V L'UOMO CHE PULIVA I QUADRI E ALTRI

La Festa di Santa Katharine per la nostra corporazione è la più importante, è la festa che ricorda la nostra eredità, il giorno nel quale gli artigiani diventano maestri (se lo diventano) e gli apprendisti diventano artigiani. Rimando la descrizione delle cerimonie fino a quando non parlerò della mia elevazione; comunque, nell'anno di cui sto parlando, quello dello scontro accanto alla tomba, Drotte e Roche vennero nominati artigiani e io diventai il capitano degli apprendisti.

L'importanza di tale carica non mi colpì fino al termine del rito. Ero seduto nella cappella in rovina a gustarmi lo spettacolo e non pensavo molto al fatto che alla fine delle cerimonie io sarei stato il più anziano degli apprendisti.

Ma a poco a poco fui colto da un senso di inquietudine. Ero infelice ancora prima di rendermi conto che non ero più felice e mi sentivo oppresso da responsabilità che ancora non mi erano ben chiare. Mi sovvenni delle difficoltà che aveva incontrato Drotte nel farci mantenere l'ordine. Io avrei dovuto fare altrettanto ma senza la sua forza, e senza nessuno accanto a me come era stato per lui Roche… un luogotenente della sua stessa età. Quando l'ultimo canto si spense, il Maestro Gurloes e il Maestro Palaemon, nascosti dietro le maschere venate d'oro, oltrepassarono lentamente la soglia mentre i vecchi artigiani si issavano sulle spalle i loro nuovi colleghi, Drotte e Roche, ed estraevano dalle borse appese alle cinture i fuochi artificiali da lanciare all'aperto; a quel punto ero finalmente riuscito a farmi coraggio e ad abbozzare un piano rudimentale.

Era compito degli apprendisti quello di servire a tavola e prima di assolverlo dovevamo levarci i vestiti puliti e relativamente nuovi che ci erano stati dati per la cerimonia. Quando l'ultimo mortaretto fu fatto esplodere e i matrossi ebbero squassato il cielo con il cannone più grosso della Grande Fortezza in segno di amicizia, accompagnai i miei pupilli nel dormitorio (e mi pareva che già tutti mi guardassero con aria scocciata), chiusi la porta e la sbarrai con una branda.

Il più vecchio dei ragazzi dopo di me era Eata e fortunatamente in passato eravamo stati abbastanza amici da non farlo sospettare di nulla prima che gli fosse impossibile opporsi in maniera efficace. Lo afferrai per la gola e gli feci sbattere la testa contro la paratia per cinque o sei volte, quindi lo feci cadere con un calcio. E ora — gli domandai, — vuoi essere il mio vice? Rispondi!

Non riusciva a parlare ma annuì.

— Bene. Allora io penso a Timon. Tu veditela con quello più forte dopo di lui.

Nel tempo di cento respiri (cento respiri molto veloci) i ragazzi accettarono la mia autorità e trascorsero tre settimane prima che qualcuno di loro avesse il coraggio di disubbidirmi, e anche allora non ci furono mai rivolte collettive, soltanto episodi individuali.


In qualità di capitano degli apprendisti avevo nuove mansioni e godevo di maggiore libertà. Dovevo assicurarmi che gli artigiani in servizio ricevessero i pasti caldi e guidavo i ragazzi che trasportavano i vassoi destinati ai clienti. In cucina incitavo i miei ragazzi perché si dessero da fare, in classe li facevo studiare. Frequentemente mi veniva dato l'incarico di portare messaggi in parti lontane della Cittadella e talvolta anche di trattare qualche affare per conto della corporazione.

In tal modo arrivai a conoscere tutte le strade principali e diversi angoli non molto frequentati: granai abitati da enormi bidoni e da gatti dall'aria demoniaca; bastioni spazzati dal vento e affacciati su catapecchie in rovina; le pinacoteche, con la grande galleria sovrastata dal tetto a volta di mattoni e il pavimento di pietre ricoperto da tappeti, e fiancheggiata da pareti nelle quali si aprivano arcate scure che lasciavano vedere le sale laterali, colme di quadri quanto la galleria stessa.

Molti quadri erano talmente vecchi e rovinati dal fumo che non riuscivo nemmeno a distinguerne il soggetto, di altri invece non comprendevo il significato: un ballerino con due ali che parevano sanguisughe, una donna che teneva in mano un pugnale e sedeva sotto una maschera funebre. Un giorno, dopo aver percorso quasi una lega in mezzo a quei dipinti enigmatici, mi imbattei in un vecchio appollaiato in cima a un'alta scala. Avrei voluto domandargli delle informazioni, ma mi sembrava tanto assorto nel suo lavoro che mi dispiaceva disturbarlo.

Il quadro che stava pulendo raffigurava un personaggio in armatura immerso in un panorama desolante. Non si vedevano armi, ma l'uomo reggeva un'asta con una strana bandiera rigida. La visiera dell'elmo era interamente d'oro, priva di aperture per gli occhi e per la ventilazione, e sulla sua superficie levigata si rifletteva il deserto senza vita.

