VITA DI MICHELAGNOLO BUONARRUOTI FIORENTINO PITTORE, SCULTORE ET ARCHITETTO


Mentre gl'industriosi et egregii spiriti col lume del famosissimo Giotto e de' seguaci suoi si sforzavano dar saggio al mondo del valore che la benignità delle stelle e la proporzionata mistione degli umori aveva dato agli ingegni loro, e desiderosi di imitare con la eccellenza dell'arte la grandezza della natura, per venire il più che potevano a quella somma cognizione che molti chiamano intelligenza, universalmente, ancora che indarno, si affaticavano, il benignissimo Rettore del cielo volse clemente gli occhi alla terra, e veduta la vana infinità di tante fatiche, gli ardentissimi studii senza alcun frutto e la opinione prosuntuosa degli uomini, assai più lontana dal vero che le tenebre dalla luce, per cavarci di tanti errori si dispose mandare in terra uno spirito, che universalmente in ciascheduna arte et in ogni professione fusse abile, operando per sé solo a mostrare che cosa sia la perfezzione dell'arte del disegno nel lineare, dintornare, ombrare e lumeggiare, per dare rilievo alle cose della pittura, e con retto giudizio operare nella scultura, e rendere le abitazioni commode e sicure, sane, allegre, proporzionate e ricche di varii ornamenti nell'architettura. Volle oltra ciò accompagnarlo della vera filosofia morale, con l'ornamento della dolce poesia, acciò che il mondo lo eleggesse et ammirasse per suo singularissimo specchio nella vita, nell'opere, nella santità dei costumi et in tutte l'azzioni umane, e perché da noi più tosto celeste che terrena cosa si nominasse. E perché vide che nelle azzioni di tali esercizii et in queste arti singularissime, cioè nella pittura, nella scultura e nell'architettura, gli ingegni toscani sempre sono stati fra gli altri sommamente elevati e grandi, per essere eglino molto osservanti alle fatiche et agli studii di tutte le facultà, sopra qualsivoglia gente di Italia, volse dargli Fiorenza, dignissima fra l'altre città, per patria, per colmare al fine la perfezzione in lei meritamente di tutte le virtù per mezzo d'un suo cittadino.

Nacque dunque un figliuolo sotto fatale e felice stella nel Casentino, di onesta e nobile donna, l'anno 1474 a Lodovico di Lionardo Buonarruoti Simoni, disceso, secondo che si dice, della nobilissima et antichissima famiglia de' conti di Canossa. Al quale Lodovico, essendo podestà quell'anno del castello di Chiusi e Caprese, vicino al Sasso della Vernia, dove San Francesco ricevé le stimate, diocesi aretina, nacque dico un figliuolo il sesto dì di marzo, la domenica, intorno all'otto ore di notte, al quale pose nome Michelagnolo, perché non pensando più oltre, spirato da un che di sopra volse inferire costui essere cosa celeste e divina, oltre all'uso mortale, come si vidde poi nelle figure della natività sua, avendo Mercurio, e Venere in seconda, nella casa di Giove, con aspetto benigno ricevuto, il che mostrava che si doveva vedere ne' fatti di costui, per arte di mano e d'ingegno, opere maravigliose e stupende. Finito l'uffizio della podesteria, Lodovico se ne tornò a Fiorenza, e nella villa di Settignano, vicino alla città tre miglia, dove egli aveva un podere de' suoi passati (il qual luogo è copioso di sassi e per tutto pieno di cave di macigni, che son lavorati di continovo da scarpellini e scultori, che nascono in quel luogo la maggior parte), fu dato da Lodovico Michelagnolo a balia in quella villa alla moglie d'uno scarpellino. Onde Michelagnolo ragionando col Vasari una volta per ischerzo disse: "Giorgio, si' ho nulla di buono nell'ingegno, egli è venuto dal nascere nella sottilità dell'aria del vostro paese d'Arezzo, così come anche tirai dal latte della mia balia gli scarpegli e 'l mazzuolo con che io fo le figure".

Crebbe col tempo in figliuoli assai Lodovico, et essendo male agiato e con poche entrate, andò accomodando all'Arte della Lana e Seta i figliuoli, e Michelagnolo, che era già cresciuto, fu posto con maestro Francesco da Urbino alla scuola di gramatica; e perché l'ingegno suo lo tirava al dilettarsi del disegno, tutto il tempo che poteva mettere di nascoso lo consumava nel disegnare, essendo per ciò e dal padre e da' suoi maggiori gridato e tal volta battuto, stimando forse che lo attendere a quella virtù non conosciuta da loro, fussi cosa bassa e non degna della antica casa loro. Aveva in questo tempo preso Michelagnolo amicizia con Francesco Granacci, il quale anche egli giovane si era posto appresso a Domenico del Grillandaio per imparare l'arte della pittura, là dove amando il Granacci Michelagnolo e vedutolo molto atto al disegno, lo serviva giornalmente de' disegni del Grillandaio, il quale era allora reputato non solo in Fiorenza, ma per tutta Italia de' migliori maestri che ci fussero. Per lo che crescendo giornalmente più il desiderio di fare a Michelagnolo, e Lodovico non potento diviare che il giovane al disegno non attendesse, e che non ci era rimedio, si risolvé, per cavarne qualche frutto e perché egli imparasse quella virtù, consigliato da amici, di acconciarlo con Domenico Grillandaio.

Aveva Michelagnolo, quando si acconciò all'arte con Domenico, quattordici anni, e perché chi ha scritto la vita sua dopo l'anno 1550, che io scrissi queste vite la prima volta, dicendo che alcuni, per non averlo praticato, n'han detto cose che mai non furono e lassatone di molte che son degne d'essere notate, e particularmente tocco questo passo tassando Domenico d'invidiosetto, né che porgessi mai aiuto alcuno a Michelagnolo, il che si vidde essere falso, potendosi vedere per una scritta di mano di Lodovico padre di Michelagnolo scritto sopra i libri di Domenico, il qual libro è appresso oggi agli eredi suoi che dice così: "1488. Ricordo questo dì primo d'aprile, come io Lodovico di Lionardo di Buonarota acconcio Michelagnolo mio figliuolo con Domenico e Davit di Tommaso di Currado per anni tre prossimi a venire con questi patti e modi: che 'l detto Michelagnolo debba stare con i sopra detti detto tempo a imparare a dipignere et a fare detto essercizio, e ciò i sopra detti gli comanderanno, e detti Domenico e Davit gli debbon dare in questi tre anni fiorini ventiquattro di sugello, el primo anno fiorini sei, el secondo anno fiorini otto, il terzo fiorini dieci; in tutta la somma di lire novantasei". Et appresso vi è sotto questo ricordo o questa partita, scritta pur di mano di Lodovico: "Hanne avuto il sopra detto Michelagnolo questo dì 16 d'aprile fiorini dua d'oro in oro. Ebbi io Lodovico di Lionardo, suo padre lui, contanti lire 12,12". Queste partite ho copiate io dal proprio libro per mostrare che tutto quel che si scrisse allora e che si scriverrà al presente è la verità, né so che nessuno l'abbi più praticato di me e che gli sia stato più amico e servitore fedele, come n'è testimonio fino chi nol sa; né credo che ci sia nessuno che possa mostrare maggior numero di lettere scritte da lui proprio, né con più affetto che egli ha fatto a me. Ho fatto questa disgressione per fede della verità, e questo basti per tutto il resto della sua vita. Ora torniamo alla storia.

Cresceva la virtù e la persona di Michelagnolo di maniera che Domenico stupiva vedendolo fare alcune cose fuor d'ordine di giovane, perché gli pareva che non solo vincesse gli altri discepoli, dei quali aveva egli numero grande, ma che paragonasse molte volte le cose fatte da lui come maestro. Avvenga che uno de' giovani che imparava con Domenico, avendo ritratto alcune femine di penna, vestite, dalle cose del Grillandaio, Michelagnolo prese quella carta e con penna più grossa ridintornò una di quelle femmine di nuovi lineamenti nella maniera che arebbe avuto a stare, perché istessi perfettamente, che è cosa mirabile a vedere la diferenza delle due maniere e la bontà e giudizio d'un giovanetto così animoso e fiero che gli bastasse l'animo correggere le cose del suo maestro. Questa carta è oggi appresso di me tenuta per reliquia, che l'ebbi dal Granaccio per porla nel libro de' disegni con altri di suo avuti da Michelagnolo; e l'anno 1550, che era a Roma, Giorgio la mostrò a Michelagnolo che la riconobbe et ebbe caro rivederla, dicendo per modestia che sapeva di questa arte più quando egl'era fanciullo, che allora che era vecchio. Ora avvenne che lavorando Domenico la cappella grande di Santa Maria Novella, un giorno che egli era fuori si misse Michelagnolo a ritrarre di naturale il ponte con alcuni deschi, con tutte le masserizie dell'arte, et alcuni di que' giovani che lavoravano. Per il che tornato Domenico e visto il disegno di Michelagnolo disse: "Costui ne sa più di me"; e rimase sbigottito della nuova maniera e della nuova imitazione, che dal giudizio datogli dal cielo aveva un simil giovane in età così tenera, che invero era tanto quanto più desiderar si potesse nella pratica d'uno artefice che avesse operato molti anni. E ciò era che tutto il sapere e potere della grazia era nella natura essercitata dallo studio e dall'arte, per che in Michelagnolo faceva ogni dì frutti più divini, come apertamente cominciò a dimostrarsi nel ritratto che e' fece d'una carta di Martino tedesco stampata, che gli dette nome grandissimo. Imperò che, essendo venuta allora in Firenze una storia del detto Martino, quando i diavoli battano Santo Antonio, stampata in rame, Michelagnolo la ritrasse di penna di maniera, che non era conosciuta, e quella medesima con i colori dipinse; dove per contrafare alcune strane forme di diavoli, andava a comperare pesci che avevano scaglie bizzarre di colori, e quivi dimostrò in questa cosa tanto valore, che e' ne acquistò e credito e nome. Contrafece ancora carte di mano di varii maestri vecchi tanto simili, che non si conoscevano, perché tignendole et invecchiandole col fumo e con varie cose, in modo le insudiciava, che elle parevano vecchie, e paragonatole con la propria non si conosceva l'una dall'altra; né lo faceva per altro se non per avere le proprie di mano di coloro, col darli le ritratte, che egli per l'eccellenza dell'arte amirava e cercava di passargli nel fare, onde n'acquistò grandissimo nome.

Teneva in quel tempo il magnifico Lorenzo de' Medici nel suo giardino in sulla piazza di S. Marco Bertoldo scultore, non tanto per custode o guardiano di molte belle anticaglie, che in quello aveva ragunate e raccolte con grande spesa, quanto perché desiderando egli sommamente di creare una scuola di pittori e di scultori eccellenti, voleva che elli avessero per guida e per capo il sopra detto Bertoldo, che era discepolo di Donato. Et ancora che e' fusse sì vecchio che non potesse più operare, era nientedimanco maestro molto pratico e molto reputato, non solo per avere diligentissimamente rinettato il getto de' pergami di Donato suo maestro, ma per molti getti ancora che egli aveva fatti di bronzo di battaglie e di alcune altre cose piccole, nel magisterio delle quali non si trovava allora in Firenze chi lo avanzasse. Dolendosi adunque Lorenzo, che amor grandissimo portava alla pittura et alla scultura, che ne' suoi tempi non si trovassero scultori celebrati e nobili, come si trovavano molti pittori di grandissimo pregio e fama, deliberò, come io dissi, di fare una scuola; e per questo chiese a Domenico Ghirlandai, che se in bottega sua avesse de' suoi giovani che inclinati fussero a ciò, l'inviasse al giardino, dove egli desiderava di essercitargli e creargli in una maniera che onorasse sé e lui e la città sua. Laonde da Domenico gli furono per ottimi giovani dati fra gli altri Michelagnolo e Francesco Granaccio; per il che andando eglino al giardino, vi trovarono che il Torrigiano, giovane de' Torrigiani, lavorava di terra certe figure tonde che da Bertoldo gli erano state date. Michelagnolo, vedendo questo, per emulazione alcune ne fece; dove Lorenzo vedendo sì bello spirito lo tenne sempre in molta aspettazione, et egli inanimito dopo alcuni giorni si misse a contrafare con un pezzo di marmo una testa che v'era d'un fauno vecchio antico e grinzo, che era guasta nel naso e nella bocca rideva. Dove a Michelagnolo, che non aveva mai più tocco marmo né scarpegli, successe il contrafarla così bene, che il Magnifico ne stupì, e visto che fuor della antica testa di sua fantasia gli aveva trapanato la bocca e fattogli la lingua e vedere tutti i denti, burlando quel signore con piacevolezza, come era suo solito, gli disse: "Tu doveresti pur sapere che i vecchi non hanno mai tutti i denti e sempre qualcuno ne manca loro". Parve a Michelagnolo in quella semplicità, temendo et amando quel signore, che gli dicesse il vero; né prima si fu partito, che subito gli roppe un dente e trapanò la gengìa di maniera, che pareva che gli fussi caduto; et aspettando con desiderio il ritorno del Magnifico, che venuto e veduto la semplicità e bontà di Michelagnolo, se ne rise più d'una volta contandola per miracolo a' suoi amici; e fatto proposito di aiutare e favorire Michelagnolo, mandò per Lodovico suo padre e gliene chiese, dicendogli che lo voleva tenere come un de' suoi figliuoli, et egli volentieri lo concesse; dove il Magnifico gli ordinò in casa sua una camera, e lo faceva attendere, dove del continuo mangiò alla tavola sua co' suoi figliuoli et altre persone degne e di nobiltà, che stavano col Magnifico, dal quale fu onorato. E questo fu l'anno seguente che si era acconcio con Domenico, che aveva Michelagnolo da quindici anni o sedici; e stette in quella casa quattro anni, che fu poi la morte del Magnifico Lorenzo nel 1492. Imperò in quel tempo ebbe da quel signore Michelagnolo provisione, e per aiutare suo padre, di cinque ducati il mese, e per rallegrarlo gli diede un mantello pagonazzo, et al padre uno officio in dogana; vero è che tutti quei giovani del giardino erano salariati, chi assai e chi poco, dalla liberalità di quel magnifico e nobilissimo cittadino, e da lui mentre che visse furono premiati. Dove in questo tempo consigliato dal Poliziano, uomo nelle lettere singulare, Michelagnolo fece in un pezzo di marmo datogli da quel signore la battaglia di Ercole coi centauri, che fu tanto bella che talvolta per chi ora la considera non par di mano di giovane, ma di maestro pregiato e consumato negli studii e pratico in quell'arte. Ella è oggi in casa sua tenuta per memoria di Lionardo suo nipote come cosa rara che ell'è, il quale Lionardo non è molti anni che aveva in casa per memoria di suo zio una Nostra Donna di basso rilievo di mano di Michelagnolo di marmo alta poco più d'un braccio, nella quale sendo giovanetto in questo tempo medesimo, volendo contrafare la maniera di Donatello si portò sì bene che par di man sua, eccetto che vi si vede più grazia e più disegno. Questa donò Lionardo poi al duca Cosimo Medici, il quale la tiene per cosa singularissima, non essendoci di sua mano altro basso rilievo che questo di scultura.

E tornando al giardino del magnifico Lorenzo, era il giardino tutto pieno d'anticaglie e di eccellenti pitture molto adorno, per bellezza, per studio, per piacere ragunate in quel loco, del quale teneva di continuo Michelagnolo le chiavi, e molto più era sollecito che gli altri in tutte le sue azzioni, e con viva fierezza sempre pronto si mostrava. Disegnò molti mesi nel Carmine alle pitture di Masaccio, dove con tanto giudizio quelle opere ritraeva, che ne stupivano gli artefici e gli altri uomini di maniera, che gli cresceva l'invidia insieme col nome. Dicesi che il Torrigiano, contratta seco amicizia e scherzando, mosso da invidia di vederlo più onorato di lui e più valente nell'arte, con tanta fierezza gli percosse d'un pugno il naso, che rotto e stiacciatolo di mala sorte lo segnò per sempre; onde fu bandito di Fiorenza il Torrigiano, come s'è detto altrove.

Morto il magnifico Lorenzo, se ne tornò Michelagnolo a casa del padre con dispiacere infinito della morte di tanto uomo amico a tutte le virtù, dove Michelagnolo comperò un gran pezzo di marmo e fecevi dentro un Ercole di braccia quattro, che sté molti anni nel palazzo degli Strozzi, il quale fu stimato cosa mirabile e poi fu mandato l'anno dello assedio in Francia al re Francesco da Giovambatista della Palla. Dicesi che Piero de' Medici, che molto tempo aveva praticato Michelagnolo, sendo rimasto erede di Lorenzo suo padre mandava spesso per lui volendo comperare cose antiche di camei et altri intagli; et una invernata che e' nevicò in Fiorenza assai, gli fece fare di neve nel suo cortile una statua che fu bellissima, onorando Michelagnolo di maniera per le virtù sue, che 'l padre cominciando a vedere che era stimato fra i grandi, lo rivestì molto più onoratamente che non soleva. Fece per la chiesa di Santo Spirito della città di Firenze un Crocifisso di legno, che si pose et è sopra il mezzo tondo dello altare maggiore a compiacenza del priore, il quale gli diede comodità di stanze; dove molte volte scorticando corpi morti per studiare le cose di notomia, cominciò a dare perfezzione al gran disegno che gl'ebbe poi. Avvenne che furono cacciati di Fiorenza i Medici, e già poche settimane innanzi Michelagnolo era andato a Bologna e poi a Venezia, temendo che non gli avvenisse per essere familiare di casa qualche caso sinistro, vedendo l'insolenzie e mal modo di governo di Piero de' Medici; e non avendo avuto in Venezia trattenimento se ne tornò a Bologna; dove, avvenutogli inconsideratamente disgrazia di non pigliare un contrasegno allo entrare della porta per uscir fuori, come era allora ordinato per sospetto - ché Messer Giovanni Bentivogli voleva che i forestieri che non avevano il contrasegno fussino condennati in lire cinquanta di bolognini -, et incorrendo Michelagnolo in tal disordine, né avendo il modo di pagare, fu compassionevolmente veduto a caso da Messer Giovanfrancesco Aldovrandi, uno de' sedici del governo, il quale fattosi contare la cosa lo liberò e lo trattenne appresso di sé più d'uno anno. Et un dì l'Aldovrando, condottolo a vedere l'arca di San Domenico fatta, come si disse, da Giovan Pisano e poi da maestro Niccolò da l'Arca scultori vecchi, e mancandoci un Angelo che teneva un candelliere, et un San Petronio, figure d'un braccio incirca, gli dimandò se gli bastasse l'animo di fargli: rispose di sì. Così, fattogli dare il marmo, gli condusse, che son le miglior figure che vi sieno, e gli fece dare Messer Francesco Aldovrando ducati trenta d'amendue.

