Bill vide un manico scuro che spuntava dalla catasta di legna. Cercò di afferrarlo con dita che ormai avevano la consistenza dell’ombra.

HA DETTO CHE L’AVREBBE DISTRUTTA!

La Morte dei Ratti fece un gesto di solidarietà.

La nuova Morte attraversò la parete, reggendo la falce con entrambe le mani.

Avanzò verso Bill Porta.

Ci fu un fruscio. Le vesti grigie si stavano riversando nell’officina.

Bill Porta ghignò di terrore.

La nuova Morte si fermò, in posa teatrale, nella luce fioca della fucina.

Tirò un fendente.

Perse quasi l’equilibrio.

Non è previsto che ti abbassi!

Bill Porta si tuffò di nuovo attraverso il muro e si lanciò attraverso la piazza, a cranio basso, con i piedi spettrali che non facevano alcun rumore sull’acciottolato. Raggiunse il gruppetto accanto all’orologio.

SUL CAVALLO! VIA!

«Che succede? Che succede?»

NON HA FUNZIONATO!

La signorina Flitworth, con il panico sulla faccia, mise la bambina svenuta sulla groppa di Binky e montò anche lei. Poi Bill Porta batté con decisione la mano sul fianco del cavallo. Almeno c’era un contatto… Binky esisteva in tutti i mondi.

VIA!

Non si guardò intorno ma sfrecciò di corsa verso la fattoria.

Un’arma!

Qualcosa che potesse tenere in mano!

L’unica arma nel mondo dei non-morti era fra le mani della nuova Morte.

Mentre correva, Bill Porta si accorse di un ticchettio debole e acuto. Guardò in basso. La Morte dei Ratti teneva il passo.

Gli lanciò uno squittio d’incoraggiamento.

Arrivò in scivolata al cancello della fattoria e si appiattì contro il muro.

Il rombo lontano della tempesta. A parte quello, silenzio.

Si rilassò appena, e avanzò cautamente lungo il muro verso il retro della casa.

Vide uno scintillio metallico. Appoggiata al muro, dove l’avevano lasciata gli uomini del paese quando l’avevano riportato a casa, c’era la sua falce; non quella che aveva accuratamente preparato, ma quella che aveva usato per il raccolto. Il filo era stato ottenuto solo con la pietra ad acqua e la carezza degli steli, ma era un oggetto familiare, e tentò di afferrarlo. La mano ci passò attraverso.

Più lontano corri, più ti avvicini.

La nuova Morte uscì senza fretta dall’ombra Dovresti saperlo, aggiunse.

Bill Porta raddrizzò la schiena Sarà divertente.

DIVERTENTE?

La nuova Morte avanzò. Bill Porta indietreggiò.

Sì. Prendere una Morte è come guadagnare un miliardo di vite minori.

VITE MINORI? QUESTO NON È UN GIOCO!

La nuova Morte esitò.

Cos’è un gioco?

Bill Porta sentì tornare un briciolo di speranza.

TI FACCIO VEDERE…

Finì contro il muro, con l’estremità del manico della falce sotto il mento. Scivolò a terra.

Riconosciamo i trucchi. Non ascoltiamo. Il mietitore non ascolta il raccolto.

Bill Porta cercò di alzarsi.

Il manico colpì di nuovo.

Non ripeteremo gli stessi errori.

Bill Porta alzò lo sguardo. La nuova Morte reggeva la clessidra d’oro, la cui parte superiore era vuota. Tutto attorno il paesaggio oscillò, sfumò, si arrossò, cominciò ad assumere l’aspetto irreale della realtà vista dall’altra parte…

Tempo scaduto, signor Bill Porta.

La nuova Morte sollevò il cappuccio.

Non c’era alcun volto. Nemmeno un teschio. Il fumo saliva, privo di forma, tra la veste e una corona d’oro.

Bill Porta si sollevò sui gomiti.

UNA CORONA? La voce tremava dalla rabbia, IO NON HO MAI PORTATO CORONE!

Non hai mai voluto regnare.

Morte tirò indietro la falce.

Poi entrambe le Morti, la nuova e la vecchia, si accorsero che il sibilo del tempo non si era fermato.

La nuova Morte esitò, e prese di nuovo la clessidra d’oro.

La scosse.

Bill Porta guardò la faccia vuota sotto la corona. C’era un’aria di perplessità, anche se non c’erano fattezze: l’espressione era sospesa nel vuoto.

Vide la corona voltarsi.

La signorina Flitworth era in piedi, con le mani aperte e gli occhi chiusi. Nello spazio fra le mani fluttuava la vaga sagoma di una clessidra, con la sabbia che scorreva veloce.

Le Morti riuscirono a distinguere il nome sul vetro, in lettere sottilissime: Renata Flitworth.

L’espressione senza volto della nuova Morte passò alla perplessità estrema Si voltò verso Bill Porta.

Per TE?

Ma Bill Porta stava già sorgendo, come l’ira dei re. Allungò un braccio dietro di sé, ringhiando, vivo per un prestito di tempo, e la sua mano strinse il manico della falce.

La Morte incoronata la vide arrivare e sollevò la sua arma, ma era molto probabile che nulla al mondo potesse fermare la lama consunta che fendeva l’aria, con la rabbia e la vendetta che le davano un filo al di là di ogni definizione di acume. Passò attraverso il metallo senza rallentare.

NIENTE CORONA, disse Bill Porta guardando dritto nel fumo. NIENTE CORONA. SOLO IL RACCOLTO.

La veste si piegò attorno alla lama. Ci fu un flebile lamento, che salì di tono oltre il livello della percezione. Una colonna nera, come il negativo di un fulmine, scoccò dal terreno e sparì fra le nuvole.

Morte aspettò un istante, poi toccò la veste con il piede, esitando. La corona, leggermente piegata, rotolò per un breve tratto prima di dissolversi.

OH, disse in tono deprecatorio, TUTTA SCENA.

Si avvicinò alla signorina Flitworth e le accostò dolcemente le mani. L’immagine della clessidra scomparve. La nebbia azzurro-violacea svanì e la realtà tornò netta.

In paese, l’orologio finì di battere la mezzanotte.

L’anziana donna stava tremando. Morte schioccò le dita davanti ai suoi occhi.

SIGNORINA FLITWORTH? RENATA?

«Io… non sapevo cosa fare e tu dicevi che non era difficile e…»

Morte entrò nella stalla. Quando uscì, indossava la veste nera.

Lei era ancora lì.

«Non sapevo cosa fare» ripeté, magari nemmeno a lui. «Cos’è successo? È finita?»

Morte si guardò intorno. Le sagome grigie stavano arrivando nell’aia.

FORSE NO, disse.


Dietro la fila dei guerrieri apparvero altri carrelli. Sembravano i piccoli operai argentati, con una punta d’oro pallido di tanto in tanto.

«Dovvemmo tovnave alle scale» suggerì Doreen.

«Credo che sia lì che vogliono mandarci» disse Windle.

«Pev me va bene. E comunque, non cvedo che quelle votelle possano fave le scale, no?»

«E non possiamo combattere esattamente all’ultimo sangue» disse Ludmilla. Lupine le stava vicino, con gli occhi fissi sulle ruote che avanzavano.

«Sarebbe bello avere un’alternativa» disse Windle. Raggiunsero le scale semoventi. Lui guardò in su. I carrelli si erano concentrati in cima alla rampa in salita, ma la strada verso il piano inferiore sembrava libera.

«Magari riusciamo a trovare un’altra strada per salire?» disse Ludmilla, speranzosa.

Salirono sui gradini. Alle loro spalle, i carrelli si sistemarono in modo da bloccare loro il ritorno.

I maghi erano al piano inferiore. Erano così immobili, tra le piante in vaso e le fontane, che sulle prime Windle li superò, pensando che fossero statue o pezzi di mobilio esoterico.

L’Arcicancelliere aveva un naso rosso finto e reggeva dei palloncini. Accanto a lui, il Tesoriere faceva giocoleria con delle palline colorate, ma come un automa, con gli occhi fissi nel vuoto.

Il Sommo Algebrico era a poca distanza, con indosso un cartellosandwich. La scritta non era ancora matura, ma Windle ci avrebbe scommesso la bara che alla fine avrebbe detto qualcosa del tipo ‘SALDI!!!!’

Gli altri maghi erano raggruppati come pupazzi meccanici a cui non fosse stata data la corda. Ciascuno aveva un grosso distintivo sulla veste. La familiare grafia organica si stava sviluppando in una parola con quest’aspetto:


Sicurezza


anche se la ragione restava un mistero totale. Certamente i maghi non sembravano molto al sicuro.

Windle schioccò le dita davanti agli occhi pallidi del Decano. Nessuna reazione.

«Non è morto» disse Reg.

«Riposa» disse Windle. «È spento».

Reg dette una spinta al Decano. Il mago trotterellò in avanti, poi si fermò in equilibrio precario e ondeggiante.

«Non li tireremo mai fuori» disse Arthur. «Non in quello stato. Non può svegliarli?»

«Gli accenda una piuma sotto il naso» suggerì Doreen.

«Non credo che funzionerebbe» disse Windle. Basava la sua affermazione sul fatto che Reg Scarpa era molto vicino ai loro nasi, e una persona il cui dispositivo nasale non si accorgesse della presenza del signor Scarpa di certo non avrebbe reagito a una semplice piuma bruciata. Ma nemmeno a un macigno sulla testa, a quel punto.

«Signor Poons» disse Ludmilla.

«Una volta conoscevo un golem che gli somigliava» notò Reg Scarpa. «Tale e quale. Un omone, fatto di argilla. Insomma, il tipico golem. Bisognava solo scrivergli sopra una parola e partiva».

«Tipo ‘sicurezza’?»

«Boh, forse».

Windle guardò il Decano. «No» disse alla fine. «Nessuno ha così tanta argilla». Guardò intorno ai maghi. «Dobbiamo scoprire da dove viene quella maledetta musica».

«Dove sono nascosti i musicisti, vuol dire?»

«Non credo che ce ne siano».

«Devono esserci i musicisti, fratello» disse Reg. «È per quello che si chiama musica».

«In primo luogo, è diversa da tutta la musica che ho mai sentito, e in secondo luogo ho sempre pensato che ci volessero lampade a olio o candele per fare luce, e invece qui non ce ne sono ma c’è luce ovunque» disse Windle.

«Signor Poons?» ripeté Ludmilla, battendogli sulla spalla.

«Sì?»

«Arrivano altri carrelli».

Bloccavano tutti e cinque i corridoi che partivano dallo spazio centrale.

«Non ci sono scale che scendono» disse Windle.

«Forse lei… è in una di quelle cose di vetro» ipotizzò Ludmilla. «In un negozio?»

«Non credo. Non sembrano finiti. Comunque, è tutto sbagliato…»

Lupine ringhiò. I carrelli alla testa del gruppo avevano delle piante lucenti, ma non stavano attaccando.

«Devono aver visto cosa abbiamo fatto agli altri» disse Arthur.

«Sì. Ma come hanno fatto? È successo di sopra» fece notare Windle.

«Be’, magari si parlano».

«Ma come fanno a parlare? Come fanno a pensare? Non può esserci un cervello in un mucchio di fil di ferro» disse Ludmilla.

«Se è per questo, nemmeno le api e le formiche pensano» replicò Windle. «Sono controllate…»

Guardò in alto.

Tutti guardarono in alto.

«Viene da qualche parte nel soffitto» disse. «Dobbiamo trovarla, adesso!»

«Ci sono solo pannelli di luce» disse Ludmilla.

«Qualcos’altro! Cercate un punto da cui può venire!»

«Viene da tutte le partii»

«Qualsiasi cosa pensiate di fare» disse Doreen, sollevando una pianta in vaso e tenendola come una mazza, «spero che lo facciate in fretta».

«Cos’è quella cosa tonda e nera lassù?» disse Arthur.

«Dove?»

«Là» disse Arthur, indicando.

«Okay, Reg e io ti solleviamo, forza…»

«Io? Ma soffro di vertigini!»

«Avevo capito che ti potevi trasformare in pipistrello».

«Sì, ma in un pipistrello molto nervoso!»

«Smettila di lamentarti. Forza. Un piede qui, ora la mano qui, ora metti il piede sulla spalla di Reg…»

«E non la sfondare» disse Reg.

«Non mi piace!» si lagnò Arthur, mentre lo issavano.

Doreen smise di guardare storto i carrelli che si avvicinavano.

«Avtuv! Non-lesso-bligi!»

«Eh? È linguaggio vampiresco?» sussurrò Reg.

«Vuol dire una cosa del tipo: un Conte deve fare quello che deve fare un Conte» rispose Windle.

«Conte!» sbottò Arthur, ondeggiando pericolosamente. «Non avrei mai dovuto stare a sentire quell’avvocato! Avrei dovuto saperlo, che non c’è mai niente di buono nelle buste marroni! E comunque non ci arrivo, a questo cavolo di…»

«Non puoi saltare?» disse Windle.

«Tu puoi rimanerci stecchito?»

«No».

«E io non salto!»

«Allora vola. Trasformati in pipistrello e vola».

«Non riesco a prendere lo slancio!»

«Potrebbe lanciarlo lei» disse Ludmilla. «Come una freccia di carta».

