Parte prima

Scorrete mie lacrime, dalla vostra fonte sgorgate!

Per sempre esiliato, lasciatemi gemere;

dove il nero uccello della notte

la triste infamia di lei canta,

lì lasciatemi vivere sconsolato.

1

Martedì, 11 ottobre 1988. Il Jason Taverner Show durò trenta secondi meno del solito. Un tecnico che stava osservando dalla cabina di regia bloccò i titoli di coda sul video, poi puntò l’indice su Jason Taverner, che stava per lasciare la scena. Il tecnico si batté un dito sul polso e indicò la propria bocca.

In tono suadente, Jason disse nella giraffa: — Continuate a spedirci cartoline e lettere, amici. E restate sintonizzati per seguire Le avventure di Scotty, cane straordinario.

Il tecnico sorrise. Jason fece altrettanto, e audio e video vennero spenti. Il programma di musica e varietà, che durava un’ora ed era al secondo posto negli indici di gradimento dei migliori show televisivi dell’anno, era finito. Era tutto okay.

— Dove abbiamo perso mezzo minuto? — chiese Jason alla sua ospite d’onore della serata, Heather Hart. Era perplesso. Teneva molto ai tempi dei suoi show.

Heather Hart rispose: — Passerotto, è tutto a posto. — Passò le mani fresche sulla fronte un po’ sudata di Jason, gli accarezzò affettuosamente i capelli color sabbia.

— Ma ti rendi conto del potere che hai? — disse Al Bliss, il loro agente, avvicinandosi a Jason. Avvicinandosi troppo, come sempre. — Stasera, trenta milioni di persone ti hanno visto chiudere la lampo dei calzoni. In un certo senso, è un record.

— Io mi chiudo la lampo tutte le settimane — rispose Jason. — È il mio marchio. O tu non guardi lo show?

— Ma trenta milioni… — disse Al. Il suo viso rotondo, florido, era imperlato di sudore. — Pensaci. E poi ci sono i diritti sulle repliche.

Jason rispose seccamente: — Io sarò morto prima che ci sia da guadagnare qualcosa con le repliche di questo show. Grazie a Dio.

— Probabilmente morirai stasera — commentò Heather — con tutti quei fan accalcati qua fuori. Aspettano solo di farti a pezzettini. Quadratini grossi come francobolli.

— Alcuni sono fan suoi, signorina Hart — disse Al Bliss, con quella sua voce da cane ansimante.

— Dio li maledica. — Il tono di Heather era duro. — Perché non se ne vanno? Non infrangono per caso qualche legge? Vagabondaggio o qualcosa di simile?

Jason le prese una mano e la strinse forte, attirando la sua accigliata attenzione. Non aveva mai capito l’astio di Heather per i fan; per lui, erano la linfa vitale della sua esistenza pubblica. E il suo ruolo di intrattenitore del mondo intero era per l’appunto tutta la sua vita. — Non dovresti lavorare nello spettacolo — disse a Heather, — se è questa la tua reazione. Lascia stare. Fai l’assistente sociale in un campo di lavori forzati.

— C’è gente anche lì — rispose Heather, cupa.

Due agenti della polizia speciale si fecero strada fino a Jason Taverner e a Heather. — Il corridoio è abbastanza sgombro — ansimò il più grasso dei due. — Andiamocene adesso, signor Taverner Prima che il pubblico dello studio si riversi alle uscite laterali. — Fece un cenno agli altri tre agenti, che avanzarono immediatamente verso il corridoio caldo e già in parte affollato che portava alla strada immersa nella sera. Fuori era parcheggiata l’aerauto Rolls, in tutto il suo fulgido splendore, con i razzi di coda che pulsavano pigri. “Come un cuore meccanico” pensò Jason. Un cuore che batteva soltanto per lui, lui che era la star. A dire il vero, pulsavano anche per Heather.

Che se lo meritava: aveva cantato bene, quella sera. Quasi quanto… Jason sorrise tra sé, in segreto. “Al diavolo, ammettiamolo” pensò. “Non accendono tutti quei televisori 3-D per vedere l’ospite d’onore. Ci sono mille ospiti d’onore sulla faccia della Terra, e qualche altro nelle colonie marziane. Accendono il televisore per vedere me. E io ci sono sempre. Jason Taverner non ha mai deluso i suoi fan e mai li deluderà. A prescindere da quello che Heather prova per loro.”

— Non ti piacciono — disse Jason mentre avanzavano contorcendosi, tirando gomitate e abbassando la testa nel corridoio troppo riscaldato, saturo dell’afrore dei colpi sudati — perché tu non ti piaci. Sei convinta che abbiano cattivo gusto.

— Sono stupidi — grugnì Heather, e imprecò sottovoce quando il grosso cappello a torta le cadde dalla testa e scomparve per sempre nel ventre della balena rappresentato dalla massa dei fan.

— Sono degli Ordinari — disse Jason. Aveva le labbra accostate all’orecchio di lei, in parte sommerso dalla rigogliosa giungla dei lucidi capelli rossi di Heather. La famosa cascata di capelli, copiata in maniera accurata ed esperta nei saloni di bellezza di tutta la Terra.

Heather ringhiò: — Non pronunciare quella parola.

— Sono degli Ordinari… e idioti. Perché… — Le mordicchiò il lobo dell’orecchio. — Perché è questo che significa essere Ordinari. No?

Lei sospirò. — Dio, essere sull’aerauto che vola nel vuoto. È questo che desidero: un vuoto infinito. Senza voci umane, odori umani, mascelle umane che masticano chewing-gum di plastica in nove colori iridescenti.

— Tu li odi davvero — aggiunse lui.

— Sì. — Lei annuì decisa. — E li odi anche tu. — Si fermò per un istante, voltandosi a fissarlo. — Sai che la tua voce se n’è andata, ormai. Sai che vivi di rendita dei tuoi giorni di gloria, che non torneranno più. — Gli sorrise. Calorosamente. — Stiamo invecchiando? — chiese, alzando la voce sopra gli strilli dei fan. — Assieme? Come marito e moglie?

Jason disse: — I Sei non invecchiano.

— Oh, sì — disse Heather. — Oh, sì che invecchiano. — Alzò una mano a sfiorare i capelli ondulati di Jason. — Da quanto li tingi, amore? Un anno? Tre?

— Sali sull’aerauto — rispose bruscamente lui, spingendola davanti a sé, fuori dall’edificio, sull’Hollywood Boulevard.

— Salirò — disse Heather — se mi farai sentire un si naturale acuto. Ricordi quando hai…

Lui la spinse di peso sulla Rolls, vi si infilò dopo di lei, si voltò per aiutare Al Bliss a chiudere la portiera e poco dopo si alzavano nel cielo della sera cosparso di nubi cariche di pioggia. Il grande cielo scintillante di Los Angeles era luminoso come se fosse mezzogiorno. “E per te e per me è mezzogiorno” pensò lui. “Per noi due, in tutti i tempi a venire. Sarà sempre com’è adesso, perché siamo Sei. Tutti e due. Che loro lo sappiano o no.

“E non lo sanno” pensò acido, godendosi lo humour nero della situazione. La consapevolezza che loro due avevano, la consapevolezza non condivisa. Perché così doveva essere. E così era sempre stato… anche adesso che tutto era finito nel peggiore dei modi. Peggiore, perlomeno, agli occhi dei pianificatori. Dei grandi dotti che avevano tirato a indovinare e si erano sbagliati. Quarantacinque splendidi anni prima, quando il mondo era giovane e goccioline di pioggia erano ancora posate sui ciliegi giapponesi di Washington D.C. ormai scomparsi. E il profumo della primavera che si spandeva sopra il nobile esperimento. Almeno per un po’.

