SENSO.

Lei si avvicinò.

«Lui quando verrà?»

STANOTTE. NON POSSO ESSERE PIÙ PRECISO. CI SONO DUE PERSONE CHE VIVONO CON LO STESSO SEGNATEMPO, E QUESTO RENDE LE COSE INCERTE.

«Non sapevo che si potesse dare a qualcuno un po’ di vita».

SUCCEDE CONTINUAMENTE.

«Sei sicuro che sia stanotte?»

SÌ.

«E quella lama funzionerà, vero?»

NON LO SO. HO UNA POSSIBILITÀ SU UN MILIONE.

«Oh». Lei parve riflettere. «Perciò hai il resto della giornata libero, giusto?»

SÌ, PERCHÉ?

«Allora puoi cominciare con il raccolto».

COSA?

«Così ti distrai. Oltretutto ti pago sei pence a settimana E sei pence sono sei pence».


Anche la casa della signora Torta era in Via Olmo. Windle bussò alla porta.

Dopo un po’ una voce attutita disse: «C’è qualcuno?»

«Bussi una volta per il sì» disse Schleppel.

Windle aprì la fessura per le lettere.

«Ehm… signora Torta?»

La porta si aprì.

La signora Torta non era come Windle se l’era aspettata. Era grossa, ma non nel senso di grassa. Aveva solo delle proporzioni leggermente maggiori del normale; il tipo di persona che attraversa la vita chinandosi appena, con l’aria di scusarsi se inavvertitamente incombe su qualcuno. E poi aveva capelli magnifici. Le incoronavano la testa e le scendevano sulle spalle come un mantello. Aveva anche orecchie leggermente appuntite e denti che, pur bianchi e piuttosto belli, splendevano in modo inquietante. Windle rimase sbalordito dalla velocità con cui i suoi sensi acuiti di zombie giunsero a una conclusione. Guardò in basso.

Lupine si era seduto di scatto, troppo eccitato anche solo per scodinzolare.

«Non credo che lei sia la signora Torta» disse Windle.

«Lei cerca la mamma» disse la ragazza alta. «Mamma! C’è un signore!»

Un borbottio lontano divenne un borbottio più vicino, e poi la signora Torta apparve a fianco della figlia come una piccola luna che emerge dall’ombra di un pianeta.

«Cosa vuole?» chiese.

Windle fece un passo indietro. A differenza della figlia, la signora Torta era piuttosto bassa, e quasi perfettamente sferica. E ancora a differenza della figlia, la cui postura era interamente dedicata al tentativo di sembrare piccola, si notava moltissimo. Ciò era ampiamente dovuto al suo cappello, che come Windle scoprì in seguito, indossava sempre con la dedizione di un mago. Era enorme, nero, e con delle cose sopra, come ali di uccello, ciliegie finte e spilloni; Carmen Miranda avrebbe potuto indossarlo al funerale di un continente. La signora Torta viaggiava sotto il cappello come un cesto sotto una mongolfiera. Gli altri si ritrovavano spesso a parlare con il suo cappello.

«Signora Torta?» chiese Windle, affascinato.

«Sono quaggiù» disse una voce in tono di rimprovero.

Windle abbassò lo sguardo.

«Sono proprio io» ribadì la signora Torta.

«Parlo con la signora Torta in persona?» chiese Windle.

«Sì, lo so» disse la signora.

«Mi chiamo Windle Poons».

«So anche questo».

«Vede, io sono un mago…»

«Va bene, ma pulitevi i piedi».

«Posso entrare?»

Windle Poons s’interruppe. Riascoltò le battute della conversazione nella sala di controllo della sua mente. Poi sorrise.

«Esatto» disse la signora Torta.

«Per caso lei è una veggente naturale?»

«Di solito circa dieci secondi, signor Poons».

Windle esitò.

«Deve fare la domanda» aggiunse in fretta la signora Torta. «Mi viene l’emicrania se la gente lo fa apposta a non farmi domande che ho già previsto e a cui ho già risposto».

«Quanto riesce a vedere nel futuro, signora Torta?»

Lei annuì.

«Va bene» disse, apparentemente rabbonita, e fece strada verso un minuscolo salotto. «Anche l’uomonero può entrare, se però lascia la porta fuori e va in cantina. Non mi va di averne in giro per casa».

«Ehi, è una vita che non vado in una cantina vera» disse Schleppel.

«Ci sono i ragni» disse la signora Torta.

«Uau!»

«E lei gradisce un tè» disse la signora Torta a Windle. Un’altra avrebbe detto ‘Magari gradisce un tè’ oppure ‘Le va una tazza di tè?’ Ma quella invece era un’affermazione.

«Sì, grazie» disse Windle. «Molto volentieri».

«Non dovrebbe» disse la signora Torta. «Quella roba le fa marcire i denti».

Windle elaborò.

«Due zollette, grazie» disse.

«Non è male».

«Ha una bella casa, signora Torta» disse Windle, con la mente che andava a mille. L’abitudine della signora Torta di rispondere alle domande mentre ancora ti si formavano nella testa metteva alla prova anche i cervelli più attivi.

«È morto da dieci anni» disse la signora Torta.

«Ehm» disse Windle, ma la domanda era già lì nella sua laringe. «Il signor Torta gode di ottima salute, spero».

«Non è grave. Ogni tanto ci parliamo» disse la signora Torta.

«Oh, mi dispiace» disse Windle.

«Va bene, se la fa sentire meglio».

«Ehm… signora Torta? Mi sto un po’ confondendo. Potrebbe… spegnere… la premonizione?»

Lei annuì.

«Scusi. È che ormai mi sono abituata a lasciarla accesa» disse, «col fatto che qua ci siamo solo io e Ludmilla e Un-Secchio. Lui è uno spettro» aggiunse. «So che stava per chiederlo».

«Sì, ho sentito che i medium hanno uno spirito guida nativo» disse Windle.

«Chi, lui? No, ma che guida. È un fantasma occasionale» ribatté la signora Torta. «Io non mi ci trovo con quella roba di carte, trombette e tavole Ouija, badi bene. E l’ectoplasma mi fa schifo. In casa mia non ce lo voglio. Non lo togli dai tappeti manco con l’aceto».

«Ma pensa» commentò Windle.

«O i lamenti. Non li sopporto. O tutte quelle robe soprannaturali. Il soprannaturale non è naturale. Non fa per me».

«Ehm» disse cautamente Windle. «Secondo alcuni essere una medium è un po’… come dire… soprannaturale?»

«Che? Cosa? Non c’è niente di soprannaturale nei morti. Che sciocchezze. Tutti muoiono prima o poi».

«Lo spero proprio, signora Torta».

«Allora, signor Poons, cosa vuole? Non ho la premonizione accesa, perciò deve dirmelo».

«Voglio sapere cosa sta succedendo, signora Torta».

Ci fu un colpo sordo sotto i loro piedi e la voce lontana e felice di Schleppel.

«Oh, sì! Ci sono anche i topi!»

«Sono venuta su a dirvelo, a voi maghi» disse la signora Torta, in tono sostenuto. «E nessuno mi ha ascoltato. Lo sapevo che non mi avrebbero ascoltato, ma dovevo provare, altrimenti non l’avrei saputo».

«Con chi ha parlato?»

«Quello grosso col vestito rosso e dei baffi che pare che ha ingoiato un gatto».

«Ah. L’Arcicancelliere» disse Windle, sicuro.

«E ce n’era anche uno enorme, grasso. Cammina come una papera».

«È proprio vero. Quello è il Decano» approvò Windle.

«Mi hanno chiamato brava donna» proseguì la signora Torta. «Mi hanno detto di farmi i fatti miei. Perché mai devo andare ad aiutare dei maghi che mi chiamano brava donna, mentre io cercavo solo di dare una mano?»

«Temo che i maghi non stiano spesso a sentire» disse Windle. «Io non ho mai ascoltato nessuno, per centotrenta anni».

«Perché no?»

«Per paura di sentire le cavolate che dicevo, credo. Che sta succedendo, signora Torta? A me può dirlo. Magari sono un mago, ma sono anche morto».

«Ecco…»

«Schleppel ha detto che è una questione di forza vitale».

«Si sta accumulando».

«Ma che significa?»

«Che ce n’è di più di quella che dovrebbe esserci. C’è…» agitò le mani in un gesto vago. «Come si dice quando le cose stanno su una bilancia a piatti ma non alla stessa altezza…»

«Squilibrio?»

La signora Torta, che sembrava stesse leggendo una scritta lontana, annuì.

«Una di quelle cose, sì… a volte capita, ma poco, e così escono i fantasmi, perché la vita non è più nel corpo ma non se n’è andata… capita meno d’inverno, perché scorre via, e ritorna in primavera… e certe cose la fanno concentrare…»


Modo, il giardiniere dell’Università, canticchiava a bocca chiusa spingendo lo strano carrello nel suo piccolo spazio privato tra la Biblioteca e l’Edificio di Magia ad Alta Energia,[12] con un carico di erbacce pronte per il compost.

Sembrava esserci un sacco di agitazione. Era proprio interessante, lavorare con quei maghi.

Lavoro di squadra, ecco cos’era. Loro si curavano dell’equilibrio cosmico, delle armonie universali e del bilanciamento delle dimensioni, e lui badava che gli afidi stessero lontani dalle rose.

Sentì un tintinnio. Sbirciò oltre il mucchio di erbacce.

«Un altro?»

Sul vialetto c’era un altro cesto di lucido fil di ferro su rotelle.

Forse gliel’avevano comprato i maghi? Il primo era stato utile, anche se un po’ difficile da manovrare; le rotelle sembravano voler andare ognuna per i fatti suoi. Probabilmente c’era un trucco.

Be’, questo sarebbe stato utile per portare le sementi. Spinse da parte il secondo carrello e alle sue spalle sentì un suono che, se avesse dovuto scriverlo, e se avesse saputo scrivere, sarebbe stato così: glop.

Si voltò, vide il mucchio del compost più grosso che pulsava nel buio e disse: «Guarda cosa ti ho portato per il tè!»

E poi si accorse che si stava muovendo.


«Anche certi posti…» disse la signora Torta.

«Ma perché si accumula?» chiese Windle.

«È come un temporale, capisce? Sa com’è quella sensazione di formicolio prima di una tempesta? È quello che sta succedendo».

«Sì, ma perché, signora Torta?»

«Ecco… Un-Secchio dice che non sta morendo nulla».

«Cosa?»

«Che follia, eh? Dice che un sacco di vite stanno finendo, ma non vanno via. Rimangono qui».

«Come i fantasmi?»

«Non proprio fantasmi. Come… pozzanghere. Se ci sono molte pozzanghere, è come il mare. E comunque i fantasmi sono solo delle persone. Fantasmi di cavolfiori non ce ne sono».

Windle Poons si appoggiò allo schienale. Immaginò un grande bacino di vita, un lago alimentato da un milione di affluenti dalla vita breve che arrivano alla fine del loro corso. E la forza vitale stava traboccando, man mano che la pressione aumentava. E colava da ogni dove.

«Crede che potrei scambiare una parola con Un-» cominciò, e s’interruppe.

Si alzò e barcollò verso la mensola sul caminetto.

«Da quanto tempo ha questo, signora Torta?» domandò, prendendo un piccolo oggetto familiare di vetro.

«Quello? L’ho comprato ieri. Carino, no?»

Windle agitò la sfera. Era quasi identica a quelle sotto le assi del suo pavimento. I fiocchi di neve turbinarono e si posarono sulla riproduzione perfetta dell’Università Invisibile.

Gli faceva ricordare tanto qualcosa. Be’, ovviamente l’edificio gli ricordava l’Università, ma la forma dell’oggetto aveva qualcosa che gli faceva pensare a…

… alla colazione?

«Perché sta succedendo?» chiese, più a se stesso. «Questi maledetti cosi spuntano dappertutto».


I maghi correvano per il corridoio.

«Come si uccidono i fantasmi?»

«Che ne so? Di solito il problema non si pone!»

«Con la disinfestazione spiritica, mi sa».

«Sarebbe? Li spruzzi con il brandy?»

Il Decano l’aveva previsto. «No, Arcicancelliere. Credo che sia una specie di esorcismo».

«Voglio sperare. Non spreco brandy per dei fantasmi».

Ci fu un urlo agghiacciante. Riecheggiò fra le colonne e le arcate, e s’interruppe all’improvviso.

L’Arcicancelliere si fermò di botto. I maghi lo tamponarono a catena.

«Sembrava un urlo agghiacciante» disse lui. «Seguitemi!»

Girò l’angolo di corsa.

Ci fu un fragore metallico, e parecchie imprecazioni.

Qualcosa di piccolo, a righe rosse e gialle, con piccole zanne sbavanti e tre paia di ali, girò l’angolo in volo e sfrecciò sopra la testa del Decano con un suono simile a una sega circolare in miniatura.

«Qualcuno sa cos’era?» chiese il Tesoriere con voce flebile. La cosa orbitò attorno ai maghi e poi svanì nell’oscurità del soffitto. «E vorrei che non imprecare così tanto».

«Forza» rispose il Decano. «Andiamo a vedere cosa gli è capitato».

«Dobbiamo per forza?» chiese il Sommo Algebrico.

Sbirciarono dietro l’angolo. L’Arcicancelliere era seduto a terra e si massaggiava la caviglia.

«Chi è l’idiota che l’ha lasciato qui?»

«Lasciato cosa?» domandò il Decano.

«Questa specie di cestino di ferro a rotelle del cavolo» disse l’Arcicancelliere. Accanto a lui, una minuscola creatura viola simile a un ragno si materializzò dal nulla e schizzò verso una crepa. I maghi non la notarono.

«Quale cestino a rotelle?» chiesero all’unisono.

Ridcully si guardò intorno.

«Avrei giurato…» cominciò.

Ci fu un altro urlo.

Ridcully si rimise faticosamente in piedi.

«Andiamo, miei prodi!» esclamò, zoppicando eroicamente avanti.

«Ma perché tutti corrono sempre verso le urla agghiaccianti?» borbottò il Sommo Algebrico. «È contro ogni logica».

Trotterellarono fra i chiostri e uscirono in cortile.

Una sagoma arrotondata e scura era piazzata al centro dell’antico prato. Emetteva vapore in piccoli sbuffi sgradevoli.

«Che cos’è?»

«Non può essere un mucchio di compost in mezzo al prato, no?»

«Modo si arrabbierà molto».

Il Decano guardò meglio. «Ehm… sì, specialmente perché credo che quelli che spuntano sotto siano i suoi piedi…»

Il mucchio si girò verso i maghi e fece glop, glop.

Poi si mosse.

«Allora» disse Ridcully fregandosi le mani, speranzoso, «chi di voialtri ha un incantesimo a portata di mano?»

I maghi si toccarono le tasche, a disagio.

«Allora io cerco di attirare la sua attenzione mentre il Tesoriere e il Decano tentano di tirar fuori Modo» disse Ridcully.

«Oh, bene» ribatté flebile il Decano.

«Come si fa ad attirare l’attenzione di un mucchio di compost?» chiese il Sommo Algebrico. «Non so nemmeno se ce l’ha, un’attenzione».

Ridcully si tolse il cappello e avanzò, esitante.

«Mucchio di schifezze!» urlò.

Il Sommo Algebrico gemette e si coprì gli occhi con le mani.

Ridcully agitò il cappello davanti al mucchio. «Spazzatura biodegradabile!»

«Rifiuto verde marcio?» propose il professore di Rune Recenti.

«L’idea è quella» disse l’Arcicancelliere. «Cercare di far arrabbiare il bastardo» (alle sue spalle, una creatura vespiforme e infuriata di una varietà leggermente diversa apparve e ronzò via).

Il mucchio si scagliò verso il cappello.

«Letamaio!» esclamò Ridcully.

«Ehi, ma dico» protestò il professore di Rune Recenti, scioccato.

Il Decano e il Tesoriere strisciarono in avanti, afferrarono ciascuno un piede del giardiniere e tirarono. Modo scivolò fuori dal mucchio.

«Gli ha mangiato i vestiti?» domandò il Decano.

«Ma lui sta bene?»

«Respira ancora» rispose il Tesoriere.

«E con un po’ di fortuna, ha perso l’olfatto» aggiunse il Decano.

Il mucchio morse il cappello di Ridcully. Ci fu un glop, e la punta scomparve.

«Ehi, lì dentro c’era ancora mezza bottiglia!» ruggì Ridcully. Il Sommo Algebrico gli afferrò il braccio.

«Venga via, Arcicancelliere!»

Il mucchio si voltò e si lanciò verso il Tesoriere.

I maghi indietreggiarono.

«Non può essere intelligente, no?» disse il Tesoriere.

«Bighellona in giro e mangia, e basta» disse il Decano.

«Con un cappello a punta potrebbe essere un professore» disse l’Arcicancelliere.

Il mucchio partì alla carica.

«Io non lo definirei bighellonare» osservò il Decano.

Guardarono l’Arcicancelliere, in attesa.

«Via!»

