Messer Giorgio amico caro. Io ho ricevuto il libretto di Messer Cosimo che voi mi mandate, et in questa sarà una di ringraziamento; pregovi che gliene diate, et a quella mi raccomando.

Io ho avuto a questi dì con gran disagio e spesa e gran piacere nelle montagne di Spuleti a visitare que' romiti, in modo che io son ritornato men che mezzo a Roma, perché veramente e' non si trova pace se non ne' boschi. Altro non ho che dirvi, mi piace che stiate sano e lieto, e mi vi raccomando. De' 18 di settembre 1556.


Lavorava Michelagnolo quasi ogni giorno per suo passatempo intorno a quella pietra che s'è già ragionato, con le quattro figure, la quale egli spezzò in questo tempo per queste cagioni: perché quel sasso aveva molti smerigli et era duro e faceva spesso fuoco nello scarpello; o fusse pure che il giudizio di quello uomo fussi tanto grande che non si contentava mai di cosa che e' facessi: e che e' sia il vero, delle sue statue se ne vede poche finite nella sua virilità, ché le finite affatto sono state condotte da lui nella sua gioventù, come il Bacco, la Pietà della Febre, il Gigante di Fiorenza, il Cristo della Minerva, che queste non è possibile né crescere né diminuire un grano di panìco senza nuocere loro; l'altre del duca Giuliano e Lorenzo, Notte et Aurora, e 'l Moisè con altre dua in fuori, che non arrivano tutte a undici statue, l'altre dico sono state imperfette, e son molte maggiormente, come quello che usava dire, che se s'avessi avuto a contentare di quel che faceva, n'arebbe mandate poche, anzi, nessuna fuora; vedendosi ch'egli era ito tanto con l'arte e col giudizio innanzi, che com'egli aveva scoperto una figura e conosciutovi un minimo che d'errore, la lasciava stare e correva a manimettere un altro marmo, pensando non avere a venire a quel medesimo; et egli spesso diceva essere questa la cagione che egli diceva d'aver fatto sì poche statue e pitture. Questa Pietà, come fu rotta, la donò a Francesco Bandini. In questo tempo Tiberio Calcagni scultore fiorentino era divenuto molto amico di Michelagnolo, per mezzo di Francesco Bandini e di Messer Donato Giannotti, et essendo un giorno in casa di Michelagnolo dove era rotta questa Pietà, dopo lungo ragionamento li dimandò per che cagione l'avessi rotta e guasto tante maravigliose fatiche: rispose esserne cagione la importunità di Urbino suo servidore, che ogni dì lo sollecitava a finirla, e che fra l'altre cose gli venne levato un pezzo d'un gomito della Madonna, e che prima ancora se l'era recata in odio e ci aveva avuto molte disgrazie attorno di un pelo che v'era; dove scappatogli la pazienzia la roppe, e la voleva rompere affatto, se Antonio suo servidore non se gli fusse raccomandato che così com'era gliene donassi. Dove Tiberio inteso ciò, parlò al Bandino, che desiderava di avere qualcosa di mano sua, et il Bandino operò che Tiberio promettessi a Antonio scudi duecento d'oro, e pregò Michelagnolo che se volessi che con suo aiuto di modelli Tiberio la finissi per il Bandino, saria cagione che quelle fatiche non sarebbono gettate invano, e ne fu contento Michelagnolo; là dove ne fece loro un presente. Questa fu portata via subito e rimessa insieme poi da Tiberio, e rifatto non so che pezzi, ma rimase imperfetta per la morte del Bandino, di Michelagnolo e di Tiberio. Truovasi al presente nelle mani di Pierantonio Bandini, figliuolo di Francesco, alla sua vigna di Monte Cavallo. E tornando a Michelagnolo, fu necessario trovar qualcosa poi di marmo perché e' potessi ogni giorno passar tempo scarpellando, e fu messo un altro pezzo di marmo, dove era stato già abbozzato un'altra Pietà, varia da quella, molto minore.

Era entrato a servire Paulo Quarto Pirro Ligorio architetto, e sopra alla fabbrica di San Piero, e di nuovo travagliava Michelagnolo, et andavano dicendo che egli era rimbambito. Onde sdegnato da queste cose volentieri se ne sarebbe tornato a Fiorenza, e soprastato a tornarsene, fu di nuovo da Giorgio sollecitato con lettere; ma egli conosceva d'esser tanto invecchiato e condotto già alla età di ottantun anno, scrivendo al Vasari in quel tempo per suo ordinario, e mandandogli varii sonetti spirituali, gli diceva che era al fine della vita, che guardassi dove egli teneva i suoi pensieri, leggendo vedrebbe che era alle ventiquattro ore, e non nasceva pensiero in lui che non vi fussi scolpita la morte, dicendo in una sua:


Dio il voglia Vasari che io la tenga a disagio qualche anno, e so che mi direte bene che io sia vecchio e pazzo a voler fare sonetti; ma perché molti dicono che io sono rimbambito, ho voluto fare l'uffizio mio. Per la vostra veggo l'amore che mi portate, e sappiate per cosa certa che io arei caro di riporre queste mie debili ossa a canto a quelle di mio padre, come mi pregate: ma partendo di qua sarei causa d'una gran rovina della fabbrica di San Piero, d'una gran vergogna e d'un grandissimo peccato. Ma come sia stabilita che non possa essere mutata, spero far quanto mi scrivete, se già non è peccato a tenere a disagio parecchi ghiotti che aspettano mi parta presto.


Era con questa lettera scritto pur di suo mano il presente sonetto:


Giunto è già 'l corso della vita mia

con tempestoso mar per fragil barca

al comun porto, ov'a render si varca

conto e ragion d'ogni opra trista e pia.

Onde l'affettuosa fantasia,

che l'arte mi fece idolo e monarca,

cognosco or ben, quant'era d'error carca,

e quel ch'a mal suo grado ognun desia.

Gli amorosi pensier già vani e lieti

che fien or, s'a due morti mi avicino?

D'una son certo, e l'altra mi minaccia.

Né pinger né scolpir fia più che queti

l'anima volta a quello amor divino,

ch'aperse a prender noi in croce le braccia.


Per il che si vedeva che andava ritirando verso Dio e lasciando le cure dell'arte per le persecuzioni de' suoi maligni artefici e per colpa di alcuni soprastanti della fabbrica, che arebbono voluto, come e' diceva, menar le mani. Fu risposto per ordine del duca Cosimo a Michelagnolo dal Vasari con poche parole in una lettera confortandolo al rimpatriarsi, e col sonetto medesimo corrispondente alle rime. Sarebbe volentieri partitosi di Roma Michelagnolo, ma era tanto stracco et invecchiato, che aveva, come si dirà più basso, stabilito tornarsene; ma la volontà era pronta, inferma la carne, che lo riteneva in Roma. Et avvenne di giugno l'anno 1557, avendo egli fatto modello della volta che copriva la nicchia che si faceva di trevertino alla cappella del re, che nacque per non vi potere ire, come soleva, uno errore: che il capo maestro in sul corpo di tutta la volta prese la misura con una centina sola, dove avevano a essere infinite. Michelagnolo, come amico e confidente del Vasari, gli mandò di sua mano disegni con queste parole scritte a piè di dua:


La centina segnata di rosso la prese il capo maestro sul corpo di tutta la volta; di poi, come si cominciò a passar al mezzo tondo, che è nel colmo di detta volta, s'accorse dell'errore che faceva detta centina, come si vede qui nel disegno le segnate di nero. Con questo errore è ita la volta tanto innanzi, che s'ha a disfare un gran numero di pietre, perché in detta volta non ci va nulla di muro, ma tutto trivertino, et il diametro de' tondi, che senza la cornice gli ricigne di ventidue palmi. Questo errore, avendo il modello fatto appunto, come fo d'ogni cosa, è stato fatto per non vi potere andare spesso per la vecchiezza; e dove io credetti che ora fussi finita detta volta, non sarà finita in tutto questo verno; e se si potessi morire di vergogna e dolore, io non sarei vivo. Pregovi che raguagliate il Duca ché io non sono ora a Fiorenza.


E seguitando nell'altro disegno dove egli aveva disegnato la pianta diceva così:


Messer Giorgio, perché sia meglio inteso la dificultà della volta, per osservare il nascimento suo fino di terra, è stato forza dividerla in tre volte in luogo delle finestre da basso divise dai pilastri, come vedete, che e' vanno piramidati in mezzo, dentro del colmo della volta come fa il fondo e' lati delle volte ancora, e bisognò governarle con un numero infinito di centine, e tanto fanno mutazione e per tanti versi di punto in punto, che non ci si può tener regola ferma; e' tondi e' quadri che vengono nel mezzo de' lor fondi hanno a diminuire e crescere per tanti versi et andare a tanti punti, che è dificil cosa a trovare il modo vero. Nondimeno, avendo il modello, come fo di tutte le cose, non si doveva mai pigliare sì grande errore di volere con una centina sola governare tutt'a tre que' gusci, onde n'è nato ch'è bisognato con vergogna e danno disfare, e disfassene ancora un gran numero di pietre. La volta et i conci et i vani è tutta di trivertino, come l'altre cose dabasso, cosa non usata a Roma.


Fu assoluto dal duca Cosimo Michelagnolo, vedendo questi inconvenienti, del suo venire più a Fiorenza, dicendogli che aveva più caro il suo contento, e che seguitasse San Piero, che cosa che potessi avere al mondo, e che si quietassi. Onde Michelagnolo scrisse al Vasari nella medesima carta che ringraziava il Duca quanto sapeva e poteva di tanta carità, dicendo: "Dio mi dia grazia ch'io possa servirlo di questa povera persona", ché la memoria e 'l cervello erano iti aspettarlo altrove. La data di questa lettera fu d'agosto l'anno 1557; avendo per questo Michelagnolo conosciuto che 'l Duca stimava e la vita e l'onor suo più che egli stesso che l'adorava. Tutte queste cose e molt'altre che non fa di bisogno, aviamo appresso di noi scritte di sua mano. Era ridotto Michelagnolo in un termine, che vedendo che in San Piero si trattava poco, et avendo già tirato innanzi gran parte del fregio delle finestre di dentro e delle colonne doppie di fuora che girano sopra il cornicione tondo, dove s'ha poi a posare la cupola, come si dirà, che confortato da' maggiori amici suoi come dal cardinale di Carpi, da Messer Donato Gianozzi e da Francesco Bandini e da Tomao de' Cavalieri e dal Lottino, lo stringevano che, poi che vedeva il ritardare del volgere la cupola, ne dovessi fare almeno un modello; stette molti mesi di così senza risolversi, alla fine vi diede principio, e ne condusse a poco a poco un piccolo modello di terra per potervi poi con l'esempio di quello e con le piante e profili che aveva disegnati, farne fare un maggiore di legno: il quale, datoli principio, in poco più d'uno anno lo fece condurre a maestro Giovanni franzese con molto suo studio e fatica, e lo fé di grandezza tale, che le misure e proporzioni piccole tornassino parimente col palmo antico romano, nell'opera grande all'intera perfezzione, avendo condotto con diligenzia in quello tutti i membri di colonne, base, capitegli, porte, finestre e cornici e risalti, e così ogni minuzia, conoscendo in tale opera non si dover fare meno; poiché fra i cristiani, anzi in tutto il mondo, non si trovi né vegga una fabbrica di maggiore ornamento e grandezza di quella. E mi par necessario, se delle cose minori aviamo perso tempo a notarle, sia molto più utile e debito nostro descrivere questo modo di disegno per dover condurre questa fabbrica e tribuna con la forma et ordine e modo che ha pensato di darli Michelagnolo; però con quella brevità che potrò ne faremo una semplice narrazione, acciò che, se mai accadessi che non consenta Dio, come s'è visto fino a ora essere stata questa opera travagliata in vita di Michelagnolo, così fusse dopo la morte sua dall'invidia e malignità de' presuntuosi, possino questi miei scritti qualunque e' si sieno, giovare ai fedeli che saranno esecutori della mente di questo raro uomo, et ancora raffrenare la volontà de' maligni che volessino alterarle; e così in un medesimo tempo si giovi e diletti et apra la mente a' begli ingegni che sono amici e si dilettano di questa professione.

E per dar principio, dico che questo modello fatto con ordine di Michelagnolo trovo che sarà nel grande tutto il vano della tribuna di dentro palmi 186, parlando della sua larghezza da muro a muro, sopra il cornicione grande che gira di dentro in tondo di trivertino che si posa sopra i quattro pilastri grandi doppi che si muovono di terra, con i suo capitegli intagliati d'ordine corinto accompagnato dal suo architrave, fregio e cornicione pur di trivertino, il quale cornicione girando intorno intorno alle nicchie grande si posa e lieva sopra i quattro grandi archi delle tre nicchie e della entrata che fanno croce a quella fabrica: dove comincia poi a nascere il principio della tribuna, il nascimento della quale comincia un basamento di trivertino con un piano largo palmi sei, dove si camina, e questo basamento gira in tondo a uso di pozzo, et è la sua grossezza palmi 33 et undici oncie, alto fino alla sua cornice palmi 11 once dieci, e la cornice di sopra è palmi 8 incirca, e l'agetto è palmi sei e mezzo. Entrasi per questo basamento tondo per salire nella tribuna per quattro entrate che sono sopra gli archi delle nicchie, et ha diviso la grossezza di questo basamento in tre parti, quello dalla parte di drento è palmi 15, quello di fuori è palmi 11, e quel di mezzo palmi 7 once 11, che fa la grossezza di palmi 33 once 11. Il vano di mezzo è voto e serve per andito, il quale è alto di sfogo duo quadri e gira in tondo unito con una volta a mezza botte et ogni dirittura delle quattro entrate [ha] otto porte, che con quattro scaglion che saglie ciascuna, una ne va al piano della cornice del primo imbasamento larga palmi 6 e mezzo, e l'altra saglie alla cornice di dentro che gira intorno alla tribuna larga 8 palmi e tre quarti, nelle quali per ciascuna si camina agiatamente di dentro e di fuori a quello edifizio; è da una delle entrate a l'altra in giro palmi 201 che essendo 4 spazii viene a girare tutta palmi 806. Séguita per potere salire dal piano di questo imbasamento dove posano le colonne et i pilastri e che fa poi fregio delle finestre di drento intorno intorno, il quale è alto palmi 14 once una, intorno al quale dalla banda di fuori è da' piè un brieve ordine di cornice, e così da capo, che non son da ogetto se non 10 once, et è tutto di trivertino. Nella grossezza della terza parte sopra quella di drento che aviàn detto esser grossa palmi 15 è fatto una scala in ogni quarta parte, la metà della quale saglie per un verso, e l'altra metà per l'altro, larga palmi 4 et un quarto; questa si conduce al piano delle colonne. Comincia sopra questo piano a nascere in sulla dirittura del vivo da l'imbasamento 18 grandissimi pilastroni tutti di trivertino, ornati ciascuno di dua colonne di fuori e pilastri di drento, come si dirà disotto, e fra l'uno e l'altro ci resta tutta la larghezza di dove hanno da essere tutte le finestre che danno lume alle tribune. Questi son volti per fianchi al punto del mezzo della tribuna lunghi palmi 36, e nella faccia dinanzi 19 e mezzo. Ha ciascuno di questi dalla banda di fuori dua colonne, che il dappiè del dado loro è palmi 8 e tre quarti, et alti palmi 1 e mezzo. La basa è larga palmi 5 once 8, alta palmi [...] once 11, il fuso della colonna è 43 palmi e mezzo, il dapiè palmi 5 once 6, e da capo palmi 4 once 9, il capitello corinto alto palmi 6 e mezzo, e nella cimasa palmi 9. Di queste colonne se ne vede 3 quarti, ché l'altro quarto si unisce in su canti accompagnata da la metà d'un pilastro, che fa canto vivo di drento, e lo accompagna nel mezzo di drento una entrata d'una porta in arco larga palmi 5, alta 13 once 5, che fino al capitello de' pilastri e colonne viene poi ripiena di sodo, facendo unione con altri dua pilastri, che sono simili a quegli che fan canto vivo allato alle colonne. Questi ribattono e fanno ornamento a canto a 16 finestre che vanno intorno intorno a detta tribuna, che la luce di ciascuna è larga palmi 12 e mezzo, alte palmi 22 in circa. Queste di fuori vengono ornate di architravi varii, larghi palmi 2 e tre quarti, e di drento sono ornate similmente con ordine vario con suoi frontespizii e quarti tondi, e vengono larghi di fuori e stretti di drento per ricevere più lume, e così sono di drento da piè più basse, perché dian lume sopra il fregio e la cornice ch'è messa in mezzo ciascuna da dua pilastri piani che rispondono di altezza alle colonne di fuori, tal che vengano a essere 36 colonne di fuori e 36 pilastri di drento, sopra a' quali pilastri di drento è l'architrave, ch'è di altezza palmi 4 e 5 quarti, et il fregio 4 e mezzo, e la cornice 4 e dua terzi, e di proietture 5 palmi, sopra la quale va un ordine di balaustri per potervi caminare attorno attorno sicuramente; e per potere salire agiatamente dal piano dove cominciano le colonne sopra la medesima dirittura nella grossezza del vano di 15 palmi, saglie nel medesimo modo e della medesima grandezza con duo branche o salite, una altra scala fino al fine di quanto son alte le colonne, capitello et architrave, fregio e cornicione, tanto che senza impedire la luce delle finestre passa questa scala di sopra in una lumaca della medesima larghezza fino che truova il piano dove ha a cominciare a volgersi la tribuna. Il quale ordine, distribuzione et ornamento è tanto vario, comodo e forte, durabile e ricco, e fa di maniera spalle alle due volte della cupola che vi si avolta sopra, ch'è cosa tanto ingegnosa e ben considerata, e di poi tanto ben condotta di muraglia, che non si può vedere agli occhi di chi sa e di chi intende cosa più vaga, più bella e più artifiziosa, e per le legature e commettiture delle pietre, e per avere in sé ogni parte e fortezza et eternità, e con tanto giudizio aver cavatone l'acque che piovono per molti condotti segreti, e finalmente ridottola a quella perfezzione, che tutte l'altre cose delle fabriche che si son viste e murate fino a oggi reston niente appetto alla grandezza di questa; et è stato grandissimo danno che a chi toccava non mettessi tutto il poter suo perché, innanzi che la morte ci levassi dinanzi sì raro uomo, si dovessi veder voltato sì bella e terribil machina.