— Andiamo a Zurigo — disse.

— Sono troppo stanca — rispose Heather. — E poi quel posto mi annoia.

— Ti annoia la casa? — Jason era incredulo. L’aveva scelta lei per loro due, e per anni erano corsi a rifugiarsi lì, soprattutto per sfuggire ai fan che Heather odiava tanto.

Lei sospirò. — La casa. Gli orologi svizzeri. Il pane. I ciottoli. La neve sulle colline.

— Le montagne — disse lui, offeso. — Be’, al diavolo, ci andrò senza di te.

— E ti troverai un’altra?

Lui proprio non riusciva a capire. — Tu vuoi che io porti lì un’altra donna? — domandò.

— Tu e il tuo magnetismo. Il tuo fascino. In quel grande letto di ottone potresti far entrare qualunque ragazza del mondo. Non che tu sia poi un granché, una volta a letto.

— Dio — disse lui, disgustato. — Ancora quella storia. E le lamentele che sono solo tue fantasie… È a quelle che ti attacchi sul serio.

Heather si girò verso lui. Il suo tono era molto sincero. — Sai benissimo quale sia il tuo aspetto, anche adesso, all’età che hai. Sei bello. Trenta milioni di persone ti fanno gli occhi dolci un’ora alla settimana. Non è il tuo modo di cantare a interessarli. È la tua intramontabile bellezza fisica.

— Lo stesso si può dire di te — ribatté lui, caustico. Era stanco, desiderava la privacy e l’isolamento che lo aspettavano alla periferia di Zurigo. Ed era come se la casa volesse che loro restassero, non per una notte o una settimana, ma per sempre.

— Io non dimostro la mia età — disse Heather.

Lui le lanciò un’occhiata, poi la studiò. Una massa di capelli rossi, la carnagione pallida con qualche lentiggine, un deciso naso aquilino. Grandi occhi viola infossati nelle orbite. Heather aveva ragione, non dimostrava la sua età. Ovviamente, non si collegava mai alla rete telefonica transex, come faceva lui. A dire il vero, poche volte. Non era un drogato, e non c’erano stati, nel suo caso, danni cerebrali o invecchiamento precoce.

— Sei tremendamente bella — ammise a malincuore.

— E tu? — chiese Heather.

Jason rifiutava di lasciarsi scuotere. Sapeva di possedere ancora il suo carisma, la forza che gli avevano inciso nei cromosomi quarantadue anni prima. Vero, i capelli gli erano diventati in buona parte grigi, e li tingeva. E qualche ruga era apparsa qua e là. Però…

— Finché avrò la mia voce — disse, — sarò okay. Avrò quello che voglio. Ti sbagli su di me. Colpa della tua freddezza da Sei, della tua cosiddetta individualità alla quale tieni tanto. D’accordo, se non vuoi andare a Zurigo, dove vuoi andare? A casa tua? A casa mia?

— Voglio sposarti — rispose Heather. — Così non si tratterebbe più di casa tua o di casa mia, ma di casa nostra. E smetterò di cantare e avrò tre figli, tutti identici a te.

— Anche le bambine?

Heather disse: — Saranno tutti maschi.

Lui si chinò a baciarla sul naso. Lei sorrise, gli prese una mano, la accarezzò con affetto. — Stasera possiamo andare ovunque — le sussurrò lui, a voce bassa, controllata, e con un tono quasi paterno: di solito funzionava con Heather, a differenza di tutto il resto. “A meno che” pensò lui “io non me ne vada.”

Lei lo temeva. A volte, durante i loro litigi, specialmente nella casa di Zurigo dove nessuno poteva vederli o interferire, Jason aveva scorto quella paura sul viso di Heather. L’idea di restare sola la terrorizzava; lui lo sapeva; e anche lei; la paura faceva parte della loro vita in comune. Non della vita pubblica: su quella, da veri professionisti quali erano, avevano un controllo completo, razionale. Per quanto potessero arrivare a sentirsi rabbiosi e quasi degli estranei, sarebbero stati una coppia perfetta agli occhi adoranti degli spettatori, della gente che scriveva lettere, dei fan rumoreggianti. Nemmeno l’odio più puro poteva trapelare.

Anche se, in realtà, non poteva esserci odio tra loro. Avevano troppo in comune. Ricevevano così tanto l’uno dall’altro. Anche il semplice contatto fisico, come il fatto di trovarsi insieme sulla Rolls, li rendeva felici. Perlomeno, finché durava.

Jason infilò la mano in una tasca interna del suo vestito da sartoria di pura seta (forse nel mondo intero ne esistevano dieci) ed estrasse una mazzetta di banconote emesse dal governo. Tante banconote compresse in un nutrito mucchietto.

— Non dovresti portare addosso tanto denaro — gli disse acida Heather, nel tono che lui odiava a morte: quello della madre piena di pregiudizi.

Lui disse: — Con questi… — sventolò la mazzetta —… possiamo comperarci l’accesso a qualunque…

— Se qualche studente non registrato che è scappato ieri sera da un campus, magari scavando una galleria, non ti taglia la mano all’altezza del polso e scappa con tutto quanto. La tua mano e il tuo denaro vistoso. Tu sei sempre stato vistoso. Sgargiante ed eccessivo. Guarda la tua cravatta. Guardala! — Adesso Heather aveva alzato la voce. Sembrava arrabbiata sul serio.

— La vita è breve — disse Jason. — E la prosperità ancora di più. — Ma rimise la mazzetta nella tasca interna della giacca, lisciando la protuberanza che creava nel suo abito per il resto impeccabile. — Volevo comperarti qualcosa con quei soldi. — In realtà, l’idea gli era venuta lì per lì. Quel che aveva avuto intenzione di fare con il denaro era qualcosa di un po’ diverso: voleva portarselo a Las Vegas, ai tavoli del Black-jack. Come Sei, poteva vincere sempre a Black-jack: era in vantaggio su tutti, anche sul banco. “Anche” pensò perfidamente “sul boss del casinò.”

— Stai mentendo — disse Heather. — Non volevi comperarmi qualcosa. Non lo fai mai. Sei così egoista, pensi sempre a te stesso. Quelli sono soldi per una scopata. Ti comprerai una bionda pettoruta e ci andrai a letto. Probabilmente nella nostra casa di Zurigo, che, come sai, io ormai non vedo da quattro mesi. Potrei anche essere incinta.

A Jason parve strano che lei dicesse una cosa simile, fra tutte le accuse che potevano affacciarsi alla parte cosciente della sua mente. Ma in Heather c’erano molte cose che lui non capiva: Heather le teneva per sé, con lui come con i suoi fan.

Però con gli anni aveva imparato molto sul suo conto. Sapeva, per esempio, che sei anni prima lei aveva avuto un aborto, un altro segreto ben custodito. Sapeva che in un certo momento era stata illegalmente sposata con il leader di una comune di studenti, e che per un anno aveva vissuto nelle conigliere della Columbia University assieme agli studenti barbuti e puzzolenti che pol e naz costringevano a restare nel sottosuolo per tutta la vita. Polizia e guardia nazionale circondavano ogni campus, impedivano agli studenti di riversarsi al di fuori come ratti neri in fuga da una nave che imbarcasse acqua.

E sapeva che un anno prima Heather era stata arrestata per possesso di droga. Solo la sua famiglia, ricca e potente, era riuscita a tirarla fuori da quel guaio: soldi e carisma e fama non avevano funzionato quando si era trovata a faccia a faccia con la polizia.