Stette Michelagnolo in Bologna poco più d'uno anno e vi sarebbe stato più per satisfare alla cortesia dello Aldovrandi, il quale l'amava e per il disegno e perché piacendoli come toscano la pronunzia del leggere di Michelagnolo, volentieri udiva le cose di Dante, del Petrarca e del Boccaccio et altri poeti toscani. Ma perché conosceva Michelagnolo che perdeva tempo, volentieri se ne tornò a Fiorenza e fé per Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici di marmo un San Giovannino, e poi dreto a un altro marmo si messe a fare un Cupido che dormiva, quanto il naturale; e finito, per mezzo di Baldassarri del Milanese fu mostro a Pierfrancesco per cosa bella, che giudicatolo il medesimo gli disse: "Se tu lo mettessi sotto terra sono certo che passerebbe per antico, mandandolo a Roma acconcio in maniera che paressi vecchio, e ne caveresti molto più che a venderlo qui". Dicesi che Michelagnolo l'acconciò di maniera che pareva antico, né è da maravigliarsene perché aveva ingegno da far questo e meglio. Altri vogliono che 'l Milanese lo portassi a Roma e lo sotterrassi in una sua vigna, e poi lo vendessi per antico al cardinale San Giorgio ducati dugento. Altri dicono che gliene vendé un che faceva per il Milanese, che scrisse a Pierfrancesco che facessi dare a Michelagnolo scudi trenta, dicendo che più del Cupido non aveva avuti, ingannando il cardinale Pierfrancesco e Michelagnolo; ma inteso poi da chi aveva visto che 'l putto era fatto a Fiorenza, tenne modi che seppe il vero per un suo mandato, e fece sì l'agente del Milanese gl'ebbe a rimettere e riebbe il Cupido, il quale venuto nelle mani al duca Valentino e donato da lui alla Marchesana di Mantova, che lo condusse al paese dove oggi ancor si vede. Questa cosa non passò senza biasimo del cardinale San Giorgio, il quale non conoscendo la virtù dell'opera, che consiste nella perfezzione, che tanto son buone le moderne quanto le antiche pur che sieno eccellenti, essendo più vanità quella di coloro che van dietro più al nome che a' fatti; che di questa sorte d'uomini se n'è trovato d'ogni tempo, che fanno più conto del parere che dell'essere. Imperò questa cosa diede tanta riputazione a Michelagnolo che fu subito condotto a Roma et acconcio col cardinale San Giorgio, dove stette vicino a un anno, che come poco intendente di queste arti, non fece fare niente a Michelagnolo. In quel tempo un barbiere del cardinale stato pittore, che coloriva a tempera molto diligentemente, ma non aveva disegno, fattosi amico Michelagnolo gli fece un cartone d'un San Francesco che riceve le stimate, che fu condotto con i colori dal barbieri in una tavoletta molto diligentemente: la qual pittura è oggi locata in una prima cappella entrando in chiesa a man manca di San Piero a Montorio. Conobbe bene poi la virtù di Michelagnolo Messer Iacopo Galli, gentiluomo romano, persona ingegnosa, che gli fece fare un Cupido di marmo, quanto il vivo, et appresso una figura di un Bacco di palmi dieci che ha una tazza nella man destra e nella sinistra una pelle d'un tigre et un grappolo d'uve, che un satirino cerca di mangiargliene, nella qual figura si conosce che egli ha voluto tenere una certa mistione di membra maravigliose, e particolarmente avergli dato la sveltezza della gioventù del maschio e la carnosità e tondezza della femina: cosa tanto mirabile, che nelle statue mostrò essere eccellente più d'ogni altro moderno, il quale fino allora avesse lavorato. Per il che nel suo stare a Roma acquistò tanto nello studio dell'arte, ch'era cosa incredibile vedere i pensieri alti e la maniera difficile, con facilissima facilità da lui esercitata, tanto con ispavento di quegli che non erano usi a vedere cose tali, quanto degli usi alle buone, perché le cose che si vedevano fatte, parevano nulla al paragone delle sue. Le quali cose destarono al cardinale di San Dionigi, chiamato il cardinale Rovano franzese, disiderio di lasciar per mezzo di sì raro artefice qualche degna memoria di sé in così famosa città, e gli fé fare una Pietà di marmo tutta tonda, la quale finita fu messa in San Pietro nella cappella della Vergine Maria della Febbre nel tempio di Marte. Alla quale opera non pensi mai scultore, né artefice raro potere aggiugnere di disegno, né di grazia, né con fatica poter mai di finezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelagnolo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell'arte. Fra le cose belle vi sono, oltra i panni divini suoi si scorge il morto Cristo, e non si pensi alcuno di bellezza di membra e d'artificio di corpo vedere uno ignudo tanto ben ricerco di muscoli, vene, nerbi, sopra l'ossatura di quel corpo, né ancora un morto più simile al morto di quello. Quivi è dolcissima aria di testa, et una concordanza nelle appiccature e congiunture delle braccia et in quelle del corpo e delle gambe, i polsi e le vene lavorate, che invero si maraviglia lo stupore che mano d'artefice abbia potuto sì divinamente e propriamente fare in pochissimo tempo cosa sì mirabile; che certo è un miracolo che un sasso da principio senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezzione che la natura a fatica suol formar nella carne. Poté l'amor di Michelagnolo e la fatica insieme in questa opera tanto, che quivi (quello che in altra opera più non fece) lasciò il suo nome scritto attraverso in una cintola che il petto della Nostra Donna soccigne: nascendo che un giorno Michelagnolo entrando drento dove l'è posta vi trovò gran numero di forestieri lombardi che la lodavano molto, un de' quali domandò a un di quegli chi l'aveva fatta, rispose: "Il Gobbo nostro da Milano". Michelagnolo stette cheto e quasi gli parve strano che le sue fatiche fussino attribuite a un altro; una notte vi si serrò drento e con un lumicino, avendo portato gli scarpegli, vi intagliò il suo nome. Et è veramente tale, che come a vera figura e viva, disse un bellissimo spirito:


Bellezza et onestate,

e doglia e pièta in vivo marmo morte,

deh, come voi pur fate,

non piangete sì forte,

che anzi tempo risveglisi da morte,

e pur, mal grado suo,

nostro Signore e tuo

sposo, figliuolo e padre,

unica sposa sua figliuola e madre.


Laonde egli n'acquistò grandissima fama. E se bene alcuni, anzi goffi che no, dicono che egli abbia fatto la Nostra Donna troppo giovane, non s'accorgono e non sanno eglino che le persone vergini senza essere contaminate si mantengano e conservano l'aria del viso loro gran tempo, senza alcuna macchia, e che gli afflitti come fu Cristo fanno il contrario? Onde tal cosa accrebbe assai più gloria e fama alla virtù sua che tutte l'altre dinanzi.

Gli fu scritto di Fiorenza d'alcuni amici suoi che venisse, perché non era fuor di proposito che di quel marmo che era nell'Opera guasto, il quale Pier Soderini fatto gonfaloniere a vita allora di quella città aveva avuto ragionamento molte volte di farlo condurre a Lionardo da Vinci, et era allora in pratica di darlo a maestro Andrea Contucci dal Monte San Savino eccellente scultore, che cercava di averlo; e Michelagnolo, quantunque fussi dificile a cavarne una figura intera senza pezzi, al che fare non bastava a quegl'altri l'animo di non finirlo senza pezzi, salvo che a lui, e ne aveva avuto desiderio molti anni innanzi, venuto in Fiorenza tentò di averlo.

Era questo marmo di braccia nove, nel quale per mala sorte un maestro Simone da Fiesole aveva cominciato un gigante, e sì mal concio era quella opera, che lo aveva bucato fra le gambe e tutto mal condotto e storpiato: di modo che gli Operai di Santa Maria del Fiore, che sopra tal cosa erano, senza curar di finirlo, l'avevano posto in abandono e già molti anni era così stato et era tuttavia per istare. Squadrollo Michelagnolo di nuovo, et esaminando potersi una ragionevole figura di quel sasso cavare et accomodandosi con l'attitudine al sasso ch'era rimasto storpiato da maestro Simone, si risolse di chiederlo agli Operai et al Soderini, dai quali per cosa inutile gli fu conceduto, pensando che ogni cosa che se ne facesse, fusse migliore che lo essere nel quale allora si ritrovava, perché né spezzato, né in quel modo concio, utile alcuno alla Fabrica non faceva. Laonde Michelagnolo fatto un modello di cera finse in quello per la insegna del palazzo un Davit giovane, con una frombola in mano, acciò che, sì come egli aveva difeso il suo popolo e governatolo con giustizia, così chi governava quella città dovesse animosamente difenderla e giustamente governarla: e lo cominciò nell'Opera di Santa Maria del Fiore, nella quale fece una turata fra muro e tavole et il marmo circondato, e quello di continuo lavorando senza che nessuno il vedesse, a ultima perfezzione lo condusse. Era il marmo già da maestro Simone storpiato e guasto, e non era in alcuni luoghi tanto che alla volontà di Michelagnolo bastasse per quel che averebbe voluto fare: egli fece che rimasero in esso delle prime scarpellate di maestro Simone, nella estremità del marmo, delle quali ancora se ne vede alcuna. E certo fu miracolo quello di Michelagnolo far risuscitare uno che era morto.

Era questa statua quando finita fu, ridotta in tal termine che varie furono le dispute che si fecero per condurla in piazza de' Signori. Per che Giuliano da S. Gallo et Antonio suo fratello fecero un castello di legname fortissimo e quella figura con i canapi sospesero a quello, acciò che scotendosi non si troncasse, anzi venisse crollandosi sempre, e con le travi per terra piane con argani la tirorono e la missero in opera. Fece un cappio al canapo che teneva sospesa la figura facilissimo a scorrere, e stringeva quanto il peso l'agravava, che è cosa bellissima et ingegnosa che l'ho nel nostro libro disegnato di man sua, che è mirabile, sicuro e forte per legar pesi. Nacque in questo mentre, che vistolo su Pier Soderini, il quale piaciutogli assai, et in quel mentre che lo ritoccava in certi luoghi, disse a Michelagnolo che gli pareva che il naso di quella figura fussi grosso. Michelagnolo accortosi che era sotto al gigante il gonfalonieri e che la vista non lo lasciava scorgere il vero, per satisfarlo salì in sul ponte, che era accanto alle spalle, e preso Michelagnolo con prestezza uno scarpello nella man manca con un poco di polvere di marmo che era sopra le tavole del ponte, e cominciato a gettare leggieri con li scarpegli, lasciava cadere a poco a poco la polvere, né toccò il naso da quel che era. Poi guardato a basso al gonfalonieri, che stava a vedere, disse: "Guardatelo ora". "A me mi piace più", disse il gonfalonieri, "gli avete dato la vita." Così scese Michelagnolo, e lo avere contento quel signore che se ne rise da sé Michelagnolo avendo compassione a coloro che per parere d'intendersi non sanno quel che si dicano; et egli, quando ella fu murata e finita la discoperse, e veramente che questa opera ha tolto il grido a tutte le statue moderne et antiche, o greche, o latine che elle si fussero, e si può dire che né 'l Marforio di Roma né il Tevere o il Nilo di Belvedere o i giganti di Monte Cavallo le sian simili in conto alcuno, con tanta misura e bellezza e con tanta bontà la finì Michelagnolo. Perché in essa sono contorni di gambe bellissime et appiccature e sveltezza di fianchi divine; né ma' più s'è veduto un posamento sì dolce né grazia che tal cosa pareggi, né piedi, né mani, né testa che a ogni suo membro di bontà d'artificio e di parità, né di disegno s'accordi tanto. E certo chi vede questa non dee curarsi di vedere altra opera di scultura fatta nei nostri tempi o negli altri da qual si voglia artefice. N'ebbe Michelagnolo da Pier Soderini per sua mercede scudi quattrocento, e fu rizzata l'anno 1504, e per la fama che per questo acquistò nella scultura fece al sopra detto gonfalonieri un Davit di bronzo bellissimo, il quale egli mandò in Francia; et ancora in questo tempo abbozzò e non finì due tondi di marmo, uno a Taddeo Taddei, oggi in casa sua, et a Bartolomeo Pitti ne cominciò un altro, il quale da fra' Miniato Pitti di Monte Oliveto, intendente e raro nella cosmografia et in molte scienzie e particolarmente nella pittura, fu donata a Luigi Guicciardini che gl'era grande amico; le quali opere furono tenute egregie e mirabili. Et in questo tempo ancora abbozzò una statua di marmo di San Matteo nell'Opera di Santa Maria del Fiore, la quale statua così abbozzata mostra la sua perfezzione et insegna agli scultori in che maniera si cavano le figure de' marmi senza che venghino storpiate, per potere sempre guadagnare col giudizio levando del marmo et avervi da potersi ritrarre e mutare qualcosa, come accade se bisognassi. Fece ancora di bronzo una Nostra Donna in un tondo che lo gettò di bronzo a requisizione di certi mercatanti fiandresi de' Moscheroni, persone nobilissime ne' paesi loro, che pagatogli scudi cento la mandassero in Fiandra.

Venne volontà ad Agnolo Doni, cittadino fiorentino amico suo, sì come quello che molto si dilettava aver cose belle così d'antichi come di moderni artefici, d'avere alcuna cosa di Michelagnolo; per che gli cominciò un tondo di pittura, dentrovi una Nostra Donna, la quale inginochiata con amendua le gambe, ha in sulle braccia un putto e porgelo a Giuseppo che lo riceve; dove Michelagnolo fa conoscere nello svoltare della testa della madre di Cristo e nel tenere gli occhi fissi nella somma bellezza del figliuolo, la maravigliosa sua contentezza e lo affetto del farne parte a quel santissimo vecchio, il quale con pari amore, tenerezza e reverenza lo piglia, come benissimo si scorge nel volto suo senza molto considerarlo. Né bastando questo a Michelagnolo, per mostrare maggiormente l'arte sua essere grandissima, fece nel campo di questa opera molti ignudi appoggiati, ritti et a sedere, e con tanta diligenza e pulitezza lavorò questa opera che certamente delle sue pitture in tavola, ancora che poche sieno, è tenuta la più finita e la più bella opera che si truovi. Finita che ella fu, la mandò a casa Agnolo, coperta, per un mandato insieme con una polizza, e chiedeva settanta ducati per suo pagamento. Parve strano ad Agnolo, che era assegnata persona, spendere tanto in una pittura, se bene e' conoscesse che più valesse, e disse al mandato che bastavano quaranta, e gliene diede; onde Michelagnolo gli rimandò indietro, mandandogli a dire che cento ducati o la pittura gli rimandasse indietro. Per il che Agnolo, a cui l'opera piaceva, disse: "Io gli darò quei settanta". Et egli non fu contento, anzi per la poca fede d'Agnolo ne volle il doppio di quel che la prima volta ne aveva chiesto; per che se Agnolo volse la pittura, fu forzato mandargli centoquaranta.

Avvenne che dipignendo Lionardo da Vinci pittore rarissimo nella sala grande del Consiglio, come nella vita sua è narrato, Piero Soderini, allora gonfaloniere, per la gran virtù che egli vidde in Michelagnolo, gli fece allogagione d'una parte di quella sala: onde fu cagione che egli facesse a concorrenza di Lionardo l'altra facciata, nella quale egli prese per subietto la guerra di Pisa. Per il che Michelagnolo ebbe una stanza nello spedale de' Tintori a Santo Onofrio, e quivi cominciò un grandissimo cartone, né però volse mai che altri lo vedesse. E lo empié di ignudi che bagnandosi per lo caldo nel fiume d'Arno, in quello stante si dava a l'arme nel campo fingendo che gli inimici li assalissero, e mentre che fuor delle acque uscivano per vestirsi i soldati, si vedeva dalle divine mani di Michelagnolo chi affrettare lo armarsi per dare aiuto a' compagni, altri affibbiarsi la corazza, e molti mettersi altre armi in dosso, et infiniti combattendo a cavallo cominciare la zuffa. Eravi fra l'altre figure un vecchio che aveva in testa per farsi ombra una grillanda di ellera, il quale postosi a sedere per mettersi le calze e non potevano entrargli per aver le gambe umide dell'acqua, e sentendo il tumulto de' soldati e le grida et i romori de' tamburini affrettando tirava per forza una calza; et oltra che tutti i muscoli e' nervi della figura si vedevano, faceva uno storcimento di bocca per il quale dimostrava assai quanto e' pativa e che egli si adoperava fin alle punte de' piedi. Eranvi tamburini ancora e figure che coi panni avvolti ignudi correvano verso la baruffa; e di stravaganti attitudini si scorgeva chi ritto, chi ginocchioni o piegato o sospeso a giacere, et in aria attaccati con iscorti difficili. V'erano ancora molte figure aggruppate et in varie maniere abbozzate, chi contornato di carbone, chi disegnato di tratti e chi sfumato e con biacca lumeggiati, volendo egli mostrare quanto sapesse in tale professione. Per il che gli artefici stupiti et ammirati restorono, vedendo l'estremità dell'arte in tal carta per Michelagnolo mostrata loro. Onde, veduto sì divine figure, dicono, alcuni che le viddero, di man sua e d'altri ancora non essere mai più veduto cosa che della divinità dell'arte nessuno altro ingegno possa arrivarla mai. E certamente è da credere, perciò che da poi che fu finito e portato alla sala del papa con gran romore dell'arte e grandissima gloria di Michelagnolo, tutti coloro che su quel cartone studiarono e tal cosa disegnarono, come poi si seguitò molti anni in Fiorenza per forestieri e per terrazzani, diventarono persone in tale arte eccellenti, come vedemo: poiché in tale cartone studiò Aristotile da S. Gallo amico suo, Ridolfo Ghirlandaio, Raffael Sanzio da Urbino, Francesco Granaccio, Baccio Bandinelli et Alonso Berugetta spagnuolo; seguitò Andrea del Sarto, il Francia Bigio, Iacopo Sansovino, il Rosso, Maturino, Lorenzetto, el Tribolo allora fanciullo, Iacopo da Puntormo e Pierin del Vaga, i quali tutti ottimi maestri fiorentini furono; per il che essendo questo cartone diventato uno studio d'artefici, fu condotto in casa Medici nella sala grande di sopra, e tal cosa fu cagione che egli troppo a securtà nelle mani degli artefici fu messo: per che nella infermità del duca Giuliano, mentre nessuno badava a tal cosa, fu come s'è detto altrove stracciato, et in molti pezzi diviso, tal che in molti luoghi se n'è sparto, come ne fanno fede alcuni pezzi che si veggono ancora in Mantova in casa di Messer Uberto Strozzi gentiluomo mantovano, i quali con riverenza grande son tenuti. E certo che a vedere e' son più tosto cosa divina che umana.

Era talmente la fama di Michelagnolo per la Pietà fatta, per il gigante di Fiorenza e per il cartone nota, che essendo venuto l'anno 1503 la morte di papa Alessandro VI e creato Giulio Secondo, che allora Michelagnolo era di anni ventinove incirca, fu chiamato con gran suo favore da Giulio II per fargli fare la sepoltura sua, e per suo viatico gli fu pagato scudi cento da' suoi oratori. Dove condottosi a Roma, passò molti mesi innanzi che gli facessi mettere mano a cosa alcuna. Finalmente si risolvette a un disegno che aveva fatto per tal sepoltura, ottimo testimonio della virtù di Michelagnolo, che di bellezza e di superbia e di grande ornamento e ricchezza di statue passava ogni antica et imperiale sepoltura. Onde cresciuto lo animo a papa Giulio, fu cagione che si risolvé a mettere mano a rifare di nuovo la chiesa di S. Piero di Roma per mettercela drento, come s'è detto altrove. Così Michelagnolo si misse al lavoro con grande animo: e per dargli principio, andò a Carrara a cavare tutti i marmi con dua suoi garzoni, et in Fiorenza da Alamanno Salviati ebbe a quel conto scudi mille, dove consumò in que' monti otto mesi senza altri danari o provisioni, dove ebbe molti capricci di fare in quelle cave, per lasciar memoria di sé, come già avevano fatto gli antichi, statue grandi, invitato da que' massi. Scelto poi la quantità de' marmi et fattoli caricare alla marina e di poi condotti a Roma, empierono la metà della piazza di S. Piero intorno a Santa Caterina e fra la chiesa e 'l corridore che va a Castello, nel qual luogo Michelagnolo aveva fatto la stanza da lavorar le figure et il resto della sepoltura; e perché comodamente potessi venire a vedere lavorare, il Papa aveva fatto fare un ponte levatoio dal corridore alla stanza, e per ciò molto famigliare se l'era fatto, che col tempo questi favori gli dettono gran noia e persecuzione, e gli generorono molta invidia fra gli artefici suoi. Di quest'opera condusse Michelagnolo, vivente Giulio e dopo la morte sua, quattro statue finite et otto abbozzate, come si dirà al suo luogo, e perché questa opera fu ordinata con grandissima invenzione qui di sotto narreremo l'ordine che egli pigliò. E perché ella dovessi mostrare maggior grandezza volse che ella fussi isolata da poterla vedere da tutt'a quattro le faccie, che in ciascuna era per un verso braccia dodici e per l'altre due braccia diciotto, tanto che la proporzione era un quadro e mezzo. Aveva un ordine di nicchie di fuori a torno a torno, le quali erano tramezzate da termini vestiti dal mezzo in su, che con la testa tenevano la prima cornice, e ciascuno termine con strana e bizzarra attitudine ha legato un prigione ignudo, il qual posava coi piedi in un risalto d'un basamento. Questi prigioni erano tutte le provincie soggiogate da questo Pontefice e fatte obediente alla Chiesa apostolica; et altre statue diverse pur legate erano tutte le virtù et arte ingegnose, che mostravano esser sottoposte alla morte non meno che si fussi quel Pontefice che sì onoratamente le adoperava. Su' canti della prima cornice andava quattro figure grandi: la Vita attiva e la contemplativa, e S. Paulo e Moisè. Ascendeva l'opera sopra la cornice in gradi diminuendo con un fregio di storie di bronzo e con altre figure e putti et ornamenti a torno, e sopra era per fine due figure, che una era il Cielo, che ridendo sosteneva in sulle spalle una bara insieme con Cibele dea della terra, [e] pareva che si dolessi che ella rimanessi al mondo priva d'ogni virtù per la morte di questo uomo, et il Cielo pareva che ridessi che l'anima sua era passata alla gloria celeste. Era accomodato che s'entrava et usciva per le teste della quadratura dell'opera nel mezzo delle nicchie, e drento era caminando a uso di tempio in forma ovale, nel quale aveva nel mezzo la cassa, dove aveva a porsi il corpo morto di quel Papa; e finalmente vi andava in tutta quest'opera quaranta statue di marmo senza l'altre storie, putti et ornamenti e tutte intagliate le cornici e gli altri membri dell'opera d'architettura. Et ordinò Michelagnolo per più facilità che una parte de' marmi gli fussin portati a Fiorenza, dove egli disegnava tal volta farvi la state per fuggire la mala aria di Roma, dove in più pezzi ne condusse di quest'opera una faccia di tutto punto, e di suo mano finì in Roma due prigioni a fatto cosa divina, et altre statue che non s'è mai visto meglio, che non si messono altrimenti in opera (ché furono da lui donati detti prigioni al signor Ruberto Strozzi per trovarsi Michelagnolo malato in casa sua, che furono mandati poi a donare al re Francesco, e' quali sono oggi a Cevan in Francia); et otto statue abozzò in Roma parimente, et a Fiorenza ne abozzò cinque, e finì una Vittoria con un prigion sotto, qual sono oggi appresso del duca Cosimo, stati donati da Lionardo suo nipote a sua eccellenza, che la Vittoria l'ha messa nella sala grande del suo palazzo, dipinta dal Vasari. Finì il Moisè di cinque braccia di marmo, alla quale statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e delle antiche ancora si può dire il medesimo, avvenga che egli con gravissima attitudine sedendo, posa un braccio in sulle tavole che egli tiene con una mano, e con l'altra si tiene la barba, la quale nel marmo svellata e lunga è condotta di sorte, che i capegli, dove ha tanta dificultà la scultura, son condotti sottilissimamente piumosi, morbidi e sfilati d'una maniera, che pare impossibile che il ferro sia diventato pennello; et inoltre alla bellezza della faccia, che ha certo aria di vero Santo e terribilissimo principe, pare che mentre lo guardi abbia voglia di chiedergli il velo per coprirgli la faccia, tanto splendida e tanto lucida appare altrui. Et ha sì bene ritratto nel marmo la divinità che Dio aveva messo nel santissimo volto di quello, oltreché vi sono i panni straforati e finiti con bellissimo girar di lembi, e le braccia di muscoli, e le mane di ossature, e' nervi sono a tanta bellezza e perfezzione condotte, e le gambe appresso, e le ginocchia, et i piedi sotto di sì fatti calzari accomodati, et è finito talmente ogni lavoro suo che Moisè può più oggi che mai chiamarsi amico di Dio, poiché tanto innanzi agli altri ha voluto mettere insieme e preparargli il corpo per la sua ressurrezione, per le mani di Michelagnolo; e seguitino gli ebrei di andare, come fanno ogni sabato, a schiera, e maschi e femine, come gli storni a visitarlo et adorarlo: che non cosa umana, ma divina adoreranno.