Fin qui ha condotto di muraglia Michelagnolo questa opera, e solamente restaci a dar principio al voltare della tribuna, della quale poi che n'è rimasto il modello, seguiteremo di contar l'ordine che gli ha lasciato perché la si conduca. Ha girato il sesto di questa volta con tre punti che fanno triangolo in questo modo:


A. B.

C.


Il punto C, che è più basso et è il principal col quale egli ha girato il primo mezzo tondo della tribuna, col quale e' dà la forma e l'altezza e larghezza di questa volta, la quale egli dà ordine ch'ella si muri tutta di mattoni bene arrotati e cotti, a spina pesce: questa la fa grossa palmi 4 e mezzo tanto grossa da piè quanto da capo, e lascia a canto un vano per il mezzo di palmi 4 e mezzo da piè, il quale ha a servire per la salita delle scale, che hanno a ire alla lanterna movendosi dal piano della cornice dove sono 'balaustri. Et il sesto della parte di drento dell'altra volta che ha a essere lunga da piè, istretta da capo è girato in sul punto segnato B, il qual è da piè per fare la grossezza della volta palmi 4 e mezzo; e l'ultimo sesto che si ha a girare per fare la parte di fuori che allarghi da piè e stringa da capo, s'ha da mettere in sul punto segnato A, il quale girato ricresce da capo tutto il vano di mezzo del voto di drento, dove vanno le scale per altezza palmi 8 per irvi ritto; e la grossezza della volta viene a diminuire a poco a poco di maniera, che essendo, come s'è detto, da piè palmi 4 e mezzo, torna da capo palmi 3 e mezzo, e torna rilegata di maniera la volta di fuori con la volta di drento con leghe e scale, che l'una regge l'altra, che di 8 parte che ella è partita nella pianta, che quattro sopra gli archi vengono vote per dare manco peso loro, e l'altre quattro vengono rilegate et incatenate con leghe sopra i pilastri, perché possa eternamente aver vita. Le scale di mezzo fra l'una volta e l'altra son condotte in questa forma: queste, dal piano dove la comincia a voltarsi, si muovano in una delle quattro parti, e ciascuna saglie per dua entrate intersegandosi le scale in forma di X, tanto che si conducano alla metà del sesto segnato C sopra la volta, che avendo salito tutto il diritto della metà del sesto, l'altro che resta si saglie poi agevolmente di giro in giro uno scaglione e poi l'altro a dirittura, tanto che si arriva al fine dell'occhio dove comincia il nascimento della lanterna, intorno alla quale fa, secondo la diminuzione dello spartimento che nasce sopra i pilastri, come si dirà di sotto, un ordine minore di pilastri doppi e finestre, simile a quelle che son fatte di drento. Sopra il primo cornicione grande di drento alla tribuna ripiglia da piè per fare lo spartimento degli sfondati, che vanno drento alla volta della tribuna, e' quali sono partiti in sedici costole che risaltano, e son larghe da piè tanto quanto è la larghezza di dua pilastri, che dalla banda disotto tramezzano le finestre sotto alla volta della tribuna, le quali vanno piramidalmente diminuendo fino a l'occhio della lanterna, e da piè posano in su un piedistallo della medesima larghezza, alto palmi 12, e questo piedistallo posa in sul piano della cornice, che s'aggira e cammina intorno intorno alla tribuna, sopra la quale negli sfondati del mezzo fra le costole sono nel vano otto ovati grandi alti l'uno palmi 29, e sopra uno spartimento di quadri, che allargano da piè e stringano da capo, alti 24 palmi, e stringendosi le costole viene di sopra a quadri un tondo di 14 palmi alto: che vengano a essere otto ovati, otto quadri et otto tondi, che fanno ciascuno di loro uno sfondato più basso, il piano de' quali mostra una ricchezza grandissima, perché disegnava Michelagnolo le costole e gli ornamenti di detti ovati, quadri e tondi fargli tutti scorniciati di trivertino. Restaci a far menzione delle superficie et ornamento del sesto della volta dalla banda dove va il tetto, che comincia a volgersi sopra un basamento alto palmi 25 e mezzo, il quale ha da piè un basamento che ha di getto palmi dua, e così la cimasa da capo, la coperta o tetto, della quale e' disegnava coprirla del medesimo piombo che è coperto oggi il tetto del vecchio San Piero, che fa 16 vani da sodo a sodo che cominciono dove finiscono le due colonne che gli mettono in mezzo, ne' quali faceva per ciascuno nel mezzo dua finestre per dar luce al vano di mezzo, dove è la salita delle scale fra le dua volte che sono 32 in tutto. Queste, per via di mensole che reggano un quarto tondo, faceva, sportando fuor, tetto di maniera che difendeva dall'acque piovane l'alta e nuova vista, et a ogni dirittura e mezzo de' sodi delle due colonne sopra dove finiva il cornicione, si partiva la sua costola per ciascuno allargando da piè e stringendo da capo: in tutto 16 costole larghe palmi cinque, nel mezzo delle quali era un canale quadro largo un palmo e mezzo, dov'era drentovi fa[tta] una scala di scaglioni alti un palmo incirca, per le quali si saliva per quelle e scendeva dal piano dove per infino in cima dove comincia la lanterna. Questi vengano fatti di trivertino e murati a cassetta per[ché] le commettiture si difendino dall'acque e dai diacci per l'amore delle pioggie. Fa il disegno della lanterna nella medesima diminuzione che fa tutta l'opera, che battendo le fila alla circunferenza viene ogni cosa a diminuire del pari et a rilevar su con la medesima misura un tempio stietto di colonne tonde a dua a dua, come sta di sotto quelle ne' sodi ribattendo i suoi pilastri per potere caminare a torno a torno e vedere per i mezzi fra i pilastri dove sono le finestre, il didrento della tribuna e della chiesa; et architrave, fregio e cornice di sopra girava in tondo, risaltando sopra la dua colonne alla dirittura delle quali si muovono sopra quelle alcuni viticci che tramezzati da certi nicchioni insieme vanno a trovare il fine della pergamena, che comincia a voltarsi e stringersi un terzo della altezza, a uso di piramide tondo, fino alla palla, [che] dove va questo finimento ultimo va la croce. Molti particulari e minuzie potrei aver conto, come di sfogatoi per i tremuoti, acquidotti, lumi diversi et altre comodità, che le lasso poi che l'opera non è al suo fine, bastando aver tocco le parti principali il meglio che ho possuto. Ma perché tutto è in essere e si vede, basta aver così brevemente fattone uno schizzo che è gran lume a chi non vi ha nessuna cognizione.

Fu la fine di questo modello fatto con grandissima satisfazione non solo di tutti gli amici suoi, ma di tutta Roma, et il fermamento e stabilimento di quella fabbrica. Seguì che morì Paulo Quarto e fu creato dopo lui Pio Quarto, il quale facendo seguitare di murare il palazzetto del bosco di Belvedere a Pirro Ligorio restato architetto del palazzo, fece offerte e carezze assai a Michelagnolo. Il motu proprio avuto prima da Paulo Terzo, e da Iulio Terzo e Paulo Quarto sopra la fabbrica di San Piero, gli confermò e gli rendé una parte delle entrate e provisioni tolte da Paulo Quarto, adoperandolo in molte cose delle sue fabriche, et a quella di S. Piero nel tempo suo fece lavorare gagliardamente. Particolarmente se ne servì nel fare un disegno per la sepoltura del marchese Marignano suo fratello, la quale fu allogata da Sua Santità per porsi nel Duomo di Milano al cavalier Lione Lioni aretino, scultore eccellentissimo, molto amico di Michelagnolo, che a suo luogo si dirà della forma di questa sepoltura. Et in quel tempo il cavaliere Lione ritrasse in una medaglia Michelagnolo molto vivacemente, et a compiacenza di lui gli fece nel rovescio un cieco guidato da un cane con queste lettere attorno: "Docebo iniquos vias tuas et impii ad te convertentur". E perché gli piacque assai gli donò Michelagnolo un modello d'uno Ercole che scoppia Anteo, di sua mano, di cera con certi suoi disegni. Di Michelagnolo non ci è altri ritratti che duoi di pittura, uno di mano del Bugiardino e l'altro di Iacopo del Conte, et uno di bronzo di tutto rilievo fatto da Daniello Ricciarelli e questo del cavalier Lione, da e' quali se n'è fatte tante copie, che n'ho visto in molti luoghi di Italia e fuori assai numero.

Andò il medesimo anno Giovanni cardinale de' Medici, figliuolo del duca Cosimo, a Roma, per il cappello a Pio Quarto, e convenne, come suo servitore e familiare, al Vasari andar seco, che volentieri vi andò e vi stette circa un mese per godersi Michelagnolo, che l'ebbe carissimo e di continuo gli fu a torno. Aveva portato seco il Vasari, per ordine di sua eccellenza, il modello di legno di tutto il palazzo ducale di Fiorenza, insieme coi disegni delle stanze nuove, che erano state murate e dipinte da lui, quali desiderava Michelagnolo vedere in modello e disegno, poi che sendo vecchio non poteva vedere l'opere, le quali erano copiose, diverse e con varie invenzioni e capricci, che cominciavano dalla castrazione di Celo, Saturno, Opi, Cerere, Giove, Giunone, Ercole, che in ogni stanza era uno di questi nomi, con le sue istorie in diversi partimenti, come ancora l'altre camere e sale che erano sotto queste avevano il nome degli eroi di casa Medici, cominciando da Cosimo Vecchio, Lorenzo, Leone Decimo, Clemente Settimo, el signor Giovanni, el duca Alessandro e duca Cosimo, nelle quali per ciascuna erano non solamente le storie de' fatti loro, ma loro ritratti e de' figliuoli e di tutte le persone antiche, così di governo come d'arme e di lettere, ritratte di naturale, delle quali aveva scritto il Vasari un dialogo ove si dichiarava tutte le istorie et il fine di tutta l'invenzione, e come le favole di sopra s'accomodassino alle istorie di sotto, le quali gli fur lette da Annibal Caro, che n'ebbe grandissimo piacere Michelagnolo. Questo dialogo, come arà più tempo il Vasari, si manderà fuori.

Queste cose causorono che desiderando il Vasari di metter mano alla sala grande, e perché era, come s'è detto altrove, il palco basso che la faceva nana e cieca di lumi, et avendo desiderio di alzarla non si voleva risolvere il duca Cosimo a dargli licenzia ch'ella si alzasse. Non che 'l Duca temesse la spesa, come s'è visto poi, ma il pericolo di alzare i cavagli del tetto 13 braccia sopra; dove sua eccellenza come giudiziosa consentì che s'avessi il parere da Michelagnolo, visto in quel modello la sala come era prima, poi levato tutti que' legni e postovi altri legni con nuova invenzione del palco e delle facciate, come s'è fatto da noi, e disegnata in quella insieme l'invenzione delle istorie, che piaciutagli ne diventò subito non giudice, ma parziale, vedendo anche il modo e la facilità dello alzare i cavagli e 'l tetto et il modo di condurre tutta l'opera in breve tempo. Dove egli scrisse nel ritorno del Vasari al Duca che seguitassi quella impresa, che l'era degna della grandezza sua. Il medesimo anno andò a Roma il duca Cosimo con la signora duchessa Leonora sua consorte, e Michelagnolo, arrivato il Duca, lo andò a vedere subito, il quale fattogli molte carezze, lo fece, stimando la sua gran virtù, sedere a canto a sé, e con molta domestichezza ragionandogli di tutto quello che sua eccellenza aveva fatto fare di pittura e di scultura a Fiorenza, e quello che aveva animo di volere fare, e della sala particularmente, di nuovo Michelagnolo ne lo confortò e si dolse, perché amava quel signore, non essere giovane di età da poterlo servire. E ragionando sua eccellenza che aveva trovato il modo da lavorare il porfido, cosa non creduta da lui, se gli mandò, come s'è detto nel primo capitolo delle Teoriche, la testa del Cristo lavorata da Francesco del Tadda scultore, che ne stupì. E tornò dal Duca più volte mentre che dimorò in Roma con suo grandissima satisfazione, et il medesimo fece andandovi poco dopo lo illustrissimo don Francesco de' Medici suo figliuolo, del quale Michelagnolo si compiacque per le amorevoli accoglienze e carezze fatte da sua eccellenza illustrissima, che gli parlò sempre con la berretta in mano avendo infinita reverenza a sì raro uomo, e scrisse al Vasari che gli incresceva l'essere indisposto e vecchio, che arebbe voluto fare qualcosa per quel signore, et andava cercando comperare qualche anticaglia bella per mandargliene a Fiorenza.