«Ma non esiste! Sono un Conte!»

«Hai appena detto che non volevi esserlo» disse Windle sarcastico.

«A terra non voglio, ma quando si tratta di essere lanciato come un frisbee…»

«Arthur! Fai come ti dice il signor Poons!»

«Non vedo perché…»

«Arthur!»

Arthur era un pipistrello sorprendentemente pesante. Windle lo prese per le orecchie come una palla da bowling anomala e cercò di prendere la mira.

«Si ricordi che sono una specie protetta!» squittì il Conte, mentre Windle faceva oscillare il braccio.

Fu un lancio preciso. Arthur volò fino al disco sul soffitto e ci si aggrappò.

«Riesci a spostarlo?»

«No!»

«Allora reggiti forte e ritrasformati».

«No!»

«Ti prendiamo noi».

«No!»

«Arthur!» gridò Doreen, dando dei colpetti a un carrello minaccioso con la sua finta mazza.

«Oh, va bene».

Ci fu una fugace visione di Arthur Winkings aggrappato disperatamente al soffitto, poi piombò su Windle e Reg, con il disco stretto al petto.

La musica s’interruppe di botto. Un groviglio di tubi rosa cadde giù dal buco proprio su Arthur, facendolo assomigliare a un piatto di spaghetti al pomodoro molto a buon mercato. Le fontane parvero funzionare al contrario per un istante, poi si asciugarono.

I carrelli si fermarono. Quelli in fondo finirono contro quelli davanti, con un coro di patetici schianti metallici.

Le tubazioni continuavano a uscire dal buco. Windle ne sollevò un pezzo. Era di un rosa sgradevole, e appiccicoso.

«Cosa crede che sia?» chiese Ludmilla.

«Io credo» disse Windle, «che sia meglio andarsene da qui».

Il pavimento tremò. Sbuffi di vapore uscirono dalle fontane.

«Prima di subito» aggiunse Windle.

L’Arcicancelliere gemette. Il Decano si accasciò in avanti. Gli altri maghi rimasero in piedi, ma a stento.

«Si stanno svegliando» disse Ludmilla. «Ma non credo che riusciranno a fare le scale».

«Secondo me non dovremmo nemmeno pensare di provarci, a fare le scale» disse Windle. «Le guardi».

Le scale semoventi non si muovevano. I gradini neri luccicavano nella luce senza ombra.

«Sono d’accordo con lei» disse Ludmilla. «Preferirei provare a camminare sulle sabbie mobili».

«Probabilmente sarebbe meno pericoloso» disse Windle.

«Forse c’è una rampa. I carrelli devono spostarsi in qualche modo».

«Buona idea».

Ludmilla guardò i carrelli. Si aggiravano senza meta. «Forse ne ho una migliore…» disse, e afferrò un manico al volo.

Il carrello tentò di resistere per un momento e poi, in mancanza di istruzioni contrarie, si fermò docilmente.

«Quelli che possono camminare cammineranno, e gli altri li spingiamo. Avanti, nonno». Era il Tesoriere, che fu convinto a mettersi di traverso sul carrello. Disse un debole ‘Yo’ e poi richiuse gli occhi.

Sopra ci misero il Decano.[16]

«Da che parte?» disse Doreen.

Un paio di mattonelle del pavimento si deformarono verso l’alto. Cominciò a uscire un denso vapore grigio.

«Dev’essere da qualche parte in fondo al corridoio» disse Ludmilla. «Andiamo».

Arthur guardò la nebbia che saliva a spirale attorno ai suoi piedi.

«Chissà come fanno?» disse. «È difficilissima, una cosa così. Noi abbiamo provato a rendere la nostra cripta più… criptica, ma si è solo riempito tutto di fumo e le tendine sono andate a fuoco…»

«Arthur. Stiamo andando».

«Secondo voi non abbiamo fatto troppi danni? Forse dovremmo lasciare un biglietto…»

«Sì, se vuoi scrivo qualcosa sul muro» disse Reg.

Afferrò per il manico un carrello operaio recalcitrante e, con una certa soddisfazione, lo picchiò contro una colonna finché non saltarono via le ruote.

Windle osservò il Club Nuovo Inizio imboccare il corridoio più vicino, spingendo un assortimento di maghi in offerta.

«Bene, bene, bene» disse. «Semplice e pulito, senza tante scene. Quello che andava fatto».

Fece per avviarsi, e si fermò.

I tubi rosa, strisciando sul pavimento, si erano già avvolti strettamente alle sue gambe.

Altre piastrelle saltarono. Le scale andarono in pezzi, rivelando il tessuto scuro e seghettato, ma soprattutto vivo, che le muoveva. Le pareti pulsarono e s’incurvarono, il marmo si spaccò mostrando il rosso e il rosa sottostanti.

Naturalmente, pensò una minuscola, lucida parte della mente di Windle, niente di tutto questo è reale. Gli edifici non sono veramente vivi. È tutta una metafora, solo che al momento le metafore erano come candele in una fabbrica di fuochi d’artificio.

Detto questo, che tipo di creatura è la Regina? Come un’ape regina, solo che è anche l’alveare. Come la friganea, quell’insetto che, se non mi sbaglio, costruisce una conchiglia con dei sassolini per mimetizzarsi. O come il nautilo, che ingrandiva la sua conchiglia man mano che cresceva. O meglio ancora, a giudicare da come sta squarciando i pavimenti, una stella marina molto, molto contrariata.

Chissà come fanno le città a difendersi da questo genere di cose? Le creature viventi di solito sviluppano delle difese contro i predatori. Veleni, pungiglioni e spine…

Probabilmente in questo momento sono io la difesa. Windle Poons, il vecchio pungiglione.

Almeno posso fare in modo che gli altri scappino. Facciamoci sentire…

Si chinò, afferrò una doppia manciata di tubi pulsanti, e tirò.

Il grido di rabbia della Regina si sentì fino all’Università.


Le nubi del temporale correvano veloci verso la collina. Si ammassarono in fretta in un cumulo imponente. Da qualche parte nel cuore della tempesta balenò un lampo.

C’È TROPPA VITA IN GIRO, disse Morte. NON CHE MI LAMENTI. LA BAMBINA DOVÈ?

«L’ho messa a letto. Sta dormendo. Un sonno normale».

Un fulmine colpì con un boato la collina, seguito da un fragore metallico, a media distanza.

Morte sospirò.

AH. ANCORA UN PO’ DI SCENA.

Girò intorno alla stalla, per avere una buona visuale dei campi bui. La signorina Flitworth gli stava alle calcagna, usandolo come scudo contro qualsiasi orrore si aggirasse là fuori.

Una luce blu lampeggiò dietro un recinto lontano. Si stava muovendo.

«Che cos’è?»

ERA LA MIETITREBBIATRICE.

«Era? Perché, adesso cos’è?»

Morte lanciò un’occhiata agli osservatori, che aumentavano.

FERROVECCHIO.

La Mietitrebbiatrice attraversò i campi inzuppati, con i bracci che ronzavano, le leve in movimento in un alone blu elettrico. Le staffe per il cavallo si agitavano, inutili.

«Come fa ad andare senza cavallo? Ieri ce l’aveva!»

NON LE SERVE.

Guardò gli osservatori in grigio. Ora ce n’erano schiere.

«Binky è ancora nell’aia. Andiamo!»

NO.

La Mietitrebbiatrice accelerò verso di loro. Lo schip-schip delle sue lame divenne un cigolio.

«È arrabbiata perché le hai rubato la cerata?»

NON HO RUBATO SOLO QUELLA.

Morte ghignò agli osservatori. Raccolse la falce, se la rigirò fra le mani, e poi, una volta sicuro di avere la loro attenzione, la gettò a terra.

Poi incrociò le braccia.

La signorina Flitworth lo tirò per la veste.

«Che cosa credi di fare?»

UN PO’ DI SCENA.

La Mietitrebbiatrice arrivò al cancello e lo attraversò in una nuvola di segatura.

«Sei sicuro che non c’è pericolo?»

Morte annuì.

«Va bene, allora».

Le ruote della Mietitrebbiatrice turbinavano.

FORSE.

E poi…

… qualcosa nella macchina fece clonk.

La Mietitrebbiatrice continuò ad avanzare, ma a pezzi. Una pioggia di scintille eruppe dagli assi. Un paio di bracci e mandrini riuscirono a restare attaccati, roteando follemente via dal confuso turbinio che cominciava a rallentare. Le lame in circolo si liberarono, si fecero strada fuori dalla macchina e schizzarono via per i campi.

Ci fu uno stridore, un clank, e poi un ultimo boing, equivalente uditivo del famoso paio di stivali fumanti. Poi, il silenzio.

Morte si chinò a raccogliere con calma un mandrino dall’aspetto complesso, che rotolava verso i suoi piedi. Era piegato ad angolo retto.

La signorina Flitworth si affacciò da dietro di lui.

«Che è successo?»

CREDO CHE LA CAMMA ELLITTICA SIA SCIVOLATA GRADUALMENTE LUNGO L’ALBERO PRINCIPALE E SI SIA IMPIGLIATA NELLA FLANGIA CON EFFETTI CATASTROFICI.

Morte guardò gli osservatori in grigio con aria di sfida. Uno per uno, cominciarono a scomparire.

Raccolse la falce.

E ORA DEVO ANDARE, disse.

La signorina Flitworth lo guardò, spaventata. «Come? Te ne vai così?»

SÌ. ESATTAMENTE COSÌ. HO MOLTO LAVORO DA SBRIGARE.

«E non ti rivedrò più? Cioè…»

OH, SÌ. PRESTO. Cercò le parole giuste, rinunciò. È UNA PROMESSA.

Tirò su la veste e infilò la mano nella tasca della tuta di Bill Porta, che indossava ancora sotto.

QUANDO IL SIGNOR SIMNEL VIENE A RACCOGLIERE I PEZZI DOMANI MATTINA PROBABILMENTE CERCHERÀ QUESTO, disse, e le mise in mano qualcosa di piccolo e smussato.

«Che cos’è?»

UN GRIPPOLO A TRE OTTAVI.

Morte si avviò verso il cavallo, poi gli venne in mente una cosa.

E MI DEVE ANCHE UN QUARTO DI PENNY.

Ridcully aprì un occhio. C’era gente che si aggirava. C’erano luci e confusione, e tizi che parlavano tutti insieme.

Gli sembrava di stare seduto in una carrozzina molto scomoda, con degli strani insetti che gli ronzavano intorno.

Sentiva il Decano che si lamentava, e gemiti che potevano venire solo dal Tesoriere, e la voce di una ragazza. C’erano persone che venivano soccorse, ma nessuno prestava la minima attenzione a lui. Be’, se c’erano in giro dei soccorsi, puoi giurarci che li avrebbe avuti anche lui.

Tossì forte.

«Provate» disse al mondo crudele in generale, «a versarmi a forza un po’ di brandy fra le labbra».

Qualcosa apparve su di lui, reggendo una lampada sopra la testa. Era una faccia taglia quarantadue con una pelle taglia cinquantotto. «Oook?» disse, preoccupato.

«Oh, è lei» fece Ridcully. Tentò di mettersi subito a sedere, nel caso in cui il Bibliotecario volesse provare la respirazione bocca a bocca.

Ricordi confusi gli vagavano nella mente. Ricordava una parete di metallo, del rosa, e poi… musica. Musica infinita, fatta per trasformare il cervello in formaggio spalmabile.

Si voltò. Dietro di lui c’era un edificio, circondato da una folla. Era largo e massiccio, adagiato sul terreno in una posa stranamente animale, come se fosse stato possibile sollevarne un’ala e sentire i cuccioli che poppavano. Dall’edificio proveniva luce, e il vapore usciva in sbuffi dalle porte.

«Ridcully si è svegliato!»

Apparvero altre facce. Ridcully pensò: ‘Non è la notte di Soul Cake, perciò non indossano maschere. Oh, miseria’.

Dietro di loro il Decano disse: «Io voto per lanciare il Riorganizzatore Sismico di Herpetty dalla porta. Fine del problema».

«No! Siamo troppo vicini alle mura della città! Non dobbiamo fare altro che gettare il Punto di Attrazione di Quondum nel posto giusto, e…»

«O magari la Sorpresa Incendiaria di Saltafosso?» era la voce del Tesoriere. «Bruciare tutto, è il modo migliore…»

«Ah sì? Ah sì? E tu che ne sai di tattiche militari? Non sai nemmeno dire ‘Yo’ come si deve!»

Ridcully afferrò i lati del carrello.

«Qualcuno potrebbe dirmi» disse, «che stracavolo sta succedendo?»

Ludmilla si fece strada fra i membri del Club Nuovo Inizio.

«Deve fermarli, Arcicancelliere!» disse. «Vogliono distruggere il grande negozio!»

Altri brutti ricordi si insediarono nella mente di Ridcully.

«Buona idea» disse.

«Ma il signor Poons è ancora là dentro!»

Ridcully cercò di concentrarsi sull’edificio luminoso.

«Chi, il morto Windle Poons?»

«Arthur è volato dentro quando ci siamo accorti che non era con noi e ha detto che Windle stava lottando con qualcosa che usciva dai muri! Abbiamo visto un sacco di carrelli ma ci hanno lasciato stare! Lui ci ha fatti uscire di là!»