Dove finalmente pervenne allo accordo e fine di questa opera, la quale delle quattro parti se ne murò poi in San Piero in Vincola una delle minori. Dicesi che mentre che Michelagnolo faceva questa opera, venne a Ripa tutto il restante de' marmi per detta sepoltura che erano rimasti a Carrara, e' quali fur fatti condurre cogl'altri sopra la piazza di San Pietro, e perché bisognava pagarli a chi gli aveva condotti, andò Michelagnolo come era solito al Papa; ma avendo Sua Santità in quel dì cosa che gli importava per le cose di Bologna, tornò a casa e pagò di suo detti marmi pensando averne l'ordine subito da Sua Santità. Tornò un altro giorno per parlarne al Papa, e trovato dificultà a entrare, perché un palafreniere gli disse che avessi pazienzia, che aveva commessione di non metterlo drento, fu detto da un vescovo al palafreniere: "Tu non conosci forse questo uomo". "Troppo ben lo conosco", disse il palafrenieri, "ma io son qui per far quel che m'è commesso da' miei superiori e dal Papa". Dispiacque questo atto a Michelagnolo, e parendogli il contrario di quello che aveva provato innanzi, sdegnato rispose al palafrenieri del Papa, che gli dicessi che da qui innanzi quando lo cercava Sua Santità essere ito altrove, e tornato alla stanza a due ore di notte montò in sulle poste lasciando a due servitori che vendessino tutte le cose di casa ai giudei e lo seguitassero a Fiorenza dove egli s'era avviato. Et arrivato a Poggibonzi, luogo sul fiorentino, sicuro si fermò, né andò guari che cinque corrieri arrivorono con le lettere del Papa per menarlo indietro, che né per preghi, né per la lettera che gli comandava che tornasse a Roma sotto pena della sua disgrazia, al che fare non volse intendere niente: ma i prieghi de' corrieri finalmente lo svolsono a scrivere due parole in risposta a Sua Santità, che gli perdonassi che non era per tornare più alla presenzia sua, poiché l'aveva fatto cacciare via come un tristo, e che la sua fedel servitù non meritava questo, e che si provedessi altrove di chi lo servissi.

Arrivato Michelagnolo a Fiorenza, attese a finire in tre mesi che vi stette il cartone della sala grande, che Pier Soderini gonfaloniere desiderava che lo mettessi in opera. Imperò venne alla Signoria in quel tempo tre brevi che dovessino rimandare Michelagnolo a Roma; per il che egli veduto questa furia del Papa, dubitando di lui ebbe, secondo che si dice, voglia di andarsene in Gostantinopoli a servire il Turco per mezzo di certi frati di San Francesco, che desiderava averlo per fare un ponte che passassi da Gostantinopoli a Pera. Pure, persuaso da Pier Soderini allo andare a trovare il Papa, ancor che non volessi, come persona publica per assicurarlo con titolo d'imbasciadore della città, finalmente lo raccomandò al cardinale Soderini suo fratello, che lo introducessi al Papa, [e] lo inviò a Bologna dove era già di Roma venuto Sua Santità. Dicesi ancora in altro modo questa sua partita di Roma: che il Papa si sdegnassi con Michelagnolo, il quale non voleva lasciar vedere nessuna delle sue cose, e che avendo sospetto de' suoi dubitando come fu più d'una volta che vedde quel che faceva travestito a certe occasioni che Michelagnolo non era in casa o al lavoro, e perché corrompendo una volta i suo' garzoni con danari per entrare a vedere la cappella di Sisto suo zio, che gli fé dipignere come si disse poco innanzi, e che nascostosi Michelagnolo una volta perché egli dubitava del tradimento de' garzoni, tirò con tavole nell'entrare il Papa in cappella, che non pensando chi fussi, lo fece tornare fuora a furia. Basta che o nell'uno modo o nell'altro, egli ebbe sdegno col Papa, e poi paura, che se gli ebbe a levar dinanzi.

Così arrivato in Bologna, né prima trattosi gli stivali che fu da' famigliari del Papa condotto da Sua Santità, che era nel palazzo de' Sedici, accompagnato da uno vescovo del cardinale Soderini, perché essendo malato il cardinale non poté andargli; et arrivati dinanzi al Papa, inginocchiatosi Michelagnolo, lo guardò Sua Santità a traverso e come sdegnato, e gli disse: "In cambio di venire tu a trovare noi, tu hai aspettato che venghiamo a trovar te?", volendo inferire che Bologna è più vicina a Fiorenza che Roma. Michelagnolo con le mani cortese et a voce alta gli chiese umilmente perdono, scusandosi che quel che aveva fatto era stato per isdegno, non potendo sopportare d'essere cacciato così via, e che avendo errato di nuovo gli perdonassi. Il vescovo che aveva al Papa offerto Michelagnolo, scusandolo diceva a Sua Santità che tali uomini sono ignoranti e che da quell'arte in fuora non valevano in altro, e che volentieri gli perdonassi. Al Papa venne còllora, e con una mazza che avea rifrustò il vescovo dicendogli: "Ignorante sei tu che gli di' villania, che non gliene diciàn noi". Così dal palafrenieri fu spinto fuori il vescovo con frugoni, e partito, et il Papa sfogato la còllora sopra di lui, benedì Michelagnolo, il quale con doni e speranze fu trattenuto in Bologna tanto, che Sua Santità gli ordinò che dovessi fare una statua di bronzo a similitudine di papa Giulio, cinque braccia d'altezza; nella quale usò arte bellissima nella attitudine, perché nel tutto avea maestà e grandezza, e ne' panni mostrava ricchezza e magnificenza, e nel viso animo, forza, prontezza e terribilità. Questa fu posta in una nicchia sopra la porta di San Petronio. Dicesi che mentre Michelagnolo la lavorava, vi capitò il Francia orefice e pittore eccellentissimo per volerla vedere, avendo tanto sentito delle lodi e della fama di lui e delle opere sue, e non avendone vedute alcuna. Furono adunque messi mezzani, perché vedesse questa, e n'ebbe grazia. Onde veggendo egli l'artificio di Michelagnolo, stupì; per il che fu da lui dimandato che gli pareva di quella figura, rispose il Francia che era un bellissimo getto et una bella materia. Là dove parendo a Michelagnolo che egli avessi lodato più il bronzo che l'artifizio, disse: "Io ho quel medesimo obligo a papa Giulio che me l'ha data, che voi agli speziali che vi danno i colori per dipignere", e con còllora in presenza di que' gentiluomini disse che egli era un goffo. E di questo proposito medesimo venendogli innanzi un figliuolo del Francia su detto, che era molto bel giovanetto, gli disse: "Tuo padre fa più belle figure vive che dipinte".

Fra i medesimi gentiluomini fu uno non so chi, che dimandò a Michelagnolo qual credeva che fussi maggiore, o la statua di quel Papa, o un par di bo', et ei rispose: "Secondo che buoi, se di questi bolognesi, oh! senza dubio son minori i nostri da Fiorenza". Condusse Michelagnolo questa statua finita di terra innanzi che 'l Papa partissi di Bologna per Roma; et andato Sua Santità a vedere, né sapeva che se gli porre nella man sinistra alzando la destra con un atto fiero, che 'l Papa dimandò s'ella dava la benedizione o la maladizione. Rispose Michelagnolo che l'annunziava il popolo di Bologna, perché fussi savio; e richiesto Sua Santità di parere se dovessi porre un libro nella sinistra, gli disse: "Mettivi una spada, che io non so lettere". Lasciò il Papa in sul banco di Messer Antonmaria da Lignano scudi mille per finirla, la quale fu poi posta nel fine di sedici mesi che penò a condurla, nel frontespizio della chiesa di San Petronio nella facciata dinanzi, come si è detto, e della sua grandezza s'è detto. Questa statua fu rovinata da' Bentivogli, e 'l bronzo di quella venduto al duca Alfonso di Ferrara, che ne fece una artiglieria chiamata la Giulia, salvo la testa, la quale si trova nella sua guardaroba.

Mentre che 'l Papa se n'era tornato a Roma e che Michelagnolo aveva condotto questa statua, nella assenzia di Michelagnolo, Bramante, amico e parente di Raffaello da Urbino, e per questo rispetto poco amico di Michelagnolo, vedendo che il Papa favoriva et ingrandiva l'opere che faceva di scoltura, andaron pensando di levargli dell'animo, che tornando Michelagnolo, Sua Santità non facessi attendere a finire la sepoltura sua, dicendo che pareva uno affrettarsi la morte et augurio cattivo il farsi in vita il sepolcro, e' lo persuasono a far che nel ritorno di Michelagnolo Sua Santità, per memoria di Sisto suo zio, gli dovessi far dipignere la volta della cappella che egli aveva fatta in palazzo, et in questo modo pareva a Bramante et altri emuli di Michelagnolo di ritrarlo dalla scoltura ove lo vedeva perfetto, e metterlo in disperazione, pensando col farlo dipignere che dovessi fare, per non avere sperimento ne' colori a fresco, opera men lodata, e che dovessi riuscire da meno che Raffaello; e caso pure che e' riuscissi il farlo, el facessi sdegnare per ogni modo col Papa, dove ne avessi a seguire, o nell'uno modo o nell'altro, l'intento loro di levarselo dinanzi. Così ritornato Michelagnolo a Roma e stando in proposito il Papa di non finire per allora la sua sepoltura, lo ricercò che dipignessi la volta della cappella. Il che Michelagnolo, che desiderava finire la sepoltura e parendogli la volta di quella cappella lavor grande e dificile, e considerando la poca pratica sua ne' colori, cercò con ogni via di scaricarsi questo peso da dosso, mettendo perciò innanzi Raffaello. Ma tanto quanto più ricusava, tanto maggior voglia ne cresceva al Papa, impetuoso nelle sue imprese, e per arroto di nuovo dagli emuli di Michelagnolo stimolato, e spezialmente da Bramante, che quasi il Papa, che era sùbito, si fu per adirare con Michelagnolo. Là dove visto che perseverava Sua Santità in questo, si risolvé a farla, et a Bramante comandò il Papa che facessi per poterla dipignere il palco: dove lo fece impiccato tutto sopra canapi, bucando la volta; il che da Michelagnolo visto dimandò Bramante come egli avea a fare, finito che avea di dipignerla, a riturare i buchi; il quale disse: "E' vi si penserà poi", e che non si poteva fare altrimenti. Conobbe Michelagnolo che o Bramante in questo valeva poco, o che egl'era poco amico, e se ne andò dal Papa e gli disse che quel ponte non stava bene, e che Bramante non l'aveva saputo fare; il quale gli rispose in presenzia di Bramante che lo facessi a modo suo. Così ordinò di farlo sopra i sorgozoni che non toccassi il muro, che fu il modo che ha insegnato poi et a Bramante et agli altri di armare le volte e fare molte buone opere. Dove egli fece avanzare a un povero uomo legnaiuolo che lo rifece tanto di canapi, che vendutogli avanzò la dote per una sua figliuola, donandogliene Michelagnolo. Per il che messo mano a fare i cartoni di detta volta, dove volse ancora il Papa che si guastassi le facciate che avevano già dipinto al tempo di Sisto i maestri innanzi a lui, e fermò che per tutto il costo di questa opera avessi quindici mila ducati, il quale prezzo fu fatto per Giuliano da San Gallo. Per il che sforzato Michelagnolo dalla grandezza della impresa a risolversi di volere pigliare aiuto, e mandato a Fiorenza per uomini e deliberato mostrare in tal cosa che quei che prima v'avevano dipinto dovevano essere prigioni delle fatiche sue, volse ancora mostrare agli artefici moderni come si disegna e dipigne. Laonde il suggetto della cosa lo spinse a andare tanto alto per la fama e per la salute dell'arte, che cominciò e finì i cartoni, e quella volendo poi colorire a fresco e non avendo fatto più, vennero da Fiorenza in Roma alcuni amici suoi pittori, perché a tal cosa gli porgessero aiuto et ancora per vedere il modo del lavorare a fresco da loro, nel qual v'erano alcuni pratichi, fra i quali furono il Granaccio, Giulian Bugiardini, Iacopo di Sandro, l'Indaco vecchio, Agnolo di Domenico et Aristotile, e dato principio all'opera, fece loro cominciare alcune cose per saggio. Ma veduto le fatiche loro molto lontane dal desiderio suo e non sodisfacendogli, una mattina si risolse gettare a terra ogni cosa che avevano fatto. E rinchiusosi nella cappella non volse mai aprir loro, né manco in casa, dove era, da essi si lasciò vedere. E così da la beffa, la quale pareva loro che troppo durasse, presero partito, e con vergogna se ne tornarono a Fiorenza. Laonde Michelagnolo, preso ordine di far da sé tutta quella opera, a bonissimo termine la ridusse con ogni sollecitudine di fatica e di studio; né mai si lasciava vedere per non dare cagione che tal cosa s'avesse a mostrare; onde negli animi delle genti nasceva ogni dì maggior desiderio di vederla.

Era papa Giulio molto desideroso di vedere le imprese che e' faceva, per il che di questa che gli era nascosa venne in grandissimo desiderio; onde volse un giorno andare a vederla e non gli fu aperto, ché Michelagnolo non averebbe voluto mostrarla. Per la qual cosa nacque il disordine, come s'è ragionato, che s'ebbe a partire di Roma, non volendo mostrarla al Papa; che secondo che io intesi da lui per chiarir questo dubbio, quando e' ne fu condotta il terzo, la gli cominciò a levare certe muffe traendo tramontano una invernata. Ciò fu cagione che la calce di Roma, per essere bianca fatta di trevertino, non secca così presto, e mescolata con la pozzolana, che è di color tanè, fa una mestica scura, e quando l'è liquida, aquosa, e che 'l muro è bagnato bene, fiorisce spesso nel seccarsi; dove che in molti luoghi sputava quello salso umore fiorito, ma col tempo l'aria lo consumava. Era di questa cosa disperato Michelagnolo, né voleva seguitare più, e scusandosi col Papa che quel lavoro non gli riusciva, ci mandò Sua Santità Giuliano da San Gallo, che dettogli da che veniva il difetto, lo confortò a seguitare e gli insegnò a levare le muffe. Là dove condottola fino alla metà, il Papa, che v'era poi andato a vedere alcune volte per certe scale a piuoli aiutato da Michelagnolo, volse che ella si scoprissi, perché era di natura frettoloso et impaziente, e non poteva aspettare ch'ella fussi perfetta et avessi avuto, come si dice, l'ultima mano.

Trasse subito che fu scoperta tutta Roma a vedere, et il Papa fu il primo, non avendo pazienzia che abassassi la polvere per il disfare de' palchi. Dove Raffaello da Urbino, che era molto eccellente in imitare, vistola mutò subito maniera, e fece a un tratto per mostrare la virtù sua i Profeti e le Sibille dell'opera della Pace, e Bramante allora tentò che l'altra metà della cappella si desse dal Papa a Raffaello. Il che inteso Michelagnolo si dolse di Bramante e disse al Papa senza avergli rispetto molti difetti, e della vita, e delle opere sue d'architettura, che come s'è visto poi, Michelagnolo nella fabbrica di San Piero n'è stato correttore. Ma il Papa, conoscendo ogni giorno più la virtù di Michelagnolo, volse che seguitasse, e veduto l'opera scoperta, giudicò che Michelagnolo l'altra metà la poteva migliorare assai. E così del tutto condusse alla fine perfettamente in venti mesi da sé solo quell'opera senza aiuto pure di chi gli macinassi i colori. Èssi Michelagnolo doluto talvolta che per la fretta che li faceva il Papa e' non la potessi finire come arebbe voluto a modo suo, dimandandogli il Papa importunamente quando e' finirebbe; dove una volta fra l'altre gli rispose che ella sarebbe finita "quando io arò satisfatto a me nelle cose dell'arte": "E noi vogliamo", rispose il Papa, "che satisfacciate a noi nella voglia che aviamo di farla presto"; gli conchiuse finalmente che se non la finiva presto, che lo farebbe gettare giù da quel palco. Dove Michelagnolo, che temeva et aveva da temere la furia del Papa, finì subito senza metter tempo in mezzo quel che ci mancava; e disfatto il resto del palco, la scoperse la mattina d'Ognisanti che 'l Papa andò in cappella a cantare la messa, con satisfazione di tutta quella città. Desiderava Michelagnolo ritoccare alcune cose a secco, come avevon fatto que' maestri vecchi nelle storie di sotto, certi campi, e panni, et arie di azzurro oltramarino, et ornamenti d'oro in qualche luogo, acciò gli desse più ricchezza e maggior vista; per che avendo inteso il Papa che ci mancava ancor questo, desiderava, sentendola lodar tanto da chi l'aveva vista, che la fornissi, ma perché era troppo lunga cosa a Michelagnolo rifare il palco, restò pur così. Il Papa vedendo spesso Michelagnolo gli diceva: "Che la cappella si arrichisca di colori e d'oro, ché l'è povera". Michelagnolo con domestichezza rispondeva: "Padre Santo, in quel tempo gli uomini non portavano addosso oro, e quegli che son dipinti non furon mai troppo ricchi, ma santi uomini, perch'egli sprezaron le ricchezze". Fu pagato in più volte a Michelagnolo dal Papa a conto di quest'opera tremila scudi, che ne dovette spendere in colori venticinque. Fu condotta questa opera con suo grandissimo disagio dello stare a lavorare col capo all'insù, e talmente aveva guasto la vista, che non poteva leggere lettere né guardar disegni se non all'insù; che gli durò poi parecchi mesi, et io ne posso fare fede, che avendo lavorato cinque stanze in volta per le camere grandi del palazzo del duca Cosimo, se io non avessi fatto una sedia che s'appoggiava la testa e si stava a giacere lavorando, non le conducevo mai, ché mi ha rovinato la vista et indebolito la testa di maniera, che me ne sento ancora e stupisco che Michelagnolo reggessi tanto a quel disagio. Imperò acceso ogni dì più dal desiderio del fare et allo acquisto e miglioramento che fece, non sentiva fatica né curava disagio.