Ricercato a questo tempo Michelagnolo dal Papa per Porta Pia d'un disegno, ne fece tre tutti stravaganti e bellissimi che 'l Papa elesse per porre in opera quello di minore spesa, come si vede oggi murata con molta sua lode. E visto l'umor del Papa, perché dovessi restaurare le altre porte di Roma, gli fece molti altri disegni; el medesimo fece richiesto dal medesimo Pontefice per far la nuova chiesa di Santa Maria delli Angioli nelle Terme Diocliziane per ridurle a tempio a uso di cristiani, e prevalse un suo disegno che fece, a molti altri fatti da eccellenti architetti, con tante belle considerazioni per comodità de' frati Certosini, che l'hanno ridotto oggi quasi a perfezzione, che fé stupire Sua Santità e tutti i prelati e' signori di corte delle bellissime considerazioni che aveva fatte con giudizio, servendosi di tutte l'ossature di quelle terme, e se ne vedde cavato un tempio bellissimo et una entrata fuor della openione di tutti gli architetti, dove ne riportò lode et onore infinito. Come anche per questo luogo e' disegnò per Sua Santità di fare un ciborio del Sagramento di bronzo stato gettato gran parte da maestro Iacopo Ciciliano eccellente gettatore di bronzi, che fa che vengono le cose sottilissimamente senza bave, che con poca fatica si rinettano; che in questo genere è raro maestro e molto piaceva a Michelagnolo.

Aveva discorso insieme la nazione fiorentina più volte di dar qualche buon principio alla chiesa di San Giovanni di strada Giulia; dove ragunatosi tutti i capi delle case più ricche promettendo, ciascuna per rata secondo le facultà, sovvenire detta fabbrica, tanto che feciono da riscuotere buona somma di danari, e disputossi fra loro se gli era bene seguitare l'ordine vecchio o far qualche cosa di nuovo migliore, fu risoluto che si dessi ordine sopra i fondamenti vecchi a qualche cosa di nuovo, e finalmente creorono tre sopra questa cura di questa fabbrica che fu Francesco Bandini, Umberto Ubaldini e Tommaso de' Bardi, e' quali richiesano Michelagnolo di disegno raccomandandosegli, sì perché era vergogna della nazione avere gettato via tanti danari, né aver mai profittato niente, che se la virtù sua non gli giovava a finirla, non avevono ricorso alcuno. Promesse loro con tanta amorevolezza di farlo, quanto cosa 'e facessi mai prima, perché volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre che tornassino in onore di Dio, poi per l'amor della sua nazione, qual sempre amò. Aveva seco Michelagnolo a questo parlamento Tiberio Calcagni scultore fiorentino, giovane molto volenteroso di imparare l'arte, il quale essendo andato a Roma s'era volto alle cose d'architettura. Amandolo Michelagnolo, gli aveva dato a finire, come s'è detto, la Pietà di marmo ch'e' roppe, et inoltre una testa di Bruto di marmo col petto maggiore assai del naturale, perché la finisse quale era condotta la testa sola con certe minutissime gradine. Questa l'aveva cavata da un ritratto di esso Bruto intagliato in una corgnola antica, che era apresso al signor Giuliano Ceserino, antichissima, che a' preghi di Messer Donato Gianotti suo amicissimo la faceva Michelagnolo per il cardinale Ridolfi, che è cosa rara.

Michelagnolo dunque, per le cose d'architettura, non possendo disegnare più per la vecchiaia, né tirar linee nette, si andava servendo di Tiberio, perché era molto gentile e discreto: perciò desiderando servirsi di quello in tale impresa, gl'impose che e' levassi la pianta del sito della detta chiesa; la quale levata e portata subito a Michelagnolo, in questo tempo che non si pensava che facessi niente, fece intendere per Tiberio che gli aveva serviti, e finalmente mostrò loro cinque piante di tempii bellissimi, che viste da loro si maravigliorono, e disse loro che scegliessino una a modo loro: e quali non volendo farlo, riportandosene al suo giudizio, volse che si risolvessino pure a modo loro: onde tutti d'uno stesso volere ne presono una più ricca, alla quale risolutosi disse loro Michelagnolo che se conducevano a fine quel disegno, che né romani, né greci mai ne' tempi loro feciono una cosa tale: parole che né prima né poi usciron mai di bocca a Michelagnolo, perché era modestissimo. Finalmente conclusero che l'ordinazione fussi tutta di Michelagnolo, e le fatiche dello esseguire detta opera fussi di Tiberio, che di tutto si contentorono, promettendo loro che egli gli servirebbe benissimo; e così dato la pianta a Tiberio che la riducessi netta e disegnata giusta, gli ordinò i profili di fuori e di drento, e che ne facessi un modello di terra, insegnandogli il modo da condurlo che stessi in piedi. In dieci giorni condusse Tiberio il modello di otto palmi, del quale piaciuto assai a tutta la nazione, ne feciono poi fare un modello di legno, che è oggi nel consolato di detta nazione: cosa tanto rara, quanto tempio nessuno che si sia mai visto, sì per la bellezza, ricchezza e gran varietà sua; del quale fu dato principio e speso scudi 5000, che mancato a quella fabbrica gli assegnamenti è rimasta così, che n'ebbe grandissimo dispiacere. Fece allogare a Tiberio con suo ordine a Santa Maria Maggiore una cappella cominciata per il cardinale di Santa Fiore, restata imperfetta per la morte di quel Cardinale e di Michelagnolo e di Tiberio, che fu di quel giovane grandissimo danno.

Era stato Michelagnolo anni 17 nella fabbrica di San Pietro, e più volte i deputati l'avevon voluto levare da quel governo, e non essendo riuscito loro, andavano pensando ora con questa stranezza et ora con quella opporsegli a ogni cosa, che per istracco se ne levassi, essendo già tanto vecchio che non poteva più. Ove essendovi per soprastante Cesare da Casteldurante, che in que' giorni si morì, Michelagnolo, perché la fabbrica non patissi, vi mandò, per fino che trovassi uno a modo suo, Luigi Gaeta, troppo giovane ma suffizientissimo. E' deputati, una parte de' quali molte volte avevon fatto opera di mettervi Nanni di Baccio Bigio, che gli stimolava e prometteva gran cose, per potere travagliare le cose della fabbrica a loro modo, mandoron via Luigi Gaeta: il che inteso Michelagnolo, quasi sdegnato, non voleva più capitare alla fabbrica; dove e' cominciorono a dar nome fuori che non poteva più, che bisognava dargli un sustituto, e che egli aveva detto che non voleva impacciarsi più di San Piero. Tornò tutto agli orecchi di Michelagnolo, il quale mandò Daniello Ricciarelli da Volterra al vescovo Ferratino, uno de' soprastanti, che aveva detto al cardinale di Carpi che Michelagnolo aveva detto a un suo servitore che non voleva impacciarsi più della fabbrica; che tutto Daniello disse non essere questa la voluntà di Michelagnolo; dolendosi il Ferratino che egli non conferiva il concetto suo, e che era bene che dovessi mettervi un sostituto e volentieri arebbe accettato Daniello, il quale pareva che si contentassi Michelagnolo; dove fatto intendere a' deputati in nome di Michelagnolo che avevono un sustituto, presentò il Ferratino non Daniello, ma in cambio suo Nanni Bigio, che entrato drento et accettato da' soprastanti, non andò guari che dato ordine di fare un ponte di legno dalla parte delle stalle del papa dove è il monte, per salire sopra la nicchia grande che volta a quella parte, fé mozzare alcune travi grosse di abeto dicendo che si consumava nel tirare su la roba troppi canapi, che era meglio il condurla per quella via. Il che inteso Michelagnolo andò subito dal Papa, e romoreggiando perché era sopra la piazza di Campidoglio, lo fé subito andare in camera, dove disse: "Gli è stato messo, Padre Santo, per mio sostituto da' deputati uno che io non so chi egli sia, però se conoscevano loro e la Santità Vostra che io non sia più 'l caso, io me ne tornerò a riposare a Fiorenza, dove goderò quel gran Duca che m'ha tanto desiderato, e finirò la vita in casa mia: però vi chieggo buona licenzia". Il Papa n'ebbe dispiacere e con buone parole confortandolo gli ordinò che dovessi venire a parlargli il giorno lì in Araceli, dove fatto ragunare i deputati della fabbrica, volse intendere le cagioni di quello che era seguito: dove fu risposto da loro che la fabbrica rovinava e vi si faceva degli errori; il che avendo inteso il Papa non essere il vero, comandò al signor Gabrio Scerbellone che dovessi andare a vedere in sulla fabbrica e che Nanni che proponeva queste cose gliele mostrassi: che ciò fu eseguito. E trovato il signor Gabrio esser ciò tutta malignità e non essere vero, fu cacciato via con parole poco oneste di quella fabbrica in presenza di molti signori, rimproverandogli che per colpa sua rovinò il ponte Santa Maria e che in Ancona volendo con pochi danari far gran cose "per nettare il porto lo riempiesti più in un dì che non fece il mare in dieci anni"; tale fu il fine di Nanni per la fabbrica di San Piero, per la quale Michelagnolo di continuo non attese mai a altro in 17 anni che fermarla per tutto con riscontri, dubitando per queste persecuzioni invidiose non avessi dopo la morte sua a essere mutata; dove è oggi sicurissima da poterla sicuramente voltare. Per il che s'è visto che Iddio, che è protettore de' buoni, l'ha difeso fino ch'egl'è vissuto et ha sempre operato per benefizio di questa fabbrica e difensione di questo uomo fino alla morte. Avvenga che, vivente dopo lui, Pio Quarto ordinò a' soprastanti della fabbrica che non si mutasse niente di quanto aveva ordinato Michelagnolo, e con maggiore autorità lo fece eseguire Pio V suo successore; il quale, perché non nascessi disordine, volse che si eseguissi inviolabilmente i disegni fatti da Michelagnolo, mentre che furono esecutori di quella Pirro Ligorio e Iacopo Vignola architetti, che Pirro volendo presuntuosamente muovere et alterare quell'ordine, fu con poco onor suo levato via da quella fabbrica e lassato il Vignola. E finalmente quel Pontefice, zelantissimo non meno dello onor della fabbrica di San Piero che della Religione cristiana, l'anno 1565 che 'l Vasari andò 'a piedi di Sua Santità, e chiamato di nuovo l'anno 1566, non si trattò se non al procuratore l'osservazione de' disegni lasciati da Michelagnolo; e per ovviare a tutti e' disordini comandò Sua Santità al Vasari che con Messer Guglielmo Sangalletti, tesauriere segreto di Sua Santità, per ordine di quel Pontefice andassi a trovare il vescovo Ferratino, capo de' fabricieri di San Pietro, che dovessi attendere a tutti gli avvertimenti e ricordi importanti che gli direbbe il Vasari, acciò che mai per il dir di nessuno maligno e presuntuoso s'avessi a muovere segno o ordine lasciato dalla eccellente virtù e memoria di Michelagnolo. Et a ciò fu presente Messer Giovambatista Altoviti, molto amico del Vasari et a queste virtù. Per il che udito il Ferratino un discorso che gli fece il Vasari, accettò volentieri ogni ricordo e promesse inviolabilmente osservare e fare osservare in quella fabbrica ogni ordine e disegno che avesse per ciò lasciato Michelagnolo, et inoltre d'essere protettore, difensore e conservatore delle fatiche di sì grande uomo.

E tornando a Michelagnolo, dico che innanzi la morte un anno incirca, avendosi adoperato il Vasari segretamente che 'l duca Cosimo de' Medici operassi col Papa per ordine di Messer Averardo Serristori suo imbasciadore, che, visto che Michelagnolo era molto cascato, si tenesse diligente cura di chi gli era attorno a governarlo e chi gli praticava in casa, che venendogli qualche subito accidente, come suole venire a' vecchi, facessi provisione che le robe, disegni, cartoni, modelli e danari et ogni suo avere nella morte si fussino inventariati e posti in serbo per dare alla fabbrica di San Piero, se vi fussi stato cose attenenti a lei, così alla sagrestia e libreria di San Lorenzo e facciata, non fussino state trasportate via, come spesso suole avvenire; che finalmente giovò tal diligenza, che tutto fu eseguito in fine.

Desiderava Lionardo suo nipote la quaresima vegnente andare a Roma, come quello che s'indovinava che già Michelagnolo era in fine della vita sua, e lui se ne contentava, quando amalatosi Michelagnolo di una lenta febbre, subito fé scrivere a Daniello che Lionardo andassi: ma il male cresciutogli, ancora che Messer Federigo Donati suo medico e gli altri suoi gli fussino a torno, con conoscimento grandissimo fece testamento di tre parole, che lasciava l'anima sua nelle mane de Iddio, il suo corpo alla terra e la roba a' parenti più prossimi, imponendo a' suoi che nel passare di questa vita gli ricordassino il patire di Gesù Cristo; e così a dì 17 di febraio, l'anno 1563 a ore 23 a uso fiorentino, che al romano sarebbe 1564, spirò per irsene a miglior vita.