Pur essendo corpulenti come la maggior parte dei membri della facoltà, presero una buona velocità fra i chiostri, si accapigliarono sulla porta, se la chiusero di schianto alle spalle e ci si appoggiarono contro. Quasi subito si sentì un colpo pesante e umido dall’altra parte.

«L’abbiamo seminata, quella cosa» disse il Tesoriere.

Il Decano guardò in basso.

«Credo che stia passando per la porta, Arcicancelliere» mugolò con voce piccina.

«Non faccia lo stupido, ci stiamo appoggiati sopra».

«Non dicevo dalla porta, dicevo per la porta…»

L’Arcicancelliere annusò.

«Cos’è che sta bruciando?»

«I suoi stivali, Arcicancelliere» rispose il Decano.

Ridcully guardò in basso. Una pozzanghera giallo-verdastra si stava espandendo sotto la porta. Il legno si stava carbonizzando, le pietre del pavimento friggevano, e le suole di cuoio dei suoi stivali erano in guai grossi. Sentiva che si stava abbassando lui stesso.

Cincischiò con i lacci, poi saltò su una pietra asciutta.

«Tesoriere!»

«Sì, Arcicancelliere?»

«Mi dia i suoi stivali!»

«Cosa?»

«Maledizione, le ordino di darmi i suoi dannatissimi stivali!»

Stavolta, una lunga creatura con quattro paia di ali, due a ogni estremità, e tre occhi, spuntò dal nulla sopra la testa di Ridcully e gli cadde sul cappello.

«Ma…»

«Io sono il suo Arcicancelliere!»

«Sì, ma…»

«Credo che i cardini stiano partendo» annunciò il professore di Rune Recenti.

Ridcully si guardò disperatamente attorno.

«Ci ritroviamo in Aula Magna» disse. «Ci… ritireremo strategicamente nelle posizioni prestabilite».

«Chi le ha stabilite?» chiese il Decano.

«Le stabiliremo quando arriviamo» rispose l’Arcicancelliere a denti stretti. «Tesoriere! I suoi stivali! Immediatamente!»

Raggiunsero le porte dell’Aula Magna mentre la porta alle loro spalle crollava, semidissolta. Le doppie porte dell’Aula Magna erano molto più robuste. Misero sbarre e paletti.

«Sgombrate i tavoli e metteteli davanti alla porta» ordinò Ridcully.

«Ma lo mangia, il legno» obiettò il Decano.

Dal piccolo corpo di Modo, che avevano appoggiato su una sedia, venne un gemito. Aprì gli occhi.

«Presto!» esclamò Ridcully. «Come facciamo a uccidere un mucchio di compost?»

«Eh. Non credo che si possa, signor Ridcully, signore» rispose il giardiniere.

«E il fuoco? Probabilmente riesco a produrre una piccola palla di fuoco» disse il Decano.

«Non funzionerebbe. Troppo umido» sentenziò Ridcully.

«È qua fuori! Sta mangiando la porta! Sta mangiando la porta» cantilenò il professore di Rune Recenti.

I maghi indietreggiarono ancora per tutta la lunghezza della sala.

«Spero che non mangi troppo legno» disse un confuso Modo, con genuina preoccupazione. «Diventano dei diavoli, scusate il klatchiano, se gli si dà troppo carbonio. Scalda troppo».

«Sai, è proprio il momento adatto per una lezione su come si fa il compost, Modo» disse il Decano.

I nani non conoscono il senso della parola ‘ironia’.

«Bene, ecco. Ehm. L’equilibrio giusto tra i materiali, stratificati correttamente secondo…»

«Ecco la porta» disse il professore di Rune Recenti, arrancando verso il resto del gruppo.

La montagna di mobili cominciò a spostarsi in avanti.

L’Arcicancelliere si guardò disperatamente intorno. Poi il suo sguardo fu attratto da una pesante bottiglia, dall’aria familiare, su uno degli scaffali.

«Carbonio» disse. «È come dire carbone, giusto?»

«Che ne so? Non sono mica un alchimista» piagnucolò il Decano.

L’Arcicancelliere guardò con desiderio la bottiglia di salsa Wow-Wow. La stappò e inalò profondamente.

«I cuochi di qui non la sanno preparare come si deve» disse. «Ci vorranno settimane prima che me ne arrivi un’altra da casa».

Lanciò la bottiglia verso il mucchio che avanzava.

Scomparve nella massa ribollente.

«L’ortica è sempre utile» disse Modo dietro di lui, «aggiunge ferro. E la consolida, di quella non ce n’è mai abbastanza. Per i minerali. Per quanto mi riguarda ho sempre pensato che una piccola quantità di achillea selvatica…»

I maghi sbirciarono da sopra il tavolo rovesciato.

Il mucchio si era fermato.

«È una mia impressione, o sta diventando più grande?» chiese il Sommo Algebrico.

«E sembra anche più contento» osservò il Decano.

«Puzza da fare schifo» disse il Tesoriere.

«Be’. Quella era anche una bottiglia quasi piena» disse tristemente l’Arcicancelliere. «L’avevo a malapena aperta».

«La natura è una cosa meravigliosa, se ci pensi» considerò il Sommo Algebrico. «Non c’è bisogno che mi guardi così male. Facevo solo un’osservazione».

«Ci sono delle volte in cui…» cominciò Ridcully, e in quel momento il mucchio di compost esplose.

Non fu un botto. Fu la più molliccia e corpulenta eruzione nella storia delle flatulenze terminali. Fiamme rosso scuro bordate di nero si innalzarono fino al soffitto. Pezzi del mucchio attraversarono come razzi la sala e si spiaccicarono sulle pareti.

I maghi fecero capolino dalla loro barricata, ora ricoperta di foglie di tè.

Un gambo di cavolfiore atterrò dolcemente sulla testa del Decano.

Lui guardò una piccola chiazza ribollente sul pavimento.

Sulla sua faccia si allargò lentamente un sorriso.

«Uau» disse.

Gli altri maghi si srotolarono dalla loro posizione. La risacca dell’adrenalina agì con la sua seduzione. Sorrisero anche, e cominciarono a darsi amichevoli pacche sulle spalle.

«Beccati ’sta salsa piccante!» ruggì l’Arcicancelliere.

«Tornatene nella siepe, spazzatura fermentata!»

«Siamo o non siamo dei maghi?» gongolò il Decano.

«Be’, e che domanda è?» obiettò il Sommo Algebrico, ma l’ondata di entusiasmo era contro di lui.

«Ecco un compost che non farà più il furbo con dei maghi» disse il Decano, che si stava lasciando trascinare. «Siamo forti, siamo cattivi e…»

«Ce ne sono altri tre là fuori, dice Modo» intervenne il Tesoriere.

Cadde il silenzio.

«Possiamo andare a prendere i nostri bastoni, no?» disse il Decano.

L’Arcicancelliere toccò con la punta dello stivale un pezzo di compost esploso.

«Cose morte che prendono vita. Non mi piace per niente. Cosa verrà dopo? Statue che camminano?»

I maghi guardarono le statue degli Arcicancellieri morti allineate lungo le pareti dell’Aula Magna e anche nella maggior parte dei corridoi dell’Università. Dal momento che l’Università esisteva da migliaia di anni e che gli Arcicancellieri restavano in carica in media undici mesi, c’era una gran quantità di statue.

«Sa, avrei preferito che non l’avesse detto» sospirò il professore di Rune Recenti.

«Era solo un pensiero» liquidò Ridcully. «Avanti, diamo un’occhiata a quegli altri mucchi».

«Sì!» esclamò il Decano in preda a un attacco di machismo poco magico. «Siamo cattivi! Sì! Siamo cattivi?»

L’Arcicancelliere inarcò le sopracciglia, poi si rivolse agli altri maghi.

«Siamo cattivi?» chiese.

«Ehm. Io mi sento ragionevolmente cattivo» rispose il professore di Rune Recenti.

«Io sono decisamente molto cattivo, direi» disse il Tesoriere. «È il fatto di non avere stivali».

«Io sono cattivo se lo sono anche gli altri» disse il Sommo Algebrico.

L’Arcicancelliere si voltò di nuovo verso il Decano.

«Sì, pare che siamo tutti cattivi».

«Yo!» fece il Decano.

«Lei cosa?» chiese Ridcully.

«No, non io, ‘yo’» rispose il Sommo Algebrico. «È un tipico saluto da strada, pieno di sottolineature cameratesche e conviviali tipiche dei gruppi maschili».

«Che? Tipo ‘ehilà, vecchio’?» chiese Ridcully.

«Immagino di sì» ammise riluttante il Sommo Algebrico.

Ridcully era compiaciuto. Ankh-Morpork non aveva mai offerto grandi prospettive per un cacciatore. Non aveva mai pensato di potersi divertire tanto nella sua Università.

«Bene» disse. «Ammucchiamo quei mucchi!»

«Yo!»

«Yo!»

«Yo!»

«Yo-yo».

Ridcully sospirò. «Tesoriere?»

«Sì, Arcicancelliere?»

«Lei almeno ci provi, eh?»


Le nubi si addensavano sulle montagne. Bill Porta fece su e giù per il primo campo, usando una delle falci della fattoria; la più affilata era stata temporaneamente conservata in fondo al fienile, per evitare che lo spostamento d’aria la smussasse. Alcuni dei fittavoli della signorina Flitworth lo seguivano, legando i covoni e accatastandoli. La signorina Flitworth non aveva mai assunto più di un uomo a tempo pieno, e assumeva altri aiutanti quand’era necessario, per risparmiare.

«Non ho mai visto nessuno tagliare il grano con la falce fienaia prima» disse uno di loro. «È un lavoro da falcetto».

Si fermarono per il pranzo, e mangiarono sotto il recinto.

Bill Porta non aveva mai prestato molta attenzione ai nomi e alle facce della gente, non più di quanto fosse necessario al suo lavoro. Il grano si estendeva sul fianco della collina; era fatto di singoli steli, e agli occhi di ogni stelo il vicino poteva sembrare uno stelo dalle grandi qualità, con decine di caratteristiche divertenti e particolari che lo rendevano diverso da tutti gli altri steli. Ma per il mietitore, tutti gli steli sono… steli.

Ora incominciava a riconoscere quelle piccole differenze.


C’erano William Zipolo, Garrulo Wheels e Duca Bottomley. lutti anziani, per quanto poteva giudicare Bill Porta, con la pelle simile a cuoio. In paese c’erano anche dei giovani, uomini e donne, ma dopo una certa età sembravano diventare direttamente vecchi, senza passare attraverso fasi intermedie. E poi restavano vecchi molto a lungo. La signorina Flitworth aveva detto che prima di poter costruire un cimitero da quelle parti avevano dovuto picchiare qualcuno in testa con un badile.


William Zipolo era quello che cantava mentre lavorava, attaccando la lunga nenia nasale che indica che si sta per straziare un canto popolare. Garrulo Wheels non diceva mai nulla; Zipolo sosteneva che era per questo che lo chiamavano Garrulo. Bill Porta non aveva capito la logica dell’affermazione, anche se agli altri sembrava evidente. E Duca Bottomley era stato chiamato così dai genitori in base a un’idea gerarchica anche se semplicistica della struttura di classe: i suoi fratelli si chiamavano Cavaliere, Conte e Re.

Ora sedevano tutti in fila sotto la siepe, rimandando il momento di rimettersi al lavoro. Dalla fine della fila venne un lungo glu-glu.

«Non è una brutta estate» disse Zipolo. «E tanto per cambiare si può mietere con il bel tempo».

«Ah… non bisogna parlare troppo presto» disse Duca. «Ieri sera ho visto un ragno che faceva la tela all’indietro. Segno sicuro di una tempesta in arrivo».

«Non capisco come fanno i ragni a sapere certe cose».

Garrulo Wheels passò a Bill Porta un grosso boccale di terracotta. Qualcosa fece splash.

COS’È QUESTO?

«Succo di mela» rispose Zipolo. Gli altri risero.

AH, disse Bill Porta. DISTILLATO AD ALTA GRADAZIONE ALCOLICA DATO PER GIOCO AL NUOVO ARRIVATO IGNARO, PERCHÉ SIA FONTE DI SEMPLICE DIVERTIMENTO QUANDO SI INEBRIA SENZA RENDERSENE CONTO.

«Miseriaccia» fece Zipolo. Bill Porta bevve un lungo sorso.

«Poi ho visto le rondini che volavano basso» disse ancora Duca. «E le pernici stanno andando nei boschi. E in giro ci sono un sacco di lumaconi. E…»

«Secondo me nessuna di quelle bestiacce ne sa un cavolo, di meteorologia» disse Zipolo. «Secondo me sei tu che glielo dici. Eh, ragazzi? Arriva una tempesta, signor Ragno, fai qualcosa di folcloristico».

Bill Porta bevve ancora.

COME SI CHIAMA IL FABBRO DEL VILLAGGIO?

Zipolo annuì. «Ned Simnel. Ovviamente ora è molto occupato, con il raccolto e tutto il resto».

HO DEL LAVORO PER LUI.

Bill Porta si alzò e si avviò a grandi passi verso il cancello.

«Bill?»

Si fermò. SÌ?

«Il brandy lo puoi lasciare, allora».


L’officina del fabbro era buia e soffocante. Ma Bill Porta aveva un’ottima vista.

Qualcosa si muoveva in mezzo a un complicato mucchio di metallo. Risultò essere la metà inferiore di un uomo. La parte superiore era da qualche parte all’interno del macchinario, dal quale ogni tanto veniva un grugnito.

Quando Bill Porta si avvicinò, spuntò fuori una mano.

«Bene. Dammi un grippolo a tre ottavi».

Bill Porta si guardò intorno. C’era una gran quantità di attrezzi. «Forza, forza» disse una voce da qualche parte dentro la macchina.

Bill Porta scelse un pezzo di metallo sagomato a caso e lo posò sulla mano. La mano fu ritirata. Ci fu un rumore metallico e un grugnito.

«Ho detto un grippolo. Questo non è un…» si udì il suono stridente di un pezzo di metallo che cedeva «Il mio pollice, porca miseria, mi hai fatto…» altro rumore. «Ahiaaa. La mia testa. Guarda cosa mi hai fatto fare. Ti rendi conto che il cricchetto si è di nuovo staccato dall’armatura del perno di articolazione?»

NO. MI DISPIACE.

«Sei tu, Egbert, ragazzo?»

NO. SONO IO, IL VECCHIO BILL PORTA.

Ci fu una serie di tonfi e di rumori metallici mentre la metà superiore dell’essere umano si districava dalla macchina, e si rivelò come appartenente a un giovanotto con capelli neri e ricci, la faccia nera, la camicia nera e il grembiule nero. Si passò uno straccio sul viso, lasciando libera una chiazza rosa, e batté le palpebre per asciugare il sudore dagli occhi.

«Lei chi è?»

IL VECCHIO BILL PORTA LAVORO PER LA SIGNORINA FLITWORTH.

«Ah, sì. L’uomo nel fuoco. È l’eroe del giorno, ho sentito. Dia qua».

CHIEDO SCUSA NON SO ANCORA CHE COSA SIA UN GRIPPOLO A TRE OTTAVI.

«Volevo dire qua la mano, signor Porta».

Bill Porta esitò, poi strinse la mano del giovanotto. Gli occhi cerchiati di grasso si velarono per un momento, in cui la mente prevalse sul senso del tatto, e poi il fabbro sorrise.

«Io mi chiamo Simnel. Che ne pensa, eh?»

È UN BEL NOME.

«No, volevo dire della macchina. Ingegnosa, eh?»

Bill Porta la guardò educatamente senza capire. A prima vista assomigliava a un mulino portatile che fosse stato aggredito da un enorme insetto, e a una seconda occhiata somigliava a una camera di tortura itinerante per un’Inquisizione che avesse voglia di prendere un po’ d’aria fresca. Misteriosi bracci articolati spuntavano a varie angolazioni. C’erano cinghie e lunghe molle. Tutto l’insieme era montato su ruote dentate di metallo.

«Naturalmente da ferma non si apprezza al suo meglio» disse Simnel. «C’è bisogno di un cavallo che la tiri, quanto meno al momento. Ho un paio di idee veramente radicali a quel riguardo» aggiunse con aria sognante.

È UNA SPECIE DI ATTREZZO?

Simnel parve vagamente offeso.

«Preferisco il termine macchina» rispose. «Rivoluzionerà l’agricoltura, e la trascinerà urlante e scalciante nel Secolo del Pipistrello Orecchione. La mia famiglia possiede quest’officina da trecento anni, ma Ned Simnel non intende passare il resto della sua vita a inchiodare pezzi di metallo ricurvi ai piedi dei cavalli, glielo assicuro».

Bill lo guardò con occhi vuoti. Poi si chinò a dare un’occhiata sotto la macchina C’erano una decina di falcetti avvitati a una grande ruota orizzontale. Ingegnosi collegamenti erano azionati dalle ruote, attraverso un assortimento di pulegge, fino a un assemblaggio girevole di bracci metallici.

Cominciò ad avere un’orribile sensazione sulla cosa che gli stava davanti, ma comunque chiese spiegazioni.