È il partimento di questa opera accomodato con sei peducci per banda et uno nel mezzo delle faccie da' piè e da capo, ne' quali ha fatto di braccia sei di grandezza, drento Sibille e Profeti, e nel mezzo da la Creazione del mondo fino al Diluvio e la inebriazione di Noè, e nelle lunette tutta la Generazione di Gesù Cristo. Nel partimento non ha usato ordine di prospettive che scortino, né v'è veduta ferma, ma è ito accomodando più il partimento alle figure che le figure al partimento, bastando condurre gli ignudi e' vestiti con perfezzione di disegno, che non si può né fare, né s'è fatto mai opera, et a pena con fatica si può imitare il fatto. Questa opera è stata et è veramente la lucerna dell'arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all'arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo, per tante centinaia d'anni in tenebre stato. E nel vero non curi più chi è pittore di vedere novità et invenzioni, e di attitudini, abbigliamenti addosso a figure, modi nuovi d'aria e terribilità di cose variamente dipinte, perché tutta quella perfezzione che si può dare a cosa che in tal magisterio si faccia a questa ha dato. Ma stupisca ora ogni uomo che in quella sa scorger la bontà delle figure, la perfezzione degli scorti, la stupendissima rotondità di contorni, che hanno in sé grazia e sveltezza, girati con quella bella proporzione che nei belli ignudi si vede, ne' quali per mostrar gli stremi e la perfezzione dell'arte, ve ne fece di tutte l'età, diferenti d'aria e di forma così nel viso come ne' lineamenti, di aver più sveltezza e grossezza nelle membra, come ancora si può conoscere nelle bellissime attitudini che diferente[mente] e' fanno sedendo e girando e sostenendo alcuni festoni di foglie di quercia e di ghiande messe per l'arme e per l'impresa di papa Giulio, denotando che a quel tempo et al governo suo era l'età dell'oro, per non essere allora la Italia ne' travagli e nelle miserie che ella è stata poi. Così in mezzo di loro tengono alcune medaglie drentovi storie in bozza e contrafatte in bronzo e d'oro, cavate dal Libro de' Re. Senza che egli per mostrare la perfezzione dell'arte e la grandezza de Dio, fece nelle istorie il suo dividere la luce dalle tenebre, nelle quale si vede la maestà sua che con le braccia aperte si sostiene sopra sé solo e mostra amore insieme et artifizio. Nella seconda fece con bellissima discrezione et ingegno quando Dio fa il sole e la luna, dove è sostenuto da molti putti e mostrasi molto terribile per lo scorto delle braccia e delle gambe. Il medesimo fece nella medesima storia quando benedetto la terra e fatto gli animali, volando si vede in quella volta una figura che scorta, e dove tu camini per la cappella, continuo gira, e si voltan per ogni verso; così nell'altra quando divide l'acqua dalla terra: figure bellissime et acutezze d'ingegno degne solamente d'essere fatte dalle divinissime mani di Michelagnolo. E così seguitò sotto a questo la creazione di Adamo, dove ha figurato Dio portato da un gruppo di Angioli ignudi e di tenera età, i quali par che sostenghino non solo una figura, ma tutto il peso del mondo, apparente tale mediante la venerabilissima maiestà di quello e la maniera del moto, nel quale con un braccio cigne alcuni putti, quasi che egli si sostenga, e con l'altro porge la mano destra a uno Adamo, figurato di bellezza, di attitudine e di dintorni di qualità che e' par fatto di nuovo dal sommo e primo suo creatore più tosto che dal pennello e disegno d'uno uomo tale. Poco di sotto a questa in una altra istoria fé il suo cavar della costa della madre nostra Eva, nella quale si vede quegli ignudi l'un quasi morto per essere prigion del sonno, e l'altra divenuta viva e fatta vigilantissima per la benedizione di Dio. Si conosce dal pennello di questo ingegnosissimo artefice interamente la diferenza che è dal sonno alla vigilanza, e quanto stabile e ferma possa apparire umanamente parlando la maestà divina. Séguitale di sotto come Adamo, alle persuasioni d'una figura mezza donna e mezza serpe, prende la morte sua e nostra nel pomo, e veggonvisi egli et Eva cacciati di Paradiso. Dove nelle figure dell'Angelo appare con grandezza e nobiltà la esecuzione del mandato d'un Signore adirato, e nella attitudine di Adamo il dispiacere del suo peccato, insieme con la paura della morte; come nella femina similmente si conosce la vergogna, la viltà e la voglia del raccomandarsi, mediante il suo restrignersi nelle braccia, giuntar le mani a palme e mettersi il collo in seno; e nel torcer la testa verso l'Angelo, che ella ha più paura della iustizia che speranza nella misericordia divina. Né di minor bellezza è la storia del sacrificio di Caino et Abel, dove sono chi porta le legne e chi soffia chinato nel fuoco et altri che scannono la vittima; la quale certo non è fatta con meno considerazione et accuratezza che le altre. Usò l'arte medesima et il medesimo giudizio nella storia del Diluvio, dove appariscono diverse morti d'uomini, che spaventati dal terror di quei giorni, cercano il più che possono per diverse vie scampo alle lor vite. Perciò che nelle teste di quelle figure, si conosce la vita esser in preda della morte, non meno che la paura, il terrore et il disprezzo d'ogni cosa. Vedevisi la pietà di molti, aiutandosi l'un l'altro tirarsi al sommo d'un sasso cercando scampo. Tra' quali vi è uno che abracciato un mezzo morto, cerca il più che può di camparlo, che la natura non lo mostra meglio. Non si può dir quanto sia bene espressa la storia di Noè, quando inebriato dal vino dorme scoperto et ha presenti un figliuolo che se ne ride e due che lo ricuoprono; storia e virtù d'artefice incomparabile e da non poter essere vinta se non da se medesimo. Conciò sia che come se ella per le cose fatte insino allora avessi preso animo, risorse e demostrossi molto maggiore nelle cinque Sibille e ne' sette Profeti fatti qui di grandezza di cinque braccia l'uno e più; dove in tutti sono attitudini varie e bellezza di panni e varietà di vestiri, e tutto insomma con invenzione et iudizio miracoloso, onde a chi distingue gli affetti loro appariscono divini.

Vedesi quel Ieremia con le gambe incrocicchiate, tenersi una mano alla barba posando il gomito sopra il ginocchio, l'altra posar nel grembo et aver la testa chinata d'una maniera che ben dimostra la malinconia, i pensieri, la cogitazione e l'amaritudine che egli ha del suo popolo; così medesimamente due putti, che gli sono dietro; e similmente è nella prima Sibilla di sotto a lui verso la porta, nella quale volendo esprimere la vecchiezza, oltra che egli aviluppandola di panni ha voluto mostrare che già i sangui sono agghiacciati dal tempo, et inoltre nel leggere, per avere la vista già logora, li fa accostare il libro alla vista acutissimamente. Sotto a questa figura è Ezechiel profeta vecchio, il quale ha una grazia e movenzia bellissima et è molto di panni abbigliato, che con una mano tiene un ruotolo di profezie, con l'altra sollevata, voltando la testa mostra voler parlar cose alte e grandi, e dietro ha due putti che gli tengono i libri. Seguita sotto questi una Sibilla, che fa il contrario di Eritrea sibilla che di sopra dicemo, perché tenendo il libro lontano cerca voltare una carta mentre ella con un ginocchio sopra l'altro si ferma in sé, pensando con gravità quel ch'ella de' scrivere, fin che un putto che gli è dietro, soffiando in un stizzon di fuoco gli accende la lucerna. La qual figura è di bellezza straordinaria per l'aria del viso e per la acconciatura del capo e per lo abbigliamento de' panni, oltra ch'ella ha le braccia nude, le quali son come l'altre parti. Fece sotto questa Sibilla Ioel profeta, il quale fermatosi sopra di sé ha preso una carta e quella con ogni intenzione et affetto legge. Dove nell'aspetto si conosce che egli si compiace tanto di quel che e' truova scritto, ch'e' pare una persona viva quando ella ha aplicato molto forte i suoi pensieri a qualche cosa. Similmente pose sopra la porta della cappella il vecchio Zacheria, il quale cercando per il libro scritto d'una cosa che egli non truova sta con una gamba alta e l'altra bassa, e mentre che la furia del cercare quel che non truova lo fa stare così, non si ricorda del disagio che egli in così fatta positura patisce. Questa figura è di bellissimo aspetto per la vecchiezza et è di forma alquanto grossa et ha un panno con poche pieghe, che è bellissimo, oltra che e' vi è un'altra Sibilla, che voltando in verso l'altare dall'altra banda col mostrare alcune scritte, non è meno da lodare coi suoi putti che si siano l'altre. Ma chi considererà Isaia profeta che gli è di sopra, il quale stando molto fiso ne' suoi pensieri ha le gambe sopraposte l'una e l'altra, e tenendo una mano dentro al libro per segno del dove egli leggeva ha posato l'altro braccio col gomito sopra il libro et apoggiato la gota alla mano, chiamato da un di quei putti che egli ha dietro, volge solamente la testa senza sconciarsi niente del resto, vedrà tratti veramente tolti dalla natura stessa, vera madre dell'arte, e vedrà una figura che tutta bene studiata può insegnare largamente tutti i precetti del buon pittore. Sopra a questo Profeta è una Sibilla vecchia bellissima che mentre che ella siede studia in un libro con una eccessiva grazia, e non senza belle attitudini di due putti che le sono intorno. Né si può pensare di immaginarsi di poter agiugnere alla eccellenza della figura di un giovane fatto per Daniello, il quale scrivendo in un gran libro cava di certe scritte alcune cose e le copia con una avidità incredibile. E per sostenimento di quel peso gli fece un putto fra le gambe, che lo regge mentre che egli scrive, il che non potrà mai paragonare pennello tenuto da qual si voglia mano; così come la bellissima figura della Libica, la quale avendo scritto un gran volume tratto da molti libri, sta con una attitudine donnesca per levarsi in piedi, et in un medesimo tempo mostra volere alzarsi e serrare il libro: cosa difficilissima per non dire impossibile ad ogni altro che al suo maestro.

Che si può egli dire delle quattro storie da' canti, ne' peducci di quella volta? Dove nell'una Davit, con quella forza puerile che più si può, nella vincita d'un gigante spiccandoli il collo fa stupire alcune teste di soldati che sono intorno al campo; come ancora maravigliare altrui le bellissime attitudini che egli fece nella storia di Iudit, nell'altro canto, nella quale apparisce il tronco di Oloferne, che privo della testa si risente, mentre che ella mette la morta testa in una cesta, in capo a una sua fantesca vecchia, la quale per essere grande di persona si china acciò Iudit la possa aggiugnere per acconciarla bene; e mentre che ella tenendo le mani al peso cerca di ricoprirla, e voltando la testa verso il tronco, il quale così morto nello alzare una gamba et un braccio fa romore dentro nel padiglione, mostra nella vista il timore del campo e la paura del morto: pittura veramente consideratissima. Ma più bella e più divina di questa e di tutte l'altre ancora è la storia delle serpi di Moisè, la quale è sopra il sinistro canto dello altare, conciò sia che in lei si vede la strage che fa de' morti, il piovere, il pugnere et il mordere delle serpi, e vi apparisce quella che Moisè messe di bronzo sopra il legno; nella quale storia vivamente si conosce la diversità delle morti che fanno coloro che privi sono d'ogni speranza per il morso di quelle. Dove si vede il veleno atrocissimo far di spasmo e paura morire infiniti, senza il legare le gambe et avvolgere a le braccia coloro che rimasti in quella attitudine che gli erano non si possono muovere; senza le bellissime teste che gridano et arrovesciate si disperano. Né manco belli di tutti questi sono coloro che riguardando il serpente e sentendosi nel riguardarlo alleggerire il dolore e rendere la vita, lo riguardano con affetto grandissimo, fra' quali si vede una femina che è sostenuta da uno d'una maniera che e' si conosce non meno l'aiuto che l'è porto da chi la regge, che il bisogno di lei in sì subita paura e puntura. Similmente nell'altra, dove Assuero essendo in letto legge i suoi annali, son figure molto belle, e tra l'altre vi si vegon tre figure a una tavola, che mangiano, nelle quali rapresenta il consiglio che e' si fece di liberare il popolo ebreo e di appiccare Aman; la quale figura fu da lui in scorto straordinariamente condotta, avvenga che e' finse il tronco che regge la persona di colui e quel braccio che viene innanzi non dipinti, ma vivi e rilevati infuori, così con quella gamba che manda innanzi e simil parti che vanno dentro; figura certamente fra le dificili e belle bellissima e dificilissima. Che troppo lungo sarebbe a dichiarare le tante belle fantasie d'atti diferenti dove tutta è la geonologia d'i padri cominciando da' figliuoli di Noè per mostrare la Generazione di Gesù Cristo. Nelle qual figure non si può dire la diversità delle cose, come panni, arie di teste et infinità di capricci straordinari e nuovi e bellissimamente considerati; dove non è cosa che con ingegno non sia messa in atto; e tutte le figure che vi sono son di scorti bellissimi et artifiziosi, et ogni cosa che si ammira è lodatissima e divina. Ma chi non amirerà e non resterà smarrito veggendo la terribilità dell'Iona, ultima figura della cappella? Dove con la forza della arte la volta, che per natura viene innanzi girata dalla muraglia, sospinta dalla apparenza di quella figura che si piega indietro, apparisce diritta e vinta dall'arte del disegno, ombre e lumi, pare che veramente si pieghi indietro.

O veramente felice età nostra, o beati artefici, che ben così vi dovete chiamare, da che nel tempo vostro avete potuto al fonte di tanta chiarezza rischiarare le tenebrose luci degli occhi e vedere fattovi piano tutto quel che era dificile da sì maraviglioso e singulare artefice! Certamente la gloria delle sue fatiche vi fa conoscere et onorare, da che ha tolto da voi quella benda che avevate innanzi agli occhi della mente, sì di tenebre piena, e v'ha scoperto il vero dal falso, il quale v'adombrava l'intelletto. Ringraziate di ciò dunque il Cielo e sforzatevi di imitare Michelagnolo in tutte le cose. Sentissi nel discoprirla correre tutto il mondo d'ogni parte, e questo bastò per fare rimanere le persone trasecolate e mutole; laonde il Papa, di tal cosa ingrandito e dato animo a sé di far maggiore impresa, con danari e ricchi doni rimunerò molto Michelagnolo, il quale diceva alle volte de' favori, che gli faceva quel Papa, tanto grandi che mostrava di conoscere grandemente la virtù sua; e se talvolta per una sua cotale amorevolezza gli faceva villania la medicava con doni e favori segnalati: come fu quando dimandandogli Michelagnolo licenzia una volta di andare a fare il San Giovanni a Fiorenza, e chiestogli per ciò danari, disse: "Be', questa cappella quando sarà fornita?"; "Quando potrò, Padre Santo"; il Papa che aveva una mazza in mano percosse Michelagnolo dicendo: "Quando potrò, quando potrò: te la farò finire bene io". Però tornato a casa Michelagnolo per mettersi in ordine per ire a Fiorenza, mandò subito il Papa Cursio, suo camerieri, a Michelagnolo con cinquecento scudi, dubitando che non facessi delle sue, a placarlo, facendo scusa del Papa che ciò erano tutti favori et amorevolezze. E perché conosceva la natura del Papa e finalmente l'amava, se ne rideva, vedendo poi finalmente ritornare ogni cosa in favore et util suo, e che procurava quel Pontefice ogni cosa per mantenersi questo uomo amico.

Dove che, finito la cappella et innanzi che venissi quel Papa a morte, ordinò Sua Santità, se morissi, al cardinale Santiquattro et al cardinale Aginense suo nipote che facessi finire la sua sepoltura con minor disegno che 'l primo. Al che fare di nuovo si messe Michelagnolo, e così diede principio volentieri a questa sepoltura per condurla una volta senza tanti impedimenti al fine, che n'ebbe sempre di poi dispiacere e fastidi e travagli più che di cosa che facessi in vita, e ne acquistò per molto tempo in un certo modo nome d'ingrato verso quel Papa, che l'amò e favorì tanto. Di che egli alla sepoltura ritornato, quella di continuo lavorando e parte mettendo in ordine disegni da potere condurre le facciate della cappella, volse la fortuna invidiosa che di tal memoria non si lasciasse quel fine che di tanta perfezzione aveva avuto principio; perché successe in quel tempo la morte di papa Giulio, onde tal cosa si misse in abandono per la creazione di papa Leone Decimo, il quale d'animo e valore non meno splendido che Giulio, aveva desiderio di lasciare nella patria sua per essere stato il primo Pontefice di quella, in memoria di sé e d'uno artefice divino e suo cittadino, quelle maraviglie che un grandissimo principe come esso poteva fare. Per il che dato ordine che la facciata di S. Lorenzo di Fiorenza, chiesa dalla casa de' Medici fabricata, si facesse per lui, fu cagione che il lavoro della sepoltura di Giulio rimase imperfetto, e richiese Michelagnolo di parere e disegno e che dovesse essere egli il capo di questa opera. Dove Michelagnolo fé tutta quella resistenza che potette allegando essere obligato per la sepoltura [a] Santiquattro et Aginense; gli rispose che non pensassi a questo che già aveva pensato egli et operato che Michelagnolo fussi licenziato da loro, promettendo che Michelagnolo lavorerebbe a Fiorenza, come già aveva cominciato, le figure per detta sepoltura; che tutto fu con dispiacere de' cardinali e di Michelagnolo che si partì piangendo.

Onde vari et infiniti furono i ragionamenti che circa ciò seguirono; perché tale opera della facciata averebbono voluto compartire in più persone, e per l'architettura concorsero molti artefici a Roma al Papa, e fecero disegni Baccio d'Agnolo, Antonio da San Gallo, Andrea et Iacopo Sansovino, il grazioso Raffaello da Urbino, il quale nella venuta del Papa fu poi condotto a Fiorenza per tale effetto. Laonde Michelagnolo si risolse di fare un modello, e non volere altro che lui in tal cosa, superiore o guida dell'architettura. Ma questo non volere aiuto fu cagione che né egli né altri operasse, e que' maestri disperati ai loro soliti esercizii si ritornassero. E Michelagnolo andando a Carrara [passò da Fiorenza] con una comissione che da Iacopo Salviati gli fussino pagati mille scudi; ma essendo nella giunta sua serrato Iacopo in camera per faccende con alcuni cittadini, Michelagnolo non volle aspettare l'udienza, ma si partì senza far motto e subito andò a Carrara. Intese Iacopo dello arrivo di Michelagnolo, e non lo trovando in Fiorenza gli mandò i mille scudi a Carrara. Voleva il mandato che gli facesse la ricevuta, al quale disse che erano per la spesa del Papa e non per interesso suo, che gli riportasse che non usava far quitanza, né riceute per altri; onde per tema colui ritornò senza a Iacopo.

Mentre che egli era a Carrara e che e' faceva cavar marmi, non meno per la sepoltura di Giulio che per la facciata, pensando pur di finirla, gli fu scritto che avendo inteso papa Leone che nelle montagne di Pietrasanta a Seravezza sul dominio fiorentino, nella altezza del più alto monte chiamato l'Altissimo, erano marmi della medesima bontà e bellezza che quelli di Carrara, e già lo sapeva Michelagnolo, ma pareva che non ci volesse attendere per essere amico del marchese Alberigo signore di Carrara, e per fargli beneficio volessi più tosto cavare de' carraresi che di quegli di Seravezza, o fusse che egli la giudicasse cosa lunga e da perdervi molto tempo, come intervenne; ma pure fu forzato andare a Seravezza, se bene allegava in contrario che ciò fussi di più disagio e spesa, come era, massimamente nel suo principio, e di più che non era forse così. Ma, in effetto, non volse udirne parola, però convenne fare una strada di parecchi miglia per le montagne, e per forza di mazze e picconi rompere massi per ispianare e con palafitta ne' luoghi paludosi, ove spese molti anni Michelagnolo per esseguire la volontà del Papa, e vi si cavò finalmente cinque colonne di giusta grandezza, che una n'è sopra la piazza di San Lorenzo in Fiorenza, l'altre sono alla marina. E per questa cagione il marchese Alberigo, che si vedde guasto l'aviamento, diventò poi gran nemico di Michelagnolo senza sua colpa. Cavò oltre a queste colonne molti marmi, che sono ancora in sulle cave stati più di trenta anni. Ma oggi il duca Cosimo ha dato ordine di finire la strada, che ci è ancora dua miglia a farsi, molto malagevole per condurre questi marmi, e di più da un'altra cava eccellente per marmi che allora fu scoperta da Michelagnolo, per poter finire molte belle imprese, e nel medesimo luogo di Seravezza ha scoperto una montagna di mischii durissimi e molti begli sotto Stazema, villa in quelle montagne, dove ha fatto fare il medesimo duca Cosimo una strada siliciata di più di quattro miglia per condurli alla marina.