Fu Michelagnolo molto inclinato alle fatiche dell'arte, veduto che gli riusciva ogni cosa quantunque dificile, avendo avuto dalla natura l'ingegno molto atto et aplicato a queste virtù eccellentissime del disegno; là dove per esser interamente perfetto, infinite volte fece anatomia scorticando uomini per vedere il principio e legazioni dell'ossature, muscoli, nerbi, vene e moti diversi e tutte le positure del corpo umano, e non solo degli uomini, ma degli animali ancora e particularmente de' cavagli, de' quali si dilettò assai di tenerne; e di tutti volse veder il lor principio et ordine in quanto all'arte, e lo mostrò talmente nelle cose che gli accaddono trattare, che non ne fa più chi non attende a altra cosa che quella. Per il che ha condotto le cose sue così col pennello come con lo scarpello, che son quasi inimmitabili, et ha dato, come s'è detto, tanta arte, grazia et una certa vivacità alle cose sue - e ciò sia detto con pace di tutti - che ha passato e vinto gli antichi avendo saputo cavare della dificultà tanto facilmente le cose, che non paion fatte con fatica, quantunque, [da] chi disegna poi le cose sue, la vi si trovi per imitarla. È stata conosciuta la virtù di Michelagnolo in vita e non come aviene a molti dopo la morte, essendosi visto che Giulio II, Leon X, Clemente VII, Paulo III, e Giulio III, e Paulo IIII e Pio IIII, sommi pontefici, l'hanno sempre voluto appresso e, come si sa, Solimanno imperatore de' Turchi, Francesco Valesio re di Francia, Carlo V imperatore, e la signoria di Vinezia, e finalmente il duca Cosimo de' Medici, come s'è detto, e tutti con onorate provisioni, non per altro che per valersi della sua gran virtù; che ciò non accade se non a uomini di gran valore come era egli, avendo conosciuto e veduto che queste arti, tutt'e tre, erano talmente perfette in lui, che non si trova, né in persone antiche o moderne in tanti e tanti anni che abbia girato il sole, che Dio l'abbi concesso a altri che a lui. Ha avuto l'immaginativa tale e sì perfetta, che le cose propostosi nella idea sono state tali che con le mani, per non potere esprimere sì grandi e terribili concetti, ha spesso abandonato l'opere sue, anzi ne ha guasto molte, come io so che, innanzi che morissi di poco, abruciò gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti di man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l'ingegno suo, per non apparire se non perfetto, e io ne ho alcuni di sua mano trovati in Fiorenza messi nel nostro libro de' disegni, dove ancora che vi vegga la grandezza di quello ingegno, si conosce che quando e' voleva cavar Minerva della testa di Giove, ci bisognava il martello di Vulcano, imperò egli usò le sue figure farle di nove e di dieci e di dodici teste, non cercando altro che col metterle tutte insieme ci fussi una certa concordanza di grazia nel tutto che non lo fa il naturale, dicendo che bisognava avere le seste negli occhi e non in mano, perché le mani operano e l'occhio giudica: che tale modo tenne ancora nell'architettura. Né paia nuovo a nessuno che Michelagnolo si dilettassi della solitudine, come quello che era innamorato dell'arte sua, che vuol l'uomo per sé solo e cogitativo e perché è necessario che, chi vuole attendere agli studii di quella, fugga le compagnie: avenga che chi attende alle considerazioni dell'arte non è mai solo né senza pensieri, e coloro che gliele attribuivano a fantasticheria et a stranezza, hanno il torto, perché chi vuole operar bene, bisogna allontanarsi da tutte le cure e fastidi, perché la virtù vuol pensamento, solitudine e comodità, e non errare con la mente. Con tutto ciò ha avuto caro l'amicizie di molte persone grandi e delle dotte e degli uomini ingegnosi a' tempi convenienti e se l'è mantenute, come il grande Ipolito cardinale de' Medici che l'amò grandemente, et inteso che un suo cavallo turco che aveva piaceva per la sua bellezza a Michelagnolo, fu dalla liberalità di quel signore mandato a donare con dieci muli carichi di biada et un servidore che lo governassi, che Michelagnolo volentieri lo accettò. Fu suo amicissimo lo illustrissimo cardinale Polo, innamorato Michelagnolo delle virtù e bontà di lui, il cardinale Farnese e Santacroce, che fu poi papa Marcello, il cardinale Ridolfi, el cardinale Maffeo, e monsignor Bembo, Carpi, e molti altri cardinali e vescovi e prelati, che non accade nominargli, monsignor Claudio Tolomei, el magnifico Messer Ottaviano de' Medici suo compare che gli battezzò un suo figliuolo, e Messer Bindo Altoviti, al quale donò il cartone della cappella, dove Noè inebriato è schernito da un de' figliuoli e ricoperto le vergogne dagli altri dua; Messer Lorenzo Ridolfi e Messer Anibal Caro, e Messer Giovan Francesco Lottini da Volterra; et infinitamente amò più di tutti Messer Tommaso de' Cavalieri gentiluomo romano, quale essendo giovane e molto inclinato a queste virtù, perché egli imparassi a disegnare, gli fece molte carte stupendissime disegnate di lapis nero e rosso di teste divine, e poi gli disegnò un Ganimede rapito in cielo da l'uccel di Giove, un Tizio che l'avvoltoio gli mangia il cuore, la cascata del carro del sole con Fetonte nel Po et una baccanalia di putti, che tutti sono ciascuno per sé cosa rarissima e disegni non mai più visti. Ritrasse Michelagnolo Messer Tommaso in un cartone grande di naturale, che né prima né poi di nessuno fece il ritratto, perché aborriva il fare somigliare il vivo se non era d'infinita bellezza. Queste carte sono state cagione che dilettandosi Messer Tommaso quanto e' fa, che n'ha poi avute una buona partita che già Michelagnolo fece a fra' Bastiano Viniziano, che le messe in opera, che sono miracolose, et invero egli le tiene meritamente per reliquie e n'ha accomodato gentilmente gli artefici. Et invero Michelagnolo collocò sempre l'amor suo a persone nobili, meritevoli e degne, che nel vero ebbe giudizio e gusto in tutte le cose. Ha fatto poi fare Messer Tommaso a Michelagnolo molti disegni per amici, come per il cardinale di Cesis la tavola dove è la Nostra Donna annunziata dall'Angelo, cosa nuova, che poi fu da Marcello Mantovano colorita e posta nella cappella di marmo, che ha fatto fare quel Cardinale nella chiesa della Pace di Roma, come ancora un'altra Nunziata colorita pur di mano di Marcello in una tavola nella chiesa di S. Ianni Laterano, che 'l disegno l'ha il duca Cosimo de' Medici, il quale dopo la morte donò Lionardo Buonarruoti suo nipote a sua eccellenza che gli tien per gioie, insieme con un Cristo che òra nell'orto e molti altri disegni e schizzi e cartoni di mano di Michelagnolo, insieme con la statua della Vittoria che ha sotto un prigione, di braccia cinque alta; ma quattro prigioni bozzati, che possano insegnare a cavare de' marmi le figure con un modo sicuro da non istorpiare i sassi, che il modo è questo: che se e' si pigliassi una figura di cera o d'altra materia dura, e si mettessi a diacere in una conca d'acqua, la quale acqua essendo per sua natura nella sua sommità piana e pari, alzando la detta figura a poco a poco del pari, così vengono a scoprirsi prima le parti più rilevate et a nascondersi i fondi, cioè le parti più basse della figura, tanto che nel fine ella così viene scoperta tutta. Nel medesimo modo si debbono cavare con lo scarpello le figure de' marmi, prima scoprendo le parti più rilevate, e di mano in mano le più basse, il quale modo si vede osservato da Michelagnolo ne' sopra detti prigioni, i quali sua eccellenzia vuole che servino per esemplo de' suoi accademici.

Amò gli artefici suoi e praticò con essi, come con Iacopo Sansovino, il Rosso, il Puntormo, Daniello da Volterra e Giorgio Vasari aretino, al quale usò infinite amorevolezze e fu cagione che egli attendessi alla architettura con intenzione di servirsene un giorno, e conferiva seco volentieri e discorreva delle cose dell'arte. E questi che dicano che non voleva insegnare, hanno il torto, perché l'usò sempre a' suoi famigliari et a chi dimandava consiglio, e perché mi sono trovato a molti presente, per modestia lo taccio non volendo scoprire i difetti d'altri. Si può ben far giudizio di questo che con coloro che stettono con seco in casa ebbe mala fortuna, perché percosse in subietti poco atti a imitarlo; ché Piero Urbano pistolese suo creato era persona d'ingegno, ma non volse mai affaticarsi; Antonio Mini arebbe voluto, ma non ebbe il cervello atto, e quando la cera è dura non s'imprime bene; Ascanio dalla Ripa Transone durava gran fatiche, ma mai se ne vedde il frutto né in opere, né in disegni, e pestò parecchi anni intorno a una tavola che Michelagnolo gli aveva dato un cartone, nel fine se n'è ito in fummo quella buona aspettazione che si credeva di lui, che mi ricordo che Michelagnolo gli veniva compassione sì dello stento suo e l'aiutava di suo mano, ma giovò poco. E s'egli avessi avuto un subietto, che me lo disse parecchi volte, arebbe speso così vecchio fatto notomia et arebbe scrittovi sopra per giovamento de' suoi artefici, che fu ingannato da parecchi; ma si difidava, per non potere esprimere con gli scritti quel ch'egli arebbe voluto, per non essere egli esercitato nel dire, quantunque egli in prosa nelle lettere sue abbia con poche parole spiegato bene il suo concetto, essendosi egli molto dilettato delle lezzioni de' poeti volgari, e particolarmente di Dante che molto lo amirava et imitava ne' concetti e nelle invenzioni, così 'l Petrarca, dilettatosi di far madrigali, sonetti molto gravi sopra e' quali s'è fatto comenti, e Messer Benedetto Varchi nella Accademia fiorentina fece una lezione onorata sopra quel sonetto che comincia:


Non ha l'ottimo artista alcun concetto,

ch'un marmo solo in sé non circonscriva.


Ma infiniti ne mandò di suo e ricevé risposta di rime e di prose della illustrissima marchesana di Pescara, delle virtù della quale Michelagnolo era innamorato et ella parimente di quelle di lui, e molte volte andò ella a Roma da Viterbo a visitarlo, e le disegnò Michelagnolo una Pietà in grembo alla Nostra Donna con dua Angioletti mirabilissima, et un Cristo confitto in croce, che alzato la testa raccomanda lo spirito al Padre, cosa divina, oltre a un Cristo con la Samaritana al pozzo.

Dilettossi molto della Scrittura Sacra, come ottimo cristiano che egli era, et ebbe in gran venerazione l'opere scritte da fra' Girolamo Savonarola per avere udito la voce di quel frate in pergamo. Amò grandemente le bellezze umane per la imitazione dell'arte per potere scerre il bello dal bello, ché senza questa imitazione non si può far cosa perfetta; ma non in pensieri lascivi e disonesti, che l'ha mostro nel modo del viver suo, che è stato parchissimo, essendosi contentato quando era giovane, per istare intento al lavoro, d'un poco di pane e di vino, avendolo usato sendo vecchio fino che faceva il Giudizio di cappella, col ristorarsi la sera quando aveva finito la giornata, pur parchissimamente; che se bene era ricco viveva da povero, né amico nessuno mai mangiò seco o di rado, né voleva presenti di nessuno, perché pareva, come uno gli donava qualcosa, d'essere sempre obligato a colui. La qual sobrietà lo faceva essere vigilantissimo e di pochissimo sonno, e bene spesso la notte si levava, non potendo dormire, a lavorare con lo scarpello avendo fatto una celata di cartoni, e sopra il mezzo del capo teneva accesa la candela, la quale con questo modo rendeva lume dove egli lavorava senza impedimento delle mani. Et il Vasari, che più volte vidde la celata, considerò che non adoperava cera, ma candele di sevo di capra schietto, che sono eccellenti, e gliene mandò quattro mazzi, che erano quaranta libbre. Il suo servitore garbato gliene portò alle dua ore di notte, e presentategliene, Michelagnolo ricusava che non le voleva, gli disse: "Messere, le m'hanno rotto per di qui in ponte le braccia, né le vo' riportare a casa che dinanzi al vostro uscio ci è una fanghiglia soda e starebbono ritte agevolmente; io le accenderò tutte". Michelagnolo gli disse: "Posale costì, che io non voglio che tu mi faccia le baie a l'uscio". Dissemi che molte volte nella sua gioventù dormiva vestito, come quello che stracco dal lavoro non curava di spogliarsi per aver poi a rivestirsi. Sono alcuni che l'hanno tassato essere avaro; questi s'ingannano, perché sì delle cose dell'arte come delle facultà ha mostro il contrario; delle cose dell'arte si vede aver donato, come s'è detto, et a Messer Tommaso de' Cavalieri, a Messer Bindo et a fra' Bastiano disegni che valevano assai; ma a Antonio Mini suo creato tutti i disegni, tutti i cartoni, il quadro della Leda, tutti i suoi modegli e di cera e di terra che fece mai, che come s'è detto, rimasono tutti in Francia a Gherardo Perini gentiluomo fiorentino suo amicissimo; in tre carte alcune teste di matita nera divine, le quali sono dopo la morte di lui venute in mano dello illustrissimo don Francesco principe di Fiorenza, che le tiene per gioie, come le sono. A Bartolommeo Bettini fece e donò un cartone d'una Venere con Cupido che la bacia, che è cosa divina, oggi appresso agli eredi in Fiorenza; e per il marchese del Vasto fece un cartone d'un Noli me tangere, cosa rara, che l'uno e l'altro dipinse eccellentemente il Puntormo, come s'è detto. Donò i duoi prigioni al signor Ruberto Strozzi, et a Antonio suo servitore, et a Francesco Bandini la Pietà che roppe, di marmo. Né so quel che si possa tassar d'avarizia questo uomo, avendo donato tante cose, che se ne sarebbe cavato migliaia di scudi. Che si può egli dire, se non che io so, che mi ci son trovato, che ha fatto più disegni et ito a vedere più pitture e più muraglie, né mai ha voluto niente? Ma veniamo ai danari guadagnati col suo sudore, non con entrate, non con cambi, ma con lo studio e fatica sua, se si può chiamare avaro chi soveniva molti poveri, come faceva egli, e maritava segretamente buon numero di fanciulle, et arricchiva chi lo aiutava nell'opere, e chi lo servì come Urbino suo servidore che lo fece ricchissimo et era suo creato che l'aveva servito molto tempo; e gli disse: "Se io mi muoio, che farai tu?". Rispose: "Servirò un altro". "O povero a te", gli disse Michelagnolo, "io vo' riparare alla tua miseria", e gli donò scudi dumila in una volta, cosa che è solita da farsi per i Cesari e pontefici grandi; senzaché al nipote ha dato per volta tre e quattro mila scudi, e nel fine gli ha lassato scudi diecimila senza le cose di Roma.

È stato Michelagnolo di una tenace e profonda memoria, che nel vedere le cose altrui una sol volta l'ha ritenute sì fattamente e servitosene in una maniera, che nessuno se n'è mai quasi accorto, né ha mai fatto cosa nessuna delle sue che riscontri l'una con l'altra, perché si ricordava di tutto quello che aveva fatto. Nella sua gioventù sendo con gli amici sua pittori, giucorno una cena a chi faceva una figura che non avessi niente di disegno, che fussi goffa, simile a que' fantocci che fanno coloro che non sanno et imbrattano le mura, Qui si valse della memoria, perché ricordatosi aver visto in un muro una di queste gofferie, la fece come se l'avessi avuta dinanzi di tutto punto, e superò tutti que' pittori; cosa dificile in uno uomo tanto pieno di disegno, avvezzo a cose scelte, che ne potessi uscir netto.

È stato sdegnoso e giustamente verso di chi gli ha fatto ingiuria, non però s'è visto mai esser corso alla vendetta, ma sì bene più tosto pazientissimo et in tutti i costumi modesto, e nel parlare molto prudente e savio, con risposte piene di gravità et alle volte con motti ingegnosi, piacevoli et acuti. Ha detto molte cose che sono state da noi notate, delle quali ne metteremo alcune, perché saria lungo a descriverle tutte.