«Chi, il morto Windle Poons?»

«Non potete distruggere il posto a forza di magia con uno dei suoi maghi dentro!»

«Chi, il morto Windle Poons?»

«Sì!»

«Ma è morto» disse Ridcully. «No? L’ha detto lui».

«Ha!» disse uno con molta meno pelle di quanto Ridcully avrebbe preferito. «Tipico. Il solito vitalismo. Scommetto che andreste a salvarlo, se fosse vivo».

«Ma lui voleva… non gli andava… lui…» azzardò Ridcully. Non capiva la maggior parte di tutto questo, ma per gente come Ridcully aveva poca importanza. Ridcully aveva una mente semplice. Il che non significa che fosse stupido. Voleva solo dire che riusciva a ragionare bene sulle cose solo eliminando tutte le parti complicate.

Si concentrò sul fatto principale. Qualcuno che tecnicamente era un mago si trovava nei guai. Questo lo poteva accettare. Colpiva nel segno. La faccenda vivo-o-morto poteva aspettare.

Però c’era un dettaglio che lo disturbava.

«Arthur…? È volato…?»

«Salve».

Ridcully voltò la testa e batté lentamente le palpebre.

«Bei denti» disse.

«Grazie» rispose Arthur Winkings.

«Tutti suoi?»

«Oh, sì».

«Stupefacente. Immagino che li pulisca regolarmente».

«Sì».

«Igiene. È la cosa più importante».

«Allora, cosa farete?» chiese Ludmilla.

«Be’, entriamo e lo andiamo a prendere» disse Ridcully. Che aveva quella ragazza? Sentiva lo strano impulso di accarezzarla sulla testa. «Un po’ di magia e lo tiriamo fuori. Sì. Decano!»

«Yo!»

«Adesso entriamo e andiamo a prendere Windle».

«Yo!»

«Che?» disse il Sommo Algebrico. «Dev’essere fuori di testa!»

Ridcully cercò di racimolare tutta la dignità che la situazione permetteva.

«Ricordi che sono il suo Arcicancelliere» sbottò.

«Allora dev’essere fuori di testa, Arcicancelliere!» ripeté il Sommo Algebrico. Abbassò la voce. «E comunque, è un non-morto. Non vedo come si possa salvare un non-morto. È una contraddizione in termini».

«Una dicotomia» suggerì il Tesoriere, volenteroso.

«No, non credo che c’entri la chirurgia».

«Ma poi, non l’avevamo seppellito?» disse il professore di Rune Recenti.

«E ora lo dissotterriamo di nuovo» disse l’Arcicancelliere. «Probabilmente è un miracolo dell’esistenza».

«Come i sottaceti» disse felice il Tesoriere.

Anche i membri del Club Nuovo Inizio lo guardarono con occhi vuoti.

«Lo fanno in certe parti dell’Howondaland» disse il Tesoriere. «Fanno dei vasi enormi di sottaceti speciali e li seppelliscono per mesi a fermentare, e così ottengono una salsa piccante deliziosa…»

«Senta» sussurrò Ludmilla a Ridcully, «è così che si comportano di solito i maghi?»

«Il Sommo Algebrico è un esempio eccezionale» rispose lui. «Ha lo stesso spiccato senso della realtà di una sagoma di cartone. Siamo fieri di averlo in squadra». Si fregò le mani. «Okay, ragazzi. Volontari?»

«Yo! Ha!» disse il Decano, che ormai era completamente in un altro mondo.

«Trascurerei la mia missione se non aiutassi un fratello» disse Reg Scarpa.

«Oook».

«Non possiamo portare anche te» disse il Decano, con un’occhiataccia al Bibliotecario. «Non sai niente di tecniche di guerriglia».

«Oook!» disse il Bibliotecario, con un gesto sorprendentemente eloquente che indicava che invece ciò che non sapeva sulla strategia degli orango poteva essere scritto sui resti polverizzati, per esempio, del Decano.

«Quattro di noi dovrebbero bastare» disse l’Arcicancelliere.

«Non l’ho nemmeno mai sentito dire ‘Yo’» mormorò il Decano.

Si tolse il cappello, cosa che un mago normalmente non fa a meno che non voglia tirarne fuori qualcosa, e lo porse al Tesoriere. Poi strappò una striscia sottile dall’orlo della veste, la prese con gesto teatrale fra le mani e se la legò attorno alla fronte.

«Fa parte dell’ethos» disse, in risposta alla loro inequivocabile domanda silenziosa. «Lo fanno i guerrieri del Continente Contrappeso prima di andare in battaglia. E bisogna gridare…» cercò di ricordare una lettura d’altri tempi «… ehm, bonsai. Sì. Bonsai!»

«Io credevo che volesse dire tagliare un pezzo di un albero per rifarlo piccolo» disse il Sommo Algebrico.

Il Decano esitò. Non era molto sicuro nemmeno lui. Ma un buon mago non permette mai all’incertezza di mettersi sulla sua strada.

«No, è decisamente ‘bonsai’» disse.

«Ma non puoi gridare ‘Bonsai!’ qui» ragionò il professore di Rune Recenti. «Abbiamo una tradizione culturale completamente diversa. Sarebbe inutile. Nessuno capirebbe che cosa vuoi dire».

«Ci lavorerò su» disse il Decano.

Vide Ludmilla che lo guardava a bocca aperta.

«Discorsi da maghi» spiegò.

«Ah, senza dubbio» disse Ludmilla. «Non ci sarei mai arrivata».

L’Arcicancelliere era uscito dal carrello e provava a spingerlo avanti e indietro. Di solito ci voleva un bel po’ di tempo perché un’idea nuova si insediasse nella mente di Ridcully, ma stavolta sentiva d’istinto che c’erano moltissimi usi possibili per un cesto di fili di ferro su quattro ruote.

«Andiamo o restiamo qui tutta la sera a bendarci la testa?» disse.

«Yo!» sbottò il Decano.

«Yo?» disse Reg Scarpa.

«Oook!»

«Era uno yo?» chiese il Decano, in tono sospettoso.

«Oook».

«Mmm… d’accordo».


Morte sedeva in cima a una montagna. Non era particolarmente alta, né brulla, né sinistra. Non c’erano streghe che ci tenevano i loro sabba nude; le streghe di Mondo Disco, in generale, non si toglievano volentieri i vestiti, se non era assolutamente necessario per il lavoro da sbrigare. Non c’erano spettri che la infestavano. Non c’erano piccoli uomini nudi seduti sulla vetta a dispensare saggezza, perché la prima cosa che un uomo veramente saggio capisce è che stare seduti nudi sulla cima di un monte fa venire non solo le emorroidi, ma le emorroidi con i geloni.

Ogni tanto qualcuno scalava la montagna e aggiungeva qualche pietra al tumulo sulla cima, a riprova del fatto che non c’è nulla di veramente idiota che un umano non farebbe.

Morte sedeva sul tumulo e passava un sasso sulla lama della falce, con lunghi movimenti deliberati.

Qualcosa nell’aria si mosse. Tre servitori grigi spuntarono dal nulla.

Uno disse: Credi di aver vinto?

Uno disse: Credi di aver trionfato?

Morte si rigirò il sasso nella mano, per avere una superficie nuova, e lo passò lentamente per la lunghezza della lama.

Uno disse: Informeremo Azrael.

Uno disse: Dopotutto tu sei solo una piccola Morte.

Morte sollevò la lama verso il chiaro di luna, rigirandola, osservando il gioco della luce sui minuscoli frammenti di metallo del filo.

Poi si alzò, con un rapido movimento. I servitori indietreggiarono in fretta.

Morte allungò un braccio, veloce come un serpente, e afferrò una veste, sollevando il cappuccio vuoto a livello delle proprie orbite oculari.

SAI PERCHÉ IL PRIGIONIERO NELLA TORRE OSSERVA IL VOLO DEGLI UCCELLI?, disse.

La risposta fu: Toglimi le mani di dosso… ops…

Una fiamma azzurra balenò per un istante.

Morte abbassò la mano e guardò gli altri due.

Uno disse: Le ultime parole non le hai sentite.

Svanirono.

Morte si spazzolò via dalla veste un frammento di cenere, e poi piantò saldamente i piedi sulla cima della montagna. Sollevò la falce sopra la testa e chiamò a raccolta tutte le Morti minori che erano sorte in sua assenza.

Dopo un po’ affluirono sulla montagna sotto forma di una vaga onda nera.

Si riunirono insieme come mercurio scuro.

La cosa andò avanti per un bel po’, poi finì.

Morte abbassò la falce, e si osservò. Sì, ci sono tutti. Ancora una volta, era Morte, che conteneva tutte le Morti del mondo. Eccetto…

Esitò per un momento. C’era una minuscola zona vuota da qualche parte, un frammento della sua anima, qualcosa che mancava…

Non era del tutto sicuro di cosa fosse.

Scrollò le spalle. Senza dubbio l’avrebbe scoperto. Nel frattempo, c’era parecchio lavoro da fare…

Cavalcò via.

Lontano, nella sua tana sotto il fienile, Morte dei Ratti si rilassò e allentò la presa sulla trave.


Windle Poons pestò con entrambi i piedi un tentacolo che emergeva da sotto il pavimento, e barcollò via nel vapore. Una lastra di marmo si schiantò a terra, inondandolo di schegge. Poi prese selvaggiamente a calci la parete.

Molto probabilmente non c’erano più vie d’uscita ora, e anche se ci fossero state non riusciva a trovarle. Comunque, era già all’interno di quella cosa, che stava abbattendo le sue stesse pareti nel tentativo di catturarlo. Quantomeno le avrebbe procurato una brutta indigestione.

Si diresse verso un pertugio che una volta era stato l’imbocco di un largo corridoio, e vi si tuffò goffamente attraverso poco prima che si chiudesse. Fiamme argentee crepitavano sulle pareti. C’era così tanta vita che era impossibile contenerla.

C’erano ancora alcuni carrelli, che sfrecciavano come pazzi sul pavimento che oscillava, persi quanto Windle.

S’incamminò lungo un altro probabile corridoio, anche se la maggior parte dei corridoi che aveva visto nei suoi centotrent’anni di vita non pulsavano e non sgocciolavano così tanto.

Un altro tentacolo uscì da una parete e lo avvolse.

Naturalmente, non poteva ucciderlo. Ma poteva renderlo incorporeo, come Un-Secchio. Un destino peggiore della morte, con tutta probabilità.

Si tirò su. Il soffitto gli crollò addosso, appiattendolo sul pavimento.

Contò a mezza voce e scattò in avanti. Fu investito dal vapore.

Scivolò ancora, e mise le mani avanti.

Sentì che stava perdendo il controllo. Troppe cose da far funzionare. Anche ignorando la milza, solo tenere accesi cuore e polmoni era uno sforzo enorme…

«Potatura artistica!»

«Che accidenti c’entra?»

«Potatura… artistica! Capito? Yo!»

«Oook!»

Windle alzò uno sguardo annebbiato.

Ah. Ovviamente stava perdendo anche il controllo del cervello.

Un carrello emerse dal vapore di traverso con delle ombre aggrappate ai lati. Un braccio peloso e un altro che si poteva a malapena definire tale lo afferrarono di peso e lo misero nel carrello. Le quattro rotelline slittarono sul pavimento, il carrello rimbalzò sulla parete, poi si raddrizzò e filò via sferragliando.

Windle percepiva solo vagamente delle voci.

«Avanti, Decano. So che non vede l’ora». Questo era l’Arcicancelliere.

«Yo!»

«La ucciderà completamente? Non credo di volerla al Club Nuovo Inizio. Non la vedo tanto presenzialista» disse Reg Scarpa.

«Oook!» Questo era il Bibliotecario.

«Niente paura, Windle. Il Decano farà qualcosa di militare, a quanto sembra» disse Ridcully.

«Yo! Ha!»

«Oh, dio del cielo».

Windle vide oscillare nella mano del Decano un qualcosa di scintillante.

«Che cosa userà?» chiese Ridcully, mentre il carrello sfrecciava attraverso il vapore. «Il Riorganizzatore Sismico, il Punto di Attrazione, o la Sorpresa Incendiaria?»

«Yo» disse il Decano, soddisfatto.

«Come, tutti e tre insieme?»

«Yo!»

«Non è un po’ esagerato? E fra parentesi, se dice ‘Yo’ ancora una volta, Decano, la farò portare personalmente fuori dall’Università, la farò inseguire fino ai margini del mondo dai migliori demoni che un taumaturgo possa evocare, la farò fare a pezzetti estremamente piccoli, la farò tritare e trasformare in un composto somigliante a una bistecca alla tartara, che andrà a riempire la scodella di un cane».

«Y…» il Decano incrociò lo sguardo di Ridcully. «Sì. Sì? Oh, su, Arcicancelliere. Che senso ha avere la padronanza sull’equilibrio cosmico e conoscere i segreti del destino se non puoi far saltare qualcosa per aria? Per favore? Li ho già preparati. Lo sa che poi si scombussola l’inventario se non si usano dopo averli preparati…»

Il carrello affrontò ronzando una salita e girò l’angolo su due ruote.