Heather si era procurata qualche cicatrice, ma lui sapeva che adesso stava bene. Come tutti i Sei, possedeva enormi capacità di recupero. Una dote meticolosamente inserita in ognuno di loro. Assieme a molto, molto altro. Nemmeno lui, a quarantadue anni, sapeva tutto delle loro doti. E anche a lui erano successe molte cose. Più che altro aveva lasciato dietro di sé alcuni cadaveri: i resti di altri uomini di spettacolo che aveva calpestato nella sua lunga scalata verso la vetta.

— Queste cravatte “vistose”… — cominciò, ma poi ronzò il telefono dell’aerauto. Afferrò il ricevitore. Probabilmente era Al Bliss con i dati di ascolto dello show.

Invece no. Gli giunse la voce di una ragazza, acuta e stridula, all’orecchio. — Jason?

— Sì — rispose lui. Mise la mano sul microfono dell’apparecchio e disse a Heather: — È Marilyn Mason. Perché diavolo le ho dato il numero della mia aerauto?

— Chi diamine è Marilyn Mason? — chiese Heather.

— Te lo dico dopo. — Jason tolse la mano dal microfono. — Sì, tesoro, sono proprio Jason, nel suo vero corpo reincarnato. Cosa c’è? Mi sembri a pezzi. Ti sfrattano un’altra volta? — Strizzò l’occhio a Heather, sorridendo di sbieco.

— Scaricala — disse Heather.

Coprendo di nuovo il microfono con la mano, Jason le disse: — Ma certo. Ci sto provando, non vedi? — Poi tornò a parlare al telefono. — Okay, Marilyn. Vomita tutto. Sono qui per questo.

Marilyn Mason era stata la sua protégée, per così dire, per due anni. Lei voleva diventare una cantante, essere famosa, ricca e amata come lui. Un giorno si era avventurata nello studio, durante le prove, e lui l’aveva notata. Visino teso e preoccupato, gambe corte, gonna troppo corta: com’era sua abitudine, Jason aveva catalogato tutto alla prima occhiata. E, una settimana più tardi, le aveva procurato un’audizione alla Columbia Records, con il direttore del settore a r, “Artisti e Repertorio”.

Quella settimana erano successe molte cose, che però non avevano nulla a che vedere con il canto.

Marilyn gli strillò all’orecchio: — Devo vederti. Se no mi uccido, e tu resterai col senso di colpa. Per il resto della vita. E racconterò a quella tizia, quella Heather Hart, che andiamo a letto insieme da sempre.

Jason sospirò tra sé. All’inferno, era già stanco, logorato dall’ora del suo show, tutto sorrisi, sorrisi, sorrisi. — Passerò il resto della notte in Svizzera — disse deciso, come se stesse parlando con una bambina isterica. Di solito, quando Marilyn era in uno dei suoi stati d’animo accusatori e semiparanoidi, funzionava. Ma, naturalmente, quella volta non fu così.

— Ti ci vorranno cinque minuti per arrivare qui, con la tua Rolls da un milione di dollari — gridò Marilyn al suo orecchio. — Voglio solo parlarti per cinque secondi. Ho qualcosa di molto importante da dirti.

“Probabilmente è incinta” pensò Jason. “Forse si è dimenticata di prendere la pillola, o magari l’ha fatto apposta.”

— Cosa puoi dirmi in cinque secondi che io non sappia già? — ribatté secco. — Parla adesso.

— Ti voglio qui con me — rispose Marilyn, con la sua consueta, totale mancanza di discrezione. — Devi venire. Non ti vedo da sei mesi, e in questo periodo ho pensato molto a te. E in particolare a quell’ultima audizione.

— Okay. — Jason si sentiva amareggiato e risentito. Ecco la ricompensa per avere cercato di far fare camera a una senza talento. Riappese rabbioso, si girò verso Heather e disse: — Sono contento che tu non l’abbia mai incontrata. È una vera…

— Stronzate — scattò Heather. — Io non l’ho “mai incontrata” perché tu hai fatto in modo che questo non succedesse.

— Comunque — disse lui, virando a dritta con l’aerauto, — le ho procurato non una ma due audizioni, e ha fatto cilecca. E, per non perdere la propria autostima, deve dare la colpa a me. In un modo o nell’altro, sono stato io a farle fare fiasco. Hai presente il quadro, no?

— Ha due belle tette? — chiese Heather.

— Be’, effettivamente… — Jason sorrise e Heather rise a gola spiegata. — Conosci il mio punto debole. Però la mia parte l’ho fatta. Le ho procurato un’audizione. Due. L’ultima è stata sei mesi fa e so benissimo che lei ci sta ancora rimuginando sopra. Chissà cos’ha dirmi.

Impostò sul modulo di comando una rotta automatica per il condominio di Marilyn, con il suo tetto piccolo ma sufficiente per l’atterraggio.


— Probabilmente è innamorata di te — aggiunse Heather, mentre Jason eseguiva le manovre di atterraggio. Poi fece scendere la scaletta.

— Come altri trenta milioni di donne — disse allegramente Jason.

Heather si mise comoda sul sedile ribaltabile della Rolls.

— Non stare via troppo altrimenti, te lo giuro, decollo senza di te.

— E mi lasceresti nelle grinfie di Marilyn? — Risero tutti e due. — Torno subito. — Jason attraversò lo spiazzo libero fino all’ascensore e premette il pulsante.

Quando entrò nell’appartamento, capì immediatamente che Marilyn era fuori di sé. Il suo viso era contratto e devastato dall’ira; il corpo si era talmente raggrinzito da dare l’impressione che stesse cercando di divorare se stessa. E gli occhi. Erano ben poche le cose di una donna che potevano mettere a disagio Jason, ma quei due occhi ci riuscirono. Perfettamente rotondi, con le pupille dilatate, lo trafiggevano mentre lei se ne stava lì a fissarlo a braccia conserte. Tutto in lei era duro e freddo come l’acciaio.

— Forza, sentiamo — disse Jason, e si mise subito a cercare una posizione di vantaggio. Di solito, anzi praticamente sempre, riusciva a controllare una situazione nella quale fosse coinvolta una donna; in effetti, era la sua specialità. Ma adesso… si sentiva a disagio. E lei continuava a non aprir bocca. Il viso, sotto il trucco, era completamente esangue, come se Marilyn fosse stata un cadavere rianimato. — Vuoi un’altra audizione? — chiese. — È questo?

Marilyn scosse la testa facendo segno di no.

— Okay. Dimmi di cosa si tratta. — Jason era stanco ma irrequieto. Però escluse l’inquietudine dalla voce; era troppo astuto, troppo pratico del mondo per permettere a Marilyn di fiutare la sua incertezza. “In un confronto diretto con una donna quasi il novanta per cento è bluff, per entrambe le parti. Dipende tutto da come, non da cosa.”

— Ho una sorpresa per te. — Marilyn si girò, scomparve in cucina. Lui la seguì.

— Tu dai ancora la colpa a me perché non hai avuto successo nelle due… — cominciò.

— Ecco qua. — Marilyn sollevò una borsa di plastica dallo scolapiatti, la tenne in mano per un attimo, con il viso ancora esangue e duro, gli occhi fissi e sbarrati; poi aprì la borsa, la fece ruotare nell’aria, si avvicinò velocissima a lui.

Accadde tutto in fretta. Jason indietreggiò d’istinto, ma troppo lentamente e troppo tardi. La spugna avvolgente di Callisto, una specie di massa gelatinosa, lo avviluppò con i suoi cinquanta tubi di suzione, si ancorò al suo petto. E lui sentì subito i tubi penetrargli dentro.