Essendogli ragionato della morte da un suo amico dicendogli che doveva assai dolergli, sendo stato in continove fatiche per le cose dell'arte, né mai avuto ristoro, rispose che tutto era nulla, perché se la vita ci piace, essendo anco la morte di mano d'un medesimo maestro, quella non ci doverebbe dispiacere. A un cittadino che lo trovò da Or San Michele in Fiorenza che s'era fermato a riguardare la statua del San Marco di Donato, e lo domandò quel che di quella figura gli paresse, Michelagnolo rispose che non vedde mai figura che avessi più aria di uomo da bene di quella e che se San Marco era tale, se gli poteva credere ciò che aveva scritto. Essendogli mostro un disegno e raccomandato un fanciullo che allora imparava a disegnare, scusandolo alcuni che era poco tempo che s'era posto all'arte, rispose: "E' si conosce". Un simil motto disse a un pittore che aveva dipinto una Pietà e non s'era portato bene, che ell'era proprio una pietà a vederla. Inteso che Sebastiano Viniziano aveva a fare nella cappella di San Piero a Montorio un frate, disse che gli guasterebbe quella opera; domandato della cagione, rispose che avendo eglino guasto il mondo che è sì grande, non sarebbe gran fatto che gli guastassino una cappella sì piccola. Aveva fatto un pittore una opera con grandissima fatica e penatovi molto tempo, e nello scoprirla aveva acquistato assai; fu dimandato Michelagnolo che gli pareva del facitore di quella; rispose: "Mentre che costui vorrà esser ricco, sarà del continuo povero". Uno amico suo che già diceva messa et era religioso, capitò a Roma tutto pieno di puntali e di drappo e salutò Michelagnolo et egli si finse di non vederlo, per che fu l'amico forzato fargli palese il suo nome; mostrò di maravigliarsi Michelagnolo che fussi in quell'abito, poi soggiunse quasi rallegrandosi: "Oh voi siete bello! Se fossi così drento, come io vi veggio di fuori, buon per l'anima vostra". Al medesimo che aveva raccomandato uno amico suo a Michelagnolo che gli aveva fatto fare una statua, pregandolo che gli facessi dare qualcosa più, il che amorevolmente fece; ma l'invidia dello amico che richiese Michelagnolo credendo che non lo dovesse fare, veggendo pur che l'aveva fatto, fece che se ne dolse, e tal cosa fu detta a Michelagnolo; onde rispose che gli dispiacevano gli uomini fognati, stando nella metafora della architettura, intendendo che con quegli che hanno due bocche, mal si può praticare. Domandato da uno amico suo quel che gli paresse d'uno che aveva contrafatto di marmo figure antiche delle più celebrate, vantandosi lo immitatore che di gran lunga aveva superato gli antichi; rispose: "Chi va dietro a altri, mai non li passa innanzi, e chi non sa far bene da sé, non può servirsi bene delle cose d'altri". Aveva non so che pittore [fatto] un'opera, dove era un bue che stava meglio delle altre cose; fu dimandato perché il pittore aveva fatto più vivo quello che l'altre cose, disse: "Ogni pittore ritrae se medesimo bene". Passando da San Giovanni di Fiorenza gli fu dimandato il suo parere di quelle porte, egli rispose: "Elle sono tanto belle, che le starebbon bene alle porte del Paradiso". Serviva un principe che ogni dì variava disegni, né stava fermo; disse Michelagnolo a uno amico suo: "Questo signore ha un cervello come una bandiera di campanile, che ogni vento che vi dà drento la fa girare". Andò a vedere una opera di scultura che doveva mettersi fuora perché era finita, e si affaticava lo scultore assai in acconciare i lumi delle finestre perch'ella mostrassi bene, dove Michelagnolo gli disse: "Non ti affaticare che l'importanza sarà il lume della piazza", volendo inferire che come le cose sono in publico, il populo fa giudizio s'elle sono buone o cattive. Era un gran principe che aveva capriccio in Roma d'architetto, et aveva fatto fare certe nicchie per mettervi figure, che erano l'una tre quadri alte con uno anello in cima, e vi provò a mettere dentro statue diverse, che non vi tornavano bene. Dimandò Michelagnolo quel che vi potessi mettere; rispose: "De' mazzi di anguille appiccate a quello anello". Fu assunto al governo della fabrica di S. Piero un signore che faceva professione d'intendere Vitruvio e d'essere censore delle cose fatte. Fu detto a Michelagnolo: "Voi avete avuto uno alla fabbrica che ha un grande ingegno". Rispose Michelagnolo: "Gli è vero, ma gli ha cattivo giudizio". Aveva un pittore fatto una storia et aveva cavato di diversi luoghi di carte e di pitture molte cose, né era in su quella opera niente che non fussi cavato, e fu mostro a Michelagnolo che veduta, gli fu dimandato da un suo amicissimo quel che gli pareva; rispose: "Bene ha fatto, ma io non so al dì del giudizio, che tutti i corpi piglieranno le lor membra, come farà quella storia, che non ci rimarrà niente": avvertimento a coloro che fanno l'arte, che s'avezzino a fare da sé. Passando da Modana vedde di mano di maestro Antonio Bigarino modanese scultore, che aveva fatto molte figure belle di terra cotta e colorite di colore di marmo, le quali gli parsono una eccellente cosa, e perché quello scultore non sapeva lavorare il marmo, disse: "Se questa terra diventassi marmo, guai alle statue antiche". Fu detto a Michelagnolo che doveva risentirsi contro a Nanni di Baccio Bigio, perché voleva ogni dì competere seco; rispose: "Chi combatte con da pochi, non vince a nulla". Un prete suo amico disse: "Gli è peccato che non aviate tolto donna, perché aresti avuto molti figliuoli e lasciato loro tante fatiche onorate". Rispose Michelagnolo: "Io ho moglie troppa, che è questa arte che m'ha fatto sempre tribolare, et i miei figliuoli saranno l'opere che io lasserò; che se saranno da niente, si viverà un pezzo. E guai a Lorenzo di Bartoluccio Ghiberti se non faceva le porte di S. Giovanni, perché i figliuoli e' nipoti gli hanno venduto e mandato male tutto quello che lasciò: le porte sono ancora in piedi". Il Vasari mandato da Giulio Terzo a un'ora di notte per un disegno a casa Michelagnolo, trovò che lavorava sopra la Pietà di marmo che e' ruppe. Conosciutolo Michelagnolo al picchiare della porta, si levò dal lavoro e prese in mano una lucerna dal manico; dove esposto il Vasari quel che voleva, mandò per il disegno Urbino di sopra, et entrati in altro ragionamento, voltò intanto gli occhi il Vasari a guardare una gamba del Cristo sopra la quale lavorava e cercava di mutarla; e per ovviare che 'l Vasari non la vedessi, si lasciò cascare la lucerna di mano, e rimasti al buio, chiamò Urbino che recassi un lume, et in tanto uscito fuori del tavolato, dove ell'era, disse: "Io sono tanto vecchio, che spesso la morte mi tira per la cappa perché io vadia seco, e questa mia persona cascherà un dì come questa lucerna, e sarà spento il lume della vita". Con tutto ciò aveva piacere di certe sorte uomini a suo gusto, come il Menighella pittore dozzinale e goffo di Valdarno, che era persona piacevolissima, il quale veniva talvolta a Michelagnolo che gli facessi un disegno di San Rocco, di Santo Antonio per dipignere a' contadini. Michelagnolo che era dificile a lavorare per i re, si metteva giù lassando stare ogni lavoro, e gli faceva disegni semplici accomodati alla maniera e volontà, come diceva Menighella, e fra l'altre gli fece fare un modello d'un Crocifisso, che era bellissimo, sopra il quale vi fece un cavo, e ne formava di cartone e d'altre mesture, et in contado gli andava vendendo, che Michelagnolo crepava delle risa; massime che gli intraveniva di bei casi, come con un villano, il quale gli fece dipignere S. Francesco, e dispiaciutoli che 'l Menighella gli aveva fatto la vesta bigia, che l'arebbe voluta di più bel colore, il Menighella gli fece in dosso un piviale di broccato, e lo contentò. Amò parimente Topolino scarpellino, il quale aveva fantasia d'essere valente scultore, ma era debolissimo. Costui stette nelle montagne di Carrara molti anni a mandar marmi a Michelagnolo, né arebbe mai mandato una scafa carica che non avessi mandato sopra tre o quattro figurine bozzate di sua mano, che Michelagnolo moriva delle risa. Finalmente ritornato, et avendo bozzato un Mercurio in un marmo, si messe Topolino a finirlo, et un dì che ci mancava poco, volse Michelagnolo lo vedessi e strettamente operò li dicessi l'openion sua. "Tu sei un pazzo, Topolino", gli disse Michelagnolo "a volere far figure, non vedi che a questo Mercurio dalle ginocchia alli piedi ci manca più di un terzo di braccio, che gli è nano, e che tu l'hai storpiato?". "O questo non è niente, s'ella non ha altro io ci rimedierò, lassate fare a me." Rise di nuovo della semplicità sua Michelagnolo, e partito, prese un poco di marmo Topolino e tagliato il Mercurio sotto le ginocchia un quarto, lo incassò nel marmo e lo comesse gentilmente, facendo un paio di stivaletti a Mercurio, che il fine passava la commettitura e lo allungò il bisogno: che fatto venire poi Michelagnolo e mostrogli l'opera sua di nuovo, rise e si maravigliò che tali goffi stretti dalla necessità piglion di quelle resoluzioni che non fanno i valenti uomini.

Mentre che egli faceva finire la sepoltura di Giulio Secondo, fece a uno squadratore di marmi condurre un termine per porlo nella sepoltura di S. Piero in Vincola, con dire: "Lieva oggi questo, e spiana qui, pulisci qua"; di maniera che senza che colui se n'avedessi, gli fé fare una figura; perché finita colui maravigliosamente la guardava, disse Michelagnolo: "Che te ne pare?". "Parmi bene", rispose colui "e v'ho grande obligo". "Perché", soggiunse Michelagnolo. "Perché io ho ritrovato per mezzo vostro una virtù che io non sapeva d'averla."

Ma per abreviare dico che la complessione di questo uomo fu molto sana, perché era asciutta e bene annodata di nerbi, e se bene fu da fanciullo cagionevole e da uomo ebbe dua malattie d'importanza, soportò sempre ogni fatica e non ebbe difetto, salvo nella sua vecchiezza patì dello orinare e di renella, che s'era finalmente convertita in pietra, onde per le mani di maestro Realdo Colombo suo amicissimo si siringò molti anni e lo curò diligentemente. Fu di statura mediocre, nelle spalle largo, ma ben proporzionato con tutto il resto del corpo. Alle gambe portò invecchiando di continuovo stivali di pelle di cane sopra lo ignudo i mesi interi, che quando gli voleva cavare poi nel tirargli ne veniva spesso la pelle. Usava sopra le calze stivali di cordovano afibiati di drento per amore degli umori. La faccia era ritonda, la fronte quadrata e spaziosa con sette linee diritte, e le tempie sportavano in fuori più delle orecchie assai, le quali orecchie erano più presto alquanto grandi e fuor delle guance; il corpo era a proporzione della faccia e più tosto grande, il naso alquanto stiacciato, come si disse nella vita del Torrigiano, che gliene ruppe con un pugno, gli occhi più tosto piccoli che no, di color corneo machiati di scintille giallette azzurricine, le ciglia con pochi peli, le labra sottili e quel di sotto più grossetto et alquanto infuori; il mento ben composto alla proporzione del resto; la barba, e' capegli neri, sparsa con molti peli canuti, lunga non molto e biforcata, e non molto folta.

Certamente fu al mondo la sua venuta, come dissi nel principio, uno esemplo mandato da Dio agli uomini dell'arte nostra, perché s'imparassi da lui nella vita sua i costumi, e nelle opere, come avevano a essere i veri et ottimi artefici. Et io che ho da lodare Dio d'infinite felicità che raro suole accadere negli uomini della professione nostra, annovero fra le maggiori una: esser nato in tempo che Michelagnolo sia stato vivo, e sia stato degno che io l'abbia avuto per padrone e che egli mi sia stato tanto famigliare et amico quanto sa ognuno, e le lettere sue scrittemi ne fanno testimonio apresso di me; e per la verità e per l'obligo che io ho alla sua amorevolezza ho potuto scrivere di lui molte cose e tutte vere, che molti altri non hanno potuto fare. L'altra felicità è, come mi diceva egli: "Giorgio riconosci Dio che t'ha fatto servire il duca Cosimo, che per contentarsi che tu muri e dipinga e metta in opera i suoi pensieri e disegni, non ha curato spesa: dove se tu consideri agli altri di chi tu hai scritto le Vite, non hanno avuto tanto".

Fu con onoratissime essequie col discorso di tutta l'arte e di tutti gli amici suoi e della nazione fiorentina, dato sepoltura a Michelagnolo in Santo Apostolo in un deposito nel cospetto di tutta Roma, avendo disegnato Sua Santità di farne fare particolare e memoria sepoltura in San Piero di Roma.

Arrivò Lionardo suo nipote che era finito ogni cosa, quantunque andasse in poste; et avutone aviso il duca Cosimo, il quale aveva disegnato che poi che non l'aveva potuto aver vivo et onorarlo, di farlo venire a Fiorenza e non restare con ogni sorte di pompa onorarlo dopo la morte, fu ad uso di mercanzia mandato in una balla segretamente; il quale modo si tenne acciò in Roma non s'avesse a fare romore e forse essere impedito il corpo di Michelagnolo e non lasciato condurre in Fiorenza. Ma innanzi che il corpo venisse, intesa la nuova della morte, ragunatisi insieme a richiesta del luogotenente della loro Accademia i principali pittori, scultori et architetti, fu ricordato loro da esso luogotenente, che allora era il reverendo don Vincenzio Borghini, che erano ubligati in virtù de' loro capitoli ad onorare la morte di tutti i loro fratelli, e che avendo essi ciò fatto sì amorevolmente e con tanta sodisfazione universale nell'essequie di fra' Giovan Agnolo Montorsoli, che primo dopo la creazione dell'Accademia era mancato, vedessero bene quello che fare si convenisse per l'onoranza del Buonarruoto, il quale da tutto il corpo della Compagnia e con tutti i voti favorevoli era stato eletto primo accademico e capo di tutti loro. Alla quale proposta risposero tutti, come ubbligatissimi et affezionatissimi alla virtù di tant'uomo, che per ogni modo si facesse opera di onorarlo in tutti que' modi che per loro si potessino maggiori e migliori. Ciò fatto per non avere ogni giorno a ragunare tante gente insieme con molto scomodo loro, e perché le cose passassero più quietamente, furono eletti sopra l'essequie et onoranza da farsi quattro uomini: Agnolo Bronzino e Giorgio Vasari pittori, Benvenuto Cellini e Bartolomeo Amannati, scultori, tutti di chiaro nome e d'illustre valore nelle lor arti, acciò dico questi consultassono e fermassono fra loro e col luogotenente quanto che e come si avesse a fare ciascuna cosa, con facultà di poter disporre di tutto il corpo della Compagnia et Accademia. Il quale carico presero tanto più volentieri offerendosi, come fecero, di bonissima voglia, tutti i giovani e vecchi, ciascuno nella sua professione, di fare quelle pitture e statue che s'avessono a fare in quell'onoranza. Dopo ordinarono che il luogotenente per debito del suo uffizio et i consoli in nome della Compagnia et Accademia significassero il tutto al signor Duca, e chiedessono quegli aiuti e favori che bisognavano, e specialmente che le dette essequie si potessono fare in San Lorenzo, chiesa dell'illustrissima casa de' Medici, e dove è la maggior parte dell'opere che di mano di Michelagnolo si veggiono in Firenze. E che oltre ciò sua eccellenza si contentasse che Messer Benedetto Varchi facesse e recitasse l'orazione funerale, acciò che l'eccellente virtù di Michelagnolo fusse lodata dall'eccellente eloquenza di tant'uomo, quanto era il Varchi, il quale per essere particularmente a' servigii di sua eccellenza non arebbe preso, senza parola di lei, cotal carico, ancor che come amorevolissimo di natura et affezionatissimo alla memoria di Michelagnolo erano certissimi che, quanto a sé, non l'arebbe mai ricusato. Questo fatto, licenziati che furono gl'accademici, il detto luogotenente scrisse al signor Duca una lettera di questo preciso tenore:


Avendo l'Accademia e Compagnia de' Pittori e Scultori consultato fra loro, quando sia con satisfazione di Vostra Eccellenzia illustrissima di onorare in qualche parte la memoria di Michelagnolo Buonarruoti, sì per il debito generale di tanta virtù, nella loro professione del maggior artefice che forse sia stato mai, e loro particolare, per l'interesse della comune patria, sì ancora per il gran giovamento che queste professioni hanno ricevuto della perfezione dell'opere et invenzioni sue, tal che pare che sia loro obligo mostrarsi amorevoli in quel modo ch'ei possono alla sua virtù, hanno per una loro esposto a Vostra Eccellenzia illustrissima questo loro desiderio e ricercatola come loro proprio refugio di certo aiuto. Io pregato da loro e (come giudico) obligato, per essersi contentata Vostra Eccellenzia illustrissima che io sia ancora questo anno con nome di suo luogotenente in loro compagnia, et aggiunto che la cosa mi pare piena di cortesia e d'animi virtuosi e grati; ma molto più conoscendo quanto Vostra Eccellenzia illustrissima è favoritore della virtù, e come un porto et un unico protettore in questa età delle persone ingegnose, avanzando in questo i suoi antinati, i quali alli eccellenti di queste professioni feciono favori straordinari, avendo per ordine del magnifico Lorenzo Giotto, tanto tempo innanzi morto, ricevuto una statua nel principal tempio, e fra' Filippo un sepolcro bellissimo di marmo, a spese sue proprie, e molti altri in diverse occasioni, utili et onori grandissimi; mosso da tutte queste cagioni, ho preso animo di raccomandare a Vostra Eccellenzia illustrissima la petizione di questa Accademia di potere onorare la virtù di Michelagnolo allievo e creatura particulare della scuola del magnifico Lorenzo, che sarà a loro contento straordinario, grandissima satisfazione all'universale, incitamento non piccolo ai professori di quest'arti et a tutta Italia saggio del bell'animo e pieno di bontà di Vostra Eccellenzia illustrissima, la quale Dio conservi lungamente felice a beneficio de' popoli suoi e sostentamento della virtù.