«Ecco, il cuore di tutto è questo albero a camme» disse Simnel, gratificato dall’interesse. «L’energia arriva attraverso questa puleggia, e le camme muovono i bracci ricurvi… sarebbero queste cose… e le barre rastrellatrici, che sono azionate da un meccanismo di collegamento alternativo, scendono giù proprio quando l’otturatore entra in questa fessura qui, e naturalmente allo stesso momento le due sfere di ottone cominciano a girare e le spatole impennanti portano via la paglia mentre i chicchi cadono grazie alla gravità attraverso il cunicolo a spirale fino nella tramoggia. Semplice».

E IL GRIPPOLO A TRE OTTAVI?

«Grazie per avermelo ricordato». Simnel pescò fra i detriti sul pavimento e prese un piccolo oggetto zigrinato e lo avvitò a una parte sporgente del meccanismo. «È molto importante. Impedisce che la camma ellittica scivoli gradualmente lungo l’albero principale e si impigli nella flangia, con gli effetti catastrofici che senza dubbio può immaginare».

Simnel fece un passo indietro e si pulì le mani su uno straccio, rendendole ancora un po’ più unte.

«La chiamerò Mietitrebbiatrice» disse.

Bill Porta si sentì molto vecchio. In effetti era molto vecchio, ma non ci si era mai sentito così tanto. Da qualche parte, nell’ombra della sua anima, sapeva a cosa serviva la Mietitrebbiatrice, anche senza la spiegazione del fabbro.

OH.

«Oggi pomeriggio la proviamo sul campo del vecchio Peedbury. Devo dire che mi sembra molto promettente. Signor Porta, quello che sta guardando è il futuro».

SÌ.

Bill Porta passò la mano sul macchinario.

E IL RACCOLTO?

«Mmm? Il raccolto cosa?»

CHE COSA NE PENSERÀ? LO SAPRÀ?

Simnel arricciò il naso. «Lo saprà? No, non saprà niente. Il grano è grano».

E SEI PENCE SONO SEI PENCE.

«Esatto». Simnel esitò. «Cos’è che voleva?»

La figura alta passò un dito sconsolato sulla macchina unta.

«Signor Porta?»

COME? AH. SÌ. HO UN LAVORO PER LEI…

Uscì a grandi passi dall’officina e tornò quasi immediatamente con qualcosa avvolto nella seta. Aprì l’involto con cautela.

Aveva fabbricato un nuovo manico per la falce: non uno dritto, come si usa sulle montagne, ma il pesante manico a doppia curva delle pianure.

«Vuole che gliela tempri? Un nuovo tirante? Vuole sostituire la lama?»

Bill Porta scosse la testa.

LA VOGLIO MORTA.

«Morta?»

SÌ. COMPLETAMENTE DISTRUTTA. IN MODO CHE SIA MORTA SENZA RIMEDIO.

«È una bella falce» osservò Simnel. «Sembra un peccato. Ha mantenuto un bel filo…»

NON LA TOCCHI!

Simnel si succhiò il dito.

«Strano» disse, «avrei giurato di non averla toccata. La mano era lontana. Be’, comunque taglia».

Menò un fendente nell’aria.

«Sì. Di/ /ta/

/rei che/ /glia».

Fece una pausa, si ficcò il mignolo nell’orecchio e lo agitò un po’.

«Sicuro di sapere quello che vuole?» chiese.

Bill Porta ripeté solennemente la sua richiesta.

Simnel scrollò le spalle. «Be’, la posso fondere e bruciare il manico» disse.

SÌ.

«Va bene. La falce è sua. E fondamentalmente ha ragione, è chiaro. Questa ormai è tecnologia vecchia, inutile».

TEMO CHE ABBIA RAGIONE.

Simnel indicò con il pollice lercio la Mietitrebbiatrice. Bill Porta sapeva che era fatta solo di metallo e tela, e perciò non era possibile che stesse in agguato. Però era in agguato. Oltretutto stava in agguato con una sorta di compiacimento agghiacciante e metallico.

«Potrebbe convincere la signorina Flitworth a comprarne una, signor Porta. Sarebbe l’ideale per una fattoria come quella. Già me la vedo lassù nella brezza, con le cinghie che vanno e i bracci che oscillano…»

NO.

«Ma sì. Lei se la può permettere. Dicono che ha delle casse piene di tesori dai vecchi tempi».

NO!

«Ehm…» Simnel esitò. L’ultimo ‘no’ conteneva una minaccia più certa dello scricchiolio del ghiaccio sottile su un fiume profondo. Diceva che insistere poteva essere la cosa in assoluto più stupida che Simnel potesse mai fare.

«Sono sicuro che lei sa bene il fatto suo» mormorò.

SÌ.

«Ecco, per la falce facciamo un quarto di penny» balbettò Simnel. «Mi dispiace, ma servirà un sacco di carbone, e i nani continuano a tirare su il prezzo…»

ECCO. DEVE ESSERE PRONTA PER STASERA.

Simnel non rispose. Discutere avrebbe voluto dire che Bill Porta sarebbe rimasto nell’officina, e lui cominciava a desiderare piuttosto intensamente che se ne andasse.

«Bene, bene».

È CHIARO?

«Chiaro, chiaro».

ADDIO, disse solennemente Bill Porta, e se ne andò.

Simnel chiuse la porta e ci si appoggiò contro. Uff. Era un tipo simpatico, certo, tutti parlavano di lui; ma dopo un paio di minuti in sua presenza cominciavi ad avere la sgradevole sensazione che qualcuno stesse camminando sulla tua tomba, anche se non era stata ancora scavata.

Attraversò il pavimento unto di grasso, riempì il bollitore del tè, e lo piazzò su un angolo della fucina. Prese una chiave inglese per fare qualche aggiustamento finale alla Mietitrebbiatrice, e vide la falce appoggiata alla parete.

Si avvicinò in punta di piedi, poi si rese conto che era una cosa di una stupidità strabiliante. Non era mica viva. Non poteva sentire. Era solo molto affilata.

Sollevò la chiave inglese, sentendosi colpevole. Ma il signor Porta aveva detto… be’, il signor Porta aveva detto una cosa molto strana, usando le parole sbagliate per parlare di un semplice attrezzo. Ma difficilmente avrebbe potuto obiettare a questo.

Simnel abbassò con forza la chiave inglese.

Non ci fu resistenza. Anche stavolta, avrebbe potuto giurare che la chiave inglese si era divisa in due, come se fosse stata di pane, a diversi centimetri di distanza dal filo della lama.

Si domandò se un oggetto poteva essere così affilato da possedere non solo un filo, ma l’essenza stessa dell’affilatezza, una sorta di filo assoluto che si estendeva oltre gli ultimi atomi del metallo.

«Por/ /ria!»

/ca mise/

Poi gli venne in mente che queste erano idee sciocche e superstiziose per un uomo che sapeva come avvitare un grippolo a tre ottavi. Con un collegamento alternato andavi sul sicuro. O funzionava o non funzionava. Certamente non aveva misteri.

Guardò con orgoglio la Mietitrebbiatrice. Naturalmente ci voleva un cavallo per tirarla. Questo guastava un po’ le cose. I cavalli appartenevano al passato; il futuro apparteneva alla Mietitrebbiatrice e alle sue discendenti, che avrebbero reso il mondo un posto migliore e più pulito. Bisognava soltanto togliere il cavallo dall’equazione. Aveva provato con un meccanismo a manovella, ma non era abbastanza potente. Forse azionando un…

Alle sue spalle l’acqua del bollitore traboccò e spense il fuoco.

Simnel attraversò l’officina in mezzo al vapore. Sempre il solito maledetto problema. Ogni volta che provavi a ragionare un po’ seriamente, c’era sempre qualche distrazione senza senso.

La signora Torta tirò le tendine.

«Chi è esattamente Un-Secchio?» chiese Windle.

Lei accese un paio di candele e si sedette.

«Apparteneva a una di quelle tribù pagane di Howondaland» tagliò corto.

«Che nome strano, Un-Secchio» osservò Windle.

«Non è il suo nome completo» disse misteriosa la signora Torta. «Ora dobbiamo prenderci per mano». Lo guardò, riflettendo. «Ci serve qualcun altro».

«Posso chiamare Schleppel» propose Windle.

«Non ho intenzione di avere un uomonero sotto il tavolo che mi guarda su per la gonna» replicò la signora Torta, e chiamò: «Ludmilla!» Poco dopo la tenda di perline che dava in cucina si aprì ed entrò la ragazza che aveva aperto la porta a Windle.

«Sì, mamma?»

«Siediti, bambina. Ci serve un’altra persona per la seduta».

«Sì, mamma».

La ragazza sorrise a Windle.

«Lei è Ludmilla» disse la signora Torta in tono sbrigativo.

«Incantato» disse Windle. Ludmilla gli rivolse il sorriso luminoso cristallino perfezionato da chi ha imparato da tempo a non mostrare i suoi sentimenti.

«Ci siamo già incontrati» disse Windle. Dev’essere passato almeno un giorno dalla luna piena, pensò. Tutti i segni sono quasi spariti. Bene, bene, bene…

«È la mia vergogna» dichiarò la signora Torta.

«Mamma, vai avanti» ribatté Ludmilla, senza rancore.

«Unite le mani» disse la signora Torta.

Sedettero in penombra. Poi Windle sentì che la signora Torta ritirava la mano.

«Ho dimenticato il bicchiere» disse.

«Signora Torta, pensavo che lei non usasse tavole ouija e cose del genere…» cominciò Windle.

Ci fu un glu-glu dalla mensola. La signora Torta tornò a sedersi e mise sul tavolo un bicchiere pieno.

«Infatti» disse.

Calò di nuovo il silenzio. Windle si schiarì la gola nervosamente.

Alla fine la signora Torta disse: «Va bene, Un-Secchio, so che ci sei».

Il bicchiere si mosse. Il liquido ambrato si agitò dolcemente.

Una voce incorporea tremolò: salute, visi pallidi, dai felici territori di caccia…

«Piantala» lo interruppe la signora Torta. «Lo sanno tutti che sei stato investito da un carro in via della Melassa perché eri ubriaco, Un-Secchio».

non è mica colpa mia. non è per niente colpa mia. è colpa mia se il mio bisnonno si è trasferito qui? sarebbe stato mio diritto finire sbranato da un leone di montagna o da un mammut gigante o roba del genere, mi è stato negato il mio diritto di morte.

«Il signor Poons vuole farti una domanda, Un-Secchio» disse la signora Torta.

lei è felice qui e aspetta di rincontrarti, disse Un-Secchio.

«Chi?» chiese Windle.

Un-Secchio parve sconcertato. Di solito quella frase bastava a non dover dare altre spiegazioni.

lei chi vorrebbe?, chiese cautamente, posso avere quel goccetto ora?

«Non ancora, Un-Secchio» rispose la signora Torta.

be’, ne ho bisogno, qua dentro c’è un bel po’ di folla.

«Cosa?» chiese in fretta Windle. «Di fantasmi, vuoi dire?»

ce ne sono centinaia, rispose la voce di Un-Secchio.

Windle era deluso.

«Solo centinaia? Non sembrano così tanti».

«Non tutti diventano fantasmi» spiegò la signora Torta. «Per diventare fantasmi bisogna avere, che so, seri affari in sospeso, una terribile vendetta da consumare, un piano cosmico in cui sei soltanto una pedina».

oppure una sete boia, disse Un-Secchio.

«Ma sentilo» replicò la signora Torta.

io volevo restare nel mondo degli spiriti, ma mi vanno bene anche vino o birra, ih ih ih.

«Allora, che cosa succede alla forza vitale quando le cose smettono di vivere?» chiese Windle. «È quello che sta provocando tutti questi guai?»

«Rispondi» ordinò la signora Torta, quando Un-Secchio sembrò riluttante a rispondere.

di quali guai sta parlando?

«Cose che si svitano. Vestiti che se ne vanno in giro da soli. Tutti che all’improvviso si sentono più vivi. Cose del genere».

quello? quella non è niente, la forza vitale trabocca dove può. Non c’è da preoccuparsi per quello.

Windle mise la mano sul bicchiere.

«Ma c’è qualcosa di cui bisogna preoccuparsi, non è vero?» disse in tono neutro. «Ha a che fare con quei piccoli souvenir di vetro».

non mi va di dirlo.

«Diglielo».

Era la voce di Ludmilla, profonda ma con una certa bellezza. Lupine la guardava intensamente. Windle sorrise. Uno dei vantaggi dell’essere morto era che vedevi cose che i vivi ignoravano.

Un-Secchio era diventato querulo e petulante.

e che cosa farà se glielo dico, allora? io posso finire in un mare di guai per una cosa del genere.

«Però puoi dirmi se indovino?» chiese Windle.

ss-ssì. magari sì.

«Non devi dire nulla» disse la signora Torta. «Batti due volte per il sì e una per il no, come ai vecchi tempi».

oh, va bene.

«Avanti, signor Poons» disse Ludmilla. Aveva il genere di voce che Windle avrebbe voluto accarezzare.

Si schiarì la gola.

«Secondo me» cominciò, «ecco, secondo me sono una specie di uova. Ho pensato… alla colazione, ma perché? E poi mi sono venute in mente… le uova».

Toc.

«Ah. Be’, forse era un’idea stupida…»

scusate, era una volta per il sì o due volte per il sì?

«Due volte!» sbottò la medium.

TOC TOC.

«Ah» disse Windle, «e si schiudono in una cosa con le ruote?»

due volte per il sì, eh?

«Sììì!»

TOC. TOC.

«Lo sapevo, lo sapevo! Ne ho trovata una sotto il mio pavimento e ha cercato di schiudersi ma non c’era abbastanza spazio!» esultò Windle. Poi si accigliò.

«Ma per diventare che?»


Mustrum Ridcully si affrettò verso il suo ufficio e prese il bastone da mago dalla rastrelliera sopra il caminetto. Si leccò le dita e toccò esitante la punta. Ci fu una scintilla color ottarino e un odore di lattina unta.

Si avviò di nuovo verso la porta.

Poi si voltò lentamente, perché il suo cervello aveva avuto giusto il tempo di analizzare il disordine nello studio e notare la stranezza.

«Che diavolo ci fa quel coso qui?» disse.

Lo toccò con la punta del bastone. Quello tintinnò e si spostò un po’ in avanti sulle ruote.

Assomigliava vagamente, ma non molto, a quelle cose che le cameriere trascinano in giro cariche di scope, asciugamani puliti e quell’altra roba che di solito le cameriere portano in giro. Ridcully prese mentalmente nota di parlarne con la governante. Poi se ne dimenticò.

«Questi maledetti cosi a rotelle spuntano dappertutto» mormorò.

Alla parola ‘maledetti’ qualcosa di simile a un grosso moscone della carne con la dentatura di un gatto apparve dal nulla, svolazzò in giro come un pazzo per valutare il nuovo ambiente, e poi inseguì l’ignaro Arcicancelliere.

Le parole dei maghi sono potenti. E le imprecazioni sono potenti. E con la forza vitale che praticamente si cristallizzava nell’aria, dovevano trovare degli sbocchi ovunque fosse possibile.

città, disse Un-Secchio. secondo me sono uova di città.


I maghi anziani si riunirono di nuovo in Aula Magna. Perfino il Sommo Algebrico sentiva una certa eccitazione. Usare la magia contro dei colleghi era considerata maleducazione, e usarla contro i civili era antisportivo. Ma faceva bene ogni tanto una bella scarica di energia.

L’Arcicancelliere li guardò.

«Decano, perché avete tutti delle strisce in faccia?» domandò.

«Mimetismo, Arcicancelliere».

«Mimetismo, eh?»

«Yo, Arcicancelliere».

«Oh, be’. Contenti voi».

Si avviarono silenziosamente verso il pezzetto di terra che era stato il piccolo territorio di Modo. O meglio, quasi tutti avanzarono silenziosamente. Il Decano avanzava con una serie di saltelli, appiattendosi ogni tanto contro la parete e facendo: «Ha! Ha! Ha!»

Ci rimase malissimo quando scoprirono che gli altri mucchi erano ancora lì dove Modo li aveva fatti. Il giardiniere, che li seguiva e che aveva già rischiato due volte di finire schiacciato dal Decano, si affaccendò per un po’ intorno ai mucchi.

«Tengono un basso profilo» disse il Decano. «Io dico che li facciamo saltare in aria, quei maledettissimi…»

«Non sono ancora nemmeno caldi» osservò Modo. «Quello doveva essere il più vecchio».

«Vuoi dire che non abbiamo niente da combattere?» chiese l’Arcicancelliere.

La terra tremò sotto i loro piedi, e poi si sentì un debole tintinnio proveniente dai chiostri.

Ridcully si accigliò.

«Qualcuno porta ancora in giro quei dannati cestini di ferro» disse. «Stasera ce n’era uno nel mio ufficio».

«Uh» fece il Sommo Algebrico. «Ce n’era uno anche nella mia stanza da letto. Ho aperto l’armadio ed era là».

«Nell’armadio? E perché l’ha messo lì?» chiese Ridcully.

«Non ce l’ho messo io, gliel’ho detto. Probabilmente sono stati gli studenti. Loro si divertono così. Una volta uno mi ha messo una spazzola nel letto».