Balzò verso gli armadietti pensili, afferrò una bottiglia di scotch piena a metà, svitò il tappo con dita rapidissime e versò il liquido ambrato sulla creatura gelatinosa. I suoi pensieri erano diventati lucidi, addirittura brillanti. Non si lasciò prendere dal panico, ma restò lì a versare il liquore sulla creatura.

Per un momento non accadde nulla. Jason riuscì a mantenere la calma e a non abbandonarsi al terrore. Poi la cosa si riempì di bitorzoli, si raggrinzì, si staccò dal suo petto, cadde sul pavimento. Era morta.

Debolissimo, si sedette al tavolo di cucina. Si trovò a lottare per contrastare lo svenimento: alcuni dei tubi di suzione gli erano rimasti dentro, ed erano ancora vivi. — Non male — riuscì a dire. — Mi hai quasi fregato, piccola barbona fottuta.

— Non quasi — ribatté Marilyn Mason in tono piatto, privo di emozione. — Qualche tubo di suzione ti è rimasto dentro, e tu lo sai. Te lo leggo in faccia. E una bottiglia di scotch non li farà uscire. Niente li farà uscire.

A quel punto, Jason svenne. Intravide il pavimento grigioverde corrergli incontro ad abbracciarlo, poi ci fu il vuoto. Un vuoto che non conteneva più nemmeno lui.


Dolore. Aprì gli occhi, si toccò il petto con un gesto automatico. Il suo vestito di seta da sartoria era svanito. Indossava un pigiama di cotone da ospedale ed era sdraiato su una barella. — Dio — disse con le labbra contratte, mentre i due infermieri spingevano il lettino nel corridoio dell’ospedale in tutta fretta.

Heather Hart era china su di lui, ansiosa; ma, come Jason, perfettamente padrona di sé. — Ho capito che qualcosa non andava — gli disse in fretta, mentre gli infermieri lo portavano dentro una stanza. — Non ti ho aspettato sull’aerauto. Sono scesa a cercarti.

— Probabilmente pensavi che fossimo a letto assieme — disse lui debolmente.

— Il dottore — continuò Heather — ha detto che, se fossero trascorsi altri quindici secondi, saresti rimasto vittima della violazione somatica, come la chiama lui. L’ingresso di quella cosa nel tuo corpo.

— La cosa l’ho sistemata — rispose Jason. — Ma non sono riuscito a eliminare tutti i tubi di suzione. Era troppo tardi.

— Lo so. Me l’ha detto il medico. Ti opereranno al più presto. Forse riusciranno a fare qualcosa, se i tubi non sono penetrati troppo in profondità.

— Sono stato bravo nel momento cruciale — sussurrò Jason. Chiuse gli occhi e sopportò il dolore. — Ma non abbastanza. Non del tutto. — Riaprì gli occhi e vide che Heather stava piangendo. — La situazione è così drammatica? — le chiese. Alzò una mano e prese quella di lei. Sentì tutto il suo amore quando Heather gli strinse le dita, e poi ci fu il nulla. A parte il dolore. Ma nient’altro: né Heather, né l’ospedale, né gli infermieri, né le luci. E nessun suono. Era un momento eterno.

2

La luce riprese a filtrare, come attraverso una membrana di luminescenza rossa. Aprì gli occhi e alzò la testa per guardarsi attorno. In cerca di Heather o del medico.

Era solo nella stanza. Nessun altro. Un cassettone con uno specchio venato da crepe. Vecchie, orribili applique che sporgevano dalle pareti sporche di grasso. E da qualche parte, nelle vicinanze, il suono di un televisore.

Non era in un ospedale.

E Heather non era con lui. Jason sperimentò la sua assenza, il vuoto totale di tutto senza di lei.

“Dio” pensò, “cos’è successo?”

Il dolore al petto era svanito, assieme a tante altre cose. Scosso, scostò la lercia coperta di lana, si mise a sedere, si grattò pensieroso la testa, chiamò a raccolta la sua vitalità.

Si rese conto di essere in una camera d’hotel. Uno schifoso hotel da due soldi, un posto per ubriaconi infestato dalle pulci. Niente tende, niente bagno. Il tipo di albergo in cui aveva vissuto anni addietro, all’inizio della sua carriera. Quando era uno sconosciuto e non aveva soldi. I giorni bui che scacciava sempre dalla memoria come meglio poteva.

Soldi. Si tastò, scoprì di non indossare più il pigiama da ospedale: portava di nuovo il vestito di seta, tutto spiegazzato. E, nella tasca interna della giacca, la mazzetta di banconote di grosso taglio, il denaro che avrebbe voluto giocarsi a Las Vegas.

Se non altro, aveva quello.

Cercò freneticamente con gli occhi un telefono. Ovviamente non c’era. Però, nell’atrio… Ma chi chiamare? Heather? Al Bliss, il suo agente? Mory Mann, il produttore del suo show televisivo? Il suo avvocato, Bill Wolfer? Oppure tutti quanti, e al più presto?

Tremante, riuscì in qualche modo ad alzarsi. Restò a ondeggiare sui talloni, imprecando per ragioni che non capiva. Era prigioniero di un istinto animale. Si preparò, preparò il suo forte corpo di Sei alla lotta. Ma non sapeva distinguere l’antagonista, e questo lo spaventava. Per la prima volta da quanto riuscisse a ricordare, avvertì il panico.

“È passato molto tempo?” si chiese. Non sapeva dirlo. Sembrava averne perso il senso. Era giorno. Trabi che guizzavano e strepitavano in cielo, oltre il vetro lurido della sua finestra. Guardò l’orologio. Segnava le dieci e trenta. E con ciò? Potevano essere passati mille anni, per quel che ne sapeva. L’orologio non era in grado di aiutarlo.

Ma il telefono gli sarebbe servito. Uscì nel corridoio polveroso, trovò le scale, scese lentamente un gradino dopo l’altro, aggrappandosi al corrimano, finché non si trovò nell’atrio deprimente, deserto, con le vecchie, traballanti poltrone imbottite.

Per fortuna aveva qualche moneta. Infilò un pezzo d’oro da un dollaro nella fessura e fece il numero di Al Bliss.

— Agenzia artistica Bliss — gli rispose la voce di Al.

— Senti — disse Jason, — non so dove mi trovo. Per amor di Dio, vieni a prendermi. Tirami fuori di qui. Hai capito, Al?

Silenzio. Poi, in tono remoto, distaccato, Al Bliss chiese: — Con chi parlo?

Lui ringhiò la risposta.

— Non la conosco, signor Jason Taverner — disse Al Bliss, ancora con la sua voce più neutra. — È sicuro di avere fatto il numero giusto? Con chi voleva parlare?

— Con te. Al. Al Bliss, il mio agente. Cose successo all’ospedale? Come ho fatto a finire qui? Non lo sai? — La marea del panico salì, e Jason lottò per imporsi l’autocontrollo. Costrinse le proprie parole ad assumere un tono pacato. — Puoi metterti in contatto con Heather per me?

— La signorina Hart ? — disse Al, e ridacchiò.

— Tu — disse Jason, furibondo — hai finito di essere il mio agente. Punto. Qualunque sia la situazione. Sei fuori.

Al Bliss ridacchiò un’altra volta, e poi, con un clic, la comunicazione si interruppe. Al Bliss aveva riappeso.

“Ucciderò quel figlio di puttana” si disse Jason. “Ridurrò in pezzettini minuscoli quel bastardo di un grassone calvo.