Quel guerriero mi colpì profondamente, anche se non riuscii a capire il perché né quale sentimento mi ispirasse. Istintivamente provavo l'impulso di prendere quel quadro e trasportarlo… non nella necropoli, ma inuna delle foreste montane delle quali la necropoli era (e lo sapevo già a quell'epoca) un'immagine idealizzata e falsata. Il posto di quel dipinto era tra le piante, con la cornice posata sull'erba novella.

— … e così — udii una voce alle mie spalle, — sono scappati tutti. Vodalus ha ottenuto quello che voleva, vedi.

— Tu — scattò l'altro, — cosa stai facendo qui?

Mi voltai e vidi due armigeri che indossavano vesti colorate molto simili a quelle degli esultanti. — Ho una comunicazione per l'archivista — spiegai, mostrando la busta.

— Va bene — disse quello che mi aveva interrogato. — Sai dove si trovano gli archivi?

— Stavo per domandarlo, sieur.

— Allora non sei il messaggero più indicato per portare la lettera. Dalla a me e la affiderò a un paggio.

— Spiacente, sieur, ma la devo consegnare di persona.

— Non te la prendere tanto con questo giovanotto, Racho — intervenne l'altro armigero.

— Tu non l'hai riconosciuto vero?

— E tu?

L'uomo chiamato Racho annuì. — Da che zona della Cittadella provieni, messaggero?

— Dalla Torre di Matachin. Il Maestro Gurloes mi ha inviato dall'archivista.

L'espressione dell'altro armigero si rabbuiò. — Allora sei un torturatore.

— Solamente un apprendista, sieur.

— Non mi stupisce più che il mio amico voglia allontanarti. Segui la galleria fino alla terza porta, quindi svolta e vai avanti per un centinaio di passi, sali la scala fino al secondo piano e prendi il corridoio a sud che conduce alla doppia porta in fondo.

— Grazie — dissi, incamminandomi nella direzione indicatami.

— Aspetta un istante. Se vai adesso, saremmo costretti a guardarti.

— Preferisco averlo davanti che alle nostre spalle — disse Racho.

Aspettai, con una mano appoggiata alla scala, finché i due non furono scomparsi dietro un angolo.

Simile a uno di quegli amici per metà invisibili che nei sogni ci parlano dalle nuvole, il vecchio disse: — Così sei un torturatore, vero? Sai, non sono mai entrato nella vostra sede. — Aveva gli occhi stanchi e mi faceva venire in mente le tartarughe che talvolta mettevamo in fuga lungo le rive del Gyoll; il naso e il mento si sfioravano.

— Mi auguro di non doverti mai incontrare là — dissi, educatamente.

— Non devi preoccuparti. Cosa potreste fare a uno come me? Il mio cuore si fermerebbe subito, così! — Lasciò cadere la spugna nel secchio e si sforzò di far schioccare le dita bagnate ma senza riuscirvi. — Comunque, so dove si trova. Dietro la Fortezza delle Streghe, vero?

— Infatti — dissi io, un po' sorpreso del fatto che le streghe fossero più conosciute di noi.

— Mi sembrava. Ma non ne parla mai nessuno. Sei infastidito per quegli armigeri e hai ragione; comunque dovresti conoscere come sono fatti, quelli. Vorrebbero essere uguali agli esultanti e non ci riescono. Hanno paura della morte, paura di fare del male e paura di darlo a vedere. Per loro è difficile.

— Dovrebbero levarli di mezzo — dissi. — Vodalus li metterebbe in fuga. Sono solo un relitto del passato… che giovamento possono dare al mondo?

Il vecchio inclinò il capo. — Perché, che giovamento dovrebbero dare? Tu lo sai?

Quando ammisi di non saperlo scese dalla saletta come una vecchia scimmia. Pareva tutto braccia, gambe e collo rugoso; le sue mani erano lunghe quanto i miei piedi, con le dita artritiche venate d'azzurro. — Il mio nome è Rudesind il curatore. Conosci il vecchio Ultan? No, naturalmente. Se lo conoscessi saresti stato in grado di trovare la strada verso la biblioteca.

— Non ero mai stato in questa parte della Cittadella — dissi.

— Mai stato qui? Oh, questa è la parte più bella. Arte, musica e libri. Possediamo un Fechin con tre ragazze che si adornano di fiori e quei fiori sembrano talmente veri che non ti stupiresti di vederne uscire le api. Abbiamo anche un Quartillosa, ma non è più molto popolare, diversamente non sarebbe qui. Comunque ai suoi tempi era un disegnatore molto più in gamba di quei pasticcioni che furoreggiano al giorno d'oggi. Noi raccogliamo quello che viene rifiutato dalla Casa Assoluta, comprendi? Significa che riceviamo i quadri vecchi, che generalmente sono anche i più belli. Arrivano qui insozzati, dopo tanto tempo in esposizione, e io li ripulisco. E talvolta li ripasso nuovamente dopo che sono rimasti in mostra per qualche anno. Possediamo un Fechin, davvero. Oppure, guarda questo. Ti piace?

Risposi che era bello.