«Prima ci sono inciampato sopra, a uno di quei cosi» disse l’Arcicancelliere. «E quando mi sono voltato, qualcuno l’aveva portato via».

Il tintinnio si avvicinava.

«Bene, signor cosiddetto spiritosone dei miei stivali» disse Ridcully, battendosi in modo eloquente il bastone sul palmo della mano.

I maghi indietreggiarono fino al muro.

Il fantasma del carrello gli era quasi addosso.

Ridcully ringhiò, e saltò fuori dal suo nascondiglio.

«A-ha, giovanotto…! Miseria fottuta!»


«Non raccontare balle» disse la signora Torta. «Le città non sono cose vive. So che la gente dice il contrario, ma non è mica vero».

Windle Poons si rigirò fra le mani una delle palline di vetro.

«Ne sta deponendo a migliaia» disse. «Ma naturalmente non sopravviveranno tutte. Altrimenti avremmo città fino alle orecchie, no?»

«Ci stai dicendo che da queste piccole palline nascono dei posti enormi?» domandò Ludmilla.

non subito, prima c’è lo stadio mobile.

«Qualcosa con le ruote» disse Windle.

esatto, vedo che già lo sa.

«Credo di sì» disse Windle Poons, «e che cosa succede dopo lo stadio mobile?»

non lo so.

Windle si alzò.

«È ora di scoprirlo».

Guardò Ludmilla e Lupine. Ah. Sì. Perché no? Se puoi aiutare qualcuno mentre sei di passaggio, pensò Windle, allora la tua vita, o qualsiasi altra cosa, non sarà passata invano.

Si incurvò e disse con voce leggermente rotta: «Però in questi giorni non sono molto fermo sulle gambe» disse. «Se qualcuno mi aiutasse, mi farebbe davvero un gran piacere. Signorina, potrebbe accompagnarmi fino all’Università?»

«Ludmilla non esce molto in questi giorni, perché la sua salute…» cominciò la signora Torta in tono brusco.

«Non c’è nessun problema» rispose Ludmilla. «Mamma, lo sai che è passato un giorno intero dalla luna pie…»

«Ludmilla!»

«Be’, è così».

«Le strade non sono sicure per una ragazza, di questi tempi» disse la signora Torta.

«Ma il bellissimo cane del signor Poons spaventerebbe il più pericoloso dei criminali» replicò Ludmilla.

Lupine abbaiò volenterosamente e la guardò implorante. La signora Torta lo squadrò con occhio critico.

«Certo, è un animale molto obbediente» ammise riluttante.

«Allora siamo d’accordo» disse Ludmilla. «Prendo lo scialle».

Lupine si rotolò per terra. Windle lo toccò con il piede.

«Fa’ il bravo» lo ammonì.

Un-Secchio tossì in modo eloquente.

«Va bene, va bene» disse la signora Torta. Prese dei fiammiferi dal cassettone, ne accese distrattamente uno con le unghie, e lo lasciò cadere nel bicchiere di whisky. Bruciò con una fiamma blu, e da qualche parte nel mondo degli spiriti lo spettro di un doppio whisky liscio terminò la sua breve vita.

Uscendo, Windle Poons credette di sentire cantare una voce spettrale.


Il carrello si fermò. Ruotò da una parte all’altra, come per osservare bene i maghi. Poi fece una rapida inversione a tre tempi e si allontanò a gran velocità.

«Ce l’ho!» urlò l’Arcicancelliere.

Puntò il bastone e sparò una palla di fuoco che trasformò una piccola porzione di acciottolato in qualcosa di giallo e gorgogliante. Il carrello oscillò violentemente ma continuò la sua corsa, con una ruota che cigolava.

«Viene dalle Dimensioni Oscure!» esclamò il Decano. «Facciamolo a pezzi!»

L’Arcicancelliere lo fermò con una mano sulla spalla. «Non dica scemenze. Le Cose Oscure hanno un sacco di tentacoli e schifezze varie. Non sembrano fatte da qualcuno».

Si voltarono al rumore di un altro carrello. Percorreva spensieratamente un vialetto laterale; si fermò quando vide o comunque percepì i maghi, e si esibì nella credibile imitazione di un carrello lasciato lì per sbaglio da qualcuno.

Il Tesoriere si avvicinò con cautela.

«Non serve fare il vago. Sappiamo che ti sai spostare».

Il carrello mantenne un basso profilo.

«Non può pensare» disse il professore di Rune Recenti. «Non c’è spazio per un cervello».

«Chi dice che sta pensando?» disse l’Arcicancelliere. «Tutto quello che fa è spostarsi. Non c’è mica bisogno di un cervello per quello. Anche gli scampi si muovono».

Sfiorò il metallo con le dita.

«In realtà gli scampi sono molto intell…» cominciò il Sommo Algebrico.

«Silenzio» interruppe Ridcully. «Però è fatto, no?»

«È fil di ferro» rispose il Sommo Algebrico. «Il fil di ferro deve essere fatto. E ha le ruote. Non ci sono cose con le ruote in natura».

«È solo che visto così da vicino, sembra…»

«… un pezzo unico» completò il professore di Rune Recenti, che si era dolorosamente inginocchiato per esaminarlo meglio. «Fatto tutto insieme, come una macchina cresciuta. Ma è ridicolo».

«Forse. Non c’è un cuculo su nelle Ramtop che costruisce orologi per farci il nido?» domandò il Tesoriere.

«Sì, ma è solo un rituale di corteggiamento» rispose il professore di Rune Recenti in tono leggero. «Oltretutto, come orologi fanno schifo».

Il carrello saltò in uno spazio vuoto fra i maghi, e l’avrebbe fatta franca se lo spazio vuoto non fosse stato occupato dal Tesoriere, che dette un grido e fu catapultato in avanti dentro il cesto. Il carrello non si fermò ma continuò la sua corsa verso il portone.

Il Decano sollevò il bastone. L’Arcicancelliere lo afferrò.

«Potrebbe colpire il Tesoriere» disse.

«Una pallina di fuoco piccola piccola?»

«Lo so, è una tentazione, ma no. Avanti. Inseguiamolo».

«Yo!»

«Se le fa piacere».

I maghi si lanciarono all’inseguimento. Dietro di loro, non visto, un intero stormo delle imprecazioni dell’Arcicancelliere svolazzava ronzando. E Windle Poons guidava una piccola delegazione verso la Biblioteca.


Il Bibliotecario dell’Università Invisibile si avviò veloce sulle nocche verso la porta, scossa da colpi poderosi.

«So che è lì» disse la voce di Windle Poons. «Deve farci entrare. È di importanza vitale».

«Oook».

«Non vuole aprire?»

«Oook».

«Allora non mi lascia altra scelta…»

Antichi pezzi di muratura si spostarono lentamente. La calce si sbriciolò. Poi parte del muro crollò, lasciando un buco a forma di Windle Poons. Lui tossì per la polvere.

«Odio dover fare queste cose. Non posso fare a meno di pensare che alimentino il pregiudizio comune».

Il Bibliotecario atterrò sulle sue spalle. Con grande sorpresa dell’orango, non successe quasi nulla. Un primate di oltre centocinquanta chili di solito aveva un effetto notevole sull’andatura di una persona, ma Windle lo indossò come un colletto di pelliccia.

«Credo che ci serva la storia antica» disse. «Non è che per caso potrebbe smettere di svitarmi la testa?»

Il Bibliotecario si guardò attorno, sconcertato. Di solito era una tecnica infallibile.

Poi le sue narici fremettero.

Il Bibliotecario non era sempre stato un primate. Una biblioteca magica è un posto di lavoro pericoloso, e lui era stato trasformato in orango in seguito a un’esplosione magica. Da umano era stato piuttosto inoffensivo, anche se ormai gli altri si erano talmente abituati alla sua nuova forma che pochi se ne ricordavano. Ma insieme al cambiamento aveva acquisito anche la chiave per tutta una serie di sensi e ricordi di specie. E uno dei più profondi e cruciali, dei più innati, riguardava le forme. Tornava indietro all’alba della sapienza. Le forme con musi, denti e quattro zampe erano decisamente catalogate, nella mente scimmiesca in evoluzione, sotto la voce Brutte Notizie.

Un lupo molto grosso era entrato dal buco nella parete, seguito da una bella ragazza. Il ricevitore di segnali del Bibliotecario andò temporaneamente in tilt.

«Oltretutto» disse Windle, «è possibile che io le annodi le braccia dietro la schiena».

«Eeek!»

«Non è un lupo qualsiasi. Mi creda, è meglio».

«Oook?»

Windle abbassò la voce. «E lei potrebbe non essere tecnicamente una donna» aggiunse.

Il Bibliotecario guardò Ludmilla. Le narici fremettero di nuovo, e aggrottò la fronte.

«Oook?»

«D’accordo, mi sono espresso male. Mi lasci andare, faccia il bravo».

Il Bibliotecario mollò molto cautamente la presa e scese a terra, tenendo Windle fra sé e Lupine.

Windle si spolverò i frammenti di calce dalla veste.

«Dobbiamo trovare informazioni» disse, «sulla vita delle città. In particolare, ho bisogno di sapere…»

Si udì un debole tintinnio.

Un cesto di fil di ferro girò con nonchalance l’angolo di un massiccio scaffale vicino. Era pieno di libri. Si fermò quando si rese conto di essere stato visto e fece sembrare di non essersi mai mosso.

«Lo stadio mobile» sussurrò Windle Poons.

Il cesto di ferro cercò di indietreggiare a poco a poco senza farsene accorgere. Lupine ringhiò.

«È quello di cui parlava Un-Secchio?» disse Ludmilla. Il carrello scomparve. Il Bibliotecario grugnì e lo inseguì.

«Oh, sì. Una cosa che potrebbe rendersi utile» disse Windle, all’improvviso di un buonumore quasi isterico. «È così che funziona. Prima, una cosa che ti va di tenere, e che metti via da qualche parte. A migliaia non troveranno le condizioni giuste, ma non importa, perché appunto, saranno migliaia. E poi lo stadio successivo è una cosa utile, che arriva ovunque, e nessuno penserebbe mai che ci è arrivata da sola. Ma sta succedendo tutto al momento sbagliato!»

«Ma com’è possibile che una città sia viva? È fatta solo di cose morte!» disse Ludmilla.

«Anche le persone. Credimi, lo so. Ma credo che lei abbia ragione. Questo non dovrebbe succedere. È tutta questa forza vitale in eccesso. Sta… rompendo l’equilibrio. Sta trasformando in realtà qualcosa che reale non è. E succede troppo presto, e troppo in fretta…»

Il Bibliotecario strillò. Il carrello partì a razzo da un’altra fila di scaffali, con l’orango appeso risolutamente dietro con una mano, che sventolava come una bandiera molto grassa.

Il lupo scattò.

«Lupine!» gridò Windle.

Ma fin dal giorno in cui il primo uomo delle caverne fece rotolare una fetta di tronco giù da un pendio, i canidi hanno sempre sentito un forte impulso innato a inseguire tutto ciò che abbia delle ruote. Lupine già tentava di mordere il carrello.

Le sue mandibole bloccarono una ruota. Ci fu un ululato, un urlo del Bibliotecario, e scimmione, lupo e cesto di ferro si ammucchiarono contro il muro.

«Oh, poverino! Guardalo!»

Ludmilla corse a inginocchiarsi accanto al lupo contuso.

«Guardi, gli è passato sopra le zampe!»

«Probabilmente ha anche perso un paio di denti» disse Windle. Aiutò il Bibliotecario a rialzarsi. C’era una luce sanguigna negli occhi del primate. Avevano cercato di rubare i suoi libri. Probabilmente era la miglior prova che un mago potesse desiderare del fatto che i carrelli non avevano cervello.

Si chinò e strappò via le rotelle.

«Olé» disse Windle.

«Oook?»

«No, il latte non c’entra» disse Windle.

Lupine si stava facendo accarezzare la testa, posata in grembo a Ludmilla. Aveva perso un dente, e il pelo era un disastro. Aprì un occhio e fissò Windle con uno sguardo giallo da cospiratore, mentre si faceva lisciare gli orecchi. Ecco un cane fortunato, pensò Windle, che approfitterà della sua fortuna, alzerà una zampa e mugolerà.

«Bene» disse Windle. «Ora, Bibliotecario… stava per aiutarci, se non sbaglio».

«Povero cane coraggioso» disse Ludmilla.

Lupine sollevò una zampa con aria patetica, e mugolò.


Oberato dalla figura urlante del Tesoriere, l’altro cestino di ferro non riuscì a raggiungere la velocità del suo defunto compagno. Aveva anche una ruota inutilizzabile. Sbandava spericolatamente da una parte all’altra e quasi si cappottò mentre usciva dal cancello procedendo di traverso.

«Lo vedo! Lo vedo benissimo!» gridò il Decano.

«No! Potrebbe colpire il Tesoriere!» urlò Ridcully. «Potrebbe danneggiare un bene dell’Università!»

Ma il Decano non riusciva a sentirlo, per via del rombo insolito del testosterone. Una palla di fuoco verde incandescente colpì il carrello sghembo. L’aria si riempì di rotelle volanti.


Ridcully respirò a fondo.

«Razza di stupido…!» gridò.

La parola che pronunciò non era familiare a quei maghi che non avevano avuto la sua stessa robusta educazione campagnola e non sapevano nulla delle sottigliezze della zootecnia. Ma si materializzò a pochi centimetri dalla sua faccia; era grassa, tonda, nera e lucente, con delle sopracciglia orribili. Gli fece una pernacchia e raggiunse in volo il piccolo sciame di imprecazioni.

«Che stracavolo era quello?»

Una cosa più piccola si materializzò vicino al suo orecchio.

Ridcully si afferrò il cappello.

«Maledizione!» Lo sciame aumentò di una unità. «Qualcosa mi ha punto!»

Uno squadrone di maledizioni appena nate rivendicò coraggiosamente la libertà. Lui cercò di acciaccarle senza successo.

«Via, bast…»

«Non lo dica!» scongiurò il Sommo Algebrico. «Faccia silenzio!»

Nessuno diceva mai all’Arcicancelliere di fare silenzio. Il silenzio era una cosa che facevano gli altri. Lo choc lo zittì.

«Volevo dire che ogni volta che lei impreca quelle prendono vita» si affrettò ad aggiungere il Sommo Algebrico. «Piccole cose orrende con le ali spuntano fuori dal nulla».

«Miseriaccia schifosa!» disse l’Arcicancelliere.

Pop. Pop.

Il Tesoriere strisciò fuori confuso dal groviglio dei rottami del carrello. Ritrovò il suo cappello a punta, lo spolverò, lo provò, aggrottò la fronte e tolse una rotella da dentro. I suoi colleghi non gli prestarono molta attenzione.

Sentì l’Arcicancelliere che diceva: «Ma io l’ho sempre fatto! Non c’è niente di male in una bella imprecazione, aiuta la circolazione del sangue. Attenzione, Decano, una di quelle dann…»

«Non potrebbe dire qualcos’altro?» gridò il Sommo Algebrico, per sovrastare il ronzio dello sciame.

«Per esempio?»

«Per esempio… Oh… ‘perbacco’».

«Perbacco?»

«Sì, o magari ‘caspita’».

«Caspita? Vuole che io dica caspita?»

Il Tesoriere si avvicinò al gruppo. Litigare su dettagli insignificanti nel mezzo di una emergenza dimensionale era tipico dei maghi.

«La signora Whitlow, la governante, dice sempre ‘Melassa!’ quando fa cadere qualcosa» propose.

L’Arcicancelliere si voltò verso di lui.

«Dirà pure melassa» ringhiò, «ma quello che intende è me…»

I maghi si abbassarono. Ridcully riuscì a trattenersi.

«Oh, caspita» disse in tono infelice. Le imprecazioni si posarono dolcemente sul suo cappello.

«La adorano» disse il Decano.

«Certo, è il loro papà» disse il professore di Rune Recenti.

Ridcully li fulminò con un’occhiata. «Voialtri b… bravi ragazzi smettetela di fare gli sciocchi alle spalle del vostro Arci-cancelliere e scoprite che c… cosa sta succedendo» disse.

I maghi guardarono ansiosamente in aria. Non apparve nulla.

«Sta andando benissimo» disse il professore di Rune Recenti. «Continui così».

«Perbacco perbacco perbacco» disse l’Arcicancelliere. «Melassa melassa melassa. Caspitina caspiterina caspita», scosse la testa. «Non va bene per niente, non mi dà nessun sollievo».

«Comunque ha ripulito l’aria» disse il Tesoriere.

Gli altri notarono la sua presenza per la prima volta.

Guardarono ciò che restava del carrello.

«Cose che sfrecciano in giro» disse Ridcully. «Cose che prendono vita».

Si voltarono improvvisamente verso un cigolio familiare. Altre due cestini a rotelle attraversarono di corsa la piazza fuori dai cancelli. Uno era pieno di frutta. L’altro era per metà pieno di frutta e per l’altra metà di un bambino piccolo e urlante.