Alla quale lettera detto signor Duca rispose così:


Reverendo nostro carissimo. La prontezza che ha dimostrato e dimostra codesta Accademia per onorare la memoria di Michelagnolo Buonarruoti, passato di questa a miglior vita, ci ha dato, dopo la perdita d'un uomo così singolare, molta consolazione; e non solo volemo contentarla di quanto ci ha domandato nel memoriale, ma procurare ancora che l'ossa di lui sieno portate a Firenze, secondo che fu la sua voluntà, per quanto siamo avisati: il che tutto scriviamo all'Accademia prefata [per infiammarla] tanto più a celebrare in tutti i modi la virtù di tanto uomo. E Dio vi contenti.


Della lettera poi, o vero memoriale di cui si fa di sopra menzione, fatta dall'Accademia al signor Duca, fu questo il proprio tenore:


Illustrissimo, etc. L'Accademia e gl'uomini della Compagnia del Disegno, creata per grazia e favore di Vostra Eccellenzia illustrissima, sappiendo con quanto studio et affezione ella abbia fatto per mezzo dell'oratore suo in Roma venire il corpo di Michelagnolo Buonarruoti a Firenze, ragunatisi insieme hanno unitamente diliberato di dovere celebrare le sue essequie in quel modo che saperanno e potranno il migliore. Londe, sappiendo essi che Sua Eccellenzia illustrissima era tanto osservata da Michelagnolo, quanto ella amava lui, la suplicano che le piaccia per l'infinita bontà e liberalità sua concedere loro: prima, che essi possano celebrare dette essequie nella chiesa di San Lorenzo, edificata da' suoi maggiori, e nella quale sono tante e sì bell'opere da lui fatte, così nell'architettura, come nella scultura, e vicino alla quale ha in animo di volere che s'edifichi la stanza che sia quasi un nido et un continuo studio dell'architettura, scultura e pittura a detta Accademia e Compagnia del Disegno; secondamente la pregano che voglia far commettere a Messer Benedetto Varchi che non solo voglia fare l'orazione funerale, ma ancora recitarla di propria bocca, come ha promesso di voler fare liberissimamente, pregato da noi, ogni volta che Vostra Eccellenzia illustrissima se ne contenti. Nel terzo luogo supplicano e pregano quella, che le piaccia, per la medesima bontà e liberalità sua, sovenirgli di tutto quello che in celebrare dette essequie, oltra la loro possibilità, la quale è piccolissima, facesse loro di bisogno. E tutte queste cose e ciascuna d'esse si sono trattate e diliberate alla presenza e con consentimento del molto magnifico e reverendo monsignore Messer Vincenzio Borghini, priore degl'Innocenti, luogotenente di Sua Eccellenzia illustrissima di detta Accademia e Compagnia del Disegno. La quale, etc.


Alla quale lettera dell'Accademia fece il Duca questa risposta:


Carissimi nostri, siamo molto contenti di sodisfare pienamente alle vostre petizioni, tanta è stata sempre l'affezione che noi portiamo alla rara virtù di Michelagnolo Buonarruoti e portiamo ora a tutta la professione vostra; però non lasciate di essequire quanto voi avete in proponimento di fare per l'essequie di lui, ché noi non mancheremo di sovenire a' bisogni vostri; et intanto si è scritto a Messer Benedetto Varchi per l'orazione et allo spedalingo quello di più che ci soviene in questo proposito, e state sani. Di Pisa.


La lettera al Varchi fu questa:


Messer Benedetto nostro carissimo. L'affezione che noi portiamo alla rara virtù di Michelagnolo Buonarruoti, ci fa desiderare che la memoria di lui sia onorata e celebrata in tutti modi; però ci sarà cosa grata che per amore nostro vi pigliate cura di fare l'orazione, che si arà da ricitare nell'essequie di lui, secondo l'ordine preso dalli deputati dell'Accademia, e gratissima se sarà recitata per l'organo vostro. E state sano.


Scrisse anco Messer Bernardino Grazini ai detti deputati che nel Duca non si sarebbe potuto disiderare più ardente disiderio intorno a ciò di quello che avea mostrato, e che si promettessino ogni aiuto e favore da sua eccellenzia illustrissima.

Mentre che queste cose si trattavano a Firenze, Lionardo Buonarruoti nipote di Michelagnolo, il quale intesa la malatia del zio si era per le poste trasferito a Roma, ma non l'aveva trovato vivo, avendo inteso da Daniello da Volterra, stato molto familiare amico di Michelagnolo, e da altri ancora che erano stati intorno a quel santo vecchio, che egli aveva chiesto e pregato che il suo corpo fusse portato a Fiorenza, sua nobilissima patria, della quale fu sempre tenerissimo amatore, aveva con prestezza, e perciò buona resoluzione, cautamente cavato il corpo di Roma, e come fusse alcuna mercanzia inviatolo verso Firenze in una balla. Ma non è qui da tacere che quest'ultima risoluzione di Michelagnolo dichiarò, contra l'openione d'alcuni, quello che era verissimo: cioè che l'essere stato molti anni assente da Firenze, non era per altro stato che per la qualità dell'aria, perciò che la sperienza gli aveva fatto conoscere che quella di Firenze, per essere acuta e sottile, era alla sua complessione nimicissima, e che quella di Roma più dolce e temperata l'aveva mantenuto sanissimo fino al novantesimo anno, con tutti i sensi così vivaci et interi come fussero stati mai, e con sì fatte forze, secondo quell'età, che insino all'ultimo giorno non aveva lasciato d'operare alcuna cosa. Poi che dunque per così sùbita e quasi improvisa venuta non si poteva far per allora quello che fecero poi, arrivato il corpo di Michelagnolo in Firenze fu messa, come vollono i deputati, la cassa il dì medesimo ch'ella arrivò in Fiorenza, cioè il dì undici di marzo, che fu in sabato, nella Compagnia dell'Assunta, che è sotto l'altar maggiore e sotto le scale di dietro di San Piero Maggiore, senza che fusse tocca di cosa alcuna. Il dì seguente, che fu la domenica della seconda settimana di Quaresima, tutti i pittori, scultori et architetti si ragunarono così dissimulatamente intorno a San Piero, dove non avevano condotto altro che una coperta di velluto, fornita tutta e trapuntata d'oro, che copriva la cassa e tutto il feretro, sopra la quale cassa era una imagine di Crucifisso. Intorno poi a mezza ora di notte, ristretti tutti intorno al corpo, in un subito i più vecchi et eccellenti artefici diedero di mano a una gran quantità di torchi che li erano stati condotti, et i giovani a pigliare il feretro con tanta prontezza, che beato colui che vi si poteva accostare e sotto mettervi le spalle, quasi credendo d'avere nel tempo avenire a poter gloriarsi d'aver portato l'ossa del maggior uomo che mai fusse nell'arti loro. L'essere stato veduto intorno a San Piero un certo che di ragunata, aveva fatto, come in simili casi adiviene, fermarvi molte persone, e tanto più essendosi bucinato che il corpo di Michelagnolo era venuto e che si aveva a portare in Santa Croce. E se bene, come ho detto, si fece ogni opera che la cosa non si sapesse, acciò che spargendosi la fama per la città non vi concorresse tanta moltitudine che si potesse fuggire un certo che di tumulto e confusione, et ancora perché desideravano che quel poco che volevan fare per allora venisse fatto con più quiete che pompa, riserbando il resto a più agio e più comodo tempo, l'una e l'altra andò per lo contrario; perciò che quanto alla moltitudine, andando, come s'è detto, la nuova di voce in voce, si empié in modo la chiesa in un batter d'occhio, che in ultimo con grandissima difficultà si condusse quel corpo di chiesa in sagrestia, per sballarlo e metterlo nel suo deposito. E quanto all'essere cosa onorevole, se bene non può negarsi che il vedere nelle pompe funerali grande apparecchio di religiosi, gran quantità di cera e gran numero d'imbastiti e vestiti a nero, non sia cosa di magnifica e grande apparenza, non è però che anco non fusse gran cosa vedere così all'improvviso ristretti in un drappello quelli uomini eccellenti che oggi sono in tanto pregio e saranno molto più per l'avvenire, intorno a quel corpo con tanti amorevoli uffizii et affezzione. E di vero il numero di cotanti artefici in Firenze (che tutti vi erano) è grandissimo sempre stato; conciò sia che queste arti sono sempre, per sì fatto modo fiorite in Firenze, che io credo che si possa dire senza ingiurie dell'altre città, che il proprio e principal nido e domicilio di quelle sia Fiorenza, non altrimenti che già fusse delle scienze Atene. Oltre al quale numero d'artefici, erano tanti cittadini loro dietro e tanti dalle bande delle strade dove si passava, che più non ne capivano. E, che è maggior cosa, non si sentiva altro che celebrare da ognuno i meriti di Michelagnolo, e dire la vera virtù avere tanta forza, che poi che è mancata ogni speranza d'utile o onore che si possa da un virtuoso avere, ell'è nondimeno di sua natura e per proprio merito amata et onorata. Per le quali cose apparì questa dimostrazione più viva e più preziosa, che ogni pompa d'oro e di drappi che fare si fusse potuta. Con questa bella frequenza, essendo stato quel corpo condotto in Santa Croce, poi che ebbono i frati fornite le cerimonie che si costumano d'intorno ai defunti, fu portato, non senza grandissima difficultà, come s'è detto, per lo concorso de' popoli, in sagrestia; dove il detto luogotenente, che per l'uffizio suo vi era intervenuto, pensando di far cosa grata a molti et anco (come poi confessò) disiderando di vedere morto quello che e' non aveva veduto vivo o l'aveva veduto in età che n'aveva perduta ogni memoria, si risolvé allora di fare aprire la cassa. E così fatto, dove egli e tutti noi presenti credevamo trovare quel corpo già putrefatto e guasto, perché era stato morto giorni venticinque e ventidue nella cassa, lo vedemo così in tutte le sue parti intero e senza alcuno odore cattivo, che stemo per credere che più tosto si riposasse in un dolce e quietissimo sonno. Et oltre che le fattezze del viso erano come a punto quando era vivo (fuori che un poco il colore era come di morto) non aveva niun membro che guasto fusse o mostrasse alcuna schifezza, e la testa e le gote a toccarle erano non altrimenti che se di poche ore innanzi fusse passato.

Passata poi la furia del popolo, si diede ordine di metterlo in un deposito in chiesa a canto all'altare de' Cavalcanti, per me' la porta che va nel chiostro del capitolo. In quel mezzo sparsasi la voce per la città, vi concorse tanta moltitudine di giovani per vederlo, che fu gran fatica il potere chiudere il deposito. E se era di giorno, come fu di notte, sarebbe stato forza lasciarlo stare aperto molte ore, per sodisfare all'universale. La mattina seguente, mentre si cominciava dai pittori e scultori a dare ordine all'onoranza, cominciarono molti belli ingegni, di che è sempre Fiorenza abondantissima, ad appiccare sopra detto deposito versi latini e volgari, e così per buona pezza fu continuato, intanto che quelli componimenti, che allora furono stampati, furono piccola parte a rispetto de' molti che furono fatti.

Ora per venire all'essequie, le quali non si fecero il dì dopo San Giovanni, come si era pensato, ma furono insino al quattordicesimo giorno di luglio prolungate, i tre deputati (perché Benvenuto Cellini, essendosi da principio sentito alquanto indisposto, non era mai fra loro intervenuto), fatto che ebbero proveditore Zanobi Lastricati scultore, si risolverono a far cosa più tosto ingegnosa e degna dell'arti loro, che pomposa e di spesa. "E nel vero, avendosi a onorare" dissero que' deputati et il loro proveditore "un uomo come Michelagnolo, e da uomini della professione che egli ha fatto, e più tosto ricchi di virtù che d'amplissime facultà, si dee ciò fare non con pompa regia o soperchie vanità, ma con invenzioni et opere piene di spirito e di vaghezza, che escano dal sapere della prontezza delle nostre mani e de' nostri artefici, onorando l'arte con l'arte. Perciò che, se bene dall'eccellenza del signor Duca possiamo sperare ogni quantità di danari che fusse di bisogno, avendone già avuta quella quantità che abbiamo domandata, noi nondimeno avemo a tenere per fermo che da noi si aspetta più presto cosa ingegnosa e vaga per invenzione e per arte, che ricca per molta spesa o grandezza di superbo apparato." Ma ciò nonostante, si vide finalmente che la magnificenza fu uguale all'opere che uscirono delle mani dei detti accademici, e che quella onoranza fu non meno veramente magnifica, che ingegnosa, e piena di capricciose e lodevoli invenzioni.

Fu dunque in ultimo dato questo ordine, che nella navata di mezzo di San Lorenzo, dirimpetto alle due porte de' fianchi, delle quali una va fuori e l'altra nel chiostro, fusse ritto, come si fece, il catafalco di forma quadro, alto braccia ventotto, con una Fama in cima, lungo undici e largo nove. In sul basamento dunque di esso catafalco, alto da terra braccia due, erano nella parte che guarda verso la porta principale della chiesa posti due bellissimi fiumi a giacere, figurati l'uno per Arno e l'altro per lo Tevere. Arno aveva un corno di dovizia pieno di fiori e frutti, significando perciò i frutti che dalla città di Firenze sono nati in queste professioni, i quali sono stati tanti e così fatti, che hanno ripieno il mondo, e particolarmente Roma, di straordinaria bellezza. Il che dimostrava ottimamente l'altro fiume, figurato come si è detto per lo Tevere; perciò che stendendo un braccio, si aveva piene le mani de' fiori e frutti avuti dal corno di dovizia dell'Arno, che gli giaceva a canto e dirimpetto. Veniva a dimostrare ancora, godendo de' frutti d'Arno, che Michelagnolo è vivuto gran parte degl'anni suoi a Roma, e vi ha fatto quelle maraviglie che fanno stupire il mondo. Arno aveva per segno il leone et il Tevere la lupa con i piccioli Romulo e Remo, et erano ambidue colossi di straordinaria grandezza e bellezza, e simili al marmo. L'uno, cioè il Tevere, fu di mano di Giovanni di Benedetto da Castello, allievo del Bandinello, e l'altro di Battista di Benedetto, allievo dell'Ammannato, ambi giovani eccellenti e di somma aspettazione.