E tornando a Michelagnolo, che se ne tornò a Fiorenza perdendo molto tempo ora in questa cosa et ora in quell'altra, et allora fece per il palazzo de' Medici un modello delle finestre inginocchiate a quelle stanze che sono sul canto dove Giovanni da Udine lavorò quella camera di stucco e dipinse, che è cosa lodatissima, e fecevi fare, ma con suo ordine, dal Piloto orefice quelle gelosie di rame straforato che son certo cosa mirabile. Consumò Michelagnolo molti anni in cavar marmi; vero è che mentre si cavavano fece modelli di cera et altre cose per l'Opera. Ma tanto si prolungò questa impresa, che i danari del Papa assegnati a questo lavoro si consumarono nella guerra di Lombardia, e l'opera per la morte di Leone rimase imperfetta, per che altro non vi si fece che il fondamento dinanzi per reggerla, e condussesi da Carrara una colonna grande di marmo su la piazza di San Lorenzo. Spaventò la morte di Leone talmente gli artefici e le arti et in Roma et in Fiorenza, che mentre che Adriano vi visse, Michelagnolo s'attese in Fiorenza alla sepoltura di Giulio. Ma morto Adriano e creato Clemente VII, il quale nelle arti della architettura, della scultura, della pittura, fu non meno desideroso di lasciar fama che Leone e gli altri suo' predecessori, in questo tempo, l'anno 1525, fu condotto Giorgio Vasari fanciullo a Fiorenza dal cardinale di Cortona e messo a stare con Michelagnolo a imparare l'arte. Ma essendo lui chiamato a Roma da papa Clemente VII, perché gli aveva cominciato la libreria di San Lorenzo e la sagrestia nuova per metter le sepolture di marmo de' suoi maggiori che egli faceva, si risolvé che il Vasari andasse a stare con Andrea del Sarto fino a che egli si spediva, et egli proprio venne a bottega di Andrea a raccomandarlo.

Partì per Roma Michelagnolo in fretta, et infestato di nuovo da Francesco Maria duca di Urbino nipote di papa Giulio, il quale si doleva di Michelagnolo dicendo che aveva ricevuto sedici mila scudi per detta sepoltura e che se ne stava in Fiorenza a' suoi piaceri, e lo minacciò malamente che se non vi attendeva lo farebbe capitare male. Giunto a Roma papa Clemente, che se ne voleva servire, lo consigliò che facessi conto cogli agenti del Duca, ché pensava che a quel che gli aveva fatto fussi più tosto creditore che debitore; la cosa restò così. E ragionando insieme di molte cose, si risolsero di finire affatto la sagrestia e libreria nuova di S. Lorenzo di Fiorenza. Laonde, partitosi di Roma, e' voltò la cupola che vi si vede, la quale di vario componimento fece lavorare, et al Piloto orefice fece fare una palla a settantadue facce che è bellissima. Accadde mentre che e' la voltava, che fu domandato da alcuni suoi amici: "Michelagnolo, voi doverete molto variare la vostra lanterna da quella di Filippo Bruneleschi", et egli rispose loro: "Egli si può ben variare, ma migliorare no".

Fecevi dentro quattro sepolture per ornamento nelle facce, per li corpi de' padri de' due papi, Lorenzo vecchio e Giuliano suo fratello, e per Giuliano fratello di Leone e per Lorenzo suo nipote. E perché egli la volse fare ad imitazione della sagrestia vecchia, che Filippo Brunelleschi aveva fatto, ma con altro ordine di ornamenti, vi fece dentro uno ornamento composito, nel più vario e più nuovo modo che per tempo alcuno gli antichi et i moderni maestri abbino potuto operare; perché nella novità di sì belle cornici, capitegli e base, porte, tabernacoli e sepolture, fece assai diverso da quello che di misura, ordine e regola facevano gli uomini secondo il comune uso e secondo Vitruvio e le antichità, per non volere a quello agiugnere. La quale licenzia ha dato grande animo a quelli che hanno veduto il far suo di mettersi a imitarlo, e nuove fantasie si sono vedute poi alla grottesca più tosto che a ragione o regola, a' loro ornamenti. Onde gli artefici gli hanno infinito e perpetuo obligo, avendo egli rotti i lacci e le catene delle cose, che per via d'una strada comune eglino di continuo operavano. Ma poi lo mostrò meglio e volse far conoscere tal cosa nella libreria di San Lorenzo nel medesimo luogo, nel bel partimento delle finestre, nello spartimento del palco e nella maravigliosa entrata di quel ricetto. Né si vidde mai grazia più risoluta nel tutto e nelle parti come nelle mensole, ne' tabernacoli e nelle cornici, né scala più comoda: nella quale fece tanto bizzarre rotture di scaglioni e variò tanto da la comune usanza delli altri, che ogni uno se ne stupì. Mandò in quello tempo Pietro Urbano pistolese suo creato a Roma a mettere in opera un Cristo ignudo che tiene la croce, il quale è una figura mirabilissima, che fu posto nella Minerva allato alla cappella maggiore per Messer Antonio Metelli. Seguì intorno a questo tempo il Sacco di Roma, la cacciata de' Medici di Firenze, nel qual mutamento disegnando chi governava rifortificare quella città, feciono Michelagnolo sopra tutte le fortificazioni commessario generale. Dove in più luoghi disegnò e fece fortificar la città, e finalmente il poggio di S. Miniato cinse di bastioni, i quali non colle piote di terra faceva e legnami e stipe alla grossa, come s'usa ordinariamente, ma armadure di sotto intessute di castagni e quercie e di altre buone maniere, et in cambio di piote prese mattoni crudi fatti con capechio e sterco di bestie, spianati con somma diligenza: e perciò fu mandato dalla Signoria di Firenze a Ferrara a vedere le fortificazioni del duca Afonso Primo, e così le sue artiglierie e munizioni; ove ricevé molte cortesie da quel signore, che lo pregò che gli facessi a comodo suo qualche cosa di sua mano, che tutto gli promesse Michelagnolo; il quale tornato andava del continuo anco fortificando la città, e benché avessi questi impedimenti lavorava nondimeno un quadro d'una Leda per quel Duca, colorito a tempera di sua mano, che fu cosa divina, come si dirà a suo luogo, e le statue per le sepolture di San Lorenzo segretamente. Stette Michelagnolo ancora in questo tempo sul monte di San Miniato forse sei mesi per sollecitare quella fortificazione del monte, perché se 'l nemico se ne fussi impadronito era perduta la città, e così con ogni sua diligenza seguitava queste imprese. Et in questo tempo seguitò in detta sagrestia l'opera; che di quella restarono parte finite e parte no sette statue, nelle quali con le invenzioni dell'architettura delle sepolture è forza confessare che egli abbia avanzato ogni uomo in queste tre professioni. Di che ne rendono ancora testimonio quelle statue, che da lui furono abozzate e finite di marmo che in tal luogo si veggono: l'una è la Nostra Donna, la quale nella sua attitudine sedendo manda la gamba ritta adosso alla manca con posar ginocchio sopra ginocchio, et il Putto inforcando le cosce in su quella che è più alta, si storce con attitudine bellissima in verso la madre chiedendo il latte, et ella con tenerlo con una mano e con l'altra apogiandosi si piega per dargliene. Ancora che non siano finite le parti sue, si conosce nell'essere rimasta abozzata e gradinata nella imperfezione della bozza la perfezzione dell'opera. Ma molto più fece stupire ciascuno che considerando nel fare le sepolture del duca Giuliano e del duca Lorenzo de' Medici egli pensassi che non solo la terra fussi per la grandezza loro bastante a dar loro onorata sepoltura, ma volse che tutte le parti del mondo vi fossero, e che gli mettessero in mezzo e coprissero il lor sepolcro quattro statue: a uno pose la Notte et il Giorno, a l'altro l'Aurora et il Crepuscolo; le quali statue sono con bellissime forme di attitudini et artificio di muscoli lavorate, bastanti, se l'arte perduta fosse, a ritornarla nella pristina luce. Vi son fra l'altre statue que' due capitani armati, l'uno il pensoso duca Lorenzo, nel sembiante della saviezza con bellissime gambe talmente fatte che occhio non può veder meglio, l'altro è il duca Giuliano sì fiero con una testa e gola con incassatura di occhi, profilo di naso, sfenditura di bocca e capegli sì divini, mani, braccia, ginocchia e piedi; et insomma tutto quello che quivi fece è da fare che gli occhi né stancare né saziare vi si possono già mai. Veramente chi risguarda la bellezza de' calzari e della corazza, celeste lo crede e non mortale. Ma che dirò io della Aurora femina ignuda e da fare uscire il maninconico dell'animo e smarrire lo stile alla scultura? Nella quale attitudine si conosce il suo sollecito levarsi sonnacchiosa, svilupparsi dalle piume, perché pare che nel destarsi ella abbia trovato serrato gli occhi a quel gran Duca. Onde si storce con amaritudine, dolendosi nella sua continovata bellezza in segno del gran dolore. E che potrò io dire della Notte, statua non rara, ma unica? Chi è quello che abbia per alcun secolo in tale arte veduto mai statue antiche o moderne così fatte? Conoscendosi non solo la quiete di chi dorme, ma il dolore e la malinconia di chi perde cosa onorata e grande. Credasi pure che questa sia quella Notte la quale oscuri tutti coloro che per alcun tempo nella scultura e nel disegno pensavano, non dico di passarlo, ma di paragonarlo già mai. Nella qual figura, quella sonnolenza si scorge che nelle imagini adormentate si vede; per che da persone dottissime furono in lode sua fatti molti versi latini e rime volgari come questi de' quali non si sa l'autore:


La Notte, che tu vedi in sì dolci atti

dormir, fu da uno Angelo scolpita

in questo sasso; e perché dorme, ha vita.

Destala, se non 'l credi, e parleratti.


A' quali in persona della Notte rispose Michelagnolo così:


Grato mi è il sonno, e più l'esser di sasso,

mentre che il danno e la vergogna dura,

non veder, non sentir, m'è gran ventura:

però non mi destar, deh, parla basso.


E certo se la inimicizia ch'è tra la fortuna e la virtù, e la bontà d'una e la invidia dell'altra avesse lasciato condurre tal cosa a fine, poteva mostrare l'arte alla natura, che ella di gran lunga in ogni pensiero l'avanzava. Lavorando egli con sollecitudine e con amore grandissimo tali opere, crebbe, che pur troppo li impedì il fine, lo assedio di Fiorenza, l'anno 1529; il quale fu cagione che poco o nulla egli più vi lavorasse, avendogli i cittadini dato la cura di fortificare oltra al monte di San Miniato, la terra, come s'è detto. Conciò sia che avendo egli prestato a quella republica mille scudi e trovandosi de' Nove della milizia ufizio deputato sopra la guerra, volse tutto il pensiero e lo animo suo a dar perfezione a quelle fortificazioni, et avendola stretta finalmente l'esercito intorno, et a poco a poco mancata la speranza degli aiuti e cresciute le dificultà del mantenersi, e parendogli di trovarsi a strano partito, per sicurtà della persona sua si deliberò partire di Firenze et andarsene a Vinezia senza farsi conoscere per la strada a nessuno. Partì dunque segretamente per la via del monte di San Miniato che nessuno il seppe, menandone seco Antonio Mini suo creato e 'l Piloto orefice amico suo fedele, e con essi portarono sul dosso uno imbottito per uno di scudi ne' giubboni. Et a Ferrara condotti, riposandosi, avvenne che per gli sospetti della guerra e per la lega dello imperatore e del Papa, che erano intorno a Fiorenza, il duca Alfonso da Este teneva ordini in Ferrara e voleva sapere secretamente dagli osti che alloggiavano, i nomi di tutti coloro che ogni dì alloggiavano, e la listra de' forestieri di che nazione si fossero ogni dì si faceva portare. Avvenne dunque che essendo Michelagnolo quivi con animo di non esser conosciuto, e con li suoi scavalcato, fu ciò per questa via noto al Duca, che se ne rallegrò per esser divenuto amico suo. Era quel principe di grande animo e mentre che visse si dilettò continuamente della virtù. Mandò subito alcuni de' primi della sua corte che per parte di sua eccellenza in palazzo e dove era il Duca lo conducessero, et i cavalli et ogni sua cosa levassero e bonissimo alloggiamento in palazzo gli dessero. Michelagnolo trovandosi in forza altrui, fu constretto ubidire, e quel che vender non poteva, donare, et al Duca con coloro andò senza levare le robe dell'osteria. Per che fattogli il Duca accoglienze grandissime e doltosi della sua salvatichezza, et apresso fattogli di ricchi et onorevoli doni, volse con buona provisione in Ferrara fermarlo. Ma egli non avendo a ciò l'animo intento, non vi volle restare; e pregatolo almeno che mentre la guerra durava non si partisse, il Duca di nuovo gli fece offerte di tutto quello che era in poter suo. Onde Michelagnolo, non volendo esser vinto di cortesia, lo ringraziò molto, e voltandosi verso i suoi due disse che aveva portato in Ferrara dodicimila scudi, e che se gli bisognava erano al piacer suo insieme con esso lui. Il Duca lo menò a spasso come aveva fatto altra volta per il palazzo, e quivi gli mostrò ciò che aveva di bello fino a un suo ritratto di mano di Tiziano, il quale fu da lui molto commendato. Né però lo poté mai fermare in palazzo, perché egli alla osteria volse ritornare, onde l'oste che l'alloggiava ebbe sotto mano dal Duca infinite cose da fargli onore e commissione alla partita sua di non pigliare nulla del suo alloggio. Indi si condusse a Vinegia, dove desiderando di conoscerlo molti gentiluomini, egli che sempre ebbe poca fantasia che di tale esercizio s'intendessero, si partì di Giudecca, dove era alloggiato, dove si dice che allora disegnò per quella città, pregato dal doge Gritti, il ponte del Rialto, disegno rarissimo d'invenzione e d'ornamento.

Fu richiamato Michelagnolo con gran preghi alla patria, e fortemente raccomandatogli che non volessi abandonar l'impresa e mandatogli salvo condotto, finalmente vinto dallo amore non senza pericolo della vita, ritornò, et in quel mentre finì la Leda che faceva, come si disse, dimandatali dal duca Alfonso, la quale fu portata poi in Francia per Anton Mini suo creato. Et intanto rimediò al campanile di S. Miniato, torre che offendeva stranamente il campo nimico con due pezzi di artiglieria, di che voltosi a batterlo con cannoni grossi i bombardieri del campo l'avevon quasi lacero e l'arebbono rovinato; onde Michelagnolo, con balle di lana e gagliardi materassi sospesi con corde, lo armò di maniera, che gli è ancora in piedi. Dicono ancora che nel tempo dell'assedio gli nacque occasione per la voglia che prima aveva d'un sasso di marmo di nove braccia venuto da Carrara, che per gara e concorrenza fra loro, papa Clemente lo aveva dato a Baccio Bandinelli; ma per essere tal cosa nel publico, Michelagnolo la chiese al gonfaloniere, et esso glielo diede che facesse il medesimo, avendo già Baccio fatto il modello e levato di molta pietra per abozzarlo. Onde fece Michelagnolo un modello, il quale fu tenuto maraviglioso e cosa molto vaga, ma nel ritorno de' Medici fu restituito a Baccio. Fatto lo accordo, Baccio Valori comessario del Papa ebbe comissione di far pigliare e mettere al Bargello certi cittadini de' più parziali; e la corte medesima cercò di Michelagnolo a casa, il quale dubitandone s'era fuggito segretamente in casa d'un suo grande amico, ove stette molti giorni nascosto, tanto che passato la furia, ricordandosi papa Clemente della virtù di Michelagnolo, fé fare diligenza di trovarlo, con ordine che non se gli dicessi niente, anzi, che se gli tornassi le solite provisioni, e che egli attendessi all'Opera di S. Lorenzo mettendovi per proveditore Messer Giovanbatista Figiovanni, antico servidore di casa Medici e priore di S. Lorenzo. Dove assicurato Michelagnolo cominciò, per farsi amico Baccio Valori, una figura di tre braccia di marmo che era uno Apollo che si cavava del turcasso una freccia, e lo condusse presso al fine, il quale è oggi nella camera del principe di Fiorenza, cosa rarissima, ancora che non sia finita del tutto.

In questo tempo essendo mandato a Michelagnolo un gentiluomo del duca Alfonso di Ferrara, che aveva inteso che gli aveva fatto qualcosa rara di suo mano, per non perdere una gioia così fatta, arrivato che fu in Fiorenza e trovatolo, gli presentò lettere di credenza da quel signore. Dove Michelagnolo fattogli accoglienze, gli mostrò la Leda dipinta da lui che abraccia il cigno, e Castore e Polluce che uscivano dell'uovo in certo quadro grande dipinto a tempera col fiato; e pensando il mandato del Duca al nome che sentiva fuori di Michelagnolo che dovessi aver fatto qualche gran cosa, non conoscendo né l'artificio, né l'eccellenza di quella figura, disse a Michelagnolo: "Oh, questa è una poca cosa". Gli dimandò Michelagnolo che mestiero fussi il suo, sapendo egli che niuno meglio può dar giudizio delle cose che si fanno che coloro che vi sono essercitati pur assai drento. Rispose ghignando: "Io son mercante", credendo non essere stato conosciuto da Michelagnolo per gentiluomo, e quasi fattosi beffe d'una tal dimanda mostrando ancora insieme sprezzare l'industria de' Fiorentini. Michelagnolo che aveva inteso benissimo el parlar così fatto, rispose alla prima: "Voi farete questa mala mercanzia per il vostro signore. Levatevimi dinanzi". E così in que' giorni Anton Mini suo creato, che aveva due sorelle da maritarsi, gliene chiese, et egli gliene donò volentieri, con la maggior parte de' disegni e cartoni fatti da lui, ch'erano cosa divina. Così due casse di modegli con gran numero di cartoni finiti per far pitture e parte d'opere fatte, che venutogli fantasia d'andarsene in Francia gli portò seco, e la Leda la vendé al re Francesco per via di mercanti, oggi a Fontanableò, et i cartoni e disegni andaron male, perché egli si morì là in poco tempo e gliene fu rubati, dove si privò questo paese di tante e sì utili fatiche che fu danno inestimabile. A Fiorenza è ritornato poi il cartone della Leda, che l'ha Bernardo Vecchietti, e così quattro pezzi di cartoni della cappella di ignudi e Profeti condotti da Benvenuto Cellini scultore, oggi appresso agli eredi di Girolamo degli Albizi.

Convenne a Michelagnolo andare a Roma a papa Clemente, il quale benché adirato con lui, come amico della virtù gli perdonò ogni cosa e gli diede ordine che tornasse a Fiorenza e che la libreria e sagrestia di S. Lorenzo si finissero del tutto, e per abreviare tal opera una infinità di statue che ci andavano compartirono in altri maestri. Egli n'allogò due al Tribolo, una a Raffaello da Monte Lupo et una a fra' Giovan Agnolo frate de' Servi, tutti scultori, e gli diede aiuto in esse facendo a ciascuno i modelli in bozze di terra, laonde tutti gagliardamente lavorarono et egli ancora alla libreria faceva attendere, onde si finì il palco di quella d'intagli in legnami con suoi modelli, i quali furono fatti per le mani del Carota e del Tasso fiorentini, eccellenti intagliatori e maestri, et ancora di quadro, e similmente i banchi dei libri lavorati allora da Batista del Cinque e Ciapino amico suo, buoni maestri in quella professione. E per darvi ultima fine fu condotto in Fiorenza Giovanni da Udine divino, il quale per lo stucco della tribuna insieme con altri suo lavoranti et ancora maestri fiorentini, vi lavorò. Laonde con sollecitudine cercarono di dare fine a tanta impresa.