I maghi rimasero a bocca aperta. Un corteo di persone correva dietro ai carrelli. Leggermente in testa agli altri, con i gomiti che fendevano l’aria, una donna disperata e decisa superò i cancelli dell’Università.

L’Arcicancelliere afferrò un uomo massiccio che avanzava pesantemente ma con grande buona volontà in coda agli altri.

«Cos’è successo?»

«Stavo mettendo delle pesche in quel cesto quando a un certo punto è saltato su ed è corso via!»

«E il bambino?»

«E chi lo sa? Quella donna aveva uno di quei cesti, ha comprato delle pesche da me e poi…»

Si voltarono tutti. Un cesto uscì di corsa da un vicolo, li vide, fece un’abile inversione e schizzò via attraverso la piazza.

«Ma perché?» rispose Ridcully.

«Ma perché sono comodi per metterci la roba dentro, no?» disse l’uomo. «Dovevo portare le pesche. Lo sa come si ammaccano».

«Vanno tutti nella stessa direzione» disse il professore di Rune Recenti. «L’avete notato?»

«Inseguiamoli!» gridò il Decano. Gli altri maghi, troppo confusi per discutere, gli caracollarono dietro.

«No…» cominciò Ridcully, poi si rese conto che non aveva senso. E stava anche perdendo l’iniziativa. Formulò con cura il grido di battaglia più garbato della storia della censura.

«Carica, che il cielo li confonda!» urlò, e corse dietro al Decano.


Bill Porta lavorò per tutto un lungo faticoso pomeriggio, alla testa di un corteo di legatori e accatastatori.

Finché si sentì un grido, e gli uomini corsero verso il recinto.

Il grosso campo di Iago Peedbury era proprio dall’altra parte. I braccianti stavano spingendo la Mietitrebbiatrice attraverso il cancello.

Bill raggiunse gli altri e si affacciò oltre la siepe. Si vedeva la figura lontana di Simnel che dava istruzioni. Un cavallo spaventato fu legato agli assi. Il fabbro salì sul piccolo seggiolino metallico al centro del macchinario, e prese le redini.

Il cavallo avanzò. I bracci aspersori si aprirono, i teli di canapa iniziarono a ruotare, e probabilmente la vite oscillante stava girando, ma non aveva molta importanza perché da qualche parte qualcosa fece clonk e tutto si fermò.

Dalla folla lungo la siepe giunsero grida di «Ora scendi e mungila!», «Ma butta quel catorcio!», «Ci vuole il bastone, non solo la carota!» e altre spiritosaggini di origine controllata.

Simnel scese, conversò a bassa voce con Peedbury e i suoi uomini, e poi scomparve per un momento dentro la macchina.

«Non volerà mai!»

«Tempo sprecato!»

Stavolta la Mietitrebbiatrice percorse diversi metri prima che uno dei teli rotanti si strappasse.

A quel punto alcuni degli uomini lungo la siepe erano piegati in due dalle risate.

«Ferrovecchio! Sei pence al quintale!»

«Vai a prendere l’altra, questa è rotta!»

Senza spostare lo sguardo dalla scena nel campo accanto, Bill Porta prese dalla tasca una pietra per arrotare e cominciò a sfilare la sua falce, lentamente e deliberatamente.


A parte il tintinnio lontano degli attrezzi del fabbro, lo schip-schip della pietra sul metallo era l’unico suono udibile nell’aria pesante.

Simnel risalì sulla Mietitrebbiatrice e fece un cenno all’uomo che conduceva il cavallo.

«Ecco che ci riprova!»

«Altro penny, altro giro!»

«Mettici un calzino…»

Le voci si spensero.

Una mezza dozzina di paia di occhi seguirono la Mietitrebbiatrice lungo il campo, la videro girare in cima e tornare indietro.

Passò sferragliando, tra giunti alternati e oscillazioni.

In fondo al campo girò docilmente, e ripassò di nuovo davanti al pubblico.

Dopo un po’ uno degli spettatori disse in tono cupo: «Non prenderà mai piede, sentite a me».

«Giusto. Chi la vuole, una cosa come quella?» disse un altro.

«Ma sì, è solo una specie di grosso orologio. Non fa altro che andare su e giù per un campo…»

«… molto velocemente…»

«… taglia le spighe e separa i chicchi…»

«Ha già fatto tre file».

«Che mi venga un colpo!»

«Non vedi nemmeno le lame che si muovono! Che ne pensi, Bill? Bill?»

Si guardarono intorno.

Lui era a metà della seconda fila, ma stava accelerando.


La signorina Flitworth aprì appena la porta.

«Sì?» disse, sospettosa.

«È Bill Porta, signorina Flitworth. L’abbiamo riportato a casa».

Lei aprì la porta un po’ di più.

«Che gli è successo?»

I due uomini entrarono goffamente, cercando di sostenere una figura trenta centimetri più alta di loro. Bill Porta alzò la testa e guardò inebetito la signorina Flitworth.

«Non so cosa gli sia preso» disse Duca Bottomley.

«È un diavolo di lavoratore» osservò William Zipolo. «Con lui spende bene i suoi soldi, signorina Flitworth».

«Sarebbe la prima volta, da queste parti» rispose lei in tono acido.

«Su e giù per il campo come un matto, a cercare di battere quella macchina di Ned Simnel. Ci siamo dovuti mettere in quattro per legare i covoni. E l’ha quasi battuta».

«Mettetelo sul divano».

«Gliel’abbiamo detto che stava esagerando sotto quel sole…» Duca storse il collo per guardare in cucina, nel caso in cui gioielli e tesori traboccassero dai cassetti della credenza.

La signorina Flitworth gli oscurò la visuale.

«Sono sicura che gliel’avete detto. Grazie. Immagino che avrete voglia di tornare a casa».

«Se c’è qualcosa che possiamo fare…»

«So dove abitate. E sono anche cinque anni che non pagate l’affitto. Buonasera, signor Zipolo».

Li accompagnò alla porta e gliela chiuse in faccia. Poi si voltò.

«Che diavolo stavi facendo, signor cosiddetto Bill Porta?»

SONO STANCO E NON MI PASSA.

Bill porta si afferrò il cranio.

E ZIPOLO MI HA DATO UNA BEVANDA SPIRITOSA DI SUCCO DI MELA FERMENTATO PER VIA DEL CALDO E ORA MI SENTO MALE.

«Non mi sorprende. La fa lui, nei boschi. Di mele dentro ce ne sono veramente poche».

NON MI SONO MAI SENTITO MALE PRIMA E NEMMENO STANCO.

«Fa parte dell’essere vivi».

COME FANNO GLI UMANI A SOPPORTARLO?

«Be’, il succo di mela fermentato può essere d’aiuto».

Bill Porta rimase seduto a guardare il pavimento con aria cupa.

MA ABBIAMO FINITO IL CAMPO, disse con una certa aria di trionfo. È TUTTO IMBALLATO E LEGATO, O FORSE VICEVERSA.

Si afferrò di nuovo il cranio.

AAARGH.

La signorina Flitworth sparì nel retro cucina. Una pompa cigolò. Poi tornò con un panno bagnato e un bicchiere d’acqua.

MA C’È UN TRITONE DENTRO!

«Vuol dire che è fresca» disse la signorina Flitworth,[13] pescando l’anfibio e liberandolo sul pavimento, dove sparì di corsa in una crepa.

Bill Porta cercò di alzarsi in piedi.

ORA RIESCO QUASI A CAPIRE PERCHÉ CERTE PERSONE VOGLIONO MORIRE, disse. AVEVO SENTITO PARLARE DI DOLORE E INFELICITÀ, MA FINORA NON AVEVO MAI COMPRESO PIENAMENTE CHE COSA VOLESSE DIRE.

La signorina Flitworth guardò dalla finestra polverosa Le nuvole che si erano accumulate tutto il pomeriggio incombevano sulle colline, grigie con una minacciosa punta di giallo. Il caldo era come una morsa.

«C’è una grossa tempesta in arrivo».

ROVINERÀ IL MIO RACCOLTO?

«No. Dopo si asciugherà».

COME STA LA BAMBINA?

Bill Porta aprì la mano. La signorina Flitworth inarcò le sopracciglia. La clessidra d’oro era lì, con la parte superiore quasi vuota. Ma era un’immagine tremolante che compariva e scompariva.

«Come fai ad averla tu? È di sopra! La teneva come…» incespicò, «come qualcuno che tiene qualcosa molto stretto».

È ANCORA LÀ. MA È ANCHE QUI. O DA QUALSIASI ALTRA PARTE. DOPOTUTTO È SOLO UNA METAFORA.

«Quella che ha lei in mano sembra piuttosto reale».

SOLO PERCHÉ È UNA METAFORA NON SIGNIFICA CHE NON SIA REALE.

La signorina Flitworth sentì una debole eco nella voce, come se le parole fossero pronunciate da due persone quasi, ma solo quasi all’unisono.

«Quanto ti resta?»

È QUESTIONE DI ORE.

«E la falce?»

HO DATO ISTRUZIONI PRECISE AL FABBRO.

Lei si accigliò. «Non dico che Ned Simnel non sia un bravo ragazzo, ma sei sicuro che lo farà? Distruggere una cosa come quella è chiedere molto a un uomo come lui».

NON AVEVO SCELTA. LA PICCOLA FORNACE QUI NON BASTA.

«È un diavolo di falce».

TEMO CHE NON SIA ABBASTANZA AFFILATA.

«E nessuno ha mai provato a fare lo stesso con te?»

CONOSCE IL DETTO: NON PUOI PORTARTI I SOLDI NELLA TOMBA?

«Sì».

MA QUANTI CI CREDONO SERIAMENTE?

«Una volta ho letto» disse la signorina Flitworth, «di certi re pagani in un qualche deserto che costruivano enormi piramidi e ci mettevano dentro di tutto. Perfino delle barche. Perfino delle ragazze in calzoni trasparenti e coperchi di salsiere. Non mi verrai a dire che è giusto».

NON SONO MAI STATO MOLTO SICURO DI COSA È GIUSTO, disse Bill Porta. NON SONO SICURO CHE ESISTA LA RAGIONE. O IL TORTO. CI SONO SOLO POSTI DOVE STARE.

«No, quello che è giusto è giusto e quello che è sbagliato e sbagliato» disse la signorina Flitworth. «A me hanno insegnato a capire la differenza».

GLIEL’HA INSEGNATO UN CONTRABBANDIERE.

«Non c’è niente di sbagliato nel contrabbando!»

DICO SOLTANTO CHE ALCUNI LA PENSANO DIVERSAMENTE.

«Non contano!»

MA…

Da qualche parte sulla collina cadde un fulmine. Il tuono fece tremare la casa; un paio di mattoni del camino caddero sulla grata. Poi le finestre vibrarono.

Bill Porta attraversò la stanza e spalancò la porta.

Chicchi di grandine grossi come uova di gallina rimbalzarono sulla soglia fin dentro la cucina.

OH. ESAGERATO.

«Oh, diavolo!»

La signorina Flitworth si riparò sotto il suo braccio.

«E da dove viene questo vento?»

DAL CIELO?, disse Bill Porta, sorpreso dall’improvvisa agitazione.

«Andiamo!» Tornò di corsa in cucina e rovistò nella credenza in cerca di una lanterna e dei fiammiferi.

MA HA DETTO CHE SI SAREBBE ASCIUGATO.

«Con una tempesta normale, sì. Ma con questa? Si rovinerà! Domani mattina lo troveremo sparso sulla collina!»

Accese la candela e tornò indietro di corsa.

Bill Porta guardò la tempesta. La paglia turbinava nel vento.

ROVINATO? IL MIO RACCOLTO? Raddrizzò la schiena. ’FANCULO.


La grandine batteva sul tetto dell’officina del fabbro.

Ned Simnel pompò il soffietto della fornace finché il cuore della fornace divenne bianco con un accenno di giallo.

Era stata una buona giornata. La Mietitrebbiatrice aveva funzionato meglio di quanto avesse osato sperare; il vecchio Peedbury aveva insistito per tenerla e fare un altro campo l’indomani, perciò l’avevano lasciata fuori, coperta da una cerata fissata al terreno. L’indomani avrebbe potuto insegnare a uno degli uomini a usarla, e cominciare a lavorare su un nuovo modello più avanzato. Successo sicuro. Il futuro era a portata di mano.

Poi c’era la storia della falce. Andò alla parete dove era stata appesa. Era un po’ un mistero. Nel suo genere, era lo strumento più splendido che avesse mai visto. Non si poteva nemmeno smussare. Il filo si estendeva ben oltre il limite effettivo della lama. Eppure doveva distruggerla. Che senso aveva? Ned Simnel credeva molto nel senso, in un tipo molto specifico di senso.

Forse Bill Porta voleva solo liberarsene, e quello era comprensibile, visto che anche così, appesa alla parete, sembrava irradiare affilatezza. C’era una fioca aura violetta attorno alla lama, provocata dalle correnti che portavano sfortunate molecole d’aria alla morte per taglio netto.

Ned Simnel la prese in mano con grande attenzione.

Strano tipo, Bill Porta. Aveva detto che voleva essere certo che fosse morta. Come se si potesse uccidere una cosa.

E comunque, come facevi a distruggerla? Oh, il manico sarebbe bruciato e il metallo calcinato, e se ci avesse lavorato su abbastanza, alla fine non sarebbe rimasto che un mucchietto di polvere e cenere. Quello che voleva il cliente.

D’altro canto, presumibilmente potevi distruggerla anche staccando la lama dal manico… Dopotutto, in quel modo non sarebbe più stata una falce. Sarebbero stati solo… dei pezzi. Certo, pezzi con cui si poteva costruire una falce; ma quello era possibile anche con la cenere e la polvere, se sapevi come fare.

Ned Simnel era molto soddisfatto del suo ragionamento. E in fondo Bill Porta non aveva chiesto le prove che la cosa fosse stata… ehm… uccisa.

Prese accuratamente la mira e usò la falce per tagliare l’estremità dell’incudine. Incredibile.

Acume assoluto.

Si arrese. Non era leale. Non si poteva chiedere a uno come lui di distruggere una cosa come quella. Era un’opera d’arte.

Meglio ancora. Era un’opera dell’ingegno.

Gettò la falce dietro una catasta di legname. Ci fu un breve squittio.

Comunque, non c’erano problemi. L’indomani mattina avrebbe restituito a Bill Porta il suo quarto di penny.


La Morte dei Ratti si materializzò dietro la catasta di legna nell’officina, e si avvicinò al triste mucchietto di pelo che era stato il topo finito sulla traiettoria della falce.

Il suo fantasma era lì vicino, e pareva ansioso. Non sembrò molto felice di vederla.

«Squitt?Squitt?»

SQUITT, spiegò la Morte dei Ratti.

«Squitt?»

SQUITT, confermò la Morte dei Ratti.

«[Baffi lisciati] [Naso arricciato]?»

La Morte dei Ratti scosse la testa.

SQUITT.

Il topo ci rimase malissimo. La Morte dei Ratti gli posò sulla spalla una zampa ossuta ma non del tutto priva di gentilezza.

SQUITT.

Il topo annuì tristemente. Aveva fatto una bella vita, nell’officina. Pulizie praticamente inesistenti, e Ned era forse il campione mondiale di paninisbocconcellati-lasciati-in-giro. Scrollò le spalle e seguì la piccola figura ammantata. Non che avesse scelta, del resto.


La gente si riversava nelle strade. La maggior parte inseguiva carrelli, e la maggior parte dei carrelli era piena di cose che la gente aveva pensato di trasportare comodamente in un carrello: legna, bambini, spesa.

E non procedevano più in modo elusivo, ma si muovevano alla cieca, tutti nella stessa direzione.

Si poteva fermare un carrello rovesciandolo, e le ruote continuavano a girare follemente a vuoto. I maghi videro un bel po’ di individui entusiasti che cercavano di sfasciarli, ma i carrelli erano praticamente indistruttibili: si piegavano ma non si spezzavano, e anche con una sola rotella rimasta tentavano eroicamente di continuare la corsa.

«Guardate quello!» disse l’Arcicancelliere. «C’è dentro il mio bucato! Che gli si stacchino tutte le ruote!»

Si fece strada fra la folla e incastrò il bastone tra le ruote del carrello, rovesciandolo.

«Non si può prendere bene la mira con tutti questi civili intorno» si lagnò il Decano.

«Ci sono centinaia di carrelli!» disse il professore di Rune Recenti. «Sono come i vermoli![14] Levati di torno, razza di… cesto!»

Colpì ripetutamente con il bastone un carrello importuno.

La marea dei cesti a rotelle stava fluendo fuori dalla città. Gli umani agitati desistettero gradualmente o caddero sotto le ruote barcollanti. Solo i maghi rimasero nel flusso, gridandosi l’un l’altro e attaccando lo sciame argentato con i bastoni. Non che la magia non funzionasse, al contrario. Un buon tiro trasformava un carrello in mille intricati puzzle di fil di ferro. Ma a che serviva? Un secondo dopo ne spuntavano altri due.

Attorno al Decano i carrelli finivano in coriandoli di metallo.

«Ci ha preso proprio gusto, eh?» disse il Sommo Algebrico, mentre insieme al Tesoriere metteva sottosopra l’ennesimo carrello.