“Cosa sta cercando di farmi? Non capisco. Cos’ha contro di me, cosi, all’improvviso? Che diavolo gli ho fatto, Cristo santo? È mio amico e mio agente da diciannove anni. E una cosa del genere non è mai successa.

“Proverò con Bill Wolfer” decise. “È sempre in ufficio o comunque reperibile. Riuscirò a raggiungerlo e scoprirò cosa accidente ci sia sotto.” Infilò una seconda moneta da un dollaro nella fessura e, a memoria, compose un altro numero.

— Studio legale Wolfer Blaine — gli risuonò all’orecchio la voce di un’impiegata.

— Passami Bill — disse Jason. — Sono Jason Taverner. Hai capito bene chi.

L’impiegata disse: — Oggi il signor Wolfer è in aula. Preferisce parlare col signor Blaine, oppure devo farla richiamare dal signor Wolfer quando rientrerà in ufficio, nel pomeriggio?

— Ma sai chi sono? — chiese Jason. — Sai chi è Jason Taverner? Guardi la tivù? — A quel punto perse quasi il controllo della propria voce; la sentì spezzarsi e salire a un livello acuto. Se ne riappropriò con uno sforzo enorme, ma non riuscì a fermare il tremito delle mani. In realtà, tutto il suo corpo stava tremando.

— Mi spiace, signor Taverner — disse l’impiegata. — Proprio non posso parlare a nome del signor Wolfer o…

— Guardi la tivù?

— Sì.

— E non hai mai sentito parlare di me? Del Jason Taverner Show, alle nove di sera del martedì?

— Mi spiace, signor Taverner. Lei deve conferire direttamente col signor Wolfer. Mi lasci il suo numero di telefono e la farò richiamare in giornata.

Jason riappese.

“Sono impazzito” pensò. “Oppure è impazzita lei. Lei e Al Bliss, quel figlio di puttana. Dio!” Si allontanò distrutto dal telefono, si buttò su una delle poltrone consunte. Stare seduto era una bella sensazione. Chiuse gli occhi e inspirò lentamente, profondamente. E rifletté.

“Ho cinquemila dollari in banconote del governo di grosso taglio” si disse. “Quindi non sono del tutto inerme. E quella cosa è scomparsa dal mio petto, assieme ai suoi tubi di suzione. All’ospedale devono essere riusciti a rimuoverli chirurgicamente. Quindi, se non altro, sono vivo; di questo posso rallegrarmi. C’è stato un salto temporale? Dov’è un giornale?”

Trovò una copia del “Los Angeles Times” su un divano lì vicino, lesse la data: 12 ottobre 1988. Nessun salto temporale. Era il giorno dopo il suo ultimo show. Il giorno dopo il suo ingresso in ospedale, moribondo per colpa di Marilyn.

Gli venne un’idea. Sfogliò il quotidiano finché non trovò la pagina degli spettacoli. Da tre settimane si esibiva tutte le sere nella Sala Persiana dell’Hollywood Hilton. Tranne ovviamente il martedì, per lo show televisivo.

Sulla pagina non c’era la locandina pubblicitaria che la direzione dell’hotel pubblicava dalla metà di settembre. Stordito, pensò che poteva essere stata spostata da un’altra parte. Così passò al setaccio tutta quanta la sezione degli spettacoli. Era piena zeppa di locandine di altri spettacoli, ma del suo non c’era traccia. E la sua faccia compariva sulle pagine di spettacolo dei giornali da dieci anni. Senza soste.

“Farò un altro tentativo” decise. “Proverò con Mory Mann.”

Tirò fuori il portafogli e cercò l’appunto con il numero di Mory.

Il suo portafogli era più sottile del solito.

Tutte le sue tessere d’identità erano scomparse. Tessere che gli permettevano di restare in vita. Tessere che gli facevano superare le barricate di pol e naz senza che gli sparassero o lo sbattessero in un campo di lavori forzati.

“Non riuscirò a vivere due ore senza le mie tessere” si disse. “Non oso nemmeno uscire dall’atrio di questo hotel scalcinato e raggiungere il marciapiede. Penseranno che sono uno studente o un insegnante fuggito da uno dei campus. Passerò il resto della vita da schiavo, a fare massacranti lavori manuali. Sono quella che chiamano una ‘nonpersona’.

“Quindi il mio primo dovere è di restare vivo. Al diavolo Jason Taverner lo show-man. Di questo mi preoccuperò più tardi.”

Sentiva che nel suo cervello i potenti componenti-Sei si stavano già mettendo in moto. “Io non sono come gli altri” si disse. “Ne uscirò, di qualunque cosa si tratti. In un modo o nell’altro.

“Per esempio, con tutti i soldi che ho con me posso fare un salto a Watts e comperarmi delle tessere d’identità false. Tante da riempire il portafogli. Devono esserci almeno un centinaio di piccoli falsari che tirano avanti con attività del genere, da quanto ho sentito. Ma non avrei mai pensato di dovermi servire di uno di loro. Non Jason Taverner. Non una star televisiva con un pubblico di trenta milioni di persone.

“Fra di loro” si chiese “non ce n’è nemmeno una che si ricordi di me? Se ‘ricordare’ è il termine esatto. Sto parlando come se fosse trascorsa un’infinità di tempo, come se fossi un vecchio, una celebrità tramontata che vive di ricordi. E non è questo che sta accadendo.”

Tornato al telefono, cercò il numero dell’anagrafe centrale dello Iowa. Con diverse monete d’oro, dopo una lunga attesa, riuscì finalmente ad avere la comunicazione.

— Mi chiamo Jason Taverner — disse all’impiegato. — Sono nato a Chicago, al Memorial Hospital, il 16 dicembre 19 46. Vuole per favore darmi conferma e preparare una copia del mio certificato di nascita? Mi serve per una domanda di lavoro.

— Sì, signore. — L’impiegato lo lasciò in linea. Jason aspettò.

— Il signor Jason Taverner, nato il 16 dicembre 19 46 nella contea di Cook?

— Sì.

— Qui non risulta nulla per quella persona, in quella data e in quel luogo. È assolutamente sicuro dei dati, signore?

— Mi sta chiedendo se so come mi chiamo e dove e quando sono nato? — La voce sfuggì di nuovo al suo controllo, ma questa volta si lasciò andare. Stava annegando nel panico. — Grazie. — Riappese. Adesso tremava visibilmente. Nel corpo e nella mente.

“lo non esisto” si disse. “Non c’è nessun Jason Taverner. Non c’è mai stato ne mai ci sarà. Al diavolo la carriera. Voglio semplicemente vivere. Se qualcuno o qualcosa vuole fregarmi la carriera, okay, faccia pure. Ma non mi si permette nemmeno di esistere? Non sono mai nato?”

Qualcosa gli si mosse nel petto. Terrorizzato, pensò: “Non hanno estratto del tutto i tubi di suzione Ce n’è ancora qualcuno che cresce e si nutre dentro di me. Quella maledetta senza alcun talento. Spero che finisca a battere per due dollari a botta.

“Dopo quello che ho fatto per lei. Dopo che le ho procurato due audizioni con gli uomini del settore a r. Ma che diavolo, me la sono portata a letto tante volte! Probabilmente siamo pari.”


Risalito in camera, si guardò a lungo nello specchio incrostato di cacche di mosca. Il suo aspetto non era cambiato, a parte il fatto che doveva radersi. Non era più vecchio di prima. Non c’erano nuove rughe o capelli grigi visibili. Le solite spalle robuste, i bicipiti forti. La vita snella che gli permetteva di portare i vestiti aderenti tanto di moda.