Per che volendo Michelagnolo far porre in opera le statue, in questo tempo al Papa venne in animo di volerlo appresso di sé, avendo desiderio di fare le facciate della cappella di Sisto, dove egli aveva dipinto la volta a Giulio II, suo nipote; nelle quali facciate voleva Clemente che nella principale dove è l'altare vi si dipignessi il Giudizio Universale, acciò potessi mostrare in quella storia tutto quello che l'arte del disegno poteva fare; e nell'altra dirimpetto sopra la porta principale gli aveva ordinato che vi facessi quando per la sua superbia Lucifero fu dal Cielo cacciato e precipitati insieme nel centro dello inferno tutti quegli Angeli che peccarono con lui. Delle quali invenzioni molti anni innanzi s'è trovato che aveva fatto schizzi Michelagnolo e varii disegni, un de' quali poi fu posto in opera nella chiesa della Trinità di Roma da un pittore ciciliano, il quale stette molti mesi con Michelagnolo a servirlo e macinar colori. Questa opera è nella croce della chiesa alla cappella di San Gregorio dipinta a fresco, che ancora che sia mal condotta, si vede un certo che di terribile e di vario nelle attitudini e groppi di quegli ignudi che piovono dal cielo e de' cascati nel centro della terra conversi in diverse forme di diavoli molto spaventate e bizzarre, et è certo capricciosa fantasia. Mentre che Michelagnolo dava ordine a far questi disegni e cartoni della prima facciata del Giudizio, non restava giornalmente essere alle mani con gli agenti del duca d'Urbino, dai quali era incaricato aver ricevuto da Giulio II sedicimila scudi per la sepoltura, e non poteva soportare questo carico; e desiderava finirla un giorno quantunque e' fussi già vecchio, e volentieri se ne sarebbe stato a Roma, poiché senza cercarla gli era venuta questa occasione per non tornare più a Fiorenza, avendo molta paura del duca Alessandro de' Medici, il quale pensava gli fusse poco amico; per che avendogli fatto intendere per il signor Alessandro Vitegli che dovessi vedere dove fussi miglior sito per fare il castello e cittadella di Fiorenza, rispose non vi volere andare se non gli era comandato da papa Clemente.

Finalmente fu fatto lo accordo di questa sepoltura, e che così finissi in questo modo: che non si facessi più la sepoltura isolata in forma quadra, ma solamente una di quelle facce sole in quel modo che piaceva a Michelagnolo, e che fussi obligato a metterci di sua mano sei statue, et in questo contratto che si fece col duca d'Urbino concesse sua eccellenzia che Michelagnolo fussi obligato a papa Clemente quattro mesi dell'anno o a Fiorenza, o dove più gli paresse adoperarlo; et ancora che paressi a Michelagnolo d'esser quietato, non finì per questo; perché desiderando Clemente di vedere l'ultima pruova delle forze della sua virtù, lo faceva attendere al cartone del Giudizio. Ma egli mostrando al Papa di essere occupato in quello, non restava però con ogni poter suo, e segretamente lavorava sopra le statue che andavano a detta sepoltura. Successe l'anno 1533 la morte di papa Clemente, dove a Fiorenza si fermò l'opera della sagrestia e libreria, la quale con tanto studio cercando si finisse, pure rimase imperfetta. Pensò veramente allora Michelagnolo essere libero e potere attendere a dar fine alla sepoltura di Giulio II; ma essendo creato Paulo Terzo non passò molto che fattolo chiamare a sé, oltra al fargli carezze et offerte, lo ricercò che dovessi servirlo e che lo voleva appresso di sé. Ricusò questo Michelagnolo, dicendo che non poteva fare, essendo per contratto obligato al duca d'Urbino fin che fussi finita la sepoltura di Giulio. Il Papa ne prese còllora dicendo: "Io ho avuto trenta anni questo desiderio et ora che son papa non me lo caverò? Io straccerò il contratto e son disposto che tu mi serva a ogni modo". Michelagnolo, veduto questa risoluzione, fu tentato di partirsi da Roma et in qualche maniera trovar via da dar fine a questa sepoltura. Tuttavia temendo, come prudente, della grandezza del Papa, andava pensando trattenerlo di sodisfarlo di parole, vedendolo tanto vecchio, fin che qualcosa nascesse. Il Papa, che voleva far fare qualche opera segnalata a Michelagnolo, andò un giorno a trovarlo a casa con dieci cardinali, dove e' volse veder tutte le statue della sepoltura di Giulio che gli parsono miracolose, e particolarmente il Moisè, che dal cardinale di Mantova fu detto che quella sol figura bastava a onorare papa Giulio, e veduto i cartoni e' disegni che ordinava per la facciata della cappella che gli parvono stupendi, di nuovo il Papa lo ricercò con istanzia che dovessi andare a servirlo, promettendogli che farebbe che 'l duca d'Urbino si contenterà di tre statue e che l'altre si faccin fare con suo modegli a altri eccellenti maestri. Per il che procurato ciò con gli agenti del Duca Sua Santità, fecesi di nuovo contratto confermato dal Duca, e Michelagnolo spontaneamente si obligò pagar le tre statue e farla murare; che per ciò depositò in sul banco degli Strozzi ducati millecinquecento ottanta, e' quali arebbe potuto fuggire, e gli parve aver fatto assai a essersi disobligato di sì lunga e dispiacevole impresa, la quale egli la fece poi murare in San Piero in Vincola in questo modo: messe su il primo imbasamento intagliato con quattro piedistalli che risaltavano in fuori tanto quanto prima vi doveva stare un prigione per ciascuno, che in quel cambio vi restava una figura di un termine; e perché da basso veniva povero aveva per ciascun termine messo a' piedi una mensola che posava a rovescio in su. Que' quattro termini mettevano in mezzo tre nicchie, due delle quali erano tonde dalle bande, e vi dovevano andare le Vittorie, in cambio delle quali in una messe Lia figliuola di Laban, per la Vita attiva con uno specchio in mano per la considerazione si deve avere per le azzioni nostre, e nell'altra una grillanda di fiori per le virtù che ornano la vita nostra in vita, e dopo la morte la fanno gloriosa; l'altra fu Rachel sua sorella per la Vita contemplativa con le mani giunte, con un ginocchio piegato, e col volto par che stia elevata in spirito; le quali statue condusse di sua mano Michelagnolo in meno di uno anno. Nel mezzo è l'altra nicchia, ma quadra, che questa doveva essere nel primo disegno una delle porti che entravano nel tempietto ovato della sepoltura quadrata; questa essendo diventata nicchia, vi è posto in sur un dado di marmo la grandissima e bellissima statua di Moisè, della quale a bastanza si è ragionato. Sopra le teste de' termini che fan capitello, è architrave, fregio e cornice che risalta sopra i termini, intagliato con ricchi fregi e fogliami uovoli e dentegli et altri ricchi membri per tutta l'opera; sopra la quale cornice si muove un altro ordine pulito senza intagli, di altri ma variati termini, corrispondendo a dirittura a que' primi a uso di pilastri con varie modanature di cornice, e per tutto questo ordine accompagna et obedisce a quegli di sotto. Vi viene un vano simile a quello che fa nicchia quadra sopra il Moisè, nel quale è posato su' risalti della cornice una cassa di marmo con la statua di papa Giulio a diacere, fatta da Maso dal Bosco scultore, e dritto nella nicchia che vi è, una Nostra Donna che tiene il Figliuolo in collo, condotta da Scherano da Settignano scultore, col modello di Michelagnolo, che sono assai ragionevole statue; et in due altre nicchie quadre sopra la Vita attiva e la contemplativa sono due statue maggiori, un Profeta et una Sibilla a sedere, che ambidue fur fatte da Raffaello da Monte Lupo, come s'è detto nella vita di Baccio suo padre, che fur condotte con poca satisfazione di Michelagnolo. Ebbe per ultimo finimento questa opera una cornice varia che risaltava, come di sotto, per tutto; e sopra i termini era per fine candelieri di marmo e nel mezzo l'arme di papa Giulio, e sopra il Profeta e la Sibilla nel vano della nicchia vi fece per ciascuna una finestra per comodità di que' frati che ufiziano quella chiesa, avendovi fatto il coro dietro, che servono, dicendo il divino ufizio, a mandare le voci in chiesa et a vedere celebrare. E nel vero che tutta questa opera è tornata benissimo, ma non già a gran pezzo come era ordinato il primo disegno. Risolvessi Michelagnolo, poiché non poteva fare altro, di servire papa Paulo, il quale volle che proseguisse l'ordinatogli da Clemente senza alterare niente l'invenzione o concetto che gli era stato dato, avendo rispetto alla virtù di quell'uomo, al quale portava tanto amore e riverenza, che non cercava se non piacergli, come ne aparve segno, che desiderando Sua Santità che sotto il Iona di cappella ove era prima l'arme di papa Giulio II, mettervi la sua, essendone ricerco, per non fare torto a Giulio et a Clemente non ve la volse porre, dicendo non istare bene, e ne restò Sua Santità satisfatto per non gli dispiacere, e conobbe molto bene la bontà di quell'uomo quanto tirava dietro allo onesto et al giusto senza rispetto et adulazione, cosa che loro son soliti provar di rado.

Fece dunque Michelagnolo fare, che non vi era prima, una scarpa di mattoni ben murati e scelti e ben cotti alla facciata di detta cappella, e volse che pendessi dalla somità di sopra un mezzo braccio, perché né polvere né altra bruttura potessi fermare sopra. Né verrò a particolari della invenzione o componimento di questa storia, perché se n'è ritratte e stampate tante e grandi e piccole, che e' non par necessario perdervi tempo a descriverla. Basta che si vede che l'intenzione di questo uomo singulare non ha voluto entrare in dipignere altro che la perfetta e proporzionatissima composizione del corpo umano et in diversissime attitudini; non sol questo, ma insieme gli affetti delle passioni e contentezze dell'animo, bastandogli satisfare in quella parte di che è stato superiore a tutti i suoi artefici, e mostra la via della gran maniera e degli ignudi e quanto e' sappi nelle dificultà del disegno, e finalmente ha aperto la via alla facilità di questa arte nel principale suo intento, che è il corpo umano, et attendendo a questo fin solo, ha lassato da parte le vaghezze de' colori, i capricci e le nuove fantasie di certe minuzie e delicatezze, che da molti altri pittori non sono interamente, e forse non senza qualche ragione, state neglette. Onde qualcuno non tanto fondato nel disegno ha cerco con la varietà di tinte et ombre di colori e con bizzarre varie e nuove invenzioni, et insomma con questa altra via farsi luogo fra i primi maestri. Ma Michelagnolo stando saldo sempre nella profondità dell'arte, ha mostro a quegli che sanno assai [come] dovevano arrivare al perfetto.

E per tornare alla storia, aveva già condotto Michelagnolo a fine più di tre quarti dell'opera, quando andando papa Paulo a vederla, perché Messer Biagio da Cesena maestro delle cerimonie e persona scrupolosa, che era in cappella col Papa, dimandato quel che gliene paressi, disse essere cosa disonestissima in un luogo tanto onorato avervi fatto tanti ignudi che sì disonestamente mostrano le lor vergogne, e che non era opera da cappella di papa, ma da stufe e d'osterie. Dispiacendo questo a Michelagnolo e volendosi vendicare, subito che fu partito lo ritrasse di naturale senza averlo altrimenti innanzi, nello inferno nella figura di Minòs con una gran serpe avvolta alle gambe fra un monte di diavoli. Né bastò il raccomandarsi di Messer Biagio al Papa et a Michelagnolo che lo levassi, che pure ve lo lassò per quella memoria, dove ancor si vede.

Avenne in questo tempo che egli cascò di non poco alto dal tavolato di questa opera e fattosi male a una gamba, per lo dolore e per la còllora da nessuno non volle essere medicato. Per il che trovandosi allora vivo maestro Baccio Rontini fiorentino, amico suo e medico capriccioso e di quella virtù molto affezionato, venendogli compassione di lui gli andò un giorno a picchiare a casa, e non gli essendo risposto da' vicini né da lui, per alcune vie segrete cercò tanto di salire, che a Michelagnolo di stanza in stanza pervenne, il quale era disperato. Laonde maestro Baccio fin che egli guarito non fu, non lo volle abandonare già mai, né spicarsegli d'intorno. Egli di questo male guarito e ritornato all'opera, et in quella di continuo lavorando, in pochi mesi a ultima fine la ridusse dando tanta forza alle pitture di tal opera, che ha verificato il detto di Dante "Morti li morti, i vivi parean vivi". E quivi si conosce la miseria dei dannati e l'allegrezza de' beati. Onde scoperto questo Giudizio, mostrò non solo essere vincitore de' primi artefici che lavorato vi avevano, ma ancora nella volta che egli tanto celebrata avea fatta, volse vincere se stesso, et in quella di gran lunga passatosi, superò se medesimo, avendosi egli imaginato il terrore di que' giorni, dove egli fa rappresentare, per più pena di chi non è ben vissuto, tutta la sua Passione; facendo portare in aria da diverse figure ignude la croce, la colonna, la lancia, la spugna, i chiodi e la corona con diverse e varie attitudini molto dificilmente condotte a fine nella facilità loro. Èvvi Cristo il quale sedendo con faccia orribile e fiera ai dannati si volge maladicendogli, non senza gran timore della Nostra Donna che ristrettasi nel manto ode e vede tanta rovina. Sonvi infinitissime figure che gli fanno cerchio di Profeti, di Apostoli e particularmente Adamo e Santo Pietro, i quali si stimano che vi sien messi l'uno per l'origine prima delle genti al giudizio, l'altro per essere stato il primo fondamento della cristiana religione. A' piedi gli è un San Bartolomeo bellissimo, il qual mostra la pelle scorticata. Èvvi similmente uno ignudo di San Lorenzo, oltra che senza numero sono infinitissimi Santi e Sante et altre figure maschi e femine intorno, appresso e discosto, i quali si abracciano e fannosi festa avendo per grazia di Dio e per guidardone delle opere loro la beatitudine eterna. Sono sotto i piedi di Cristo i sette Angeli scritti da San Giovanni Evangelista con le sette trombe, che sonando a sentenza, fanno arricciare i capelli a chi gli guarda per la terribilità che essi mostrano nel viso, e fra gl'altri vi son due Angeli che ciascuno ha il libro delle vite in mano; et appresso non senza bellissima considerazione si veggono i sette peccati mortali da una banda combattere in forma di diavoli e tirar giù allo inferno l'anime che volano al cielo, con attitudini bellissimi e scorti molto mirabili. Né ha restato nella ressurrezione de' morti mostrare al mondo come essi della medesima terra ripiglion l'ossa e la carne, e come da altri vivi aiutati vanno volando al cielo, che da alcune anime già beate è lor porto aiuto, non senza vedersi tutte quelle parti di considerazioni che a una tanta opera come quella si possa stimare che si convenga. Per che per lui si è fatto studii e fatiche d'ogni sorte, apparendo egualmente per tutta l'opera, come chiaramente e particularmente ancora nella barca di Caronte si dimostra, il quale con attitudine disperata l'anime tirate dai diavoli giù nella barca batte col remo, ad imitazione di quello che espresse il suo famigliarissimo Dante quando disse:


Caron demonio, con occhi di bragia,

loro accennando, tutte le raccoglie:

batte col remo qualunque si adagia.


Né si può imaginare quanto di varietà sia nelle teste di que' diavoli, mostri veramente d'inferno. Nei peccatori si conosce il peccato e la tema insieme del danno eterno. Et oltra a ogni bellezza straordinaria è il vedere tanta opera sì unitamente dipinta e condotta, che ella pare fatta in un giorno e con quella fine che mai minio nissuno si condusse talmente; e nel vero la moltitudine delle figure, la terribilità e grandezza dell'opera è tale, che non si può descrivere, essendo piena di tutti i possibili umani affetti et avendogli tutti maravigliosamente espressi: avvenga che i superbi, gli invidiosi, gli avari, i lussuriosi e gli altri così fatti si riconoschino agevolmente da ogni bello spirito, per avere osservato ogni decoro, sì d'aria, sì d'attitudini e sì d'ogni altra naturale circostanzia nel figurarli; cosa che, se bene è maravigliosa e grande, non è stata impossibile a questo uomo, per essere stato sempre accorto e savio et avere visto uomini assai et acquistato quella cognizione con la pratica del mondo, che fanno i filosofi con la speculazione e per gli scritti. Talché chi giudicioso e nella pittura intendente si trova, vede la terribilità dell'arte, et in quelle figure scorge i pensieri e gli affetti, i quali mai per altro che per lui non furono dipinti; così vede ancora quivi come si fa il variare delle tante attitudini negli strani e diversi gesti di giovani, vecchi, maschi, femine: nei quali a chi non si mostra il terrore dell'arte insieme con quella grazia che egli aveva dalla natura? Per che fa scuotere i cuori di tutti quegli che non son saputi, come di quegli che sanno in tal mestiero. Vi sono gli scorti che paiono di rilievo, e con la unione, la morbidezza e la finezza nelle parti delle dolcezze da lui dipinte mostrano veramente come hanno da essere le pitture fatte da' buoni e veri pittori; e vedesi nei contorni delle cose girate da lui, per una via che da altri che da lui non potrebbono essere fatte, il vero giudizio e la vera dannazione e ressurressione. E questo, nell'arte nostra, è quello essempio e quella gran pittura mandata da Dio agli uomini in terra, acciò che veggano come il fato fa quando gli intelletti dal supremo grado in terra descendono et hanno in essi infusa la grazia e la divinità del sapere. Questa opera mena prigioni legati quegli che di sapere l'arte si persuadono, e nel vedere i segni da lui tirati ne' contorni di che cosa essa si sia, trema e teme ogni terribile spirito sia quanto si voglia carico di disegno. E mentre che si guardano le fatiche dell'opera sua, i sensi si stordiscono solo a pensare che cosa possono essere le altre pitture fatte e che si faranno, poste a tal paragone. Età veramente felice chiamar si puote e felicità della memoria di chi ha visto veramente stupenda maraviglia del secol nostro! Beatissimo e fortunatissimo Paulo Terzo, poiché Dio consentì che sotto la protezione sua si ripari il vanto che daranno alla memoria sua e di te le penne degli scrittori! Quanto acquistano i meriti tuoi per le sue virtù? Certo fato bonissimo hanno a questo secolo nel suo nascere gli artefici, da che hanno veduto squarciato il velo delle dificultà di quello che si può fare et imaginare nelle pitture e sculture et architetture fatte da lui.

Penò a condurre questa opera otto anni e la scoperse l'anno 1541 (credo io) il giorno di Natale con stupore e maraviglia di tutta Roma, anzi di tutto il mondo, et io che quell'anno andai a Roma per vederla, che ero a Vinezia, ne rimasi stupito. Aveva papa Paulo fatto fabricare, come s'è detto in Antonio da San Gallo, al medesimo piano una cappella chiamata la Paulina a imitazione di quella di Niccola V, nella quale deliberò che Michelagnolo vi facessi due storie grandi in dua quadroni: che in una fece la conversione di San Paulo con Gesù Cristo in aria e moltitudine di Angeli ignudi con bellissimi moti, e di sotto l'essere sul piano di terra cascato stordito e spaventato Paulo da cavallo con i suoi soldati attorno, chi attento a sollevarlo, altri storditi dalla voce e splendore di Cristo in varie e belle attitudini e movenzie amirati e spaventati si fuggano, et il cavallo che fugendo par che dalla velocità del corso ne meni via chi cerca ritenerlo, e tutta questa storia è condotta con arte e disegno straordinario. Nell'altra è la crocifissione di San Piero, il quale è confitto ignudo sopra la croce, che è una figura rara; mostrando i crocifissori, mentre hanno fatto in terra una buca, volere alzare in alto la croce, acciò rimanga crocifisso co' piedi all'aria; dove sono molte considerazioni notabili e belle. Ha Michelagnolo atteso solo, come s'è detto altrove, alla perfezzione dell'arte, per che né paesi vi sono, né alberi, né casamenti, né anche certe varietà e vaghezze dell'arte vi si veggono, perché non vi attese mai, come quegli che forse non voleva abassare quel suo grande ingegno in simil cose. Queste furono l'ultime pitture condotte da lui d'età d'anni settantacinque, e secondo che egli mi diceva con molta sua gran fatica: avenga che la pittura passato una certa età, e massimamente il lavorare in fresco, non è arte da vecchi. Ordinò Michelagnolo che con i suoi disegni Perino del Vaga pittore eccellentissimo facessi la volta di stucchi e molte cose di pittura, e così era ancora la volontà di papa Paulo III; che mandandolo poi per la lunga non se ne fece altro, come molte cose restano imperfette, quando per colpa degli artefici inrisoluti, quando de' principi poco accurati a sollecitargli.

Aveva papa Paulo dato principio a fortificare Borgo e condotto molti signori con Antonio da San Gallo a questa dieta, ove volse che intervenissi ancora Michelagnolo, come quelli che sapeva che le fortificazioni fatte intorno al monte di San Miniato a Fiorenza erano state ordinate da lui; e dopo molte dispute fu domandato del suo parere. Egli che era d'oppinione contraria al San Gallo et a molti altri lo disse liberamente; dove il San Gallo gli disse che era sua arte la scultura e pittura, non le fortificazioni. Rispose Michelagnolo che di quelle ne sapeva poco, ma che del fortificare, col pensiero che lungo tempo ci aveva avuto sopra, con la sperienzia di quel che aveva fatto, gli pareva sapere più che non aveva saputo né egli né tutti que' di casa sua, mostrandogli in presenzia di tutti che ci aveva fatto molti errori. E moltiplicando di qua e di là le parole, il Papa ebbe a por silenzio, e non andò molto che e' portò disegnata tutta la fortificazione di Borgo, che aperse gli occhi a tutto quello che s'è ordinato e fatto poi; e fu cagione che il portone di Santo Spirito, che era vicino al fine ordinato dal San Gallo, rimase imperfetto.