«Dice un sacco di ‘Yo’, non c’è dubbio» rispose il Tesoriere.

Quanto al Decano, non ricordava di essere mai stato così contento. Per sessant’anni aveva obbedito alle regole autoimposte della stregoneria, e all’improvviso si stava divertendo un mondo. Non si era mai reso conto che, nel profondo, quello che voleva fare davvero era spiaccicare le cose.

Il fuoco saettava dalla punta del bastone. Manici e pezzi di fil di ferro, e ruote che giravano pateticamente tintinnavano intorno a lui. E la cosa più bella era che i bersagli non finivano mai. Una seconda ondata di carrelli, ammassati in uno spazio più stretto, stavano cercando di avanzare sopra quelli ancora in contatto con il terreno. Non funzionava, ma ci provava comunque. E ci provava disperatamente, perché una terza ondata stava già facendosi strada sopra le altre due, spaccando tutto. Però la parola ‘provare’ non è esatta, perché suggerisce una sorta di sforzo cosciente, una specie di possibilità che ci fosse anche uno stato in cui non provavano. Qualcosa, in quel movimento inesorabile, nel modo in cui sbattevano l’uno contro gli altri, suggeriva che i cesti di fil di ferro avevano tanta scelta quanto l’acqua ne ha di scorrere verso il basso.

«Yo!» gridò il Decano. La magia grezza si scontrò con il groviglio di metallo. Piovevano rotelle.

«Vai a mangiare taumaturgia calda, razza di…» cominciò il Decano.

«Non imprechi! Non imprechi!» gridò Ridcully al di sopra del frastuono. Cercò di scacciare una Porca Vacca che orbitava intorno al suo cappello. «Non si sa in cosa si può trasformare!»

«Che pizza!» gridò il Decano.

«Non va bene. Tanto varrebbe cercare di trattenere il mare» disse il Sommo Algebrico. «Voto per tornare all’Università e fare qualche incantesimo serio».

«Buona idea» disse Ridcully. Guardò la marea di fil di ferro che avanzava. «Qualche idea sul come?» chiese.

«Yo! Birbanti!» disse il Decano. Puntò ancora il bastone. Fece un suono triste, che a scriverlo verrebbe fuori pfffft. Una tenue scintilla cadde dalla punta e finì sul selciato.


Windle Poons chiuse di schianto un altro libro. Il Bibliotecario fece una smorfia.

«Niente! Vulcani, maremoti, ira di dio, maghi impiccioni… non voglio sapere come sono state uccise altre città, voglio sapere come sono finite…»

Il Bibliotecario posò sul tavolo di lettura un’altra pila di libri. Un altro vantaggio dell’essere morti, come Windle stava scoprendo, era l’abilità linguistica. Riusciva a vedere il senso di una parola senza conoscerne effettivamente il significato. Dopotutto essere morti non era come dormire. Era come svegliarsi.

Lanciò un’occhiata all’altro capo della Biblioteca, dove Lupine si stava facendo fasciare la zampa.

«Bibliotecario?» chiamò piano.

«Oook?»

«Lei che ha cambiato specie ai suoi tempi… cosa farebbe se, così tanto per dire, incontrasse una coppia che… ecco, poniamo che ci sia un lupo che si trasforma in lupo mannaro ogni luna piena, e una donna che nello stesso momento diventa una lupa mannara anche lei… insomma, giungono alla stessa conclusione da direzioni opposte. E si incontrano. Che cosa gli direbbe? Lascerebbe che se la sbrighino da soli?»

«Oook» disse all’istante il Bibliotecario.

«La tentazione è forte».

«Oook».

«Alla signora Torta non piacerà, però».

«Eeek oook».

«Ha ragione. Avrebbe potuto metterla in termini un po’ meno rudi, ma ha ragione. Tutti dobbiamo sbrigarcela da soli».

Sospirò e girò la pagina. Poi sbarrò gli occhi.

«La città di Khan Li» disse. «Mai sentita? Cos’è questo libro? Il Grimoire ‘Credici-o-No’ di Stripfetde. Dice qui… ‘piccoli carri… nessuno sapeva da dove venissero… di tale utilità che vennero assunti degli uomini per governarli e portarli in città… all’improvviso, una corsa selvaggia… gli umani li inseguirono ed ecco, oltre le mura c’era una nuova città, una città come di banchi di mercanti, verso cui i carretti correvano…’»

Voltò la pagina.

«Sembra che dica…»

Non ho capito ancora bene, si disse. Secondo Un-Secchio si parla della nascita di città. Ma non sembra corretto.

Una città è viva. Immaginiamo di essere un gigante lento, come un Pino Contatore, e di guardare una città? Vedremmo crescere gli edifici; vedremmo respingere i nemici, spegnere gli incendi. Vedremmo la vita della città ma non le persone, perché quelle si muovono troppo in fretta. La vita di una città, quello che la fa muovere, non è una forza misteriosa. È la gente.

Voltò distrattamente le pagine, senza leggere davvero…

Perciò abbiamo le città: grandi creature sedentarie, che crescono in un punto e non si muovono per migliaia di anni. Si riproducono mandando via la gente a colonizzare nuove terre. Ma loro rimangono lì. Sono vive, ma come si potrebbe dire di una medusa. O di un vegetale particolarmente brillante. Dopotutto Ankh-Morpork è detta la Grande Wahooni…

E dove ci sono grosse, lente cose viventi, ce ne sono di piccole e veloci che le mangiano…

Windle Poons sentì accendersi le cellule del cervello. Si stabilivano connessioni, il pensiero scorreva dentro canali nuovi. Aveva mai pensato davvero quando era vivo? Ne dubitava. Era stato solo un mucchio di complicate reazioni collegate a un mucchio di terminazioni nervose, con ogni cosa, dall’oziosa riflessione sul prossimo pasto a ricordi casuali e fuorvianti, a frapporsi tra lui e il vero pensiero.

Sarebbe cresciuto dentro la città, al caldo e al sicuro. E poi sarebbe esploso al di fuori, costruendo… qualcosa, non una vera città, ma una falsa… che attira la gente, la vita, fuori dall’ospite…

La parola che cerchiamo qui è predatore.


Il Decano guardò incredulo il bastone. Lo agitò, e prese di nuovo la mira.

Stavolta il suono fu una specie di pfut.

Alzò lo sguardo. Un’onda ricurva di carrelli, alta come una casa a un piano, stava per cadergli addosso.

«Oh… uffa» disse, piegando le braccia sopra la testa.

Qualcuno lo afferrò da dietro per la veste e lo tirò via nel momento in cui i carrelli rovinarono giù.

«Forza» disse Ridcully. «Se corriamo riusciamo ad arrivare prima di loro».

«Sono senza magia! Sono senza magia!»

«Se non si sbriga finirà anche senza qualcos’altro» disse l’Arcicancelliere.

Cercando di restare uniti e urtando l’uno contro l’altro, i maghi arrancarono davanti ai carrelli. Altri flussi uscivano dalla città e attraversavano i campi.

«Sapete cosa mi ricorda?» disse Ridcully, mentre si facevano strada a fatica.

«Dica» mormorò il Sommo Algebrico.

«La risalita dei salmoni» disse l’Arcicancelliere.

«Eh?»

«Non nell’Ankh, naturalmente» disse Ridcully. «Non credo che un salmone possa risalire la corrente nel nostro fiume…»

«A meno che non sappia camminare» disse il Sommo Algebrico.

«… ma in certi fiumi ne ho visti una folla così» disse Ridcully, «che lottavano per andare avanti. Il fiume era un’unica massa d’argento».

«Bello» disse il Sommo Algebrico. «E perché lo fanno?»

«Be’… è tutta una faccenda di riproduzione».

«Disgustoso. E pensare che noi dobbiamo bere l’acqua…» disse il Sommo Algebrico.

«Bene, ora siamo in uno spazio aperto. Qui li aggiriamo» disse Ridcully. «Appena raggiungiamo uno spazio libero…»

«Non credo proprio» disse il professore di Rune Recenti.

Masse sferraglianti e agitate di carrelli venivano da ogni direzione.

«Ci inseguono! Ci inseguono!» si lagnò il Tesoriere. Il Decano gli strappò il bastone.

«Ehi, quello è mio!»

Il Decano lo spinse da parte e fece saltare le ruote di un carrello in testa a una delle masse.

«È il mio bastone!»

I maghi si strinsero schiena contro schiena, al centro di un cerchio di metallo che si stringeva.

«Non vanno bene per questa città» osservò il professore di Rune Recenti.

«So cosa intende» disse Ridcully. «Alieni».

«Immagino che nessuno abbia un incantesimo di volo con sé oggi?» chiese il Sommo Algebrico.

Il Decano prese di nuovo la mira e squagliò un cesto.

«È il mio bastone che stai usando».

«Silenzio, Tesoriere» disse l’Arcicancelliere. «Decano, abbattendone uno alla volta non andiamo da nessuna parte.

Okay, ragazzi? Vogliamo fare più danni possibile. Ricordate… esplosioni selvagge e incontrollate…»

I carrelli avanzavano.

AHI. AHI.

La signorina Flitworth barcollò nell’oscurità umida e martellante, schiacciando sotto i piedi la grandine. I tuoni cannoneggiavano il cielo.

«Pizzicano, eh?» disse.

RISUONANO.

Bill Porta bloccò un covone che il vento portava via, e lo accatastò con gli altri. La signorina Flitworth gli passò accanto piegata in due sotto il peso di un carico di grano.[15] I due lavoravano incessantemente, attraversando il campo sotto la tempesta per spostare il raccolto prima che il vento e la grandine lo portassero via. I fulmini saettavano in cielo. Non era un normale temporale. Era una guerra.

«Tra un minuto verrà giù il diluvio» gridò la signorina Flitworth nel frastuono. «Non ce la faremo mai a portarlo nel fienile! Vai a prendere una cerata o qualcosa del genere, per stanotte basterà!»

Bill Porta annuì, e corse nell’oscurità fradicia verso il casolare. I lampi erano così frequenti che l’aria scintillava, e c’era un’aura luminosa tutt’intorno alla recinzione.

E c’era Morte.

La vide all’orizzonte, una sagoma scheletrica china e pronta al salto, con la veste che svolazzava e frusciava nel vento.

Una morsa lo attanagliò, forzandolo alla fuga e nello stesso tempo inchiodandolo al suo posto. Invase la sua mente e rimase lì, bloccando ogni pensiero tranne la vocina che nel profondo, e con una certa calma, disse: ALLORA È QUESTO IL TERRORE.

Poi Morte svanì quando la luce del lampo si spense, e riapparve quando una nuova saetta fu scoccata sulla collina.

Allora la tranquilla voce interiore disse: MA PERCHÉ NON SI MUOVE?

Bill Porta si avvicinò appena. Nessuna reazione dalla cosa accovacciata.

Poi si rese conto che la cosa dall’altra parte del recinto non era altro che un insieme vestito di costole, femori e vertebre se vista da un certo lato; ma se vista da un’angolazione leggermente diversa, poteva essere allo stesso modo un complesso insieme di bracci rotanti e leve alternate, coperte da una cerata che stava volando via.

Davanti a lui c’era la Mietitrebbiatrice.

Bill Porta ghignò orribilmente. Pensieri indegni-di-Bill-Porta nacquero nella sua mente. Fece un passo avanti.


La muraglia di carrelli circondava i maghi.

L’ultima fiamma da uno dei bastoni aprì una breccia che fu immediatamente riempita da altri carrelli.

Ridcully si voltò verso gli altri maghi. Erano paonazzi in faccia, le vesti strappate, e diversi spari entusiastici avevano avuto come risultato barbe ustionate e cappelli bruciati.

«Nessuno ha qualche altro incantesimo?» chiese.

Gli altri rifletterono febbrilmente.

«Credo di ricordarne uno» disse esitante il Tesoriere.

«Avanti, amico. Val la pena di tentare tutto in un momento come questo».

Il Tesoriere allungò una mano. Chiuse gli occhi e mormorò alcune sillabe fra i denti.

Ci fu una piccola scintilla di luce color ottarino e…

«Oh» fece l’Arcicancelliere. «Tutto qui?»

«‘Il Bouquet A Sorpresa di Eryngias’» disse il Tesoriere, fremente e con gli occhi lucidi. «Non so perché, ma mi è sempre riuscito. Ho proprio il tocco, direi».

Ridcully guardò l’enorme mazzo di fiori stretto nel pugno del Tesoriere.

«Però io azzarderei… che non è di grande utilità al momento» aggiunse.

Il Tesoriere guardò le pareti che si avvicinavano e il suo sorriso svanì.

«Immagino di no» disse.

«Qualche altra idea?» chiese Ridcully.

Nessuno rispose.

«Belle le rose, però» disse il Decano.


«Hai fatto presto» disse la signorina Flitworth quando Bill Porta arrivò al mucchio di covoni trascinandosi dietro una tela cerata.

EH SÌ, mormorò vago, mentre lei lo aiutava a sistemarla sopra il raccolto e a bloccarla con delle pietre. Il vento cercò di strappargliela dalle mani; tanto valeva tentare di rovesciare una montagna.

La pioggia spazzava i campi, tra frammenti di nebbia che scintillavano di elettricità azzurra.

«Mai vista una notte del genere» disse la signorina Flitworth.

Rimbombò un altro tuono. Fulmini sottili balenarono all’orizzonte.

La signorina Flitworth afferrò il braccio di Bill Porta.

«Non c’è… qualcuno, sulla collina?» disse. «Mi è sembrato di vedere una figura».

NO, È SOLO UN’APPARECCHIATURA MECCANICA.

Un altro lampo.

«A cavallo?» disse la signorina Flitworth.

Un terzo fulmine saettò in cielo. E stavolta non ci furono dubbi. Sulla cima della collina c’era una figura a cavallo. Incappucciata, E con una falce, impugnata con orgoglio come una lancia.

È IN POSA. Bill Porta si voltò verso la signorina Flitworth. IN POSA. IO NON HO MAI FATTO NIENTE DEL GENERE. CHE SENSO HA? A CHE SCOPO?

Aprì la mano. Apparve la clessidra d’oro.

«Quanto tempo hai ancora?»

FORSE UN’ORA. FORSE SOLO DEI MINUTI.

«Forza, allora!»

Bill Porta rimase dov’era, guardando la clessidra.

«Ho detto forza!»

NON FUNZIONERÀ. HO SBAGLIATO A PENSARE CHE AVREBBE FUNZIONATO. CI SONO COSE A CUI NON SI PUÒ SFUGGIRE. NON SI PUÒ VIVERE PER SEMPRE.

«Perché no?»

Bill Porta sembrò scioccato.

CHE INTENDE DIRE?

«Perché non si può vivere per sempre?»

NON LO SO. SAGGEZZA COSMICA?

«E la saggezza cosmica che ne sa? Allora, andiamo o no?»

La figura sulla collina non si era mossa.

La pioggia aveva trasformato la terra in fanghiglia. Scivolarono giù per il pendio e attraversarono di corsa l’aia fino a casa.

AVREI DOVUTO PREPARARMI MEGLIO. AVEVO DEI PIANI…

«Ma c’era il raccolto».

SÌ.

«C’è modo di sbarrare le porte o cose del genere?»

SI RENDE CONTO DI COSA DICE?

«Be’, fatti venire un’idea! Qualcosa ha mai funzionato contro di te?»

NO, disse Bill Porta con una puntina di orgoglio.

La signorina Flitworth sbirciò fuori dalla finestra e poi si appiattì contro la parete accanto.

«Lui se n’è andato!»

NON È ANCORA UN LUI, disse Bill Porta.

«Quella cosa se n’è andata. Potrebbe essere ovunque».

PUÒ PASSARE ATTRAVERSO I MURI.

Lei si scansò immediatamente, poi gli lanciò un’occhiataccia.

MOLTO BENE. PRENDA LA BAMBINA CREDO CHE SIA MEGLIO ANDARCENE. Gli venne un’idea. Si illuminò un poco. CE L’ABBIAMO, UN PO’ DI TEMPO. CHE ORA È?

«Non lo so. Non fai che fermare gli orologi».

MA NON È ANCORA MEZZANOTTE?

«Direi più le undici e qualcosa».

ALLORA ABBIAMO TRE QUARTI D’ORA.

«Come fai a esserne certo?»

PER VIA DELLA SCENA, SIGNORINA. IL GENERE DI MORTE CHE SI METTE IN POSA ALL’ORIZZONTE PER FARSI ILLUMINARE DAI LAMPI, disse Bill Porta in tono di disapprovazione, NON SI PRESENTA ALLE UNDICI E VENTICINQUE SE PUÒ COMPARIRE A MEZZANOTTE.

Lei annuì, pallida, e sparì di sopra. Dopo un paio di minuti tornò, con Sal avvolta in una coperta.

«Dorme ancora» disse.

QUELLO NON È SONNO.

Aveva smesso di piovere, ma la tempesta ancora incombeva sulle colline. L’aria restava elettrica, sembrava ancora incandescente.