“Ed è un dato importante per la tua immagine” si disse. “Il tipo di abito che sei in grado di indossare, specialmente quelli con la vita stretta. Devo averne una cinquantina. O li avevo. Adesso dove saranno? ‘L’uccello è scappato, e in quale radura canta ora?’” Parole uscite dal suo passato, dai giorni di scuola. Che sino a quel momento aveva dimenticato. “È strano” rifletté “quel che ti viene in mente quando ti trovi in una situazione inusuale e spaventosa: a volte le cose più banali che si possano immaginare.

“‘Se i desideri fossero cavalli, i mendicanti potrebbero volare.’ Roba del genere. Da impazzire.”

Si chiese quanti punti di controllo pol e naz esistessero tra quell’hotel miserabile e il più vicino falsario di Watts. Dieci? Tredici? Due? “Per quel che mi concerne” pensò, “ne basta uno. Un controllo casuale eseguito da un veicolo con tre uomini a bordo. Con quella stramaledetta ricetrasmittente che li collega alla centrale dati di Kansas City. Dove tengono i dossier.”

Arrotolò la manica della camicia e studiò l’avambraccio. Sì, eccolo lì: il tatuaggio del suo numero di identità. La sua targa somatica, che doveva portarsi appresso per l’intera vita, che alla fine sarebbe stata sepolta con lui nella tomba.

Quindi, pol e naz del centro mobile di controllo avrebbero comunicato il suo numero d’identità a Kansas City, dopo di che… Cosa? Il suo dossier era ancora lì o era scomparso come il certificato di nascita? E, se non ci fosse stato, cosa ne avrebbero dedotto i burocrati della polizia?

“L’errore di un impiegato. Qualcuno ha sistemato nel posto sbagliato il pacchetto di microfilm che formano il dossier. Salterà fuori. Un giorno o l’altro, quando non avrà più importanza, quando io avrò trascorso dieci anni della mia vita in una miniera lunare, con un piccone in mano. Se il dossier non c’è, presumeranno che io sia uno studente in fuga, perché solo gli studenti non hanno un dossier pol-naz; e persino alcuni di loro, quelli importanti, i leader, ne hanno uno.

“Sono sul fondo del barile della vita. E non posso nemmeno risalire, arrampicarmi di nuovo fino alla semplice esistenza fisica. Io, un uomo che ieri aveva un pubblico di trenta milioni di persone. Un giorno, in qualche modo, troverò la strada che mi riporterà a loro. Ma non ora. Altre cose adesso sono più importanti. Il nudo scheletro dell’esistenza fornito a chiunque all’atto della nascita: io non ho nemmeno quello. Ma l’avrò. Un Sei non è un Ordinario. Nessun Ordinario sarebbe riuscito a sopravvivere, a livello fisico o psicologico, a quello che è successo a me. Specialmente all’incertezza.

“Un Sei, a prescindere dalle circostanze esterne, se la caverà sempre. Perché siamo stati definiti in questo modo a livello genetico.”

Lasciò di nuovo la camera, scese a pianterreno e andò al bureau. Un uomo di mezza età, con i baffetti sottili, stava leggendo una copia di “Box”. Senza alzare la testa, disse: — Sì, signore.

Jason tirò fuori la sua mazzetta di dollari emessi dal governo, mise una banconota da cinquecento dollari sul banco, davanti al portiere. L’uomo diede un’occhiata, poi guardò meglio, questa volta a occhi sgranati. Quindi alzò uno sguardo cauto e perplesso sul viso di Jason.

— Mi hanno rubato le tessere d’identità — disse questi. — Quei cinquecento dollari sono suoi se mi porta da qualcuno che le possa sostituire. Se ha intenzione di farlo, si sbrighi. Non aspetterò. — “Non aspetterò di essere arrestato da un pol o da un naz” pensò. “Bloccato in questo schifo di hotel scalcinato.”

— O sul marciapiede di fronte all’ingresso — disse il portiere. — Ho qualche capacità telepatica. So che questo hotel non è un granché, però non abbiamo pulci. Una volta abbiamo avuto quelle marziane della sabbia, ma niente di più. — Prese il biglietto da cinquecento dollari. — La porterò da uno che può aiutarla — disse. Studiò con aria attenta il viso di Jason, si concesse una pausa, poi aggiunse: — Lei crede di essere famoso. Be’, qui ne vediamo di tutti i tipi.

— Andiamo — mormorò con voce roca Jason. — Subito.

— Immediatamente — disse il portiere, e afferrò la sua smagliante giacca di plastica.

3

Alla guida del suo vecchio, lento e rumoroso trabi, il portiere, con aria indifferente, disse a Jason che sedeva al suo fianco: — Sto captando molte stranezze nella sua mente.

— Esca dalla mia mente — ribatté brusco Jason, con un senso di repulsione. Non gli erano mai piaciuti i telepati impiccioni, spinti solo dalla curiosità, e quel tipo non faceva eccezione. — Esca dalla mia mente — ripeté — e mi porti dalla persona che mi può aiutare. Ed eviti gli sbarramenti pol-naz. Se si aspetta di uscirne vivo.

Il portiere gli rispose calmo: — Non c’è bisogno che me lo dica. So cosa le succederebbe se ci fermassero. Non è la prima volta, per me. L’ho già fatto. Per gli studenti. Ma lei non è uno studente. È un uomo famoso, ed è ricco. Però al tempo stesso non lo è. Al tempo stesso non è nessuno. Lei non esiste nemmeno, parlando in termini legali. — Fece una risatina effeminata, gli occhi puntati sul traffico che aveva davanti, sulla strada. Guidava come una vecchia, notò Jason. Teneva tutte e due le mani attaccate al volante.

Erano entrati negli slum di Watts. Negozietti bui sui due lati della via intasata, bidoni traboccanti di spazzatura, fondo stradale disseminato di frammenti di bottiglie rotte, insegne grigiastre che reclamizzavano la Coca-Cola a grandi lettere e il nome del negozio in piccole. A un incrocio, un nero molto anziano attraversò a passi esitanti, cauti, come se fosse cieco. Vedendolo, Jason provò una strana emozione. Ormai c’erano pochissimi neri vivi, dopo la famosa Legge Tidman sulla sterilizzazione approvata dal Congresso nei terribili giorni dell’Insurrezione. Il portiere rallentò sino a fermare il veicolo, per non creare problemi al vecchio che indossava un vestito marrone spiegazzato, costellato di rammendi sdruciti. Evidentemente stava provando anche lui la stessa sensazione.

— Si rende conto — chiese a Jason — che se lo investissi per me significherebbe la pena di morte?

— Mi pare giusto — disse Jason.

— È come se fosse l’ultimo stormo di gru del Nordamerica. — Il portiere ripartì, visto che il nero aveva raggiunto l’altro lato della strada. — Protetti da mille leggi. Non puoi prenderli in giro. Non puoi fare a cazzotti con uno di loro senza rischiare un’accusa di reato di primo grado: dieci anni di prigione. Eppure li stiamo facendo estinguere. È quello che voleva Tidman, e probabilmente anche la maggioranza dei Silenziosi, però… — Gesticolò, staccando per la prima volta una mano dal volante. — Mi mancano i bambini. Ricordo ancora quando avevo dieci anni e un ragazzino nero come compagno di giochi. Non lontano da qui, a dire il vero. Senz’altro, ormai lo avranno sterilizzato.

— Però avrà avuto un figlio — fece notare Jason. — Sua moglie avrà dovuto restituire il coupon di parto dopo la nascita del loro unico figlio… quello l’hanno avuto. La legge lo consente. E c’è un milione di norme per proteggere la loro sicurezza.