Non poteva lo spirito e la virtù di Michelagnolo restare senza far qualcosa, e poiché non poteva dipignere, si messe attorno a un pezzo di marmo per cavarvi drento quattro figure tonde maggiori che 'l vivo, facendo in quello Cristo morto per dilettazione e passar tempo, e come egli diceva, perché l'esercitarsi col mazzuolo lo teneva sano del corpo. Era questo Cristo come deposto di croce, sostenuto dalla Nostra Donna entrandoli sotto et aiutando con atto di forza Niccodemo fermato in piede e da una delle Marie che lo aiuta, vedendo mancato la forza nella madre, che vinta dal dolore non può reggere; né si può vedere corpo morto simile a quel di Cristo, che cascando con le membra abbandonate fa attiture tutte diferenti non solo degli altri suoi, ma di quanti se ne fecion mai: opera faticosa, rara in un sasso e veramente divina; e questa, come si dirà di sotto, restò imperfetta et ebbe molte disgrazie; ancora ch'egli avessi avuto animo che la dovessi servire per la sepoltura di lui a' piè di quello altare dove e' pensava di porla.

Avvenne che l'anno 1546 morì Antonio da San Gallo, onde mancato chi guidassi la fabbrica di San Piero, furono varii pareri tra i deputati di quella col Papa a chi dovessino darla. Finalmente credo che Sua Santità spirato da Dio si risolvé di mandare per Michelagnolo; e ricercatolo di metterlo in luogo suo, lo ricusò dicendo, per fuggire questo peso, che l'architettura non era arte sua propria. Finalmente non giovando i preghi, il Papa gli comandò che l'accettassi; dove con sommo suo dispiacere e contra sua voglia bisognò che egli entrassi a quella impresa. Et un giorno fra gli altri andando egli in San Piero a vedere il modello di legname che aveva fatto il San Gallo e la fabbrica per esaminarla, vi trovò tutta la setta sangallesca, che fattosi innanzi, il meglio che seppono dissono a Michelagnolo che si rallegravano che il carico di quella fabbrica avessi a essere suo, e che quel modello era un prato che non vi mancherebbe mai da pascere. "Vuoi dite il vero", rispose loro Michelagnolo, volendo inferire, come e' dichiarò così a un amico, per le pecore e buoi che non intendono l'arte; et usò dir poi publicamente che il San Gallo l'aveva condotta cieca di lumi, e che aveva di fuori troppi ordini di colonne l'un sopra l'altro, e che con tanti risalti, aguglie e tritumi di membri teneva molto più dell'opera todesca, che del buon modo antico o della vaga e bella maniera moderna; et oltre a questo, che e' si poteva risparmiare cinquanta anni di tempo a finirla e più di trecento mila scudi di spesa, e condurla con più maestà e grandezza e facilità, e maggior disegno di ordine, bellezza e comodità. E lo mostrò poi in un modello che e' fece per ridurlo a quella forma che si vede oggi condotta l'opera, e fé conoscere quel che e' diceva essere verissimo. Questo modello gli costò venticinque scudi e fu fatto in quindici dì; quello del San Gallo passò, come s'è detto, quattro mila e durò molti anni. E da questo et altro modo di fare si conobbe che quella fabbrica era una bottega et un trafico da guadagnare, il quale si andava prolongando con intenzione di non finirlo ma' da chi se l'avesse presa per incetta. Questi modi non piacevono a questo uomo da bene, e per levarsegli d'attorno, mentre che 'l Papa lo forzava a pigliare l'ufizio dello architettore di quella opera, disse loro un giorno apertamente che eglino si aiutassino con gli amici e facessino ogni opera che e' non entrassi in quel governo, perché se gli avesse avuto tal cura, non voleva in quella fabbrica nessuno di loro; le quali parole dette in publico l'ebbero per male, come si può credere, e furono cagione che gli posono tanto odio, il quale crescendo ogni dì nel vedere mutare tutto quell'ordine drento e fuori, che non lo lassorono mai vivere, ricercando ogni dì varie e nuove invenzioni per travagliarlo, come si dirà a suo luogo.

Finalmente papa Paulo gli fece un motu proprio, come lo creava capo di quella fabbrica con ogni autorità e che e' potessi fare e disfare quel che v'era, crescere e scemare e variare a suo piacimento ogni cosa, e volse che il governo de' ministri tutti dependessino dalla volontà sua. Dove Michelagnolo, visto tanta sicurtà e fede del Papa verso di lui, volse per mostrare la sua bontà che fussi dichiarato nel motu proprio come egli serviva la fabrica per l'amore de Dio e senza alcun premio, se bene il Papa gli aveva prima dato il passo di Parma del fiume, che gli rendeva da secento scudi, che lo perdé nella morte del duca Pier Luigi Farnese e per scambio gli fu dato una cancelleria di Rimini di manco valore, di che non mostrò curarsi, et ancora che il Papa gli mandassi più volte danari per tal provisione, non gli volse accettar mai, come ne fanno fede Messer Alessandro Ruffini, cameriere allora di quel Papa, e Messer Pier Giovanni Aliotti, vescovo di Furlì. Finalmente fu dal Papa aprovato il modello che aveva fatto Michelagnolo che ritirava San Piero a minor forma, ma sì bene a maggior grandezza, che satisfazione di tutti quelli che hanno giudizio, ancora che certi che fanno professione d'intendenti (ma infatti non sono) non lo aprovano. Trovò che quattro pilastri principali fatti da Bramante e lassati da Antonio da S. Gallo, che avevono a reggere il peso della tribuna, erano deboli, e' quali egli parte riempié facendo due chiocciole o lumache da lato, nelle quali sono scale piane, per le quali i somari vi salgano a portare fino in cima tutte le materie, e parimente gli uomini vi possono ire a cavallo infino in sulla cima del piano degli archi. Condusse la prima cornice sopra gli archi di trevertini, che gira in tondo, che è cosa mirabile, graziosa e molto varia da l'altre, né si può far meglio in quel genere. Diede principio alle due nicchie grandi della crociera; e dove prima per ordine di Bramante, Baldassarre e Raffaello, come s'è detto, verso Camposanto vi facevano otto tabernacoli, e così fu seguitato poi dal S. Gallo, Michelagnolo gli ridusse a tre, e di drento tre cappelle, e sopra con la volta di trevertini et ordine di finestre vive di lumi, che hanno forma varia e terribile grandezza, le quali, poi che sono in essere e van fuori in stampa, non solamente tutti quegli di Michelagnolo, ma quegli del San Gallo ancora, non mi metterò a descrivere per non essere necessario altrimenti; basta che egli con ogni accuratezza si messe a far lavorare per tutti que' luoghi dove la fabrica si aveva a mutare d'ordine, a cagione ch'ella si fermassi stabilissima, di maniera che ella non potessi essere mutata mai più da altri: provedimento di savio e prudente ingegno, perché non basta il far bene se non si assicura ancora, poi che la prosunzione e l'ardire di chi gli pare sapere, se gli è creduto più alle parole che a' fatti, e talvolta il favore di chi non intende, può far nascere di molti inconvenienti.

Aveva il populo romano col favore di quel Papa desiderio di dare qualche bella, utile e commoda forma al Campidoglio, et accomodarlo di ordini, di salite, di scale a sdruccioli e con iscaglioni, e con ornamenti di statue antiche che vi erano per abellire quel luogo; e fu ricerco perciò di consiglio Michelagnolo, il quale fece loro un bellissimo disegno e molto ricco, nel quale da quella parte dove sta il Senatore, che è verso levante, ordinò di trevertini una facciata et una salita di scale che da due bande salgono per trovare un piano, per il quale s'entra nel mezzo della sala di quel palazzo, con ricche rivolte piene di balaustri varii che servano per appoggiatoi e per parapetti. Dove per arricchirla dinanzi vi fece mettere i due fiumi a ghiacere, antichi, di marmo sopra a alcuni basamenti, uno de' quali è il Tevere, l'altro è il Nilo, di braccia nove l'uno, cosa rara, e nel mezzo ha da ire in una gran nicchia un Giove. Seguitò dalla banda di mezzogiorno, dove è il palazzo de' Conservatori, per riquadrarlo, una ricca e varia facciata con una loggia da' piè piena di colonne e nicchie, dove vanno molte statue antiche, et attorno sono varii ornamenti e di porte e finestre, che già n'è posto una parte. E dirimpetto a questa ne ha a seguitare un'altra simile di verso tramontana sotto Araceli; e dinanzi una salita di bastoni di verso ponente, qual sarà piana con un ricinto e parapetto di balaustri, dove sarà l'entrata principale con un ordine e basamenti, sopra i quali va tutta la nobiltà delle statue di che oggi è così ricco il Campidoglio. Nel mezzo della piazza in una basa in forma ovale è posto il cavallo di bronzo tanto nominato, su 'l quale è la statua di Marco Aurelio, la quale il medesimo papa Paulo fece levare dalla piazza di Laterano ove l'aveva posta Sisto Quarto. Il quale edifizio riesce tanto bello oggi, che egli è degno d'essere conumerato fra le cose degne che ha fatto Michelagnolo, et è oggi guidato per condurlo a fine da Messer Tomao de' Cavalieri gentiluomo romano, che è stato et è de' maggiori amici che avessi mai Michelagnolo, come si dirà più basso.

Aveva papa Paulo Terzo fatto tirare innanzi al San Gallo, mentre viveva, il palazzo di casa Farnese, et avendovisi a porre in cima il cornicione per il fine del tetto della parte di fuori, volse che Michelagnolo con suo disegno et ordine lo facessi, il quale non potendo mancare a quel Papa, che lo stimava et accarezzava tanto, fece fare un modello di braccia sei di legname della grandezza che aveva a essere, e quello in su uno de' canti del palazzo fé porre, che mostrassi in effetto quel che aveva a essere l'opera, che piaciuto a Sua Santità et a tutta Roma, è stato poi condotto quella parte che se ne vede a fine, riuscendo il più bello e 'l più vario di quanti se ne sieno mai visti, o antichi, o moderni; e da questo, poiché 'l San Gallo morì, volse il Papa che avessi Michelagnolo cura parimente di quella fabrica, dove egli fece il finestrone di marmo con colonne bellissime di mischio che è sopra la porta principale del palazzo con un'arme grande bellissima e varia di marmo di papa Paulo Terzo fondatore di quel palazzo. Seguitò di dentro, dal primo ordine in su del cortile di quello, gli altri due ordini con le più belle varie e graziose finestre, et ornamenti, et ultimo cornicione che si sien visti mai; là dove per le fatiche et ingegno di quell'uomo, è oggi diventato il più bel cortile di Europa. Egli allargò e fé maggior la sala grande, e diede ordine al ricetto dinanzi, e con vario e nuovo modo di sesto in forma di mezzo ovato fece condurre le volte di detto ricetto, e perché s'era trovato in quell'anno alle terme Antoniane un marmo di braccia sette per ogni verso, nel quale era stato dagli antichi intagliato Ercole che sopra un monte teneva il toro per le corna con un'altra figura in aiuto suo, et intorno a quel monte varie figure di pastori, ninfe et altri animali, opera certo di straordinaria bellezza per vedere sì perfette figure in un sasso sodo e senza pezzi, che fu giudicato servire per una fontana, Michelagnolo consigliò che si dovessi condurre nel secondo cortile e quivi restaurarlo per fargli nel medesimo modo gettare acque, che tutto piacque. La quale opera è stata fino a oggi da que' signori Farnesi fatta restaurare con diligenzia per tale effetto. Et allora Michelagnolo ordinò che si dovessi a quella dirittura fare un ponte che attraversassi il fiume del Tevere, acciò si potessi andare da quel palazzo in Trastevere a un altro lor giardino e palazzo, perché per la dirittura della porta principale che volta in Campo di Fiore si vedessi a una ochiata il cortile, la fonte, strada Iulia et il ponte e la bellezza dell'altro giardino, fino all'altra porta che riusciva nella strada di Trastevere, cosa rara e degna di quel pontefice e della virtù, giudizio e disegno di Michelagnolo.

E perché l'anno 1547 morì Bastiano Viniziano frate del Piombo, e disegnando papa Paulo che quelle statue antiche per il suo palazzo si restaurassino, Michelagnolo favorì volentieri Guglielmo dalla Porta scultore milanese, il quale giovane di speranza dal sudetto fra' Bastiano era stato raccomandato a Michelagnolo, che piaciutoli il far suo, lo messe innanzi a papa Paulo per acconciare dette statue, e la cosa andò sì innanzi che gli fece dare Michelagnolo l'ufizio del Piombo; che dato poi ordine al restaurarle, come se ne vede ancora oggi in quel palazzo, dove fra' Guglielmo [scordatosi] de' benefizii ricevuti, fu poi uno de' contrari a Michelagnolo. Successe l'anno 1549 la morte di papa Paulo Terzo, dove dopo la creazione di papa Giulio Terzo, il cardinale Farnese ordinò fare una gran sepoltura a papa Paulo suo per le mani di fra' Guglielmo, il quale avendo ordinato di metterla in San Piero sotto il primo arco della nuova chiesa sotto la tribuna, che impediva il piano di quella chiesa e non era in verità il luogo suo, e perché Michelagnolo consigliò giudiziosamente che là non poteva né doveva stare, il frate gli prese odio credendo che lo facessi per invidia, ma ben s'è poi accorto che gli diceva il vero e che il mancamento è stato da lui che ha avuto la comodità e non l'ha finita, come si dirà altrove, et io ne fo fede, avvenga che l'anno 1550 io fussi per ordine di papa Giulio Terzo andato a Roma a servirlo, e volentieri per godermi Michelagnolo, fui per tal consiglio adoperato; dove Michelagnolo desiderava che tal sepoltura si mettessi in una delle nicchie dove è oggi la colonna degli spiritati, che era il luogo suo, et io mi ero adoperato che Giulio Terzo si risolveva, per conrispondenza di quella opera, far la sua nell'altra nicchia col medesimo ordine che quella di papa Paulo; dove il frate che la prese in contrario fu cagione che la sua non s'è mai poi finita e che quella di quello altro Pontefice non si facessi, che tutto fu pronosticato da Michelagnolo.

Voltossi papa Giulio a far fare quell'anno nella chiesa di San Piero a Montorio una cappella di marmo con dua sepolture per Antonio cardinale da' Monti suo zio e Messer Fabbiano, avo del Papa, primo principio della grandezza di quella casa illustre. Della quale avendo il Vasari fatto disegni e modelli, papa Giulio, che stimò sempre la virtù di Michelagnolo et amava il Vasari, volse che Michelagnolo ne facessi il prezzo fra loro, et il Vasari suplicò il Papa a far che Michelagnolo ne pigliassi la protezione, e perché il Vasari aveva proposto per gl'intagli di quella opera Simon Mosca e per le statue Raffael Monte Lupo, consigliò Michelagnolo che non vi si facessi intagli di fogliami né manco ne' membri dell'opera di quadro, dicendo che dove vanno figure di marmo non ci vuole essere altra cosa. Per il che il Vasari dubitò che non lo facessi perché l'opera rimanessi povera; et in effetto poi quando e' la vedde finita confessò che gli avessi avuto giudizio, e grande. Non volse Michelagnolo che il Monte Lupo facessi le statue, avendo visto quanto s'era portato male nelle sue della sepoltura di Giulio Secondo, e si contentò più presto ch'elle fussino date a Bartolomeo Ammannati, quale il Vasari aveva messo innanzi, ancor che il Buonarroto avessi un poco di sdegno particolare seco e con Nanni di Baccio Bigio, nato, se ben si considera, da legger cagione, che essendo giovanetti, mossi dall'afezione dell'arte più che per offenderlo, avevano industriosamente, entrando in casa, levati a Anton Mini creato di Michelagnolo molte carte disegnate, che di poi per via del magistrato de' signori Otto gli furon rendute tutte, né gli volse, per intercessione di Messer Giovanni Norchiati canonico di San Lorenzo amico suo, fargli dare altro gastigo. Dove il Vasari, ragionandogli Michelagnolo di questa cosa, gli disse ridendo che gli pareva che non meritassino biasimo alcuno e che s'egli avessi potuto, arebbe non solamente toltogli parecchi disegni, ma l'arebbe spogliato di tutto quel che gli avessi potuto avere di suo mano solo per imparare l'arte, che s'ha da volere bene a quegli che cercan la virtù, e premiargli ancora, perché non si hanno questi a trattare come quegli che vanno rubando i danari, le robe e l'altre cose importanti. Or così si recò la cosa in burla. Fu ciò cagione che a quella opera di Montorio si diede principio, e che il medesimo anno il Vasari e lo Ammannato andorono a far condurre i marmi da Carrara a Roma per far detto lavoro. Era in quel tempo ogni giorno il Vasari con Michelagnolo; dove una mattina il Papa dispensò per amorevolezza ambidue che facendo le sette chiese a cavallo, ch'era l'anno santo, ricevessino il perdono a doppio; dove nel farle ebbono fra l'una e l'altra chiesa molti utili e begli ragionamenti dell'arte et industriosi, che 'l Vasari ne distese un dialogo, che a migliore occasione si manderà fuori con altre cose attenente all'arte.

Autenticò papa Giulio Terzo quell'anno il motu proprio di papa Paulo Terzo sopra la fabbrica di San Piero, et ancora che gli fussi detto molto male dai fautori della setta sangallesca per conto della fabbrica di San Piero, per allora non ne volse udire niente quel Papa avendogli (come era vero) mostro il Vasari ch'egli aveva dato la vita a quella fabrica, et operò con Sua Santità che quella non facessi cosa nessuna attenente al disegno senza il giudizio suo, che l'osservò sempre: perché né alla vigna Iulia fece cosa alcuna senza il suo consiglio, né in Belvedere, dove si rifece la scala che v'è ora in cambio della mezza tonda che veniva innanzi, saliva otto scaglioni et altri otto in giro entrava in dentro, fatta già da Bramante, che era posta nella maggior nicchia in mezzo Belvedere. Michelagnolo vi disegnò e fé fare quella quadra coi balaustri di preperigno che vi è ora, molto bella.

Aveva il Vasari quell'anno finito di stampare l'opera delle vite de' pittori, scultori et architettori in Fiorenza, e di niuno de' vivi aveva fatto la vita, ancor che ci fussi de' vecchi, se non di Michelagnolo; e così gli presentò l'opera, che la ricevé con molta allegrezza, dove molti ricordi di cose aveva avuto dalla voce sua il Vasari come da artefice più vecchio e di giudizio; e non andò guari che avendola letta gli mandò Michelagnolo il presente sonetto fatto da lui, il quale mi piace in memoria delle sue amorevolezze porre in questo luogo:


Se con lo stile o coi colori avete

alla natura pareggiato l'arte,

anzi a quella scemato il pregio in parte,

che 'l bel di lei più bello a noi rendete,

poi che con dotta man posto vi sete

a più degno lavoro, a vergar carte,

quel che vi manca a lei di pregio in parte

nel dar vita ad altrui tutta togliete.

Che se secolo alcuno omai contese

in far bell'opre, almen cedale, poi

che convien ch'al prescritto fine arrive.

Or le memorie altrui, già spente, accese

tornando, fate or che fien quelle e voi,

mal grado d'esse, eternalmente vive.


Partì il Vasari per Fiorenza, e lassò la cura a Michelagnolo del fare fondare a Montorio. Era Messer Bindo Altoviti, allora Consolo della nazione fiorentina, molto amico del Vasari, che in su questa occasione gli disse che sarebbe bene di far condurre questa opera nella chiesa di San Giovanni de' fiorentini, e che ne aveva già parlato con Michelagnolo, il quale favorirebbe la cosa e sarebbe questo cagione di dar fine a quella chiesa. Piacque questo a Messer Bindo, et essendo molto famigliare del Papa gliene ragionò caldamente, mostrando che sarebbe stato bene che le sepolture e la cappella che Sua Santità faceva fare per Montorio l'avesse fatte nella chiesa di San Giovanni de' fiorentini, et aggiugnendo che ciò sarebbe cagione che con questa occasione e sprone la nazione farebbe spesa tale, che la chiesa arebbe la sua fine; e se Sua Santità facesse la cappella maggiore, gli altri mercanti farebbono sei cappelle, e poi di mano in mano il restante. Là dove il Papa si voltò d'animo, et ancora che ne fussi fatto modello e prezzo, andò a Montorio e mandò per Michelagnolo, al quale ogni giorno il Vasari scriveva et aveva secondo l'occasione delle faccende risposta da lui. Scrisse adunque al Vasari Michelagnolo, al primo dì d'agosto 1550, la mutazione che aveva fatto il Papa, e son queste le parole istesse di sua mano:


Messer Giorgio mio caro. Circa al rifondare a San Piero a Montorio come il Papa non volse intendere non ve ne scrissi niente, sapendo voi essere avisato dall'uomo vostro di qua. Ora mi accade dirvi quello che segue, e questo è che ier mattina, sendo il Papa andato a detto Montorio, mandò per me, riscontràlo in sul ponte che tornava: ebbi lungo ragionamento seco circa le sepolture allogatevi, et all'ultimo mi disse che era risoluto non volere mettere dette sepolture in su quel monte, ma nella chiesa de' fiorentini; richiesemi di parere e di disegno, et io ne lo confortai assai, stimando che per questo mezzo detta chiesa s'abbia a finire. Circa le vostre tre ricevute non ho penna da rispondere a tante altezze, ma se avessi caro di essere in qualche parte quello che mi fate, non l'arei caro per altro se non perché voi avessi un servidore che valessi qualcosa. Ma io non mi maraviglio, sendo voi risucitatore di uomini morti, che voi allunghiate vita ai vivi, o vero che i mal vivi furiate per infinito tempo alla morte. E per abreviare, io son tutto, come son, vostro. Michelagnolo Buonaruoti in Roma.