— È la terza volta che lo pulisco. Quando giunsi qui, ero un apprendista del vecchio Branwallader e fu lui a insegnarmi. Si servì di questo quadro che a suo dire non valeva niente: iniziò da questo angolo e dopo averne pulito una spanna lo passò a me e io feci il resto. Lo ripulii quando mia moglie era ancora in vita, dopo la nascita della nostra seconda figlia. Non che si fosse sporcato molto, ma avevo tanti pensieri per il capo e volevo tenermi occupato. Oggi mi è venuta voglia di lavorarci ancora sopra. Adesso ne ha bisogno… vedi come riprende bene i colori? Ecco l'azzurra Urth che spunta nuovamente sopra la sua spalla, fresca come il pesce dell'Autarca.

Nel frattempo, continuava a ronzarmi nella testa il nome di Vodalus. Ero sicuro che il vecchio fosse sceso dalla scaletta solo perché l'avevo pronunciato e mi sarebbe piaciuto fargli delle domande al riguardo ma, sebbene mi sforzassi, non riuscivo a trovare il giusto appiglio. Quando il mio silenzio si iniziò a protrarre troppo e temetti che il vecchio risalisse e riprendesse il suo lavoro di ripulitura, riuscii a farfugliare: — Quella è la luna? Ho sentito dire che è diventata più fertile.

— Ora sì. Ma questo quadro fu dipinto prima che venisse irrigata. Vedi quel grigio-bruno? Allora non appariva come la vediamo noi. Non era verde e non pareva nemmeno tanto grande, perché era più lontana… così sosteneva Branwallader. Adesso ci sono abbastanza piante da nascondere Nilammon, come dice il proverbio.

Colsi al volo l'occasione. — E Vodalus.

Rudesind sogghignò. — E lui, infatti. Voialtri dovrete fregarvi le mani a lungo prima di averlo a vostra disposizione. Avete progettato qualcosa di particolare?

Se la corporazione disponesse di tormenti speciali da riservare a determinati individui, non lo sapevo, ma cercai di darmi un'aria scaltra e dissi: — Qualcosa inventeremo.

— Immagino. Prima, però, credevo che fossi dalla sua parte. Comunque, dovrete attendere, se veramente si è nascosto nelle Foreste della Luna. — Sollevò gli occhi verso il quadro con aria soddisfatta, quindi si volse di nuovo verso di me. — Mi ero dimenticato. Tu devi andare dal nostro Maestro Ultan. Torna all'arco dal quale sei entrato…

— Adesso conosco la strada — dissi. — Me l'ha spiegata l'armigero.

Il vecchio curatore sbuffò, come per vanificare quelle indicazioni. — In quel modo arriveresti soltanto alla Sala di Lettura, poi ti occorrerebbe un intero turno di guardia per giungere da Ultan, se mai ce la facessi. No, torna a quell'arco, e arriva in fondo a quella grande sala, poi passa per la scala. Vedrai una porta chiusa… bussa fino a quando qualcuno ti apre. In fondo alla scala c'è lo studio di Ultan.

Dal momento che Rudesind mi guardava, seguii le sue indicazioni, nonostante l'idea della porta chiusa mi disturbasse e la scala volesse forse dire che mi sarei avvicinato agli antichi corridoi nei quali mi ero perso quando cercavo Triskele.

A dire il vero, lì mi sentivo molto meno sicuro che nelle zone a me più famigliari della Cittadella. Successivamente, avrei scoperto che gli stranieri che la visitano restano stupefatti dalle sue dimensioni, mentre in realtà essa non è che una briciola in confronto alla città che la circonda. E noi stessi che siamo cresciuti all'interno delle mura grigie e abbiamo imparato i nomi e le posizioni delle centinaia di punti di riferimento necessari per muoversi, restiamo confusi dalle nostre stesse conoscenze quando ci allontaniamo dalle zone più famigliari.

Successe anche a me, quando passai sotto l'arcata indicatami dal vecchio. Era fatta di mattoni rosso scuro come il resto della galleria, ma era sorretta da due colonne sui cui capitelli spiccavano dei volti dormienti, e per me le labbra silenziose e gli occhi chiusi di quelle figure apparivano più terrificanti delle maschere sofferenti dipinte sul metallo della nostra torre.

Nella sala successiva ogni quadro conteneva un libro. Talvolta erano tanti, o bene in vista; talora, invece, dovevo osservare a lungo prima di individuare l'angolo di una rilegatura che spuntava dalla tasca di una gonna o prima di rendermi conto che una spoletta stranamente lavorata conteneva parole filate come un refe.

La scala era angusta e ripida e senza ringhiera; scendeva tortuosamente e dopo una ventina di scalini la luce della sala sovrastante era del tutto sparita. Verso il fondo fui costretto ad allungare in avanti le mani e ad avanzare a tentoni, per il timore di sbattere la testa contro la porta.

Ma le mie dita ansiose non la trovarono. La scala invece terminò (e per poco non caddi, cercando di fare uno scalino che non c'era), così dovetti procedere brancolando nell'oscurità più totale, su un pavimento sconnesso.

— Chi è? — domandò una voce. Risuonava innaturalmente, come una campana in una caverna.

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