— Due adulti, un bambino — disse il portiere. — Così la popolazione nera si dimezza a ogni generazione. Ingegnoso. Bisogna darne atto a Tidman. Ha risolto il problema razziale, come no.

— Bisognava fare qualcosa. — Jason se ne stava rigido sul suo sedile, scrutava la strada davanti a loro, in cerca di segni di un punto di controllo o di una barricata pol-naz. Non vedeva niente, ma per quanto tempo dovevano continuare a viaggiare?

— Siamo quasi arrivati — gli disse il portiere, calmo. Girò la testa a guardare Jason. — Non mi piacciono i suoi pregiudizi razzisti. Anche se mi sta pagando cinquecento dollari.

— Per i miei gusti, ci sono neri in vita più che a sufficienza — rispose Jason.

— E quando morirà l’ultimo?

— Lei può leggermi nella mente — disse Jason. — Non c’è bisogno che le risponda.

— Cristo — disse il portiere, e tornò a concentrarsi sul traffico.

Svoltarono a destra e infilarono un vicolo stretto. Sui due lati, porte in legno chiuse a chiave, sbarrate. Nessuna insegna, lì. Solo il silenzio totale. E cumuli di vecchi detriti.

— Cosa c’è dietro quelle porte? — chiese Jason.

— Gente come lei. Persone che non possono uscire allo scoperto. Però sono diverse da lei, per un verso. Non hanno cinquecento dollari… e molto altro, se la leggo bene.

— Mi costerà una montagna di soldi ottenere le tessere d’identità — disse Jason acido. — Probabilmente tutto quello che ho.

— Non le farà pagare un prezzo esorbitante. — Il portiere fermò il trabi, invadendo per metà il marciapiede. Jason scrutò fuori, vide un ristorante abbandonato, chiuso con assi di legno, con le finestre fracassate. Dentro, buio totale. Il posto gli ispirava disgusto, ma, a quanto sembrava, era la loro destinazione. Viste le sue necessità, doveva prendere le cose come venivano; non poteva fare lo schizzinoso.

E lungo la strada avevano evitato tutti i punti di controllo e le barricate; il portiere aveva scelto un buon percorso. Quindi, tutto sommato, Jason aveva ben poco da lamentarsi.

Assieme, si avvicinarono alla porta rotta del ristorante, che penzolava sui cardini. Nessuno dei due parlò. Si concentrarono sul problema di schivare i chiodi arrugginiti che sporgevano dai fogli di compensato, inchiodati lì probabilmente per proteggere la vetrina.

— Si tenga attaccato alla mia mano — disse il portiere, tendendogli la destra nella penombra che li circondava. — Conosco la strada, e qui c’è buio. Hanno tolto l’elettricità a tutto l’isolato tre anni fa. Per cercare di spingere la gente a evacuare gli edifici. Così li avrebbero bruciati. — Aggiunse: — Ma sono rimasti quasi tutti.

La mano fredda e sudaticcia del portiere guidò Jason oltre quelli che dovevano essere tavoli e sedie, ammucchiati in cumuli irregolari di gambe e piani, decorati da ragnatele e depositi granulari di sporcizia. Alla fine, andarono a sbattere contro una parete nera, solida. Il portiere si fermò lì, lasciò andare la mano di Jason, armeggiò con qualcosa nel buio.

— Non posso aprire — disse mentre si stava dando da fare. — Si può solo dall’altro lato. Il suo lato. Le sto soltanto segnalando che siamo qui.

Una sezione di parete, cigolando, scivolò da una parte. Jason sbirciò e riuscì a vedere solo altra tenebra. E desolazione.

— Entri da qui — disse il portiere, e lo spinse avanti. La parete, dopo un attimo, si richiuse alle loro spalle.

Si accesero delle luci. Momentaneamente accecato, Jason si schermò gli occhi, poi passò in rassegna il laboratorio.

Era piccolo. Però vide parecchie macchine dall’aria molto complessa e di alta tecnologia. Sul lato opposto del locale, un banco da lavoro. Centinaia di utensili, tutti sistemati in bell’ordine lungo le pareti della stanza. Sotto il banco, grandi cartoni che probabilmente contenevano carte e documenti di ogni tipo. E una piccola macchina tipografica alimentata da un generatore autonomo.

E la ragazza. Sedeva su uno sgabello molto alto. Stava sistemando a mano una riga di caratteri tipografici. Jason notò i capelli biondo chiaro, molto lunghi ma sottili, che dalla nuca scendevano sulla camicia da lavoro di cotone. Portava i jeans, e i piedi, minuscoli, erano nudi. Dimostrava, a prima vista, quindici o sedici anni. Praticamente non aveva seno, ma le gambe erano lunghe e snelle. Come piacevano a lui. L’assenza totale di trucco conferiva al viso un colorito bianco pastello.

— Ciao — disse lei.

— Io vado — interloquì il portiere dell’hotel. — Cercherò di non spendere i cinquecento dollari tutti in una volta. — Premette un pulsante e la sezione mobile di parete scivolò di lato. Contemporaneamente le luci in laboratorio si spensero, lasciandoli di nuovo nel buio più completo.

Dal suo sgabello, la ragazza disse: — Io sono Kathy.

— Jason — rispose lui. La parete si richiuse, e le luci si riaccesero. “È proprio molto carina” pensò Jason. A parte il fatto che aveva un che di passivo, di indifferente. “Come se” pensò lui “per lei nulla abbia una vera importanza. Apatia? No” decise. Era timida. Ecco la spiegazione.

— Gli hai dato cinquecento dollari per portarti qui? — Il tono di Kathy era meravigliato. Studiò Jason con aria critica, nel tentativo di valutarlo basandosi sul suo aspetto.

— Di solito i miei abiti non sono così spiegazzati — disse Jason.

— È un bel vestito. Seta?

Lui annuì.

— Sei uno studente? — chiese Kathy, continuando a scrutarlo. — No, no. Non hai quel colorito cereo di chi vive nel sottosuolo. A questo punto, resta una sola possibilità.

— Che io sia un criminale — disse Jason. — Che stia cercando di cambiare la mia identità prima che pol e naz mi prendano.

— È così? — Kathy non diede il minimo segno di nervosismo. Era una domanda semplice, neutra.

— No. — Jason non volle insistere. Non in quel momento. Magari più tardi.

Kathy disse: — Secondo te, tanti di quei naz sono robot, non vere persone? Portano sempre le maschere antigas. È difficile capirlo sul serio.

— Mi accontento di non amarli — rispose Jason. — Senza indagare oltre.

— Che documenti ti servono? Patente? Tessera per l’archivio di polizia? Un attestato di lavoro legale?

— Tutto. Compresa la tessera d’iscrizione alla sezione Dodici del Sindacato musicisti.

— Ah, sei un musicista. — Lei lo guardò con maggiore interesse.

— Sono un cantante — disse lui. — Conduco uno show televisivo di un’ora, al martedì sera. Magari l’hai visto. Il Jason Taverner Show.

— Non ho più un televisore — disse la ragazza. — Quindi, non saprei riconoscerti. È un lavoro divertente?

— A volte. Si conosce tanta gente del mondo dello spettacolo, ed è splendido, se è questo che ti piace. Io ho scoperto che, per la maggior parte, sono persone come tutte le altre. Hanno le loro paure. Non sono perfette. Alcune sono molto divertenti, in scena e fuori.

— Mio marito mi ripeteva sempre che io non ho il senso dell’umorismo — disse la ragazza. — A lui pareva tutto divertente. Ha trovato divertente persino essere arruolato nei naz.