Mentre che queste cose si travagliavano e che la nazione cercava di far danari, nacquero certe difficultà, per che non conclusero niente, e così la cosa si raffreddò. Intanto avendo già fatto il Vasari e l'Ammannato cavare a Carrara tutti i marmi, se ne mandò a Roma gran parte, e così l'Ammannato con essi, scrivendo per lui il Vasari al Buonaruoto che facessi intendere al Papa dove voleva questa sepoltura, e che avendo l'ordine facessi fondare, sùbito che Michelagnolo ebbe la lettera, parlò al nostro signore e scrisse al Vasari questa resoluzione di man sua:


Messer Giorgio mio caro. Sùbito che Bartolomeo fu giunto qua, andai a parlare al Papa, e, visto che voleva fare rifondare a Montorio per le sepolture, provveddi d'un muratore di San Piero. El Tantecose lo seppe e volsevi mandare uno a suo modo; io per non combattere con chi dà le mosse a' venti, mi son tirato adreto, perché essendo uomo leggeri, non vorrei essere trasportato in qualche macchia. Basta che nella chiesa de' fiorentini non mi pare s'abbia più a pensare. Tornate presto e state sano. Altro non mi accade. Addì 13 di ottobre 1550.


Chiamava Michelagnolo il Tantecose monsignor di Furlì, perché voleva fare ogni cosa. Essendo maestro di camera del Papa, provedeva per le medaglie, gioie, camei e figurine di bronzo, pitture, disegni, e voleva che ogni cosa dipendessi da lui. Volentieri fuggiva Michelagnolo questo uomo perché aveva fatto sempre ufizii contrarii al bisogno di Michelagnolo, e perciò dubitava non essere da l'ambizione di questo uomo trasportato in qualche macchia. Basta che la nazione fiorentina perse per quella chiesa una bellissima occasione, che Dio sa quando la racquisterà già mai, et a me ne dolse infinitamente. Non ho voluto mancare di fare questa breve memoria perché si vegga che questo uomo cercò di giovare sempre alla nazione sua et agli amici suoi et all'arte.

Né fu tornato a pena il Vasari a Roma, che innanzi che fussi il principio dell'anno 1551, la setta sangallesca aveva ordinato contro Michelagnolo un trattato, che il Papa dovessi fare congregazione in San Pietro, e ragunare i fabriceri e tutti quegli che avevono la cura per mostrare con false calumnie a Sua Santità che Michelagnolo aveva guasto quella fabrica: perché avendo egli già murato la nicchia del re, dove sono le tre cappelle, e condottole con le tre finestre sopra, né sapendo quel che si voleva fare nella volta, con giudizio debole avevano dato ad intendere al cardinale Salviati vecchio et a Marcello Cervino, che fu poi papa, che San Piero rimaneva con poco lume. Là dove ragunati tutti, il Papa disse a Michelagnolo che i deputati dicevano che quella nicchia arebbe reso poco lume. Gli rispose: "Io vorrei sentire parlare questi deputati". Il cardinale Marcello rispose: "Siàn noi". Michelagnolo gli disse: "Monsignore, sopra queste finestre, nella volta che s'ha a fare di trevertini ne va tre altre". "Voi non ce l'avete mai detto" disse il cardinale, e Michelagnolo soggiunse: "Io non sono, né manco voglio essere obligato a dirlo, né alla signoria vostra né a nessuno, quel che io debbo o voglio fare; l'ufizio vostro è di far venire danari et avere loro cura dai ladri, et a' disegni della fabbrica ne avete a lasciare il carico a me". E voltossi al Papa e disse: "Padre Santo, vedete quel che io guadagno, che se queste fatiche che io duro non mi giovano all'anima, io perdo tempo e l'opera". Il Papa, che lo amava, gli messe le mani in sulle spalle e disse: "Voi guadagnate per l'anima e per il corpo, non dubitate", e per aversegli saputo levare dinanzi, gli crebbe il Papa amore infinitamente e comandò a lui et al Vasari che 'l giorno seguente amendue fussino alla vigna Iulia; nel qual luogo ebbe molti ragionamenti seco, che condussero quell'opera quasi alla bellezza che ella è, né faceva né deliberava cosa nessuna di disegno senza il parere e giudizio suo. Et in fra l'altre volse, perché egli ci andava spesso col Vasari, stando Sua Santità intorno alla fonte dell'Acqua Vergine con dodici cardinali, arrivato Michelagnolo volse (dico) il Papa per forza che Michelagnolo gli sedessi allato, quantunque egli umilissimamente il recusassi, onorando lui sempre, quanto è possibile, la virtù sua.

Fecegli fare un modello d'una facciata per un palazzo che Sua Santità desiderava fare allato a San Rocco, volendosi servire del mausoleo di Augusto per il resto della muraglia; che non si può vedere per disegno di facciata, né il più vario, né il più ornato, né il più nuovo di maniera e di ordine, avenga, come s'è visto in tutte le cose sue, che e' non s'è mai voluto obligare a legge, o antica, o moderna di cose d'architettura, come quegli che ha auto l'ingegno atto a trovare sempre cose nuove e varie e non punto men belle. Questo modello è oggi appresso il duca Cosimo de' Medici, che gli fu donato da papa Pio Quarto, quando gli andò a Roma, che lo tiene fra le sue cose più care. Portò tanto rispetto questo Papa a Michelagnolo, che del continuo prese la sua protezione contro a cardinali et altri che cercavano calunniarlo, e volse che sempre per valenti e reputati che fussino gli artefici andassino a trovarlo a casa, e gli ebbe tanto rispetto e reverenza, che non si ardiva Sua Santità per non gli dare fastidio a richiederlo di molte cose, che Michelagnolo ancor che fussi vecchio poteva fare. Aveva Michelagnolo fino nel tempo di Paulo Terzo per suo ordine dato principio a far rifondare il ponte Santa Maria di Roma, il quale per il corso dell'acqua continuo e per l'antichità sua era indebolito e rovinava. Fu ordinato da Michelagnolo per via di casse il rifondare e fare diligenti ripari alle pile, e di già ne aveva condotto a fine una gran parte e fatto spese grosse in legnami e trevertini a benefizio di quella opera, e venendosi nel tempo di Giulio Terzo in congregazione coi cherici di camera in pratica di dargli fine, fu proposto fra loro da Nanni di Baccio Bigio architetto, che con poco tempo e somma di danari si sarebbe finito, allogando in cottimo a lui; e con certo modo allegavano sotto spezie di bene per isgravar Michelagnolo, perché era vecchio e che non se ne curava, e stando così la cosa non se ne verrebbe mai a fine. Il Papa, che voleva poche brighe, non pensando a quel che poteva nascere, diede autorità a' cherici di camera che come cosa loro n'avessino cura, i quali lo dettono poi, senza che Michelagnolo ne sapessi altro, con tutte quelle materie con patto libero a Nanni; il quale non attese a quelle fortificazioni, come era necessario a rifondarlo, ma lo scaricò di peso per vendere gran numero di trevertini di che era rifiancato e solicato anticamente il ponte, che venivano a gravarlo e facevanlo più forte e sicuro e più gagliardo, mettendovi in quel cambio materia di ghiaie et altri getti, che non si vedeva alcun difetto di drento, e di fuori vi fece sponde et altre cose, che a vederlo pareva rinovato tutto, ma indebolito totalmente e tutto assottigliato. Seguì da poi cinque anni dopo, che venendo la piena del diluvio l'anno 1557, egli rovinò di maniera, che fece conoscere il poco giudizio de' cherici di camera, e 'l danno che ricevé Roma per partirsi dal consiglio di Michelagnolo, il quale predisse questa sua rovina molte volte a' suoi amici et a me, che mi ricordo passandovi insieme a cavallo che mi diceva: "Giorgio, questo ponte ci triema sotto; sollecitiamo il cavalcare, che non rovini in mentre ci siàn su".

Ma tornando al ragionamento di sopra, finito che fu l'opera di Montorio e con molta mia satisfazione, io tornai a Fiorenza per servizio del duca Cosimo, che fu l'anno 1554. Dolse a Michelagnolo la partita del Vasari e parimente a Giorgio, avenga che ogni giorno que' suoi aversarii ora per una via or per un'altra lo travagliavano: per il che non mancarono giornalmente l'uno a l'altro scriversi, e l'anno medesimo d'aprile dandogli nuova il Vasari che Lionardo nipote di Michelagnolo aveva avuto un figliuolo mastio, e con onorato corteo di donne nobilissime l'avevano accompagnato al battesimo, rinovando il nome del Buonaruoto, Michelagnolo rispose in una lettera al Vasari queste parole:


Giorgio amico caro. Io ho preso grandissimo piacere della vostra, visto che pur vi ricordate del povero vecchio, e più per esservi trovato al trionfo, che mi scrivete d'aver visto rinascere un altro Buonaruoto, del quale aviso vi ringrazio quanto so e posso; ma ben mi dispiace tal pompa, perché l'uomo non dee ridere quando il mondo tutto piange. Però mi pare che Lionardo non abbia a fare tanta festa d'uno che nasce, con quella allegrezza che s'ha a serbare alla morte di chi è ben vissuto. Né vi maravigliate se non rispondo subito: lo fo per non parere mercante. Ora io vi dico che per le molte lode, che per detta mi date, se io ne meritassi sol una, mi parrebbe, quando io mi vi detti in anima et in corpo, avervi dato qualcosa, et aver sadisfatto a qualche minima parte di quel che io vi son debitore; dove vi ricognosco ogni ora creditore di molte più che io non ho da pagare. E perché son vecchio oramai non spero in questa, ma nell'altra vita potere pareggiare il conto: però vi prego di pazienzia, e son vostro, e le cose di qua stan pur così.


Aveva già nel tempo di Paulo Terzo mandato il duca Cosimo il Tribolo a Roma per vedere se egli avesse potuto persuadere Michelagnolo a ritornare a Fiorenza, per dar fine alla sagrestia di San Lorenzo. Ma scusandosi Michelagnolo che invecchiato non poteva più il peso delle fatiche, e con molte ragioni lo escluse, che non poteva partirsi di Roma. Onde il Tribolo dimandò finalmente della scala della libreria di San Lorenzo, della quale Michelagnolo aveva fatto fare molte pietre, e non ce n'era modello né certezza appunto della forma; e quantunque ci fussero segni in terra in un mattonato et altri schizzi di terra, la propria et ultima risoluzione non se ne trovava. Dove per preghi che facessi il Tribolo e ci mescolassi il nome del Duca, non rispose mai altro, se non che non se ne ricordava. Fu dato dal duca Cosimo ordine al Vasari che scrivesse a Michelagnolo che gli mandassi a dire che fine avesse a avere questa scala; ché forse per l'amicizia et amore che gli portava, doverebbe dire qualcosa, che sarebbe cagione che venendo tal risoluzione ella si finirebbe. Scrisse il Vasari a Michelagnolo l'animo del Duca, e che tutto quel che si aveva a condurre toccherebbe a lui esserne lo essecutore, il che farebbe con quella fede che sapeva che e' soleva aver cura delle cose sue. Per il che mandò Michelagnolo l'ordine di far detta scala in una lettera di sua mano addì 28 di settembre 1555:


Messer Giorgio amico caro. Circa la scala della libreria, di che m'è stato tanto parlato, crediate che se io mi potessi ricordare come io l'avevo ordinata, che io non mi farei pregare. Mi torna bene nella mente come un sogno una certa scala, ma non credo che sia appunto quella che io pensai allora, perché mi torna cosa goffa; pure la scriverò qui, cioè che i' togliessi una quantità di scatole aovate di fondo d'un palmo l'una, ma non d'una lunghezza e larghezza, e la maggiore e prima ponessi in sul pavimento, lontana dal muro dalla porta tanto quanto volete che la scala sia dolce o cruda; et un'altra ne mettessi sopra questa che fussi tanto minore per ogni verso, che in sulla prima di sotto avanzassi tanto piano, quanto vuole il piè per salire, diminuendole e ritirandole verso la porta fra l'una e l'altra, sempre per salire, e che la diminuzione dell'ultimo grado sia quant'è 'l vano della porta, e detta parte di scala aovata abbi come dua ale, una di qua et una di là, che vi seguitino i medesimi gradi e non aovati. Di queste serva il mezzo per il signore dal mezzo in su di detta scala, e rivolte di dette alie ritornino al muro; dal mezzo in giù insino in sul pavimento si discostino con tutta la scala dal muro circa tre palmi, in modo che l'imbasamento del ricetto non sia occupato in luogo nessuno, e resti libera ogni faccia. Io scrivo cosa da ridere, ma so ben che voi troverete cosa al proposito.


Scrisse ancora Michelagnolo in que' dì al Vasari che essendo morto Giulio Terzo, e creato Marcello, la setta gli era contro, per la nuova creazione di quel Pontefice cominciò di nuovo a travagliarlo; per il che sentendo ciò il Duca, e dispiacendogli questi modi, fece scrivere a Giorgio e dirli che doveva partirsi di Roma e venirsene a stare in Fiorenza, dove quel Duca non desiderava altro, se non talvolta consigliarsi per le sue fabriche secondo i suoi disegni e che arebbe da quel signore tutto quello che e' desiderava, senza far niente di sua mano. E di nuovo gli fu per Messer Lionardo Marinozzi cameriere segreto del duca Cosimo portate lettere scritte da sua eccellenza e così dal Vasari. Dove essendo morto Marcello e creato Paulo Quarto, dal quale di nuovo gli era stato, in quel principio che egli andò a baciare il piede, fatte offerte assai, in desiderio della fine della fabbrica di San Pietro, e l'obligo, che gli pareva avervi, lo tenne fermo, e pigliando certe scuse scrisse al Duca che non poteva per allora servirlo, et una lettera al Vasari con queste parole proprie:


Messer Giorgio amico caro. Io chiamo Iddio in testimonio, come io fu' contra mia voglia con grandissima forza messo da papa Paulo Terzo nella fabbrica di San Pietro di Roma dieci anni sono; e se si fussi seguitato fino a oggi di lavorare in detta fabbrica come si faceva allora, io sarei ora a quello di detta fabbrica, ch'io desidererei tornarmi costà; ma per mancamento di danari la s'è molto allentata, et allentasi quando l'è giunta in più faticose e dificil parti, in modo che abandonandola ora non sarebbe altro che con grandissima vergogna e peccato perdere il premio delle fatiche che io ho durate in detti dieci anni per l'amor de Dio. Io vi ho fatto questo discorso per risposta della vostra, e perché ho una lettera del Duca, m'ha fatto molto maravigliare che sua signoria si sia degnata a scrivere con tanta dolcezza. Ne ringrazio Iddio e sua eccellenza quanto so e posso. Io esco di proposito, perché ho perduto la memoria e 'l cervello, e lo scrivere m'è di grande affanno, perché non è mia arte. La conclusione è questa: di farvi intendere quel che segue dello abandonare la sopra detta fabbrica, e partirsi di qua: la prima cosa contenterei parecchi ladri, e sarei cagione della sua rovina, e forse ancora del serrarsi per sempre.


Seguitando di scrivere Michelagnolo a Giorgio, gli disse per escusazione sua col Duca, che avendo casa e molte cose a comodo suo in Roma, che valevano migliaia di scudi, oltra a l'esser indisposto della vita per renella, fianco e pietra, come hanno tutti e' vecchi e come ne poteva far fede maestro Eraldo suo medico, del quale si lodava dopo Dio avere la vita da lui, per che per queste cagioni non poteva partirsi, e che finalmente non gli bastava l'animo se non di morire. Raccomandavasi al Vasari come per più altre lettere, che ha di suo, che lo raccomandassi al Duca che gli perdonassi oltra a quello che (come ho detto) gli scrisse al Duca in escusazione sua. E se Michelagnolo fussi stato da poter cavalcare sarebbe subito venuto a Fiorenza, onde credo che non si sarebbe saputo poi partire per ritornarsene a Roma, tanto lo mosse la tenerezza e l'amore che portava al Duca; et intanto attendeva a lavorare in detta fabbrica in molti luoghi, per fermarla ch'ella non potesse essere più mossa.

In questo mentre alcuni gli avevon referto che papa Paulo Quarto era d'animo di fargli acconciare la facciata della cappella dove è il Giudizio Universale, perché diceva che quelle figure mostravano le parte vergognose troppo disonestamente: là dove fu fatto intendere l'animo del Papa a Michelagnolo il quale rispose: "Dite al Papa che questa è piccola faccenda, e che facilmente si può acconciare; che acconci egli il mondo, che le pitture si acconciano presto". Fu tolto a Michelagnolo l'ufizio della cancelleria di Rimini; non volse mai parlare al Papa, che non sapeva la cosa, il quale dal suo coppiere gli fu levato col volergli fare dare per conto della fabbrica di San Piero scudi cento il mese, che fattogli portare una mesata a casa, Michelagnolo non gli accettò. L'anno medesimo gli nacque la morte di Urbino suo servidore, anzi come si può chiamare e come aveva fatto, suo compagno: questo venne a stare con Michelagnolo a Fiorenza l'anno 1530, finito l'assedio, quando Antonio Mini suo discepolo andò in Francia, et usò grandissima servitù a Michelagnolo, tanto che in ventisei anni quella servitù e dimestichezza fece che Michelagnolo lo fé ricco e l'amò tanto, che così vecchio in questa sua malattia lo servì e dormiva la notte vestito a guardarlo. Per il che dopo che fu morto, il Vasari per confortarlo gli scrisse et egli rispose con queste parole:


Messer Giorgio mio caro, io posso male scrivere, pur per risposta della vostra lettera dirò qualche cosa. Voi sapete come Urbino è morto: di che m'è stato grandissima grazia di Dio, ma con grave mio danno et infinito dolore. La grazia è stata che dove in vita mi teneva vivo, morendo m'ha insegnato morire non con dispiacere, ma con desiderio della morte. Io l'ho tenuto ventisei anni e hollo trovato rarissimo e fedele, et ora che lo avevo fatto ricco e che io l'aspettavo bastone e riposo della mia vecchiezza, m'è sparito, né m'è rimasto altra speranza che di rivederlo in Paradiso. E di questo n'ha mostro segno Iddio per la felicissima morte che ha fatto, che più assai che 'l morire gli è incresciuto lasciarmi in questo mondo traditore con tanti affanni; benché la maggior parte di me n'è ita seco, né mi rimane altro che una infinita miseria; e mi vi raccomando.


Fu adoperato al tempo di Paulo Quarto nelle fortificazioni di Roma in più luoghi, e da Salustio Peruzzi, a chi quel Papa, come s'è detto altrove, aveva dato a fare il portone di Castello Santo Agnolo, oggi la metà rovinato; si adoperò ancora a dispensare le statue di quella opera e vedere i modelli degli scultori e correggerli. Et in quel tempo venne vicino a Roma lo esercito franzese, dove pensò Michelagnolo con quella città avere a capitare male; dove Antonio Franzese da Castel Durante, che gli aveva lassato Urbino in casa per servirlo nella sua morte, si risolvé fuggirsi di Roma, e segretamente andò Michelagnolo nelle montagne di Spuleto; dove egli visitando certi luoghi di romitori, nel qual tempo scrivendoli il Vasari e mandandogli una operetta, che Carlo Lenzoni cittadino fiorentino alla morte sua aveva lasciata a Messer Cosimo Bartoli, che dovessi farla stampare e dirizzare a Michelagnolo, finita che ella fu in que' dì la mandò il Vasari a Michelagnolo, che ricevuta, rispose così:

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