«Oh, va bene» disse Ridcully. «Se per lei è così importante».

«Y… scusi».

Il Decano cominciò a mormorare concitatamente a mezza voce, e poi gridò.

«Sono cieco!»

«La benda bonsai le è caduta sugli occhi, Decano».

Windle gemette.

«Come ti senti, fratello Poons?» Le fattezze massacrate di Reg Scarpa occuparono la visuale di Windle.

«Oh, al solito» rispose Windle. «Potrebbe andare meglio, potrebbe andare peggio».

Il carrello rimbalzò più volte su una parete e cambiò direzione.

«Come vanno quegli incantesimi, Decano?» disse Ridcully a denti stretti. «Mi riesce un po’ difficile controllare questo coso».

Il Decano mormorò qualche altra parola poi agitò le mani con un gesto teatrale. Fiamme color ottarino si sprigionarono dalle punte delle sue dita e finirono da qualche parte nella nebbia.

«Yooh-oooh!» esultò.

«Decano?»

«Sì, Arcicancelliere?»

«Il commento fatto poc’anzi a proposito di quella parola…»

«Sì?»

«Include senza dubbio anche ‘Yooh-oooh’».

Il Decano abbassò la testa.

«Oh. Sì, Arcicancelliere».

«E perché ancora non ha fatto bum?»

«L’ho ritardato un po’, Arcicancelliere. Ho pensato che magari dovevamo uscire prima noi».

«Bella pensata».

«Presto sarai fuori, Windle» disse Reg Scarpa. «Noi non abbandoniamo i nostri. Non è…»

Il pavimento esplose davanti a loro.

E poi dietro di loro.

La cosa che emerse dal pavimento era sia informe sia multiforme allo stesso tempo. Si contorse rabbiosamente, schioccando i tubi.

Il carrello frenò.

«Altra magia, Decano?»

«Ehm… no, Arcicancelliere».

«E gli incantesimi partiranno…?»

«Da un momento all’altro, Arcicancelliere».

«Perciò… Qualsiasi cosa succederà… succederà a noi?»

«Sì, Arcicancelliere».

Ridcully batté sulla testa di Windle.

«Mi dispiace» disse.

Windle si voltò goffamente per guardare il corridoio.

Dietro la Regina c’era qualcosa. Sembrava la porta di una stanza da letto assolutamente normale, che avanzava in una serie di piccoli passi, come se qualcuno la stesse spingendo con cura davanti a sé.

«Che cos’è?» disse Reg.

Windle si sollevò più che poté.

«Schleppel!»

«Oh, ma no» disse Reg.

«È Schleppel!» gridò Windle. «Schleppel! Siamo noi! Puoi aiutarci a uscire?»

La porta si fermò. Poi fu gettata di lato.

Schleppel si drizzò in tutta la sua statura.

«Salve, signor Poons. Ciao, Reg» disse.

Guardarono la sagoma pelosa che riempiva quasi tutto il corridoio.

«Ehm, Schleppel… potresti liberarci la strada?» chiese Windle con voce tremula.

«Nessun problema, signor Poons. Qualsiasi cosa per un amico».

Una mano delle dimensioni di una carriola penetrò nel vapore e fece a pezzi con incredibile facilità la cosa che bloccava il passaggio.

«Ehi, guardatemi!» disse Schleppel. «Avevi ragione. Un uomonero ha bisogno di una porta come un pesce di una bicicletta! Gridalo adesso, gridalo forte, io sono…»

«E ora potresti spostarti, per favore?»

«Certo. Certo. Uau!» Schleppel dette un’altra manata alla Regina.

Il carrello schizzò in avanti.

«E faresti meglio a venire con noi!» gridò Windle, mentre Schleppel spariva nella nebbia.

«No, non farebbe meglio» disse l’Arcicancelliere, mentre prendevano velocità. «Creda a me. Che cos’era quello?»

«È un uomonero» disse Windle.

«Credevo che si trovassero solo negli armadi!» gridò Ridcully.

«È uscito dall’armadio» disse orgoglioso Reg Scarpa. «E ha trovato se stesso».

«Finché non lo troviamo noi, va benissimo».

«Non possiamo lasciarlo…»

«Possiamo! Possiamo!» sbottò Ridcully.

Alle loro spalle ci fu un rumore come uno scoppio di gas di palude, accompagnato da lampi di luce verde.

«Gli incantesimi stanno partendo!» gridò il Decano. «Più svelto!»

Il carrello infilò l’entrata e uscì a razzo nella notte fresca, con le rotelle che urlavano.

«Yo!» ululò Ridcully, mentre la folla fuggiva davanti a loro.

«Significa che posso dire ‘Yo’ anch’io?» chiese il Decano.

«Va bene. Una volta sola. Possono dirlo tutti una volta sola».

«Yo!»

«Yo!» fece eco Reg Scarpa.

«Oook!»

«Yo!» disse Windle Poons.

«Yo!» disse Schleppel.

(Da qualche parte nell’oscurità, dove la folla si era diradata, la scarna figura del signor Isolite, l’ultima banshee sopravvissuta, si avvicinò con cautela all’edificio tremante e infilò timidamente un biglietto sotto la porta. Diceva: ‘OOOOeeOOOeeeOOOeee’).

Il carrello si fermò del tutto. Nessuno si voltò. Reg disse, lentamente: «Sei dietro di noi, vero?»

«Esatto, signor Scarpa» rispose felice Schleppel.

«Dobbiamo preoccuparci quando è davanti a noi?» chiese Ridcully. «Oppure è peggio quando sappiamo che è dietro di noi?»

«Haha! Niente più armadi e cantine per questo uomonero» disse Schleppel.

«È un peccato, perché abbiamo delle cantine molto grandi all’Università» si affrettò a dire Windle Poons.

Schleppel rimase in silenzio per un po’. Poi disse, in tono indagatore: «Grandi quanto?»

«Enormi».

«Ah sì? E con i ratti?»

«I ratti sono soltanto l’inizio. Ci sono demoni fuggiti e roba di ogni tipo là sotto. Sono infestate».

«Che sta facendo?» sibilò Ridcully. «Sta parlando delle nostre cantine!»

«Preferirebbe averlo sotto il letto?» mormorò Windle. «O costantemente alle spalle?»

Ridcully annuì bruscamente.

«Uau, sì, quei ratti là sotto ci stanno veramente scappando di mano» disse a voce alta. «Ce ne sono certi… oh, saranno almeno cinquanta centimetri, vero Decano?»

«Sessanta» corresse il Decano. «Almeno».

«E grassi come il burro, poi» disse Windle.

Schleppel ci pensò su. «Be’, d’accordo» aggiunse riluttante. «Magari vengo a dare un’occhiata».

Il grande negozio esplose e implose allo stesso tempo, cosa quasi impossibile da ottenere senza un enorme budget per gli effetti speciali o tre incantesimi che lavorano l’uno contro l’altro. Si ebbe l’impressione di una vasta nuvola in espansione ma che allo stesso tempo si spostava così in fretta che l’effetto generale fu di una cosa che avvizziva. Le pareti esplosero e furono risucchiate. Il terreno fu strappato e turbinò nel vortice. Ci fu un violento scoppio di non-musica, che morì quasi all’istante.

E poi nulla, a parte un campo fangoso.

E migliaia di fiocchi bianchi che scendevano dal cielo dell’alba come neve. Fluttuavano silenziosi nell’aria e atterravano leggeri sulla folla.

«Non saranno mica semi, vero?» disse Reg Scarpa.

Windle afferrò uno dei fiocchi. Era un rozzo rettangolino, irregolare e macchiato. Con un certo sforzo di immaginazione, era quasi possibile intuire le parole:


Svendita per chiusura

fuori tutto!


«No» disse Windle. «Probabilmente no».

Si rilassò e sorrise. Non è mai troppo tardi per una bella vita.

E mentre nessuno guardava, l’ultimo carrello superstite su Mondo Disco si allontanò tristemente nell’oblio della notte, perso e solitario.[17]


«Cucchiruccò!»

La signorina Flitworth era seduta in cucina.

Fuori si sentivano dei rumori abbattuti, prodotti da Ned Simnel e dal suo apprendista che raccoglievano i resti contorti della Mietitrebbiatrice. Un gruppo di altre persone teoricamente dava una mano, ma in realtà coglieva l’opportunità per guardarsi intorno. Lei aveva preparato il tè e li aveva lasciati fare.

Ora sedeva col mento sulla mano, e fissava il vuoto.

Bussarono alla porta aperta. Il faccione rosso di Zipolo comparve nella stanza.

«Signorina Flitworth…»

«Mmm?»

«Per favore, signorina Flitworth, c’è lo scheletro di un cavallo che gira per la stalla! E mangia il fieno!»

«E come fa?»

«Infatti cade tutto!»

«Davvero? Allora lo teniamo. Almeno costerà poco mantenerlo».

Zipolo rimase un po’ lì, rigirandosi il cappello fra le mani.

«Sta bene, signorina Flitworth?»

«Sta bene, signor Poons?»

Windle fissava il vuoto.

«Windle?» disse Reg Scarpa.

«Mmm?»

«L’Arcicancelliere ha appena chiesto se vuoi qualcosa da bere».

«Vuole un bicchiere di acqua distillata» disse la signora Torta.

«Come, solo acqua?» chiese Ridcully.

«È quello che vuole» disse la signora Torta.

«Vorrei un bicchiere di acqua distillata, per favore» rispose Windle.

La signora Torta prese un’aria compiaciuta, almeno da quel che si poteva vedere di lei, vale a dire la parte tra il cappello e la borsetta, che era una sorta di controparte del cappello, così grossa che quando era seduta e la teneva sulle ginocchia doveva alzare le mani per prendere i manici. Quando aveva sentito che la figlia era stata invitata all’Università era venuta anche lei. La signora Torta dava sempre per scontato che un invito a Ludmilla era un invito anche per la madre di Ludmilla. Madri come lei esistono ovunque, e a quanto pare non ci si può fare nulla.

I membri del Club Nuovo Inizio facevano conversazione con i maghi, cercavano di sembrare divertiti. Era una di quelle occasioni problematiche con lunghi silenzi, sporadici colpi di tosse, e frasi isolate del tipo: «Be’, interessante, no?»

«Per un attimo mi è sembrato un po’ perso, Windle» disse Ridcully.

«Sono solo un po’ stanco, Arcicancelliere».

«Credevo che voi zombie non dormiste mai».

«Sono stanco lo stesso» disse Windle.

«È sicuro che non vuole che riproviamo la faccenda della sepoltura? Stavolta potremmo farla come si deve».

«Grazie lo stesso, ma no. Non sono tagliato per la vita da non-morto, mi sa». Windle guardò Reg Scarpa. «Mi dispiace. Non so come faccia tu». Fece un sorriso di scusa.

«Tu hai il diritto di essere vivo o morto, come preferisci» disse Reg in tono grave.

«Un-Secchio dice che la gente muore di nuovo normalmente» informò la signora Torta. «Forse può prendere un appuntamento».

Windle si guardò intorno.

«Ha portato il cane a fare una passeggiata» disse la signora Torta.

«Dov’è Ludmilla?» chiese lui.

Poi sorrise, imbarazzato. Le premonizioni della signora Torta potevano essere molto faticose.

«Sarebbe bello sapere che qualcuno si prenderà cura di Lupine, se… me ne vado» disse. «Mi chiedevo se potrebbe tenerlo lei?»

«Ecco…» disse la signora Torta, esitante.

«Ma lui è…» cominciò Reg Scarpa, poi vide la faccia di Windle.

«Devo ammettere che sarebbe un sollievo avere un cane in casa» disse la signora Torta. «Mi preoccupo sempre per Ludmilla. C’è un sacco di gente strana in giro».

«Ma sua fi…» cominciò Reg.

«Fai silenzio, Reg» disse Doreen.

«Allora è deciso» disse Windle. «E ha dei pantaloni?»

«Cosa?»

«Ha dei pantaloni in casa?»

«Be’, credo di averne qualcuno del defunto signor Torta, ma perché…»

«Mi scusi» disse Windle. «Chissà a cosa pensavo. Una volta su due non so quello che dico».

«Ah» disse Reg con un sorriso. «Ho capito. Stai dicendo che quando lui…»

Doreen gli dette una gomitata cattiva.

«Oh» disse Reg. «Scusate. Non fate caso a me. Mi dimenticherei anche la testa se non fosse cucita».

Windle si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Ogni tanto gli giungevano brandelli di conversazione. Sentì Arthur Winkings chiedere all’Arcicancelliere chi gli aveva arredato l’ambiente, e chi era il fornitore di frutta e verdura dell’Università. Sentì il Tesoriere lamentarsi dei costi della disinfestazione dalle imprecazioni, che in qualche modo erano sopravvissute ai recenti cambiamenti e si erano stabilite nell’oscurità del tetto. Se acuiva il suo udito perfetto riusciva perfino a sentire le urla di gioia di Schleppel nelle cantine.

Non avevano bisogno di lui. Finalmente. Il mondo non aveva bisogno di Windle Poons.

Si alzò in silenzio e barcollò verso la porta.

«Esco» disse. «Starò fuori un po’».