Da questo piano si alzava una faccia di cinque braccia e mezzo con le sue cornici di sotto, e sopra, et in su' canti, lasciando nel mezzo lo spazio di quattro quadri. Nel primo de' quali, che veniva a essere nella faccia dove erano i due fiumi, era dipinto di chiaro scuro, sì come erano anche tutte l'altre pitture di questo apparato, il magnifico Lorenzo vecchio de' Medici, che riceveva nel suo giardino, del quale si è in altro luogo favellato, Michelagnolo fanciullo, avendo veduti certi saggi di lui che accennavano, in que' primi fiori, i frutti che poi largamente sono usciti della vivacità e grandezza del suo ingegno. Cotale istoria dunque si conteneva nel detto quadro, il quale fu dipinto da Mirabello e da Girolamo del Crucifissaio, così chiamati, i quali come amicissimi e compagni presono a fare quell'opera insieme, nella quale con vivezza e pronte attitudini si vedeva il detto magnifico Lorenzo, ritratto di naturale, ricevere graziosamente Michelagnolo fanciulletto e tutto reverente nel suo giardino, et essaminatolo, consegnarlo ad alcuni maestri che gl'insegnassero. Nella seconda storia, che veniva a essere, continuando il medesimo ordine, volta verso la porta del fianco che va fuori, era figurato papa Clemente, che contra l'openione del volgo, il quale pensava che Sua Santità avesse sdegno con Michelagnolo per conto delle cose dell'assedio di Firenze, non solo lo assicura e se gli mostra amorevole, ma lo mette in opera alla sagrestia nuova et alla libreria di San Lorenzo, ne' quali luoghi quanto divinamente operasse si è già detto. In questo quadro adunque era di mano di Federigo fiamingo, detto del Padoano, dipinto con molta destrezza e dolcissima maniera Michelagnolo che mostra al Papa la pianta della detta sagrestia, e dietro lui parte da alcuni Angioletti, e parte da altre figure, erano portati i modelli della libreria, della sagrestia e delle statue che vi sono oggi finite. Il che tutto era molto bene accomodato e lavorato con diligenza. Nel terzo quadro che posando come gl'altri detti sul primo piano, guardava l'altare maggiore, era un grande epitaffio latino composto dal dottissimo Messer Pier Vettori, il sentimento del quale era tale in lingua fiorentina: "L'Accademia de' pittori, scultori et architettori, col favore et aiuto del duca Cosimo de' Medici, loro capo e sommo protettore di queste arti, ammirando l'eccellente virtù di Michelagnolo Buonarruoti e riconoscendo in parte il beneficio ricevuto dalle divine opere sue, ha dedicato questa memoria, uscita dalle proprie mani e da tutta l'affezzione del cuore, all'eccellenza e virtù del maggior pittore, scultore et architettore che sia mai stato". Le parole latine furono queste: "Collegium pictorum, statuariorum, architectorum, auspicio opeque sibi prompta Cosmi ducis, autoris suorum commodorum, suspiciens singularem virtutem Michaëlis Angeli Bonarrotae intelligensque quanto sibi auxilio semper fuerint praeclara ipsius opera, studuit se gratum erga illum ostendere sommum omnium qui unquam fuerint p. s. a. ideoque monumentum hoc suis manibus extructum magno animi ardore ipsius memoriae dedicavit".

Era questo epitaffio retto da due Angioletti, i quali con volto piangente e spegnendo ciascuno una face, quasi si lamentavano essere spenta tanta e così rara virtù. Nel quadro poi che veniva a essere volto verso la porta che va nel chiostro era quando per l'assedio di Firenze Michelagnolo fece la fortificazione del poggio a San Miniato, che fu tenuta inespugnabile e cosa maravigliosa: e questo fu di mano di Lorenzo Sciorini, allievo del Bronzino, giovane di bonissima speranza. Questa parte più bassa, e come dire la base di tutta la machina, aveva in ciascun canto un piedestallo che risaltava, e sopra ciascun piedestallo era una statua grande più che il naturale, che sotto n'aveva un'altra come soggetta e vinta, di simile grandezza, ma raccolta in diverse attitudini e stravaganti. La prima a man ritta, andando verso l'altare maggiore, era un giovane svelto, e nel sembiante tutto spirito e di bellissima vivacità figurato per l'Ingegno, con due aliette sopra le tempie, nella guisa che si dipigne alcuna volta Mercurio. E sotto a questo giovane fatto con incredibile diligenza, era con orecchi asinini una bellissima figura fatta per l'Ignoranza, mortal nimica dell'Ingegno. Le quali ambedue statue furono di mano di Vincenzio Danti perugino, del quale e dell'opere sue, che sono rare fra i moderni giovani scultori, si parlerà in un altro luogo più lungamente.

Sopra l'altro piedestallo, il quale essendo a man ritta verso l'altare maggiore guardava verso la sagrestia nuova, era una donna, fatta per la Pietà cristiana, la quale essendo d'ogni bontà e religione ripiena, non è altro che un aggregato di tutte quelle virtù che i nostri hanno chiamate teologiche e di quelle che furono dai gentili dette morali; onde meritamente, celebrandosi da' cristiani la virtù d'un cristiano ornata di santissimi costumi, fu dato conveniente et onorevole luogo a questa, che risguarda la legge di Dio e la salute dell'anime, essendo che tutti gl'altri ornamenti del corpo e dell'animo, dove questa manchi, sono da essere poco, anzi nulla stimati. Questa figura, la quale avea sotto sé prostrato e da sé calpestato il Vizio o vero l'Impietà, era di mano di Valerio Cioli, il quale è valente giovane di bellissimo spirito, e merita lode di molto giudizioso e diligente scultore. Dirimpetto a questa, dalla banda della sagrestia vecchia, era un'altra simile figura stata fatta giudiziosamente per la dea Minerva o vero l'Arte, perciò che si può dire con verità che dopo la bontà de' costumi e della vita, la quale dee tener sempre appresso i migliori il primo luogo, l'Arte poi sia stata quella che ha dato a quest'uomo non solo onore e facultà, ma anco tanta gloria che si può dire lui aver in vita goduto que' frutti che a pena dopo morte sogliono dalla fama trarne, mediante l'egregie opere loro, gl'uomini illustri e valorosi; e, quello che è più, aver intanto superata l'invidia, che senza alcuna contradizione, per consenso comune, ha il grado e nome della principale e maggiore eccellenza ottenuto; e per questa cagione aveva sotto i piedi questa figura, l'Invidia, la quale era una vecchia secca e distrutta, con occhi viperini et insomma con viso e fattezze che tutte spiravano tossico e veleno; et oltre ciò, era cinta di serpi et aveva una vipera in mano. Queste due statue erano di mano d'un giovinetto di pochissima età, chiamato Lazzaro Calamech da Carrara, il quale ancor fanciullo ha dato infino a oggi in alcune cose di pittura e scultura gran saggio di bello e vivacissimo ingegno. Di mano d'Andrea Calamech, zio del sopra detto et allievo dell'Amannato, erano le due statue poste sopra il quarto piedestallo, che era dirimpetto all'organo e risguardava verso le porte principali della chiesa. La prima delle quali era figurata per lo Studio, perciò che quegli che poco e lentamente s'adoprano non possono venir in pregio già mai, come venne Michelagnolo; conciò sia che dalla sua prima fanciullezza di quindici insino a novanta anni non restò mai, come di sopra si è veduto, di lavorare. Questa statua dello Studio, che ben si convenne a tant'uomo, il quale era un giovane fiero e gagliardo, il quale alla fine del braccio poco sopra la giuntura della mano aveva due aliette, significanti la velocità e spessezza dell'operare, si aveva sotto come prigione cacciata la Pigrizia o vero Ociosità, la quale era una donna lenta e stanca et in tutti i suoi atti grave e dormigliosa. Queste quattro figure disposte nella maniera che s'è detto, facevano un molto vago e magnifico componimento, e parevano tutte di marmo, perché sopra la terra fu dato un bianco che tornò bellissimo. In su questo piano, dove le dette figure posavano, nasceva un altro imbasamento pur quadro et alto braccia quattro in circa, ma di larghezza e lunghezza tanto minore di quel di sotto quanto era l'aggetto e scorniciamento dove posavano le dette figure, et aveva in ogni faccia un quadro di pittura di braccia sei e mezzo per lunghezza e tre d'altezza, e di sopra nasceva un piano nel medesimo modo che quel di sotto, ma minore; e sopra ogni canto sedeva in sul risalto d'un zoccolo una figura quanto di naturale o più; e queste erano quattro donne, le quali per gli stromenti che avevano erano facilmente conosciute per la Pittura, Scultura, Architettura e Poesia; per le cagioni che di sopra nella narrazione della sua vita si sono vedute. Andandosi dunque dalla principale porta della chiesa verso l'altare maggiore, nel primo quadro del secondo ordine del catafalco, cioè sopra la storia nella quale Lorenzo de' Medici riceve, come si è detto, Michelagnolo nel suo giardino, era con bellissima maniera dipinto, per l'architettura, Michelagnolo innanzi a papa Pio Quarto col modello in mano della stupenda machina della cupola di San Piero di Roma. La quale storia, che fu molta lodata, era stata dipinta da Piero Francia pittore fiorentino, con bella maniera et invenzione. E la statua, o vero simulacro dell'Architettura, che era alla man manca di questa storia, era di mano di Giovanni di Benedetto da Castello, che con tanta sua lode fece anco, come si è detto, il Tevere, uno de' due fiumi che erano dalla parte dinanzi del catafalco. Nel secondo quadro, seguitando d'andare a man ritta verso la porta del fianco che va fuori, per la pittura si vedeva Michelagnolo dipignere quel tanto, ma non mai a bastanza lodato Giudizio, quello dico che è l'esempio degli scorci e di tutte l'altre difficultà dell'arte. Questo quadro, il quale lavorarono i giovani di Michele di Ridolfo con molta grazia e diligenza, aveva la sua imagine e statua della Pittura similmente a man manca, cioè in sul canto che guarda la sagrestia nuova, fatta da Batista del Cavaliere, giovane non meno eccellente nella scultura, che per bontà, modestia e costumi rarissimo. Nel terzo quadro, volto verso l'altare maggiore, cioè in quello che era sopra il già detto epitaffio, per la scultura si vedeva Michelagnolo ragionare con una donna, la quale per molti segni si conosceva essere la Scultura, e parea che si consigliasse con esso lei. Aveva Michelagnolo intorno alcune di quelle opere che eccellentissime ha fatto nella scultura, e la donna in una tavoletta queste parole di Boezio: "Simili sub imagine formans": allato al qual quadro, che fu opera d'Andrea del Minga e da lui lavorato con bella invenzione e maniera, era in sulla man manca la statua di essa Scultura, stata molto ben fatta da Antonio di Gino Lorenzi scultore. Nella quarta di queste quattro storie, che era volta verso l'organo, si vedeva per la poesia Michelagnolo tutto intento a scrivere alcuna composizione, et intorno a lui, con bellissima grazia e con abiti divisati, secondo che dai poeti sono descritte, le nove Muse et innanzi a esse Appollo con la lira in mano e con la sua corona d'alloro in capo, e con un'altra corona in mano, la quale mostrava di volere porre in capo a Michelagnolo. Al vago e bello componimento di questa storia, stata dipinta con bellissima maniera e con attitudini e vivacità prontissime da Giovanmaria Butteri, era vicina e sulla man manca la statua della Poesia opera di Domenico Poggini, uomo non solo nella scultura e nel fare impronte di monete e medaglie bellissime, ma ancora nel fare di bronzo e nella poesia parimente molto esercitato.

Così fatto, dunque, era l'ornamento del catafalco, il quale, perché andava digradando ne' suoi piani tanto che vi si poteva andare attorno, era quasi a similitudine del mausoleo d'Augusto in Roma, e forse per essere quadro più si assomigliava al Settizonio di Severo, non a quello presso al Campidoglio, che comunemente così è chiamato per errore, ma al vero, che nelle Nuove Rome si vede stampato appresso l'Antoniane. Infin qui, dunque, aveva il detto catafalco tre gradi: dove giacevano i fiumi era il primo, il secondo dove le figure doppie posavano, et il terzo dove avevano il piede le scempie. Et in su questo piano ultimo nasceva una base o vero zoccolo alta un braccio, e molto minore per larghezza e lunghezza del detto ultimo piano; sopra i risalti della quale sedevano le dette figure scempie et intorno alla quale si leggevano queste parole: "Sic ars extollitur arte". Sopra questa base poi posava una piramide, alta braccia nove, in due parti della quale, cioè in quella che guardava la porta principale et in quella che volgeva verso l'altare maggiore, giù da basso, era in due ovati la testa di Michelagnolo di rilievo ritratta dal naturale e stata molto ben fatta da Santi Buglioni. In testa della piramide era una palla a essa piramide proporzionata, come se in essa fussero state le ceneri di quegli che si onorava, e sopra la palla era, maggiore del naturale, un Fama, finta di marmo, in atto che pareva volasse et insieme facesse per tutto il mondo risonare le lodi et il pregio di tanto artefice, con una tromba la quale finiva in tre bocche. La quale Fama fu di mano di Zanobi Lastricati, il quale, oltre alle fatiche che ebbe come proveditore in tutta l'opera, non volle anco mancare di mostrare con suo molto onore la virtù della mano e dell'ingegno. In modo che dal piano di terra alla testa della Fama era, come si è detto, l'altezza di braccia ventotto.

Oltre al detto catafalco, essendo tutta la chiesa parata di rovesci e rasce nere, appiccate non come si suole alle colonne del mezzo, ma alle cappelle che sono intorno intorno, non era alcun vano, fra i pilastri che mettono in mezzo le dette cappelle e corrispondono alle colonne, che non avesse qualche ornamento di pittura et in quale, facendo bella e vaga et ingegnosa mostra, non porgesse in un medesimo tempo maraviglia e diletto grandissimo.

E per cominciarmi da un capo, nel vano della prima cappella, che è a canto all'altare maggiore andando verso la sagrestia vecchia, era un quadro alto braccia sei e lungo otto, nel quale con nuova e quasi poetica invenzione era Michelagnolo in mezzo, come giunto ne' campi Elisii, dove gl'erano da man destra assai maggiori che il naturale i più famosi e que' tanto celebrati pittori e scultori antichi, ciascuno de' quali si conosceva a qualche notabile segno: Praxitele al Satiro che è nella vigna di papa Giulio Terzo, Apelle al ritratto d'Alessandro Magno, Zeusi a una tavoletta dove era figurata l'uva che ingannò gl'uccelli, e Parrasio con la finta coperta del quadro di pittura. E così come [questi] a questi, così gl'altri ad altri segni erano conosciuti. A man manca erano quegli che in questi nostri secoli da Cimabue in qua sono stati in queste arti illustri: onde vi si conosceva Giotto a una tavoletta in cui si vedeva il ritratto di Dante giovanetto, nella maniera che in Santa Croce si vede essere stato da esso Giotto dipinto; Masaccio al ritratto di naturale; Donatello similmente al suo ritratto et al suo Zuccone del campanile che gl'era a canto; e Filippo Brunelleschi al ritratto della sua cupola di Santa Maria del Fiore. Ritratti poi di naturale, senz'altri segni, vi erano fra' Filippo, Taddeo Gaddi, Paulo Uccello, fra' Giovan Agnolo, Iacopo Puntormo, Francesco Salviati et altri; i quali tutti con le medesime accoglienze che gl'antichi e pieni di amore e maraviglia gl'erano intorno, in quel modo stesso che ricevettero Virgilio gl'altri poeti nel suo ritorno, secondo la finzione del divino poeta Dante, dal quale essendosi presa l'invenzione, si tolse anco il verso che in un breve si leggeva sopra, et in una mano del fiume Arno, che a' piedi di Michelagnolo con attitudine e fattezze bellissime giaceva:


Tutti l'ammiran, tutti onor gli fanno.