Bill Porta la precedette fuori, oltre il pollaio, dove Cyril e il suo harem di galline anziane erano accoccolati nel buio, cercando di occupare tutti la stessa porzione di trespolo.

C’era una pallida luce verde che fluttuava attorno al comignolo della fattoria.

«Lo chiamiamo Fuoco di Mamma Carey» disse la signorina Flitworth. «È un presagio».

UN PRESAGIO DI COSA?

«Cosa? Oh, non ne ho idea. Un presagio e basta, mi sa. Presagistica di base. Dove andiamo?»

IN PAESE.

«Per essere vicini alla falce?»

SÌ.

Sparì nella stalla Dopo un po’ uscì conducendo Binky, sellato e imbrigliato. Montò in groppa, poi si chinò e sistemò la signorina e la bambina in sella davanti a lui.

SE FALLIRÒ, disse, QUESTO CAVALLO LA PORTERÀ OVUNQUE VOGLIA ANDARE.

«Io non voglio andare da nessuna parte, se non a casa mia!»

OVUNQUE.

Binky partì al galoppo quando presero la strada per il paese. Il vento strappava le foglie dagli alberi, che rotolavano sulla strada davanti a loro. Ogni tanto un fulmine sibilava ancora in cielo.

La signorina Flitworth guardò la collina oltre la fattoria.

«Bill…»

LO SO.

«…è di nuovo lì…»

LO SO.

«Perché non ci insegue?»

SIAMO AL SICURO, FINCHÉ LA SABBIA NON FINISCE.

«E quando finisce, tu muori?»

NO. QUANDO LA SABBIA FINIRÀ, È IL MOMENTO IN CUI DOVREI MORIRE. SARÒ NELLO SPAZIO TRA LA VITA E L’ALDILÀ.

«Bill, sembrava che quella cosa cavalcasse… credevo che fosse un cavallo, magari molto magro, ma…»

È UNO STALLONE SCHELETRICO. DI GRANDE IMPATTO MA POCO PRATICO. NE HO AVUTO UNO MA GLI È CADUTA LA TESTA.

«Un po’ come frustare un cavallo morto, direi».

AH, AH. MOLTO DIVERTENTE, SIGNORINA FLITWORTH.

«Credo che in un momento come questo tu possa smettere di chiamarmi signorina Flitworth» disse lei.

RENATA?

Lei trasalì. «Come fai a sapere il mio nome? Ah. Probabilmente l’hai visto scritto, no?»

INCISO.

«Su una di quelle clessidre?»

SÌ.

«Con tutta la sabbia del tempo che scorre?»

SÌ.

«Tutti ne hanno una?»

SÌ.

«Perciò tu sai quanto…»

SÌ.

«Dev’essere strano, sapere… le cose che sai tu…»

NON CHIEDA.

«Non è giusto, però. Se sapessimo quando moriremo, vivremmo molto meglio».

SE LA GENTE SAPESSE QUANDO MORIRÀ, CREDO CHE NON VIVREBBE AFFATTO.

«Oh, molto enigmatico. E che ne sai tu, Bill Porta?»

TUTTO.

Binky percorse una delle sparute strade del paese fino all’acciottolato della piazza. Non c’era nessuno in giro. In città come Ankh-Morpork la mezzanotte era solo sera tardi, perché non c’era una notte cittadina, solo la sera che svaniva nell’alba. Ma qui la gente regolava la propria vita su cose come il tramonto e chicchiricchì pronunciati male. Mezzanotte voleva dire mezzanotte.

Anche con la tempesta che infuriava sulle colline, la piazza era silenziosa. Il ticchettio dell’orologio nella torre, impercettibile di giorno, ora sembrava rimbombare tra gli edifici.

Mentre si avvicinavano, qualcosa vibrò nelle sue viscere di ruote dentate. La lancetta dei minuti si spostò con uno scatto, e si fermò sul 9. Sul quadrante si aprì uno sportellino e due figurine meccaniche uscirono, con aria di grande importanza, e batterono su una campanella con un grande sforzo apparente.

Ting-ting-ting.

Le figurine si misero in fila e tornarono ondeggiando nell’orologio.

«Sono lì da quando ero bambina. Li ha fatti il bis-bisnonno del signor Simnel» disse la signorina Flitworth. «Mi sono sempre chiesta cosa facevano tra un rintocco e l’altro. Pensavo che avessero una casetta o qualcosa del genere, là dentro».

NON CREDO. SONO SOLO COSE. NON SONO VIVI.

«Mmm. Be’, sono là da centinaia di anni. Magari la vita è una cosa che si acquista col tempo?»

SÌ.

Attesero in silenzio, a parte i piccoli colpi della lancetta dei minuti che si arrampicava su per la notte.

«È… stato un piacere averti qui, Bill Porta».

Lui non rispose.

«Per come mi hai aiutato con il raccolto e tutto».

È STATO… INTERESSANTE.

«Ho sbagliato a farti perdere tempo, solo per un mucchio di grano».

NO. IL RACCOLTO È IMPORTANTE.

Bill Porta aprì la mano. Apparve la clessidra.

«Ancora non capisco come fai».

NON È DIFFICILE.

Il sibilo della sabbia crebbe di intensità fino a riempire la piazza.

«Hai delle ultime parole da dire?»

SÌ. NON VOGLIO ANDARE.

«Be’. Stringato come sempre».

Bill Porta vide con sorpresa che lei cercava di tenergli la mano.

In alto, le due lancette della mezzanotte si unirono. Dall’orologio venne un ronzio. La porticina si aprì. Gli automi marciarono fuori. Si fermarono ai lati della campanella, si inchinarono l’uno all’altro e sollevarono i martelli.

Dong.

Poi si sentì un cavallo al galoppo.

I margini del campo visivo della signorina Flitworth si riempirono di chiazze rosse e blu, come i lampi del ricordo di un’immagine, ma senza l’immagine.

Se girava in fretta la testa, con la coda dell’occhio poteva vedere piccole figure ammantate di grigio che fluttuavano lungo i muri.

Il Fisco, pensò. Sono venuti a controllare che vada tutto come previsto.

«Bill?» disse.

Lui richiuse la mano sulla clessidra d’oro.

ORA COMINCIA.

Il galoppo si fece più forte, rimbombando tra gli edifici alle loro spalle.

RICORDI: NON CORRE NESSUN PERICOLO.

Bill Porta tornò nell’oscurità.

Poi riapparve momentaneamente.

FORSE, aggiunse, e si ritrasse nel buio.

La signorina Flitworth sedette sui gradini dell’orologio, cullando la bambina sulle ginocchia.

«Bill?» azzardò.

Una figura a cavallo entrò nella piazza.

Montava in effetti lo scheletro di un cavallo. Fiamme azzurre scoppiettavano sulle ossa della creatura mentre galoppava; la signorina Flitworth si ritrovò a chiedersi se fosse un vero scheletro, animato in qualche modo, qualcosa che un tempo era stato dentro un cavallo, oppure una creatura scheletrica nata così. Era un ragionamento ridicolo, ma era meglio che concentrarsi sulla spaventosa realtà che si stava avvicinando.

Lo strigliava, o gli dava solo una lucidata?

Il cavaliere smontò. Era molto più alto di Bill Porta, ma l’oscurità della veste nascondeva qualsiasi dettaglio. Aveva in mano qualcosa che non era esattamente una falce, ma che poteva aver avuto una falce tra i suoi antenati, allo stesso modo in cui anche il più sofisticato degli strumenti chirurgici ha nel suo passato un bastoncino. Era lontanissimo da qualsiasi cosa avesse mai toccato del fieno.

La figura avanzò a grandi passi verso la signorina Flitworth, con la falce appoggiata alla spalla, e si fermò.

Lui dov’è?

«Non so di che stai parlando» rispose la signorina Flitworth. «E se fossi in te, giovanotto, darei da mangiare a quel cavallo».

La figura parve avere dei problemi a digerire l’informazione, ma finalmente arrivò a una conclusione. Abbassò la falce e guardò la bambina.

Lo troverò, disse. Ma prima…

Si irrigidì.

Una voce alle sue spalle disse: BUTTA LA FALCE, E VOLTATI LENTAMENTE.


Qualcosa dentro la città, pensò Windle. Le città crescono piene di gente, ma sono anche piene di commercio, negozi, religioni e…

Che stupidaggine, si disse. Sono solo cose. Non sono vive.

Forse la vita è una cosa che si acquisisce.

Parassiti e predatori, ma non del genere che affligge animali e vegetali. Erano una specie di forma di vita grande, più lenta, metaforica, che viveva alle spalle delle città. Però l’incubazione avveniva nelle città. Ora ricordava, come poteva ricordare tutto, di aver letto da studente di certe creature che deponevano le uova all’interno di altre creature. Per mesi non aveva toccato né frittate né caviale, per precauzione.

E le uova… dovevano assomigliare alle città, in modo che i cittadini le portassero a casa. Come le uova di cuculo.

Chissà quante città sono morte in passato? Accerchiate da parassiti, come una barriera corallina circondata dalle stelle marine. Si erano svuotate, avevano perso qualsiasi spirito.

Si alzò.

«Dove sono andati tutti, Bibliotecario?»

«Oook oook».

«Proprio come loro. Avrei dovuto farlo anch’io, scappare senza pensare. Gli dei li benedicano e li aiutino, se mai riescono a trovare il tempo tra le loro eterne beghe famigliari».

E poi pensò: ‘E adesso? Ho pensato, e ora cosa faccio?’

’Scappo, naturalmente. Però piano’.


Il centro del mucchio di carrelli non era più visibile. Stava succedendo qualcosa. Una luce azzurrina aleggiava sull’enorme piramide di metallo contorto, e al centro del mucchio balenavano ogni tanto dei lampi di luce. I carrelli ci si schiantavano contro come asteroidi che si aggregavano attorno al nucleo di un nuovo pianeta, ma alcuni facevano una cosa diversa. Si infilavano in tunnel aperti nella struttura, e sparivano nel nucleo scintillante.

Poi ci fu un movimento in cima al cumulo, e qualcosa si fece strada attraverso il metallo rotto. Era una punta scintillante, che reggeva un globo del diametro di circa due metri. Per un paio di minuti non fece granché, poi quando il vento lo essiccò, si spaccò e finì in pezzi.

Ne caddero fuori oggetti bianchi, che furono trasportati dal vento e ricaddero a fontana su Ankh-Morpork e sulla folla degli spettatori.

Uno di quegli oggetti scese dolcemente, zigzagando tra i tetti, e atterrò ai piedi di Windle Poons che usciva barcollando dalla Biblioteca.

Era ancora umido, e c’era una scritta sopra. O perlomeno il tentativo di una scritta. Assomigliava a quelle strane iscrizioni organiche sulle palline di vetro, parole create da qualcosa che non aveva alcuna familiarità con le parole:


Saldi! saldi!! saldi!!

da domani!!!


Windle arrivò ai cancelli dell’Università. La gente passava a frotte.

Windle conosceva i suoi concittadini. Andavano a vedere qualsiasi cosa. Si rimbambivano per tutto ciò che era scritto con più di un punto esclamativo alla fine.

Si sentì osservato, e si voltò. Un carrello lo guardava da un vicolo; indietreggiò e schizzò via.

«Cosa succede, signor Poons?» chiese Ludmilla.

C’era qualcosa di irreale nell’espressione dei passanti. Era l’espressione di chi pregustava qualcosa.

Non occorreva essere un mago per capire che qualcosa non andava. E i sensi di Windle giravano come una dinamo.

Lupine afferrò con un balzo un foglio di carta volante e glielo portò.

eccezionali ribassi!!!!!


Windle scosse tristemente la testa. Cinque punti esclamativi erano il segno sicuro di una mente malata.

Poi sentì la musica.

Lupine si accovacciò e ululò.


Nella cantina sotto la casa della signora Torta, Schleppel l’uomonero si fermò a metà del terzo ratto e si mise in ascolto.

Poi finì la sua merenda e prese la porta.


Il Conte Arthur Winkings Notfaroutoe lavorava alla cripta.

Personalmente lui sarebbe potuto vivere, o ri-vivere, o non-vivere, o qualsiasi cosa stesse facendo, anche senza una cripta. Ma la cripta ci voleva. Doreen era stata inamovibile a questo proposito. Dava il giusto tono all’ambiente, diceva. Dovevi avere sia una cripta sia una catacomba, altrimenti il resto della società vampiresca ti avrebbe guardato dall’alto in basso.

Nessuno ti raccontava mai quelle cose quando cominciavi a fare il vampiro. Nessuno ti diceva mai di costruirti una cripta con materiale scadente preso da Chalky il Troll — Forniture Edili All’Ingrosso. Non era una cosa che capitava di solito ai vampiri, rifletté Arthur. Non ai vampiri veri. Per esempio il Conte Giugula. Un damerino come quello aveva qualcuno che lo faceva per lui. Quando i paesani arrivavano per bruciare il castello, non vedevi mai il Conte in persona che andava ad abbassare il ponte levatoio. Oh, no. Diceva solo: «Igor», per esempio, «Igor, cala il ponte».

Eh. Ormai erano mesi che aveva messo quell’annuncio all’ufficio di collocamento di Keeble. Alloggio, tre pasti al giorno, e gobba se necessario. Neanche una risposta. E si lamentavano pure della disoccupazione. Roba da mangiarsi il fegato.

Prese un altro pezzo di legno e lo misurò, spiegando il metro con una smorfia.

Gli faceva male la schiena per aver scavato il fossato. Altra cosa di cui i vampiri chic non dovevano preoccuparsi. Il fossato era compreso nel pacchetto. E girava tutto intorno, perché gli altri vampiri non avevano la strada davanti a casa, e la vecchia, lamentosa signora Pivey da un lato, e dall’altro una famiglia di troll con cui Doreen non parlava, e perciò non avevano un fossato lungo solo quanto il giardinetto sul retro. Arthur continuava a caderci dentro.

E poi c’erano i morsi sui colli delle ragazze. O meglio, non c’erano. Arthur era sempre pronto a vedere le cose dal punto di vista del suo prossimo, ma era sicuro che le ragazze col vampirismo c’entrassero, checché ne dicesse Doreen. Con indosso negligenti di tulle. Arthur non era sicuro di sapere cosa fosse un negligente di tulle, ma aveva letto qualcosa in proposito e sapeva di volerne vedere uno prima di morire…

E gli altri vampiri non si ritrovavano all’improvviso con le mogli che parlavano con le vu al posto delle erre. L’ovvio motivo era che i veri vampiri parlavano già così.

Arthur sospirò.

Non era vita, né semi-vita né non-vita o quel che era, essere un grossista di frutta e verdura di ceto medio-basso con una malattia da classe dirigente.

In quel momento la musica filtrò dal buco che aveva fatto nel muro per metterci la finestra con le sbarre.

«Ahi» disse, afferrandosi la mandibola. «Doreen?»


Reg Scarpa batté sul suo podio portatile.

«… E lasciate che ve lo dica, non ci sdraieremo ad aspettare che ci cresca l’erba fin sopra la testa» urlò. «Allora, qual è il vostro piano in sette punti per le Pari Opportunità con i vivi? Voglio sentire le vostre voci!»

Il vento soffiava tra l’erba secca del cimitero. L’unica creatura che apparentemente gli prestava attenzione era un corvo solitario.

Reg Scarpa scrollò le spalle e abbassò la voce. «Potreste almeno fare uno sforzo» disse all’altro mondo latitante. «Io sto qua a consumarmi fino alle ossa» piegò le mani per dimostrarlo, «e ricevo una parola di ringraziamento?»

Fece una pausa. Non si sapeva mai.

Il corvo, che era uno di quelli grossi e grassi che infestavano i tetti dell’Università, piegò la testa di lato e guardò pensierosamente Reg Scarpa.

«Sapete» disse Reg, «a volte mi viene proprio voglia di mollare…»

Il corvo si schiarì la voce.

Reg Scarpa si voltò.

«Una sola» disse. «Di’ una sola parola e…»

E poi sentì la musica.


Ludmilla si arrischiò a togliersi le mani dalle orecchie.

«È orribile! Ma cos’è, signor Poons?»

Windle cercò di calcarsi sulle orecchie ciò che restava del suo cappello.

«Non lo so» disse. «Potrebbe essere musica. Se non avessi mai sentito musica prima».

Non c’erano note. Erano rumori che potevano anche essere stati pensati come note, messi insieme come la mappa di un paese fatta da uno che non c’è mai stato.

Hnyip. Ynyip. Hwyomp.

«Viene da fuori città» disse Ludmilla. «Dove stanno andando… tutti… Ma non può piacergli, vero?»

«Non vedo proprio come» disse Windle.

«È che… si ricorda del problema dei ratti, l’anno scorso? L’uomo che diceva di avere un piffero che suonava musica che solo i ratti potevano sentire?»

«Sì, ma non era vero, era una truffa, si chiamava Maurice il Magnifico e i suoi Ratti Ammaestrati…»

«Ma se supponiamo che possa essere vero?»

Windle scosse la testa.

«Musica per attrarre gli umani? È qui che voleva arrivare? Ma non può essere. Noi, non ci sta attirando. Al contrario, glielo assicuro».