Ridcully gli fece un cenno poco entusiasta e si concentrò su ciò che gli stava dicendo Arthur a proposito dell’Aula Magna, che avrebbe avuto tutto un altro aspetto con della carta da parati effetto pino.

Windle si chiuse la porta alle spalle e si appoggiò alla massiccia parete fredda.

Oh, sì. C’era ancora una cosa.

«Ci sei, Un-Secchio?» disse piano.

come fa a saperlo?

«Di solito sei in giro».

eh eh, ha creato un bel po’ di casino là dentro! sa cosa succederà alla prossima luna piena?

«Sì, lo so. E in qualche modo credo che lo sappiano anche loro».

ma lui diventerà un uomo lupo.

«Sì. E lei una donna lupo».

sì, ma che genere di rapporto potranno avere una settimana su quattro?

«Magari avranno le stesse possibilità di essere felici della maggior parte della gente. La vita non è perfetta, Un-Secchio».

se lo dice lei…

«Posso farti una domanda personale?» chiese Windle. «Ho proprio bisogno di sapere…»

uh.

«In fondo hai di nuovo il piano astrale tutto per te».

oh. va bene.

«Perché ti chiami Un…»

tutto qui? credevo che un tipo sveglio come lei potesse capirlo da solo, nella mia tribù ci viene dato il nome della prima cosa che la madre vede uscendo dal teepee dopo il parto, è l’abbreviazione di un-secchio-d’acquaversato-sopra-due-cani.

«Bella sfortuna» disse Windle.

non è così male, disse Un-Secchio. è a mio fratello gemello che è andata veramente male, lei per dargli il nome ha guardato fuori dalla tenda dieci secondi prima di dare a me il mio.

Windle Poons ci pensò sopra.

«Non dirmelo, lasciami indovinare» disse. «Due-Cani-Che-Combattono?»

due-cani-che-combattono? due-cani-che-combattono? Disse Un-Secchio. uau, avrebbe dato il braccio destro per chiamarsi due-cani-che-combattono!


Fu solo più tardi che la storia di Windle Poons giunse veramente alla fine, se ‘storia’ significa anche tutto quello che lui fece, provocò e mise in moto. Nel villaggio sulle Ramtop dove ballano la vera danza moresca, per esempio, credono che nessuno sia davvero morto finché le onde che ha causato nel mondo non si infrangono; finché l’orologio che hanno caricato non si scarica, finché il vino che hanno fatto non ha finito di fermentare, finché il frutto dei semi che hanno piantato non viene raccolto. La durata della vita di una persona, dicono, è solo il nucleo della sua vera esistenza.

Mentre attraversava la città nebbiosa per andare all’appuntamento che aspettava fin da quando era nato, Windle pensò di poter prevedere la vera fine.

Sarebbe accaduta tra qualche settimana, quando la luna fosse stata di nuovo piena. Una sorta di codicillo o di appendice alla vita di Windle Poons, nato nell’anno del Triangolo Significativo nel Secolo dei Tre Pidocchi (aveva sempre preferito il vecchio calendario, con i suoi nomi antichi, a questa nuova numerazione che usavano oggi), e morto nell’anno del Serpente Teorico nel secolo del Pipistrello Orecchione, più o meno.

Ci sarebbero state due figure che correvano nella brughiera sotto la luna. Non completamente lupi, non interamente umani. Con un po’ di fortuna, avrebbero avuto il meglio di entrambi i mondi. Non solo sensazioni, ma conoscenza.

È sempre meglio avere entrambi i mondi.


Morte sedeva al suo tavolo dello studio oscuro, le mani unite per la punta delle dita davanti al viso.

Ogni tanto, dondolava la sedia avanti e indietro.

Albert gli portò una tazza di tè e uscì in un diplomatico silenzio.

C’era rimasta una sola clessidra sul tavolo di Morte. Lui la fissò.

Avanti, indietro. Avanti, indietro.

Nel corridoio, il grande orologio ticchettava, ammazzando il tempo.

Morte tamburellò le dita scheletriche sul legno consunto del tavolo. Davanti a lui, con segnalibri improvvisati fra le pagine, c’erano le vite di alcuni dei grandi amanti del Mondo Disco.[18] Le loro ripetitive esperienze non erano state di alcun aiuto.

Si alzò e andò alla finestra, a guardare il suo oscuro dominio, intrecciando e disintrecciando le mani dietro la schiena.

Poi afferrò la clessidra e uscì a grandi passi dalla stanza.

Binky aspettava nel caldo odore di chiuso delle stalle. Morte lo sellò in fretta e lo condusse fuori dal cortile, poi cavalcò nella notte, verso la lontana gemma scintillante del Mondo Disco.

Smontò silenziosamente nell’aia, al tramonto.

Entrò attraverso una parete.

Raggiunse i piedi delle scale.

Sollevò la clessidra e osservò lo scorrere del Tempo.

Poi si fermò. C’era qualcosa che doveva sapere. Bill Porta era stato un tipo curioso, e lui ricordava tutto di Bill Porta. Poteva osservare le emozioni come farfalle intrappolate sotto vetro.

Bill Porta era morto, o perlomeno aveva cessato la sua breve esistenza. Però… com’era?… la vita di una persona era solo il nucleo della sua vera esistenza? Bill Porta era morto, ma aveva lasciato degli echi. E. ricordo di Bill Porta era ancora in credito di qualcosa.


Morte si era sempre chiesto perché la gente metteva fiori sulle tombe. Per lui non aveva senso. I morti erano oltre il profumo delle rose, dopotutto. Ma ora… non che li capisse, ma almeno sentiva che c’era qualcosa di comprensibile.

Nell’oscurità creata dalle tendine del salotto della signorina Flitworth, una sagoma ancora più scura si diresse verso i tre forzieri sul cassettone.

Morte aprì uno dei più piccoli. Era pieno di monete d’oro. Avevano l’aria di non essere mai state toccate. Provò ad aprire l’altro forziere piccolo. Anche quello era pieno d’oro.

Si era aspettato qualcosa di più dalla signorina Flitworth, anche se probabilmente nemmeno Bill Porta avrebbe saputo che cosa.

Aprì il forziere più grande.

C’era uno strato di carta velina. Sotto la carta qualcosa di bianco e setoso, una specie di velo, ora ingiallito e reso fragile dagli anni. Lo guardò senza capire e lo mise da parte. C’erano delle scarpe bianche. Poco pratiche in una fattoria, pensò. Non c’era da stupirsi che le avesse messe via.

C’era altra carta; un mucchio di lettere legate insieme. Le posò sopra il velo. Non c’era mai niente da guadagnare dall’osservazione di ciò che gli umani si dicevano fra loro: il linguaggio serviva solo a nascondere i loro pensieri.

E proprio in fondo eccola: una scatola più piccola. La tirò fuori e la rigirò fra le mani. Poi aprì il piccolo chiavistello e sollevò il coperchio.

Il carillon ronzò.

Il motivo non era particolarmente bello. Morte aveva ascoltato tutta la musica mai scritta, e quasi tutta era migliore di quel motivetto. Aveva un che di metallico, un elementare un-due-tre.

Nel carillon, sopra il meccanismo che ruotava, due ballerini di legno giravano su se stessi nella parodia di un valzer.

Morte li osservò finché non finì la corda. Poi lesse l’incisione.

Si trattava di un regalo.

Accanto a lui, la clessidra riversava i suoi granelli di sabbia nel bulbo inferiore. Lui la ignorò.

Caricò di nuovo il carillon. Due figure che piroettavano per sempre. E quando la musica finiva non dovevi fare altro che girare la chiavetta.

Quando la carica si esaurì di nuovo, rimase seduto in silenzio al buio, e prese una decisione.

Restavano solo pochi secondi. I secondi erano stati preziosi per Bill Porta, perché ne aveva un quantitativo limitato. Ma non significavano nulla per Morte, che non ne aveva mai avuti.

Lasciò la casa dormiente, montò in sella e partì al galoppo.

Il viaggio durò un istante; la luce stessa avrebbe impiegato trecento milioni di anni, ma Morte viaggia in quello spazio dove il tempo non ha significato. La luce crede di viaggiare più veloce di tutto, ma si sbaglia. Per quanto sia veloce, la luce scopre sempre che il buio è arrivato prima di lei, e l’aspetta.

Durante la cavalcata ebbe compagnia: galassie, stelle, nastri di materia luminosa, che scorrevano a spirale verso l’obiettivo finale.

Morte, sul suo cavallo pallido, correva sull’oscurità come una bolla su un fiume.

Ma ogni fiume arriva da qualche parte.

Sotto c’era una pianura. La distanza qui non aveva significato, come il tempo, tuttavia dava una sensazione di enormità. La pianura poteva essere distante un miglio, o un milione di miglia; era segnata da lunghe vallate, o ruscelli, che scorrevano via sui lati mentre lui si avvicinava.

Atterrò.

Smontò da cavallo e rimase fermo nel silenzio. Poi piegò un ginocchio a terra.

Cambio di prospettiva. Il paesaggio rugoso scivola via in distanze immense, si incurva ai margini, diviene la punta di un dito.

Azrael sollevò il dito verso un volto che riempiva il cielo, illuminato dalla luce fioca di galassie morenti.

Esistono un miliardo di Morti, ma sono tutti aspetti dell’unico Morte: Azrael, il Grande Seduttore, la morte degli universi, l’inizio e la fine del tempo.

La maggior parte dell’universo è fatta di materia oscura, e solo Azrael sa chi sia.

Occhi così grandi che una supernova sarebbe solo il semplice accenno di un riflesso sull’iride si voltarono lentamente e si concentrarono sulla minuscola figura nell’immensa pianura ondulata della punta del suo dito. Accanto ad Azrael il grande Orologio stava al centro dell’intera rete delle dimensioni, e ticchettava. Le stelle scintillavano negli occhi di Azrael.

La Morte di Mondo Disco si alzò.

SIGNORE, CHIEDO…

Tre servitori dell’oblio cominciarono a esistere accanto a lui.

Uno disse: Non ascoltare. È accusato di interferenza.

Uno disse: E morticidio.

Uno disse: E orgoglio. E di aver vissuto con l’intenzione di sopravvivere.

Uno disse: E di essersi schierato con il caos contro il buon ordine.

Azrael inarcò un sopracciglio.

I servitori si allontanarono da Morte, in attesa.

SIGNORE, NOI SAPPIAMO CHE NON C’È UN BUON ORDINE TRANNE QUELLO CHE NOI CREIAMO…

L’espressione di Azrael non cambiò.

NON C’È SPERANZA A PARTE NOI. NON C’È PIETÀ A PARTE NOI. NON C’È GIUSTIZIA CI SIAMO SOLO NOI.

La scura faccia triste riempiva il cielo.

TUTTO CIÒ CHE È, È NOSTRO. MA DOBBIAMO CURARCENE. PERCHÉ SE NON CE NE CURIAMO, NON ESISTIAMO. SE NON ESISTIAMO, NULLA ESISTE SE NON IL CIECO OBLIO.

E ANCHE L’OBLIO DEVE FINIRE UN GIORNO. SIGNORE, MI CONCEDERESTI UN PO’ DI TEMPO? PER IL GIUSTO EQUILIBRIO DELLE COSE. PER RESTITUIRE CIÒ CHE È STATO DATO. PER IL BENE DEI PRIGIONIERI E IL VOLO DEGLI UCCELLI.

Morte fece un passo indietro.

Era impossibile leggere un’espressione sulle fattezze di Azrael.

Morte lanciò un’occhiata di traverso ai servitori.

SIGNORE, IN COSA PUÒ SPERARE IL RACCOLTO SE NON NELLA CURA DEL MIETITORE?

Aspettò.

SIGNORE?, disse Morte.

Nel tempo che ci volle a rispondere, molte galassie si espansero, turbinarono attorno ad Azrael come festoni di carta, impattarono e sparirono.

Poi Azrael disse:

SÌ.

E un altro dito si allungò nell’oscurità fino all’Orologio.

Ci furono deboli grida di rabbia dei servitori, poi grida di comprensione, e poi le tre brevi fiammate azzurre.

Tutti gli altri orologi, compreso quello senza lancette di Morte, erano riflessi dell’Orologio. Esattamente il suo riflesso: dicevano l’ora esatta all’universo, ma l’Orologio diceva al Tempo che ora segnare. Era la sorgente stessa del tempo.

E il progetto dell’Orologio stabiliva che la lancetta più grande facesse un solo giro completo.

La seconda lancetta procedeva in un percorso circolare che perfino la luce avrebbe impiegato giorni ad attraversare, inseguita per sempre dai minuti, dalle ore, dai giorni, dei mesi, dagli anni, dai secoli e dalle ere. Ma la lancetta dell’universo faceva un solo giro.

Perlomeno finché qualcuno non girava la chiavetta.

E Morte tornò a casa con una manciata di tempo.


La campanella di un negozio suonò.

Druto Pole, fioraio, guardò al di sopra di un rametto di floribunda signora Shover. C’era qualcuno tra i vasi di fiori. Era una figura vagamente indistinta; in effetti, anche dopo, Druto non fu mai sicuro di chi fosse entrato nel suo negozio e che suono avessero avuto le sue parole.