Il qual quadro di mano di Alessandro Allori allievo del Bronzino, pittore eccellente e non indegno discepolo e creato di tanto maestro, fu da tutti coloro che il videro, sommamente lodato. Nel vano della cappella del Santissimo Sacramento, in testa della crocera era, in un quadro lungo braccia 5 e largo 4, intorno a Michelagnolo tutta la scuola dell'arti, puttini, fanciulli e giovani di ogni età insino a 24 anni, i quali, come a cosa sacra e divina, offerivano le primizie delle fatiche loro, cioè pitture, sculture e modelli a lui, che gli riceveva cortesemente e gl'ammaestrava nelle cose dell'arti, mentre eglino attentissimamente l'ascoltavano e guardavano con attitudini e volti veramente belli e graziatissimi. E per vero dire non poteva tutto il componimento di questo quadro essere in un certo modo meglio fatto, né in alcuna delle figure alcuna cosa più bella disiderarsi; onde Batista allievo del Puntormo, che l'avea fatto, fu infinitamente lodato. Et i versi che si leggevano a' piè di detta storia dicevano così:


Tu pater, tu rerum inventor, tu patria nobis

suppeditas praecepta, tuis ex, inclite, chartis.


Venendosi poi dal luogo dove era il detto quadro verso le porte principali della chiesa, quasi a canto e prima che si arrivasse all'organo, nel quadro che era nel vano d'una cappella, lungo 6 et alto 4 braccia, era dipinto un grandissimo e straordinario favore, che alla rara virtù di Michelagnolo fece papa Giulio Terzo. Il quale volendosi servire in certe fabbriche del giudizio di tant'uomo, l'ebbe a sé nella sua vigna, dove fattoselo sedere allato, ragionarono buona pezza insieme, mentre cardinali, vescovi et altri personaggi di corte che avevano intorno, stettono sempre in piedi. Questo fatto dico si vedeva con tanto buona composizione e con tanto rilievo essere stato dipinto e con tanta vivacità e prontezza di figure, che per aventura non sarebbe migliore uscito delle mani d'uno eccellente vecchio e molto esercitato maestro. Onde Iacopo Zucchi giovane et allievo di Giorgio Vasari, che lo fece con bella maniera, mostrò che di lui si poteva onoratissima riuscita sperare.

Non molto lontano a questo in sulla medesima mano, cioè poco di sotto all'organo, aveva Giovanni Strada fiamingo, valente pittore, in un quadro lungo 6 braccia et alto 4, dipinto quando Michelagnolo nel tempo dell'assedio di Firenze andò a Vinezia: dove standosi nell'appartato di quella nobilissima città che si chiama la Giudecca, Andrea Gritti doge e la Signoria mandarono alcuni gentiluomini et altri a visitarlo e fargli offerte grandissime; nella quale cosa esprimere mostrò il detto pittore, con suo molto onore, gran giudizio e molto sapere, così in tutto il componimento, come in ciascuna parte di esso, perché si vedevano nell'attitudini e vivacità de' volti e ne' movimenti di ciascuna figura invenzione, disegno e bonissima grazia.

Ora tornando all'altare maggiore e volgendo verso la sagrestia nuova, nel primo quadro che si truovava, il quale veniva a essere nel vano della prima cappella, era di mano di Santi Tidi, giovane di bellissimo giudizio e molto esercitato nella pittura in Firenze et in Roma, un altro segnalato favore stato fatto alla virtù di Michelagnolo, come credo aver detto di sopra, dall'illustrissimo signor don Francesco Medici, principe di Firenze, il quale trovandosi in Roma circa tre anni avanti che Michelagnolo morisse, et essendo da lui visitato, subito che entrò esso Buonarruoto si levò il principe in piede, et appresso per onorare un tant'uomo e quella veramente reverenda vecchiezza, colla maggior cortesia che mai facesse giovane principe volle (comeché Michelagnolo, il quale era modestissimo, recusasse) che sedesse nella sua propria sedia, onde s'era egli stesso levato, e stando poi in piedi udirlo con quella attenzione e reverenza che sogliono i figliuoli un ottimo padre. A' piè del principe era un putto, condotto con molta diligenza, il quale aveva un mazzocchio o vero berretta ducale in mano, e d'intorno a loro erano alcuni soldati vestiti all'antica, e fatti con molta prontezza e bella maniera. Ma sopra tutte l'altre erano benissimo fatti e molto vivi e pronti il Principe e Michelagnolo, in tanto che parea veramente che il vecchio proferisse le parole et il giovane attentissimamente l'ascoltasse. In un altro quadro alto braccia 9 e lungo 12, il quale era dirimpetto alla cappella del Sacramento, Bernardo Timante Buontalenti, pittore molto amato e favorito dall'illustrissimo Principe, aveva con bellissima invenzione figurati i fiumi delle tre principali parti del mondo, come venuti tutti mesti e dolenti a dolersi con Arno del comune danno e consolarlo. I detti fiumi erano il Nilo, il Gange et il Po. Aveva per contrasegno il Nilo un coccodrillo e per la fertilità del paese una ghirlanda di spighe; il Gange l'uccel grifone et una ghirlanda di gemme, et il Po un cigno et una corona d'ambre nere. Questi fiumi guidati in Toscana dalla Fama, la quale si vedeva in alto quasi volante, si stavano intorno a Arno, coronato di cipresso e tenente il vaso asciutto et elevato con una mano, e nell'altra un ramo d'arcipresso e sotto sé un lione. E per dimostrare l'anima di Michelagnolo essere andata in cielo alla somma felicità, aveva finto l'accorto pittore uno splendore in aria significante il celeste lume, al quale in forma d'Angioletto s'indirizzava la benedetta anima, con questo verso lirico:


Vivens orbe peto laudibus aethera.


Dagli lati sopra due basi erano due figure in atto di tenere aperta una cortina, dentro la quale pareva che fussero i detti fiumi, l'anima di Michelagnolo e la Fama; e ciascuna delle dette due figure n'aveva sotto un'altra. Quella che era a man ritta de' fiumi, figurata per Vulcano, aveva una face in mano, la figura che gli aveva il collo sotto i piedi figurata per l'Odio in atto disagioso e quasi fatigante per uscirgli di sotto, aveva per contrasegno un avoltoio con questo verso:


Surgere quid properas, Odium crudele? Iaceto.


E questo perché le cose sopr'umane e quasi divine non deono in alcun modo essere né odiate né invidiate. L'altra fatta per Aglaia, una delle tre Grazie e moglie di Vulcano, per significare la Proporzione, aveva in mano un giglio, sì perché i fiori sono dedicati alle Grazie, e sì ancora perché si dice il giglio non disconvenirsi ne' mortorii. La figura che sotto questa giaceva e la quale era finta per la Sproporzione, aveva per contrasegno una scimia o vero bertuccia, e sopra questo verso:


Vivus et extinctus docuit sic sternere turpe.


E sotto i fiumi erano questi altri due versi:


Venimus, Arne, tuo confixa en vulnere maesta

flumina, ut ereptum mundo ploremus honorem.


Questo quadro fu tenuto molto bello per l'invenzione, per la bellezza de' versi e per lo componimento di tutta la storia e vaghezza delle figure. E perché il pittore non come gl'altri per commessione con questa sua fatica onorò Michelagnolo, ma spontaneamente, e con quegli aiuti che gli fece la sua virtù da' suoi cortesi et onorati amici, meritò per ciò essere ancora maggiormente comendato.

In un altro quadro, lungo 6 braccia et alto 4, vicino alla porta del fianco, che va fuori, aveva Tommaso da San Friano, pittore giovane e di molto valore, dipinto Michelagnolo come ambasciadore della sua patria innanzi a papa Giulio Secondo, come si è detto che andò e per quali cagioni mandato dal Soderino. Non molto lontano dal sopra detto quadro, cioè poco sotto la detta porta del fianco che va fuori, in un altro quadro della medesima grandezza, Stefano Pieri, allievo del Bronzino e giovane molto diligente e studioso, aveva (sì come invero non molto avanti era avenuto più volte in Roma) dipinto Michelagnolo a sedere allato all'illustrissimo signor duca Cosimo in una camera, standosi a ragionare insieme, come di tutto si è detto di sopra a bastanza.

Sopra i detti panni neri di che era parata, come si è detto, tutta la chiesa intorno intorno, dove non erano storie o quadri di pittura, era in ciascuno de' vani delle cappelle imagini di morte, imprese et altre simili cose, tutte diverse da quelle che sogliono farsi, e belle e capricciose. Alcune quasi dolendosi d'avere avuto a privare per forza il mondo d'un così fatt'uomo avevano in un brieve queste parole: "Coëgit dura necessitas". Et appresso un mondo, al quale era nato sopra un giglio che aveva tre fiori et era tronco nel mezzo con bellissima fantasia et invenzione di Alessandro Allori sopra detto. Altre Morti poi erano fatte con altra invenzione, ma quella fu molto lodata, alla quale, essendo prostrata in terra, l'Eternità con una palma in mano, aveva un de' piedi posto in sul collo e, guardandola con atto sdegnoso, parea che le dicesse la sua necessità o volontà che sia non avere fatto nulla, però che mal suo grado viverà Michelagnolo in ogni modo. Il motto diceva così: "Vicit inclita virtus", e questa fu invenzione del Vasari. Né tacerò che ciascuna di queste Morti era tramezzata dall'impresa di Michelagnolo, che erano tre corone o vero tre cerchi intrecciati insieme, in guisa che la circonferenza dell'uno passava per lo centro degl'altri due scambievolmente. Il quale segno usò Michelagnolo, o perché intendesse che le tre professioni di scultura, pittura et architettura fussero intrecciate et in modo legate insieme, che l'una dà e riceve dall'altra comodo et ornamento e ch'elle non si possono né deono spiccar d'insieme, o pure che come uomo d'alto ingegno ci avesse dentro più sottile intendimento. Ma gl'accademici, considerando lui in tutte e tre queste professioni essere stato perfetto, e che l'una ha aiutato et abbellito l'altra, gli mutarono i tre cerchi in tre corone intrecciate insieme, col motto: "Tergeminis tollit honoribus", volendo perciò dire che meritamente in dette tre professioni se gli deve la corona di somma perfezzione.

Nel pergamo dove il Varchi fece l'orazione funerale, che poi fu stampata, non era ornamento alcuno, perciò che essendo di bronzo e di storie di mezzo e basso rilievo dall'eccellente Donatello stato lavorato, sarebbe stato ogni ornamento, che se gli fusse sopra posto, di gran lunga men bello. Ma era bene in su quell'altro, che gli è dirimpetto e che non era ancor messo in su le colonne, un quadro alto quattro braccia e largo poco più di due, dove con bella invenzione bonissimo disegno era dipinto per la Fama o vero Onore un giovane con bellissima attitudine con una tromba nella man destra e con i piedi addosso al Tempo et alla Morte, per mostrare che la fama e l'onore, mal grado della morte e del tempo, serbano vivi in eterno coloro che virtuosamente in questa vita hanno operato. Il qual quadro fu di mano di Vincenzio Danti perugino scultore, del quale si è parlato e si parlerà altra volta. In cotal modo essendo apparata la chiesa, adorna di lumi e piena di populo inumerabile, per essere ognuno, lasciata ogni altra cura, concorso a così onorato spettacolo, entrarono dietro al detto luogotenente dell'Accademia, accompagnati dal capitano et alabardieri della guardia del Duca, i consoli e gl'accademici et insomma tutti i pittori, scultori et architetti di Firenze. I quali poi che furono a sedere, dove fra il catafalco e l'altare maggiore erano stati buona pezza aspettati da un numero infinito di signori e gentiluomini, che secondo i meriti di ciascuno erano stati a sedere accomodati, si diede principio a una solennissima messa de' morti con musiche e cerimonie d'ogni sorte. La quale finita, salì sopra il pergamo già detto il Varchi, che poi non aveva fatto mai cotale ufficio che egli lo fece per la illustrissima signora duchessa di Ferrara, figliuola del duca Cosimo, e quivi con quella eleganza, con que' modi e con quella voce che proprii e particolari furono, in orando, di tanto uomo, raccontò le lodi, i meriti, la vita e l'opere del divino Michelagnolo Buonarruoti. E nel vero che grandissima fortuna fu quella di Michelagnolo non morire prima che fusse creata la nostra Accademia, da che con tanto onore e con sì magnifica et onorata pompa fu celebrato il suo mortorio. Così a sua gran ventura si dee reputare che avenisse che egli inanzi al Varchi passasse di questa ad eterna e felicissima vita, poi che non poteva da più eloquente e dotto uomo essere lodato. La quale orazione funerale di Messer Benedetto Varchi fu poco appresso stampata, sì come fu anco non molto dopo un'altra similmente bellissima orazione, pure delle lodi di Michelagnolo e della pittura, stata fatta dal nobilissimo e dottissimo Messer Lionardo Salviati, giovane allora di circa ventidue anni, e così raro e felice ingegno in tutte le maniere di componimenti latini e toscani, quanto sa insino a ora e meglio saprà per l'avenire tutto il mondo. Ma che dirò o che posso dire che non sia poco della virtù, bontà e prudenza del molto reverendo signor luogotenente, don Vincenzio Borghini sopra detto, se non che lui capo, lui guida e lui consigliere, celebrarono quell'essequie i virtuosissimi uomini dell'Accademia e Compagnia del Disegno? Perciò che se bene era bastante ciascuno di loro a fare molto maggior cosa di quello che fecero nell'arti loro, non si conduce nondimeno mai alcuna impresa a perfetto e lodato fine, se non quando un solo a guisa d'esperto nocchiero e capitano ha il governo di tutti e sopra gl'altri maggioranza. E perché non fu possibile che tutta la città in un sol giorno vedesse il detto apparato, come volle il signor Duca fu lasciato stare molte settimane in piedi a sodisfazione de' suoi popoli e de' forestieri, che da' luoghi convicini lo vennero a vedere.

Non porremo in questo luogo una moltitudine grande di epitaffi e di versi latini e toscani fatti da molti valenti uomini in onore di Michelagnolo, sì perché un'opera da se stessi vorrebbono, e perché altrove da altri scrittori sono stati scritti e mandati fuora. Ma non lascerò già di dire in questa ultima parte che, dopo tutti gli onori sopra detti, il Duca ordinò che a Michelagnolo fusse dato un luogo onorato in Santa Croce per la sua sepoltura, nella quale chiesa egli in vita aveva destinato d'esser sepolto per esser quivi la sepoltura de' suoi antichi. Et a Lionardo nipote di Michelagnolo donò sua eccellenza tutti i marmi e mischi per detta sepoltura, la quale col disegno di Giorgio Vasari fu allogata a Batista Lorenzi valente scultore, insieme con la testa di Michelagnolo. E perché vi hanno a essere tre statue, la Pittura, la Scultura e l'Architettura, una di queste fu allogata a Batista sopra detto, una a Giovanni dell'Opera, l'ultima a Valerio Cioli scultori fiorentini, le quali con la sepoltura tuttavia si lavorano, e presto si vedranno finite e poste nel luogo loro. La spesa dopo i marmi ricevuti dal Duca è fatta da Lionardo Buonarruoti sopra detto, ma sua eccellenza, per non mancare in parte alcuna agli onori di tanto uomo, farà porre, sì come egli ha già pensato di fare, la memoria e 'l nome suo insieme con la testa nel duomo, sì come degli altri fiorentini eccellenti vi si veggono i nomi e l'imagini loro.


IL FINE DELLA VITA DI MICHELAGNOLO BUONARRUOTI PITTORE, SCULTORE ET ARCHITETTO FIORENTINO


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