«Sì, ma lei non è… esattamente umano» disse Ludmilla. «E…» S’interruppe e arrossì.

Windle le batté sulla spalla.

«Molto giusto. Molto giusto» riuscì solo a commentare.

«Lei sa, non è vero?» disse lei, senza alzare lo sguardo.

«Sì. E non credo che ci sia nulla di cui vergognarsi, se le può essere d’aiuto».

«Mamma dice che sarebbe una tragedia se qualcuno lo scoprisse!»

«Dipende da chi lo scopre, direi» chiosò Windle, con un’occhiata a Lupine.

«Perché il suo cane mi fissa in quel modo?»

«È molto intelligente» disse Windle.

Si tastò la tasca, ne trasse un paio di manciate di terriccio e il suo diario. Venti giorni alla luna piena. Be’, era comunque qualcosa che valeva la pena di aspettare.


I frammenti metallici del mucchio cominciarono a crollare. I carrelli tutt’intorno e una folla di cittadini di Ankh-Morpork erano disposti in un ampio circolo, cercando di sbirciare all’interno. La musica non-musicale riempiva l’aria.

«C’è il signor Dibbler» disse Ludmilla, mentre si facevano strada fra la gente, senza incontrare resistenza.

«Che cosa vende stavolta?»

«Non credo che stia cercando di vendere niente, signor Poons».

«È così grave? Allora probabilmente siamo in un mare di guai».

Da uno dei buchi nel mucchio usciva una luce azzurra. Pezzi di carrello rotto cadevano tintinnando come foglie di metallo.

Windle si chinò rigidamente e raccolse un cappello a punta. Era malconcio ed era stato calpestato da un sacco di carrelli, ma era ancora riconoscibile come qualcosa che per diritto doveva stare in testa a qualcuno.

«Ci sono dei maghi là dentro» disse.

Una luce argentea si librò dal metallo. Scorreva come olio. Windle allungò una mano e una grossa scintilla atterrò sulle sue dita.

«Mmm» disse. «C’è anche un sacco di potenziale…»

Poi sentì il richiamo dei vampiri.

«Yu-huu, signor Poons!»

Si voltò. I Notfaroutoe lo guardavano dall’alto.

«Saremmo… voglio dive, savemmo avvivati pvima, ma…»

«… non riuscivo a trovare quel cavolo di fermacolletto» mormorò Arthur, rosso in viso e imbarazzato. Indossava una tuba pieghevole, che in quanto a pieghevolezza andava benissimo, ma era purtroppo carente sul versante tuba: sembrava che Arthur guardasse il mondo da sotto una fisarmonica.

«Oh, salve» disse Windle. C’era qualcosa di tremendamente affascinante della dedizione dei Winkings ai dettami del vampirismo.

«Chi savebbe la donzella?» chiese Doreen, guardando raggiante Ludmilla.

«Come?» disse Windle.

«Pvego?»

«Doreen… cioè, la Contessa ha chiesto chi è lei» spiegò stancamente Arthur.

«So che cosa ho detto» disse Doreen, in un tono più adeguato a una nata e cresciuta ad Ankh-Morpork piuttosto che in qualche recondita località della Transilvania. «Cioè, se lasciassi fare a te, non avremo un briciolo di…»

«Mi chiamo Ludmilla» disse Ludmilla.

«Incantata» disse graziosamente la Contessa Notfaroutoe, porgendo una mano che sarebbe stata sottile e pallida se non fosse stata rosea e paffuta. «È sempve un piaceve incontvave sangue nuovo. Se le va un biscotto pev cani, la nostva povta è sempve apevta».

Ludmilla si voltò verso Windows Poons.

«Ma ce l’ho scritto in fronte?» chiese.

«Queste sono persone speciali» rispose dolcemente Windle.

«Direi» replicò Ludmilla in tono pacato. «Non conosco molte persone che vanno in giro con tuba e mantello».

«Il mantello è obbligatorio» disse il Conte Arthur. «Per le ali, sa. Vede…?»

Aprì il mantello con un gesto teatrale. Ci fu un secco pop, e nell’aria apparve un piccolo pipistrello grassoccio. Guardò in basso, dette uno strillo furioso e si tuffò di testa sul selciato. Doreen lo raccolse per le zampe e lo spolverò.

«Quello che non mi va giù è dover dormire con la finestra aperta tutta la notte» disse in tono vago. «Vorrei che la piantassero con quella musica! Mi sta venendo il mal di testa».

Ci fu un altro pop. Arthur riapparve a testa in giù e atterrò sulla testa.

«È colpa della gravità» disse Doreen. «È come una specie di rincorsa. Se non parte da almeno un piano di altezza non prende la giusta velocità».

«Non prendo la giusta velocità» ripeté Arthur, rimettendosi faticosamente in piedi.

«Scusate» disse Windle, «la musica non ha effetto su di voi?»

«A me fa venire voglia di digrignare i denti» rispose Arthur. «E non è una buona cosa per un vampiro, non credo che ci sia bisogno che glielo dica».

«Il signor Poons crede che faccia qualcosa alle persone» disse Ludmilla.

«Fa digrignare i denti a tutti?» propose Arthur.

Windle guardò la folla. Nessuno faceva caso ai membri del Club Nuovo Inizio.

«Sembra che aspettino qualcosa» disse Doreen. «Sembva, cioè».

«Mette paura» disse Ludmilla.

«In quello non c’è niente di male» disse Doreen. «Anche noi mettiamo paura».

«Il signor Poons vuole entrare nel mucchio» spiegò Ludmilla.

«Buona idea. Gli faccia spegnere quella cavolo di musica» disse Arthur.

«Ma potrebbe essere ucciso!» disse Ludmilla.

Windle batté le mani, e se le fregò pensierosamente.

«Ah» disse, «è qui che siamo in vantaggio».

Entrò.

Non aveva mai visto una luce così forte. Sembrava emanare da ogni dove, scacciando senza pietà ogni singola ombra. Era molto più chiara della luce del giorno, senza per questo assomigliarle… aveva una nota di azzurro che tagliava la vista come un coltello.

«Tutto bene, Conte?» chiese.

«Bene, bene» disse Arthur.

Lupine ringhiò.

Ludmilla tirò un groviglio di metallo.

«C’è qualcosa qua sotto. Sembra… marmo. Marmo arancione». Ci passò la mano. «Però è caldo. Il marmo non dovrebbe essere caldo, vero?»

«Non può esseve mavmo. Non ci può esseve così tanto mavmo… al mondo» disse Doreen. «Volevamo il mavmo per la cvipta» assaporò la parola e annuì, «sì, pev la cvipta. Quei nani dovrebbevo esseve fucilati, con i pvezzi che fanno. È un disastvo».

«Non credo che siano stati i nani a costruire questo» disse Windle. Si chinò goffamente per esaminare il pavimento.

«Nemmeno io… i piccoli bastardi pigri. Volevano quasi settanta dollari per fare la nostra cripta. Vero, Arthur?»

«Quasi settanta dollari» confermò Arthur.

«Credo che nessuno l’abbia costruito» disse piano Windle. Fessure. Dovrebbero esserci delle fessure, pensò. I margini, le congiunzioni fra due lastre. Non dovrebbe essere un pezzo unico, e oltretutto leggermente appiccicoso.

«E così Arthur l’ha fatta lui».

«L’ho fatta io».

Ah. Ecco un bordo. Be’, non era esattamente un bordo. Il marmo diventava trasparente, come una finestra che dava su un altro spazio fortemente illuminato. Dentro c’erano delle cose, indistinte e apparentemente fuse, ma nessun modo per arrivarci.

Le chiacchiere dei Winkings gli passarono sopra la testa mentre avanzava lentamente.

«… è una piccola cripta, davvero. Ma c’è annessa anche una prigione sotterranea, anche se bisogna uscire in corridoio per chiudere bene la porta…»

La signorilità poteva significare un po’ di tutto, pensò Windle. Per certe persone voleva dire non essere un vampiro. Per altri era un set di pipistrelli volanti di gesso appesi al muro.

Passò le dita sul materiale trasparente. Il mondo lì era tutto un rettangolo. C’erano angoli, il corridoio era delimitato ai due lati da quel materiale trasparente. E la non-musica suonava incessantemente.

Non poteva essere vivo, vero? La vita era… più arrotondata.

«Che ne pensi, Lupine?» chiese.

Lupine abbaiò.

«Mmm, non sei di grande aiuto».

Ludmilla s’inginocchiò e posò la mano sulla spalla di Windle.

«Che intende dire, che nessuno l’ha costruito?» chiese.

Windle si grattò la testa.

«Non ne sono sicuro… ma credo che forse sia stato… secreto».

«Secreto? E da cosa? Da chi?»

Alzarono la testa. Un carrello uscì ronzando da un corridoio laterale e si infilò in un altro di fronte.

«Da loro?» disse Ludmilla.

«Secondo me no. Credo che siano più come dei servi. Come le formiche. O le api in un alveare, magari».

«Il miele quale sarebbe?»

«Non ne sono certo. Ma non è ancora maturo. Non credo che abbiano finito. Nessuno tocchi niente».

Avanzarono ancora. Il corridoio si apriva in un vasto spazio luminoso, a volta. C’erano rampe di scale che portavano ai diversi piani, una fontana e un gruppo di piante in vaso dall’aria troppo sana per essere vere.

«Carino, no?» disse Doreen.

«Continuo a pensare che dovrebbe esserci della gente» disse Ludmilla. «Un sacco di gente».

«Quanto meno dovrebbero esserci dei maghi» mormorò Windle Poons. «I maghi non spariscono così».

Il gruppetto avanzò. Corridoi come quello avrebbero potuto ospitare una coppia di elefanti a braccetto.

«Che ne dite di tornare indietro?» disse Doreen.

«E a che servirebbe?» chiese Windle.

«Ad andarcene da qui».

Windle si voltò, contando. Cinque corridoi equidistanti partivano dalla zona a volta.

«E presumibilmente è lo stesso, sopra e sotto» disse a voce alta.

«È tutto molto pulito, qui» disse nervosamente Doreen. «Vero Arthur?»

«È molto pulito».

«Cos’è questo rumore?» chiese Ludmilla.

«Che rumore?»

«Questo. Come di qualcuno che succhia qualcosa».

Arthur si guardò intorno con un certo interesse.

«Io non sono».

«Sono le scale» disse Windle.

«Non dica sciocchezze, signor Poons. Le scale non succhiano».

Windle guardò in basso.

«Queste sì».

Erano nere, come un fiume in salita. Uscendo da sotto il pavimento, la sostanza nera prendeva una forma a gradini, che salivano su per la pendenza prima di sparire sotto il pavimento, da qualche parte lassù. Quando emergevano, i gradini facevano un rumore ritmico, tipo shlup-shlup, come qualcuno che esplori una carie dentale particolarmente molesta.

«Sapete» disse Ludmilla, «forse è la cosa più sgradevole che abbia mai visto».

«Io ho visto di peggio» disse Windle. «Ma questa è parecchio brutta. Andiamo su o giù?»

«Ci vuole salire sopra?»

«No. Ma i maghi non sono su questo piano, quindi o ci saliamo o scivoliamo sul corrimano. Avete guardato bene il corrimano?»

Guardarono il corrimano.

«Credo» disse nervosamente Doreen, «che ‘giù’ per noi sia meglio».

Scesero in silenzio. Arthur cadde nel punto in cui le scale viaggianti venivano risucchiate dal pavimento.

«Ho avuto la sensazione orribile che volesse tirarmi giù» disse in tono di scusa, guardandosi intorno.

«È grande» disse. «Spazioso. Potrei fare miracoli qua sotto con un po’ di carta da parati effetto-pietra».

Ludmilla si avvicinò a una parete.

«Sapete» disse, «c’è più vetro di quanto ne abbia mai visto in vita mia, ma queste pareti trasparenti sembrano un po’ dei negozi. Ma che senso ha? Un enorme negozio pieno di negozi?»

«E non ancora maturo» disse Windle.

«Come?»

«Pensavo ad alta voce. Riesce a vedere la merce?»

Ludmilla si fece ombra agli occhi.

«Si vedono solo molti colori e luci».

«Mi dica se vede un mago».

Qualcuno urlò.

«O se ne sente uno, per esempio» aggiunse Windle. Lupine si avviò di corsa per uno dei corridoi. Windle gli barcollò subito dietro.

C’era un individuo steso sulla schiena, che cercava disperatamente di allontanare due carrelli. Erano più grossi di quelli che Windle aveva visto finora, e avevano una lucentezza dorata.

«Ehi!» gridò.

I carrelli smisero di tentare di incornare la figura a terra e si voltarono verso di lui.

«Oh» disse Windle, mentre prendevano velocità.

Il primo schivò le fauci di Lupine e prese in pieno le ginocchia di Windle, abbattendolo. Quando il secondo gli passò sopra lui allungò le mani, afferrò il metallo a casaccio e tirò forte. Una rotella ruzzolò via e il carrello si accartocciò contro il muro.

Windle si rialzò in tempo per vedere Arthur aggrappato con determinazione al manico dell’altro carrello, e i due che turbinavano insieme in una specie di folle valzer centrifugo.

«Molla! Molla!» strillò Doreen.

«Non posso! Non posso!»

«Be’, fai qualcosa!»

Ci fu un pop. All’improvviso il carrello non lottava più contro il peso di un grossista di frutta e verdura di mezza età, ma solo contro un piccolo pipistrello terrorizzato. Si lanciò a razzo contro una colonna di marmo, rimbalzò, colpì una parete e atterrò sul dorso, con le ruote impazzite.

«Le ruote!» gridò Ludmilla. «Strappategli le ruote!»

«Ci penso io» disse Windle. «Voi aiutate Reg».

«È Reg quello laggiù?» disse Doreen.

Windle fece cenno col pollice verso la parete più lontana. Le parole ‘Meglio tardi che Ma’ finivano in un disperato sbaffo di vernice.

«Dategli una parete e un po’ di vernice e non sa più in che mondo è» disse Doreen.

«Non che abbia molta scelta» osservò Windle, gettando a terra le ruote del carrello. «Lupine, stai di guardia nel caso ce ne siano altri».

Le ruote erano affilate come pattini da ghiaccio. Si sentiva le gambe a pezzi. Chissà come funzionava la guarigione?

Aiutarono Reg Scarpa a sedersi.

«Che succede?» disse. «Nessun altro stava entrando, così sono venuto a vedere da dove veniva la musica, e mi sono ritrovato quelle ruote…»

Il Conte Arthur tornò alla sua forma approssimativamente umana, si guardò intorno con orgoglio, si rese conto che nessuno gli prestava attenzione e si abbatté un poco.

«Sembravano molto più tosti degli altri» disse Ludmilla. «Più grossi, più cattivi e pieni di spigoli taglienti».

«Soldati» disse Windle. «Abbiamo visto gli operai, e questi sono i soldati. Proprio come le formiche».

«Avevo un formicaio, da piccolo» disse Arthur, che era atterrato piuttosto rudemente e aveva qualche problema temporaneo con la natura della realtà.

«Aspetta» disse Ludmilla. «So come funziona. In giardino abbiamo le formiche. Se ci sono operai e soldati, dev’esserci anche una…»

«Esatto. Esatto» disse Windle.

«… cioè, dicono che sono tanto operose ma io…»

Ludmilla si appoggiò alla parete.

«Dev’essere qui vicino» disse.

«Credo di sì» fece Windle.

«Secondo lei che aspetto ha?»

«… allora, si prendono due pezzi di vetro e delle formiche…»

«Non lo so. Come faccio a saperlo? Ma i maghi saranno da quelle parti».

«Non capisco pevché si pveoccupa tanto pev lovo» disse Doreen. «L’hanno sepolto vivo solo pevché eva movto».

Windle sentì un rumore di ruote e alzò la testa. Una dozzina di carrelli guerrieri girò l’angolo e si dispose in formazione.

«Credevano di agire per il meglio» disse Windle. «Capita spesso. È incredibile quante cose sembrano una buona idea al momento».


La nuova Morte raddrizzò la schiena.

Altrimenti?

AH.

EHM.

Bill Porta fece un passo indietro, si voltò e se la dette a gambe.

Nessuno sapeva bene quanto lui che stava solo rimandando l’inevitabile. Ma non era quello che si faceva vivendo?

Nessuno era mai fuggito da lui dopo morto. Molti ci avevano provato prima, spesso con grande ingenuità. Ma la reazione normale di uno spirito, scagliato improvvisamente da un mondo all’altro, era di aspettare speranzosamente. Perché fuggire, dopotutto? Non sapevi nemmeno dove stavi andando.

Il fantasma Bill Porta sapeva dove stava correndo.

L’officina di Ned Simnel era chiusa a chiave di notte, ma quello non era un problema. Né vivo né morto, lo spirito di Bill Porta attraversò la parete.

Il fuoco era un brillio visibile a malapena, nella fucina L’officina era piena di una calda oscurità.

Quello che mancava però era lo spettro di una falce.

Bill Porta si guardò disperatamente intorno.

SQUITT?

C’era una piccola figura ammantata di scuro seduta su una trave del soffitto. Indicò freneticamente l’angolo.

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