Si fece avanti, mellifluo, fregandosi le mani.

«Come posso…»

FIORI.

Druto esitò un momento.

«E, ehm, il destinatario di questi…»

UNA SIGNORA.

«E ha qualche pref…»

GIGLI.

«Ah? Sicuro che i gigli…»

MI PIACCIONO I GIGLI.

«Ehm… è solo che i gigli sono un pochino malinconici…»

MI PIACE LA…

La figura esitò.

LEI COSA CONSIGLIA?

Druto ingranò dolcemente la quarta. «Le rose sono sempre molto bene accette» disse. «O anche le orchidee. Molti gentiluomini in questi giorni mi dicono che le signore accettano più volentieri una singola orchidea che un mazzo di rose…»

ME NE DIA IN QUANTITÀ.

«Di orchidee o di rose?»

ENTRAMBE.

Le dita di Druto si intrecciavano sinuose, come anguille nel grasso.

«E mi domandavo se potevano interessarle queste meravigliose fioriture di Nervousa Gloriosa…»

ME NE DIA MOLTISSIME.

«E se il signore potesse investire un po’ di più, posso suggerirle un singolo esemplare, estremamente raro…»

SÌ.

«E magari anche…»

SÌ. TUTTO. CON UN NASTRO.

Quando la campanella della porta suonò di nuovo e il cliente uscì, Druto guardò le monete che aveva in mano. Molte erano corrose, tutte erano strane, e una o due erano d’oro.

«Mmm. Queste vanno bene…»

Si accorse di un leggero picchiettare felpato.

Intorno a lui, in tutto il negozio, i petali cadevano come pioggia.

E QUESTI?

«Questo è il nostro assortimento DeLuxe» disse la signora del negozio di cioccolato. Era un locale talmente lussuoso che non vendeva dolci, ma confetteria, spesso sotto forma di singoli oggettini vezzosi in carta d’oro che facevano nei conti in banca buchi più grandi che nei denti.

Il cliente alto e scuro prese una scatola grande circa un metro quadro. Sul coperchio, simile a un cuscino di raso c’era l’immagine di una coppia di gattini disperatamente strabici che spuntavano da uno stivale.

PERCHÉ QUESTA SCATOLA È IMBOTTITA? CI SI SIEDE SOPRA? FORSE SONO AL GUSTO DI GATTO?, aggiunse, con una decisa minaccia nella voce; o meglio, con più minaccia di quanta ce ne fosse già.

«Ehm, no. Quello è il nostro assortimento Supreme».

Il cliente la mise via.

NO.

La negoziante guardò a destra e a sinistra e poi aprì un cassetto sotto il bancone, e con voce ridotta a un sussurro da cospiratrice disse: «Naturalmente, per un’occasione davvero speciale…»

Era una scatola piuttosto piccola Era anche completamente nera, a parte il nome del contenuto in piccoli caratteri bianchi; i gatti, sia pure con un flocco rosa, non sarebbero stati ammessi a meno di un miglio da quella scatola. Per consegnare una scatola di cioccolatini come quella, sconosciuti in nero si lanciavano dalle seggiovie e si calavano giù per gli edifici.

Lo sconosciuto in nero guardò le lettere.

’INCANTI NEL BUIO’, disse. Mi PIACE.

«Per i momenti intimi» disse la donna.

Il cliente sembrò riflettere sulla rilevanza dell’osservazione.

SÌ. MI SEMBRA APPROPRIATO.

La negoziante s’illuminò.

«Gliela incarto, allora?»

SÌ. CON UN NASTRO.

«Altro, signore?»

Il cliente parve preso dal panico.

ALTRO? DOVREBBE ESSERCI ALTRO? C’È ALTRO? COS’ALTRO BISOGNA FARE?

«Come, scusi?»

UN REGALO PER UNA SIGNORA.

La negoziante rimase un tantino spiazzata da questa improvvisa svolta nella conversazione. Si affidò a un collaudato cliché.

«Be’, dicono che i diamanti sono i migliori amici di una ragazza, no?» disse, allegra.

DIAMANTI? OH. I DIAMANTI. DAVVERO?

Scintillavano come pezzi di stelle su un cielo di velluto nero.

«Questa» disse il mercante, «è una pietra di grande eccellenza, non crede? Noti il fuoco, l’eccezionale…»

QUANTO È AMICHEVOLE?

Il mercante esitò. Sapeva tutto sui carati, sulla luce dei diamanti, sul taglio e sul fuoco, ma non gli era mai stato chiesto di giudicare una gemma sulla base della sua affabilità.

«Abbastanza ben disposta?»

NO.

Le dita del mercante strinsero un’altra scheggia di luce ghiacciata.

«Questa» disse, in tono di nuovo sicuro, «viene dalla famosa miniera di Shortshanks. Posso farle notare la squisita…»

Sentì lo sguardo penetrante trapassargli la testa.

«Ma devo ammettere che non è nota per la sua gentilezza» disse in tono mesto.

Il cliente in nero si guardò intorno con aria di disapprovazione. Nella penombra, dietro sbarre a prova di troll, le gemme splendevano come gli occhi di un drago in fondo a una caverna.

NESSUNA DI QUESTE È AMICHEVOLE?, disse.

«Signore, credo di poter affermare senza tema di essere contraddetto che non abbiamo mai basato la nostra politica di acquisti sull’amabilità delle pietre in questione» disse il mercante. Aveva la sgradevole sensazione che qualcosa non andasse, e di sapere, da qualche parte nella sua testa, che cosa non andava; ma c’era qualcosa nella sua mente che non gli permetteva di fare il collegamento finale. E la cosa gli stava dando sui nervi.

DOVE SI TROVA IL PIÙ GRANDE DIAMANTE DEL MONDO?

«Il più grande? Facile. È la Lacrima di Offler, nel santuario recondito del Perduto Tempio Ingioiellato del Destino di Offler, il dio Coccodrillo, nell’Howondaland oscuro, e pesa ottocentocinquanta carati. E per prevenire la sua prossima domanda, signore, le dico che personalmente ci andrei a letto insieme».


Una delle cose migliori dell’essere sacerdoti del Perduto Tempio Ingioiellato del Destino di Offler, il dio Coccodrillo, era che di solito si andava a casa presto nel pomeriggio. Questo perché era perduto. I fedeli non trovavano mai la strada per arrivarci. Quelli fortunati, cioè.

Tradizionalmente, solo due persone andavano al santuario recondito: il Sommo Sacerdote e l’altro, che non era Sommo. Erano lì da anni, e a turno facevano il Sommo. Era un lavoro di tutto riposo, visto che la maggior parte dei potenziali fedeli finiva impalata, spiaccicata, avvelenata o fatta a pezzi dalle trappole nascoste prima ancora di arrivare alla scatoletta e al disegnino del termometro[19] fuori dalla sagrestia.

Stavano giocando a Storpio Signor Cipolla sull’altare maggiore, all’ombra della statua tempestata di gemme di Offler medesimo, quando udirono il cigolio lontano della porta principale.

Il Sommo Sacerdote non alzò lo sguardo.

«Ehi» disse. «Eccone un altro pronto per la gigantesca palla rotolante».

Ci fu un tonfo e un rombo, seguito da uno scricchiolio. E poi uno schianto molto definitivo.

«Ecco» disse il Sommo Sacerdote. «Che c’era nel piatto?»

«Due sassolini» disse il Sacerdote non Sommo.

«Bene». Il Sommo Sacerdote guardò le proprie carte. «Vedo i tuoi due sassolini…»

Ci fu un debole rumore di passi.

«Il tizio con la frusta la settimana scorsa è arrivato fino alla lancia grande» disse il Sacerdote non Sommo.

Ci fu un rumore simile allo sciacquone di un bagno molto vecchio e asciutto. I passi si fermarono.

Il Sommo Sacerdote sorrise fra sé.

«Bene» disse. «Vedo i tuoi due sassolini e rilancio di due».

Il Sacerdote non Sommo scoprì le carte.

«Doppia Cipolla» disse.

Il Sommo Sacerdote controllò, sospettoso.

Il Sacerdote non Sommo consultò un foglietto.

«Con questi mi devi trecentomilanovecentosessantaquattro sassolini» disse.

Rumore di passi.

I Sacerdoti si scambiarono un’occhiata.

«È un bel po’ che nessuno arriva al corridoio delle frecce avvelenate» disse il Sommo Sacerdote.

«Cinque a uno che ce la fa» disse il Sacerdote non Sommo.

«Ci sto».

Si sentì un debole tintinnio di metallo sulla pietra.

«È un peccato toglierti così i tuoi sassolini».

Altri passi.

«Va bene, ma c’è ancora» uno scricchiolio, un rumore d’acqua, «la vasca del coccodrillo».

Passi.

«Nessuno ha mai superato il terribile guardiano del portale…»

I Sacerdoti si scambiarono uno sguardo terrorizzato.

«Ehi» disse quello non Sommo «non credi che possa essere…»

«Qui? Oh, ma dai. Siamo in mezzo a una cavolo di giungla». Il Sommo cercò di sorridere. «Non avrebbe modo di…»

I passi si avvicinarono.

I Sacerdoti si strinsero l’uno all’altro, terrorizzati.

«La signora Torta!»

Le porte esplosero verso l’interno. Un vento scuro entrò nella sala, spegnendo le candele e spargendo le carte come neve a pallini.

I sacerdoti sentirono il tintinnio di un diamante molto grosso che veniva scalzato dal suo castone.

GRAZIE.

Dopo un po’, quando sembrò che non succedesse più nulla, il Sacerdote non Sommo riuscì a trovare un acciarino, e dopo molti tentativi a vuoto, accese una candela.

I due Sacerdoti guardarono la statua tra le ombre danzanti, e il buco dove prima c’era un grosso diamante.

Dopo un po’ il Sommo Sacerdote sospirò e disse: «Be’, vediamola in questo modo: a parte noi, chi lo saprà mai?»

«Eh, non ci avevo pensato. Ehi, posso fare il Sommo Sacerdote domani?»

«Giovedì tocca a te».

«Oh, dai».

Il Sommo Sacerdote fece spallucce e si tolse il cappello da Sommo.

«Certo che sono cose deprimenti» disse, con un’occhiata alla statua depredata. «Certi non sanno proprio come comportarsi nelle case degli dei».


Morte attraversò di corsa il mondo, atterrando di nuovo nell’aia. Il sole era sull’orizzonte quando bussò alla porta della cucina.

La signorina Flitworth aprì, pulendosi le mani sul grembiule. Fece una smorfia da miope, stringendo gli occhi, poi indietreggiò di un passo.

«Bill Porta? Mi hai fatto venire un colpo…»

LE HO PORTATO DEI FIORI.

Lei fissò gli steli secchi e morti.

E ANCHE UN ASSORTIMENTO DI CIOCCOLATINI, COME PIACE ALLE SIGNORE.

Lei fissò la scatola nera.

QUI C’È ANCHE UN DIAMANTE, PER FARCI AMICIZIA.

Il diamante catturò gli ultimi raggi del sole che calava.

La signorina Flitworth finalmente ritrovò la voce.

«Bill Porta, che cos’hai in mente?»

SONO VENUTO A PORTARLA VIA DA TUTTO QUESTO.

«Ah sì? E per andare dove?»

Morte a questo non aveva ancora pensato.

DOVE VORREBBE ANDARE?

«Io non ho altri piani se non quello di andare al ballo» disse fermamente la signorina.

Morte non aveva previsto nemmeno questo.

QUALE BALLO?

«La danza del raccolto. È una tradizione. Quando finisce la mietitura. È una specie di celebrazione, e anche un ringraziamento».

UN RINGRAZIAMENTO A CHI?

«Boh. A nessuno in particolare, mi sa. Un ringraziamento in genere».

AVEVO PENSATO DI MOSTRARLE MERAVIGLIE. BELLE CITTÀ. TUTTO QUELLO CHE VOLEVA.

«Tutto?»

SÌ.

«Allora si va al ballo, Bill Porta. Ci vado tutti gli anni. Contano su di me, sai com’è».

SÌ, SIGNORINA FLITWORTH.

La prese per mano.

«Che? Adesso?» disse lei. «Ma non sono pronta…»

GUARDI.

Lei guardò quello che improvvisamente aveva indosso.

«Questo non è il mio vestito. È tutto luccicante».

Morte sospirò. I grandi amanti della storia non conoscevano la signorina Flitworth. Casanunder avrebbe dato via la sua scala a pioli.

SONO DIAMANTI. È IL RISCATTO DI UN RE, IN DIAMANTI.

«Quale re?»

QUALSIASI RE.

«Uau».


Binky percorse con comodo la strada fino in paese. Dopo aver cavalcato nell’infinito, una semplice strada sterrata era un piccolo sollievo.

Seduta all’amazzone dietro Morte, la signorina Flitworth esplorò il contenuto della scatola nera.

«Ecco» disse, «qualcuno si è già preso tutte le praline al rum». Ci fu un altro fruscio di carta. «E oltretutto dallo strato di sotto. Odio quelli che cominciano lo strato di sotto prima che quello di sopra sia finito. E so che sei stato tu perché sul coperchio c’è una piccola mappa che dice dove dovrebbero stare le praline al rum. Bill Porta?»

CHIEDO SCUSA, SIGNORINA FLITWORTH.

«Questo diamante grosso è un po’ pesante. Carino, però» brontolò lei. «Dove l’hai preso?»

DA PERSONE CHE PENSAVANO FOSSE LA LACRIMA DI UN DIO.

«Ed è vero?»

NO. GLI DEI NON PIANGONO MAI. È SEMPLICE CARBONIO, SOTTOPOSTO A UNA GRANDE PRESSIONE E A UN INTENSO CALORE, ECCO TUTTO.

«Dentro ogni pezzo di carbone c’è un diamante che aspetta di uscire, quindi?»

SÌ, SIGNORINA.

Per un po’ si sentì solo il clop-clop degli zoccoli di Binky. Poi la signorina Flitworth disse, con aria maliziosa: «Io ho capito che cosa stai facendo, sai. Ho visto quanta sabbia c’era. E così hai pensato: ‘In fondo non è una vecchia insopportabile, le faccio passare qualche ora in allegria e poi, quando meno se lo aspetta, arriverà il momento di tirare le cuoia’, ho ragione?»

Morte non disse nulla.

«Ho ragione, non è vero?»

NON POSSO NASCONDERLE NULLA SIGNORINA «Ah. Immagino che dovrei sentirmi lusingata. Dico bene? Scommetto che hai un sacco da fare».

PIÙ DI QUANTO LEI POSSA IMMAGINARE, SIGNORINA.

«Allora, date le circostanze, tanto vale che mi chiami di nuovo Renata».

C’era un falò nel prato oltre il campo di tiro all’arco. Morte vide delle figure che si muovevano attorno al fuoco. Di tanto in tanto uno squittio agghiacciante suggeriva che qualcuno stava accordando un violino.

«Ci vengo sempre, al ballo della mietitura» disse la signorina Flitworth, in tono casuale. «Non per ballare, naturalmente. Di solito mi occupo del cibo e così via».

PERCHÉ?

«Be’, qualcuno deve pur pensare al cibo».

VOLEVO DIRE, PERCHÉ NON BALLA?

«Perché sono vecchia, che domande».

LEI È VECCHIA QUANTO CREDE DI ESSERLO.

«Eh? Davvero? Questa è proprio il genere di stupidaggine che dicono tutti. Dicono: ‘Parola mia, stai benissimo’. Dicono: ‘La vecchia matta è ancora in gamba. Gallina vecchia fa buon brodo’. Questo genere di fesserie. Tutte stupidaggini. Come se essere vecchi fosse qualcosa di cui rallegrarsi! Come se prenderla con filosofia ti facesse guadagnare dei punti! La mia testa sa benissimo come pensare da giovane, sono le mie ginocchia che non ci arrivano. E neanche la schiena. O i denti. Prova a dire alle mie ginocchia che hanno l’età che si sentono e vediamo che succede».

POTREBBE VALERE LA PENA DI PROVARE.

Altre figure si muovevano davanti al fuoco. Morte vide dei pali a strisce che reggevano delle bandiere.

«I ragazzi di solito portano un paio di portoni di stalla e li inchiodano insieme per fare una pista» osservò la signorina Flitworth, «così tutti possono unirsi alle danze».

DANZE POPOLARI?, disse Morte, preoccupato.

«No. Abbiamo anche noi il nostro orgoglio, sai».

SCUSI.

«Ehi, non è Bill Porta?» disse una figura dalla penombra.

«È il vecchio Bill!»

«Ehi, Bill!»

Morte guardò quel circolo di facce prive di malizia.

SALVE, AMICI MIEI.

«Avevamo sentito che te n’eri andato» disse Duca Bottomley. Lanciò un’occhiata alla signorina Flitworth, mentre Morte l’aiutava a scendere da cavallo. La voce esitò, mentre cercava di analizzare la situazione.

«È veramente molto… brillante… stasera, signorina Flitworth» terminò in tono galante.

L’aria profumava di erba calda e umida. Un’orchestra di dilettanti si stava ancora sistemando sotto un tendone.

C’erano tavoli su cavalletti carichi di ogni genere di cibo generalmente associato alla parola ‘pasto’: pasticci di carne di maiale simili a fortificazioni militari, tinozze di diaboliche cipolline sott’aceto, patate che navigavano in oceani di colesterolo fuso. Alcuni anziani si erano già sistemati sulle panche, e masticavano, sia pure senza denti, con l’aria stoica e determinata di chi è disposto a star lì anche tutta la notte, se necessario.

«È bello vedere i vecchietti che si divertono» disse la signorina Flitworth. Morte guardò i commensali. La maggior parte di loro era più giovane di lei.

Da qualche parte, nell’oscurità profumata oltre il falò, si sentì una risatina.

«E anche i giovani» aggiunse la signorina Flitworth. «Avevamo un detto, su questo periodo dell’anno. Aspetta… qualcosa del tipo ‘grano maturo, noci marroni, su le sottane e…’ qualcosa». Sospirò. «Il tempo vola, eh?»

SÌ.

«Sai, Bill Porta, forse avevi ragione sul potere del pensare positivo. Stasera mi sento molto meglio».

DAVVERO?

La signorina Flitworth guardò la pista da ballo con aria meditabonda. «Da ragazza ero una gran ballerina. Non mi batteva nessuno. Vedevo tramontare la luna e sorgere il sole».

Si tolse la fascia che le stringeva i capelli in una crocchia, e li lasciò ricadere in una cascata di bianco.

«Immagino che tu sappia ballare, signor Bill Porta?»

SONO FAMOSO PER QUESTO, SIGNORINA FLITWORTH.

Sotto il tendone dell’orchestra, il primo violino fece un cenno ai suoi colleghi musicisti, si ficcò lo strumento sotto il mento, e batté sulle assi con il piede.

«E uno! E due! E un-due-tre-quattro…»


Immaginate un paesaggio, inondato dalla luce arancione di una luna crescente. E sotto, un circolo di falò.

C’erano i vecchi classici: danze di gruppo, piroette, complicate coreografie in cui, se i ballerini avessero portato ognuno una luce, avrebbero tracciato intricate topografie al di là delle leggi della fisica; e il tipo di danze che portava persone assolutamente sane di mente a gridare cose del tipo ‘Yuppiyaiyei’ senza nessuna traccia di vergogna per parecchio tempo.

Portati via i primi caduti, i sopravvissuti continuarono con polka, mazurka, foxtrot e tutto il bestiario completo, e poi con quelle danze in cui alcuni formano un arco e gli altri ci ballano sotto, che tra parentesi si basano in genere su ricordi collettivi di esecuzioni, e altre danze che si eseguono in circolo, basate in genere su memorie popolari di pestilenze.

In tutto questo due figure pilotavano come se non ci fosse stato un domani.

Il primo violino era vagamente cosciente del fatto che quando faceva una pausa per riprendere fiato, una figura piroettava fuori come un tornado dal mucchio e una voce all’orecchio gli diceva:

CONTINUERAI, TE LO PROMETTO.

Quando cedette per la seconda volta, un diamante grosso come il suo pugno atterrò sulle assi davanti a lui. Una figura più piccola uscì ancheggiando dal gruppo dei danzatori e disse: «Se voialtri non andate avanti a suonare, William Zipolo, farò personalmente in modo di rendervi la vita un inferno».

E tornò nella mischia.

Il violinista guardò il diamante. Avrebbe potuto riscattare cinque re a scelta. Lui lo calciò via in fretta «Ti serve un gomito nuovo?» disse il batterista, con un sorriso.

«Sta’ zitto e suona!»

Sapeva che dalle sue dita stavano nascendo accordi che la sua mente non conosceva. Se ne accorsero anche il batterista e il flautista. La musica arrivava da qualche altra parte. Non erano loro a suonarla, era lei a suonare loro.

È ORA DI INIZIARE UNA NUOVA DANZA.

«Duuurrump-da-dum-dum» mugolò il violinista, con il viso coperto di sudore, preso da un nuovo motivo.

I ballerini si aggirarono un po’ confusi, incerti sui passi. Ma una coppia si mosse con determinazione, curva in avanti in atteggiamento predatorio, le mani unite come il bompresso di un galeone da guerra. Alla fine della pista si voltarono in un turbinare di membra che non sembrava in linea con l’anatomia ordinaria, e ricominciò l’avanzata angolare attraverso la folla.

«Come si chiama questa?»

TANGO.

«E si può finire in galera?»

NON CREDO.

«Sbalorditivo».

La musica cambiò.

«Questa la conosco! È la danza dei tori di Quirm! Ooh-llé!»

’CON IL LATTE’?

Un’improvvisa raffica di schiocchi andò a tempo con la musica.

«Chi è che suona le maracas?»

Morte sorrise.

MARACAS? A ME NON SERVONO… LE MARACAS.

Poi arrivò il momento.

La luna era l’ombra di se stessa all’orizzonte. Dall’altra parte, già si vedeva la luce lontana del giorno che avanzava.

Lasciarono la pista da ballo.

Qualsiasi cosa avesse spinto l’orchestra per tutta la notte svanì poco a poco. I musicisti si guardarono l’un l’altro. Zipolo il violinista lanciò un’occhiata al diamante. Era ancora lì.

Il batterista cercò di riportare un po’ di vita nei suoi polsi, massaggiandoli.

Zipolo guardò impotente i ballerini esausti.

«Okay, allora…» disse, e sollevò ancora una volta il violino.


La signorina Flitworth e il suo compagno ascoltarono dalla nebbia che fluttuava sui campi nella luce dell’alba.

Morte riconobbe il ritmo lento e insistente. Gli fece pensare a figurine di legno, che danzavano nel Tempo finché la molla non si scaricava.

QUESTA NON LA CONOSCO.

«È l’ultimo valzer».

NON CREDO CHE ESISTA UNA COSA DEL GENERE.

«Sai» disse la signorina Flitworth «È tutta la sera che mi chiedo come succederà. Come farai. Insomma, di qualcosa si deve morire, no? Pensavo che magari sarebbe stato per consunzione, ma non mi sono mai sentita meglio. È stata la serata più bella della mia vita e non sono nemmeno senza fiato. In effetti è stato un vero tonico, Bill Porta. E…»

S’interruppe.

«Io non sto respirando, vero». Non era una domanda. Si portò una mano davanti al viso e ci alitò sopra.

NO.

«Capisco. Non mi sono mai divertita tanto in vita mia… aha! E… quando?»

SA QUANDO MI HA VISTO E HA DETTO CHE LE HO FATTO PRENDERE UN COLPO?

«Sì?»

APPUNTO.

La signorina Flitworth non sembrò ascoltarlo. Continuava a rigirare la mano, come se non l’avesse mai vista prima.

«Vedo che hai fatto qualche cambiamento, Bill Porta» disse.

NO. È LA VITA CHE FA MOLTI CAMBIAMENTI.

«Voglio dire che sembro più giovane».

È QUELLO CHE VOGLIO DIRE ANCH’IO.

Schioccò le dita. Binky smise di brucare vicino al recinto e si avvicinò.

«Sai» disse la signorina Flitworth, «ho sempre pensato… ho sempre pensato che tutti hanno la loro età, come dire, naturale. Vedi bambini di dieci anni che si comportano come trentacinquenni. Ci sono persone che nascono di mezza età. Sarebbe carino pensare che sono stata…» si guardò, «ecco, diciamo diciottenne… per tutta la vita. Dentro».

Morte non disse nulla e l’aiutò a risalire a cavallo.

«Quando vedo cosa fa la vita alle persone, sai, non sembri tanto male» disse lei nervosamente.

Morte fece schioccare i denti. Binky si incamminò.

«Non hai mai conosciuto la vita, vero?»

POSSO DIRE IN TUTTA ONESTÀ DI NO.

«Probabilmente è qualcosa di grosso, bianco e scoppiettante. Come una tempesta elettrica in un paio di pantaloni» disse la signorina Flitworth.

CREDO DI NO.

Binky si alzò in volo nel cielo mattutino.

«E comunque… morte a tutti i tiranni» disse la signorina Flitworth.

SÌ.

«Dove stiamo andando?»

Binky galoppava, ma il paesaggio non si muoveva.

«È un gran bel cavallo, il tuo» disse la signorina Flitworth, con voce tremante.

SÌ.

«Ma cosa sta facendo?»

PRENDE VELOCITÀ.

«Ma non stiamo andando da nessuna parte…»

Svanirono.


Riapparvero.

Il paesaggio era tutto neve e ghiaccio verde sulle montagne. Non erano vecchie montagne, consumate dal tempo e dalle intemperie e piene di dolci piste da sci, ma giovani, imbronciate montagne adolescenti. Nascondevano burroni segreti e crepacci senza pietà. Uno yodel di troppo avrebbe attirato non l’allegra eco di un pastore solitario, ma cinquanta tonnellate di neve in consegna espresso.

Il cavallo atterrò su un banco di neve che in teoria non avrebbe dovuto reggerlo.

Morte smontò e aiutò la signorina Flitworth a scendere.

Camminarono fino a un sentiero fangoso e gelato che circondava il fianco della montagna.

«Perché siamo qui?» chiese lo spirito della signorina Flitworth.

IO NON SPECULO SULLE VICENDE COSMICHE.

«Voglio dire su questa montagna. In questa geografia» disse pazientemente la signorina Flitworth.

QUESTA NON È GEOGRAFIA.

«E che cos’è allora?»

STORIA.

Aggirarono una curva del sentiero. C’era un pony che mangiava un cespuglio, con una borsa sulla groppa. Il sentiero terminava in un muro di neve sospettosamente pulita.

Morte cavò una clessidra dai recessi della sua veste.

ORA, disse, ed entrò nella neve.

Lei rimase per un momento a guardare, chiedendosi se poteva farlo. La solidità era un’abitudine dura a morire.

Ma non dovette fare nulla.

Qualcuno venne fuori.


Morte aggiustò la sella di Binky, e montò. Si fermò un momento a guardare le due figure accanto alla valanga. Erano quasi diventate invisibili, le loro voci poco più dense dell’aria.

«Ha detto soltanto: ‘DOVUNQUE ANDRETE, SARETE INSIEME’. Gli ho chiesto dove? Lui ha detto che non lo sapeva Cos’è successo?»

«Rufus… troverai tutto questo molto difficile da credere, amore mio…»

«E chi era quell’uomo mascherato?»

Si voltarono entrambi.


Non c’era nessuno.


In quel villaggio sulle Ramtop, dove sanno esattamente che cos’è la danza moresca, la eseguono solo una volta, all’alba, nel primo giorno di primavera. Poi non danzano più per tutta l’estate. Dopotutto che senso avrebbe? A cosa servirebbe?

Ma un certo giorno, quando le notti si accorciano, i danzatori staccano presto dal lavoro e tirano fuori dagli armadi e dalle soffitte l’altro costume, quello nero, e le altre campanelle. Vanno separatamente in una valle tra alberi privi di foglie. Non parlano. Non c’è musica. È molto difficile immaginare che tipo di musica dovrebbe essere.

Le campanelle non trillano. Sono fatte di octiron, un metallo magico. Ma non sono esattamente campane silenziose. Il silenzio è soltanto l’assenza di rumore. Quelle campanelle fanno l’opposto del rumore, una sorta di silenzio a trama fitta.

È nel freddo pomeriggio, mentre la luce sparisce dal cielo, tra le foglie gelate e l’aria umida, che eseguono l’altra danza moresca. Per l’equilibrio delle cose.

Dicono che bisogna danzarle tutte e due. Altrimenti non puoi danzarne nessuna.


Windle Poons arrivò al Ponte di Ottone. Era quell’ora nella giornata di Ankh-Morpork in cui il popolo della notte va a dormire e il popolo del giorno si sveglia. Per una volta, non c’erano in giro molti rappresentanti di nessuno dei due.

Windle aveva sentito l’impulso di essere lì, in quel luogo, a quell’ora di quella notte. Non era esattamente la sensazione che aveva avuto quando stava per morire. Era più come essere una ruota dentata dentro un orologio: le cose girano, le molle si scaricano, e quello è il tuo posto…

Si fermò e si sporse dal parapetto. L’acqua scura, o quantomeno il fango molto liquido, turbinava attorno ai piloni di pietra. C’era un’antica leggenda… com’è che diceva? ‘Se getti una monetina nell’Ankh dal Ponte di Ottone sei sicuro che ritornerai’? Oppure era: ‘Se vomiti dentro l’Ankh’? Probabilmente la prima. La maggior parte dei cittadini, se lasciava cadere una moneta nel fiume, avrebbe fatto in modo di tornare se non altro per cercarla.

Una figura emerse dalla nebbia. Windle s’irrigidì.

«Buongiorno, signor Poons».

Windle si rilassò.

«Oh, sergente Colon? Credevo che fosse qualcun altro».

«Sono solo io, eccellenza» disse allegramente la guardia. «Rispunto sempre fuori, come la gramigna».

«Vedo che il ponte ha superato un’altra nottata senza essere rubato, sergente. Ottimo lavoro».

«Lo dico sempre, non si è mai troppo vigili».

«Sono sicuro che noi cittadini possiamo dormire tranquilli nei nostri letti sapendo che nessuno può scappare durante la notte con un cinquemila tonnellate di ponte» disse Windle.

A differenza di Modo il nano, il sergente Colon conosceva il significato della parola ironia. Credeva che avesse a che fare con l’ira. Rivolse a Windle un sorriso rispettoso.

«Bisogna pensare alla svelta per stare al passo con i criminali internazionali di oggi, signor Poons» disse.

«Bravo ragazzo. Ehm… non ha visto nessun altro, in giro?»

«È tranquillo come una tomba stanotte» disse il sergente. Poi ci ripensò e aggiunse: «Senza offesa».

«Oh».

«Io vado, allora» disse il sergente.

«Bene, bene».

«Si sente bene, signor Poons?»

«Bene, bene».

«Non si butta di nuovo nel fiume?»

«No».

«Sicuro?»

«Sì».

«Oh, d’accordo. Buona notte, allora» poi esitò. «Un giorno mi dimentico anche la testa» disse. «Un tizio laggiù mi ha chiesto di darle questo». Gli porse una busta sporca.

Windle si sforzò di guardare nella nebbia.

«Che tizio?»

«Quello… oh, se n’è andato. Un tipo alto, un po’ strano».

Windle spiegò il pezzo di carta, su cui era scritto: ‘OOoooEeeeOoooEeeeOOOeee’.

«Ah» disse.

«Cattive notizie?» chiese il sergente.

«Dipende dai punti di vista» rispose Windle.

«Oh, capisco. Bene… buonanotte, allora».

«Addio».

Il sergente Colon esitò per un momento, poi scrollò le spalle e se ne andò.

Mentre si allontanava, la figura alle sue spalle si mosse e sorrise.

WINDLE POONS?

«Sì?»

Con la coda dell’occhio Windle vide delle braccia ossute appoggiarsi al parapetto. Ci fu il lieve rumore che si fa quando ci si mette comodi, e poi un silenzio riposante.

«Ah» disse Windle. «Immagino che bisogna andare?»

NON C’È FRETTA.

«Credevo che fossi sempre molto puntuale».

DATE LE CIRCOSTANZE, QUALCHE MINUTO IN PIÙ NON FARÀ MOLTA DIFFERENZA.

Windle annuì. Rimasero fianco a fianco in silenzio, circondati dal rombo attutito della città.

«Sai» disse Windle, «è meravigliosa, la vita dopo la morte. Dov’eri?»

ERO OCCUPATO.

Windle non ascoltava davvero. «Ho conosciuto persone che non sapevo nemmeno esistessero. Ho fatto ogni genere di cose. Sono riuscito veramente a capire chi è Windle Poons».

E CHI È?

«Windle Poons».

DEVE ESSERE STATO UNO SHOCK.

«Be’, sì».

TUTTI QUESTI ANNI E MAI UN SOSPETTO.

Windle Poons sapeva esattamente il significato della parola ironia, e sapeva anche di conoscere il sarcasmo.

«A te va sempre bene» mormorò.

FORSE.

Windle guardò di nuovo il fiume.

«È stato fantastico» disse. «Dopo tutto questo tempo. Essere necessari è importante».

SÌ. MA PERCHÉ?

Windle parve sorpreso.

«Non lo so. Come faccio a saperlo? Perché siamo tutti sulla stessa barca, immagino. Perché non lasciamo dentro uno dei nostri. Perché tutto è meglio che essere soli. Perché gli umani sono umani».

E SEI PENCE SONO SEI PENCE. MA IL GRANO NON È SOLO GRANO.

«No?»

NO.

Windle si appoggiò al parapetto. La pietra era ancora tiepida del calore del giorno.

Con sua grande sorpresa, anche Morte si appoggiò al parapetto.

PERCHÉ NON HAI CHE TE STESSO, disse Morte.

«Cosa? Ah, sì. Anche quello. Perché l’universo là fuori è grande e freddo».

SARESTI SORPRESO.

«Una vita non basta».

OH, NON LO SO.

«Mmm?»

WINDLE POONS?

«Sì?»

QUELLA È STATA LA TUA VITA.

E con grande sollievo, e generale ottimismo, e la sensazione che tutto sommato sarebbe potuta andare molto peggio, Windle Poons morì.


Da qualche parte nella notte, Reg Scarpa guardò a destra e a sinistra, tirò furtivamente fuori un pennello e un barattolino di vernice dalla giacca, e dipinse sul muro più vicino: ‘In Ogni Vivo c’è un Morto che Aspetta di Uscire’…

E poi basta. Fine.


Morte era davanti alla finestra del suo studio oscuro, e guardava nel giardino. Nulla si muoveva in quel dominio intatto. Gigli scuri fiorivano attorno allo stagno, dove pescavano piccoli nani scheletrici di gesso. C’erano montagne in lontananza.

Era il suo mondo. Non compariva su nessuna mappa.

Ma ora, in qualche modo, mancava qualcosa.

Morte scelse una falce dalla rastrelliera nel grande salone. Passò davanti all’enorme orologio senza lancette e uscì. Attraversò il frutteto nero, dove Albert lavorava sugli alveari, e proseguì fino a un piccolo tumulo al margine del giardino. Oltre, verso le montagne c’era della terra informe: aveva sopportato del peso, aveva una sua forma di esistenza, ma non c’era mai stato motivo di definirla ulteriormente.

Finora, perlomeno.

Albert arrivò alle sue spalle, con alcune api scure che ancora ronzavano attorno alla sua testa.

«Che cosa sta facendo, signore?» chiese.

RICORDO.

«Ah?»

RICORDO QUANDO QUI C’ERANO SOLO STELLE.

Com’era? Ah, sì…

Schioccò le dita. Apparvero dei campi, che assecondavano le curve dolci del terreno.

«Oro» disse Albert. «È bello. Ho sempre pensato che un po’ di colore non ci sarebbe stato male».

Morte scosse la testa. Ancora non andava bene. Poi capì cos’era. Le clessidre, la grande sala piena del brusio delle vite che scomparivano, era efficiente e necessaria; ci voleva per un giusto ordine. Ma…

Schioccò di nuovo le dita e cominciò a soffiare una brezza. I campi di grano si mossero, onda su onda lungo i pendii.

ALBERT?

«Sì, signore?»

NON HAI QUALCOSA DA FARE? QUALCHE LAVORETTO?

«Non credo» disse Albert.

LONTANO DA QUI, INTENDO.

«Ah, intende dire che vuole restare da solo» disse Albert.

IO SONO SEMPRE SOLO. MA ORA VOGLIO STARE DA SOLO PER CONTO MIO.

«Bene. Vado… ehm, a sbrigare qualche faccenda in casa, allora» disse Albert.

BUONA IDEA.

Morte rimase a osservare la danza del grano nel vento. Naturalmente era solo una metafora. Le persone erano molto più che grano. Sfrecciavano nelle loro piccole vite affollate, letteralmente guidate da un meccanismo a orologeria, riempiendo le loro giornate con il semplice sforzo di vivere. E tutte le vite avevano esattamente la stessa durata. Sia quelle molto brevi che quelle molto lunghe. Quanto meno dal punto di vista dell’eternità.

Da qualche parte, la voce flebile di Bill Porta disse: «Dal punto di vista del proprietario, sono meglio quelle lunghe».

SQUITT.

Morte abbassò lo sguardo.

Ai suoi piedi c’era una piccola figura.

Si chinò a raccoglierla tenendola davanti alle sue orbite indagatrici.

MI SEMBRAVA CHE MANCASSE QUALCOSA.

La Morte dei Ratti annuì.

SQUITT?

Morte scosse la testa.

NO, NON POSSO FARTI RIMANERE, disse. LA MIA NON È MICA UN’ATTIVITÀ IN FRANCHISING.

SQUITT?

SEI L’ULTIMA RIMASTA?


La Morte dei Ratti aprì una piccola zampa scheletrica. La piccola Morte delle Pulci alzò la testa, imbarazzata e speranzosa.

NO. QUESTO NON PUÒ ESSERE. IO SONO IMPLACABILE. SONO MORTE… L’UNICO E SOLO.

Guardò la Morte dei Ratti.

Ripensò ad Azrael nella sua torre solitaria.

SOLO…

La Morte dei Ratti lo guardò.

SQUITT?

Immaginate una figura alta e scura circondata da campi di grano…

NO, NON PUOI CAVALCARE UN GATTO. DOVE SI È MAI SENTITO CHE LA MORTE DEI RATTI CAVALCA UN GATTO? LA MORTE DEI RATTI POTREBBE CAVALCARE UN CANE.

Immaginate altri campi, una serie infinita di campi che si estendono fino all’orizzonte, con dolci curve…

NON CHIEDERLO A ME. CHE NE SO IO? FORSE UN TIPO DI TERRIER.

… campi di grano, vivi, che sussurrano nella brezza…

BENE, COSÌ PUÒ STARCI ANCHE LA MORTE DELLE PULCI. COSÌ SI PRENDONO DUE PICCIONI CON UNA FAVA.

… in attesa dell’orologio delle stagioni…

METAFORICAMENTE PARLANDO.


E alla fine di tutte le storie Azrael, che conosceva il segreto, pensò: RICORDO QUANDO TUTTO QUESTO SARÀ DI NUOVO.


FINE
Загрузка...