— E rideva ancora quando l’hanno congedato? — chiese Jason.

— Non si è mai congedato. È rimasto ucciso in un attacco a sorpresa degli studenti. Ma non è stata colpa loro. Gli ha sparato un altro naz.

— Quanto mi costerà il set completo di tessere d’identità?— chiese Jason. — Sarà meglio che tu me lo dica adesso, prima di cominciare.

— Faccio pagare quello che i clienti possono permettersi. — Kathy ricominciò a sistemare i suoi caratteri tipografici. — A te chiederò molto perché è ovvio che sei ricco. Un po’ perché hai dato cinquecento dollari a Eddy per portarti qui, un po’ per il vestito. Okay? — Si girò a lanciargli un’occhiata veloce. — O mi sbaglio? Dimmi.

— Ho con me cinquemila dollari — rispose Jason. — Cioè, cinquemila meno cinquecento. Sono un artista famoso in tutto il mondo. Una volta al mese lavoro anche al Sands. A dire il vero, mi esibisco in una quantità di club di prima qualità, quando riesco a trovare un buco nei miei numerosi impegni televisivi.

— Gesù! Mi piacerebbe tanto avere sentito parlare di te. Almeno potrei sentirmi colpita.

Lui rise.

— Ho detto qualcosa di stupido? — chiese Kathy, timidamente.

— No. Kathy, quanti anni hai?

— Diciannove. Li compio a dicembre. Ne ho quasi venti. Tu che età mi dai?

— Sui sedici.

La bocca della ragazza si piegò in una smorfia imbronciata da bambina. — È quello che dicono tutti — commentò a bassa voce. — È perché non ho seno. Se avessi seno, ne dimostrerei ventuno. E tu quanti anni hai? — Smise di armeggiare con i caratteri tipografici e fissò attentamente Jason. — Sui cinquanta, direi.

Lui fu invaso dall’ira. E dalla depressione.

— Hai l’aria di uno ferito nel suo amor proprio — disse Kathy.

— Ho quarantadue anni — rispose Jason a denti stretti.

— Be’, che differenza fa? Insomma, sono sempre…

— Veniamo al sodo — l’interruppe lui. — Dammi una penna e un pezzo di carta e ti scriverò quello che mi serve e i dati che voglio su ogni tessera. Tutto dev’essere fatto alla perfezione. Ti converrà dimostrarti in gamba.

— Ti ho fatto arrabbiare — disse Kathy — dicendo che dimostri cinquant’anni. A guardarli meglio, mi sembra di no. Ne dimostri una trentina. — Passò carta e penna a Jason, con un sorriso impacciato. Un sorriso che chiedeva scusa.

— Lasciamo perdere. —Jason le diede una pacca sulla spalla.

— Preferisco che non mi tocchino. — Kathy si ritrasse.

“Come un cerbiatto nel bosco” pensò lui. “Strano: ha paura di essere toccata, anche solo sfiorata, e non ha paura di falsificare documenti, un reato che potrebbe costarle vent’anni di carcere. Forse nessuno si è mai preso il disturbo di dirle che è contro la legge. Forse non lo sa.”

Una macchia di luce e colore sulla parete di fronte attirò la sua attenzione. Andò a esaminarla. Un manoscritto medievale sotto una sorgente di luce. O meglio, una sola pagina. Aveva letto da qualche parte della loro esistenza, ma prima di allora non gliene era mai capitato uno sotto gli occhi.

— È prezioso? — chiese.

— Se fosse l’originale, potrebbe valere un centinaio di dollari — rispose Kathy. — Ma non lo è. L’ho fatto io anni fa, quando frequentavo le medie al North American Aviation. Ho copiato l’originale dieci volte prima di ottenere il risultato giusto. Mi piace la calligrafia. Mi piaceva anche da bambina. Forse perché mio padre disegnava copertine di libri. Hai presente?

— Questo foglio ingannerebbe un esperto?

Kathy lo fissò intensamente per un attimo. Poi annuì.

— Non se ne accorgerebbe dalla carta?

— È pergamena, ed è di quel periodo. Si usa la stessa tecnica per falsificare i francobolli. Ci si procura un vecchio francobollo privo di valore, si cancella la stampa, poi… — Una pausa. — Tu non vedi l’ora che io mi metta al lavoro sui tuoi documenti.

— Sì. — Jason le passò il foglio sul quale aveva scritto i dati. Per la maggior parte si trattava delle autorizzazioni standard pol-naz per la circolazione dopo il coprifuoco, con impronte digitali e fotografie e firme olografe, il tutto con date di scadenza a breve termine. Nel giro di tre mesi avrebbe dovuto procurarsi una nuova serie di documenti falsi.

— Duemila dollari — disse Kathy, studiando la lista.

A Jason venne voglia di chiedere: “Per quella cifra ho anche il diritto di venire a letto con te?”. Invece disse: — Quanto ci vorrà? Ore? Giorni? E, se si tratta di giorni, allora quanto devo…

— Ore — rispose Kathy.

Lui fu colto da un’ondata di sollievo.

— Siediti. Tienimi compagnia. — Kathy indicò uno sgabello a tre gambe su un lato del banco da lavoro. — Puoi raccontarmi della tua carriera di star televisiva. Dev’essere affascinante. Tutti i cadaveri sui quali bisogna passare per arrivare in cima. O no?

— Sì — disse lui seccamente. — Ma non ci sono cadaveri. È un mito. La carriera si costruisce col talento, e solo col talento, non con quello che fai o dici ad altra gente al di sopra o al di sotto di te. E bisogna lavorare sodo. Non basta presentarsi e fare due passi di danza per firmare un contratto con la NBC o la cbs. Quelli sono uomini d’affari duri, con un sacco d’esperienza. Specialmente quelli dell’A R. Sono loro a decidere chi mettere sotto contratto. Sto parlando delle case discografiche. È da lì che devi cominciare per arrivare a livello nazionale. Naturalmente puoi continuare a esibirti nei club, dappertutto, finché…

— Ecco qui la tua patente — disse Kathy. Gli passò una tesserina nera. — Adesso mi metto al lavoro sul documento del tuo servizio militare. È un po’ più difficile per le fotografie di fronte e di profilo, ma sistemerò tutto là. — Gli indicò un paravento bianco. Di fronte c’era un treppiede sul quale era montata una macchina fotografica, con il flash a fianco.

— Hai tutte le attrezzature. — Jason si irrigidì davanti al paravento. Nell’arco della sua carriera gli avevano scattato tante foto che sapeva sempre esattamente dove mettersi e quale espressione assumere.

Ma, a quanto sembrava, quella volta aveva sbagliato qualcosa. Kathy lo scrutava con espressione severa.

— Sei radioso — disse come parlando tra sé. — Di una radiosità fasulla.

— Foto promozionali — rispose Jason. — Istantanee venti per venticinque…

— Non è il nostro caso. Queste devono servire a tenerti fuori da un campo di lavori forzati per il resto della vita. Non sorridere.

Lui obbedì.

— Bene. — Kathy estrasse le fotografie dalla macchina, le portò con cautela al banco da lavoro, sventolandole nell’aria per farle asciugare. — Le maledette foto animate in 3-D che vogliono sui documenti del servizio militare… Quella macchina fotografica mi è costata mille dollari e mi serve solo per questo e nient’altro… Ma devo averla. — Lo scrutò. — Ti costerà caro.

— Sì — disse lui, rigido. Se n’era già reso conto.

Kathy lavoricchiò per un po’, poi si girò di colpo verso di lui. — Chi sei, realmente? Sei abituato a metterti in posa. L’ho visto. Ti ho visto immobilizzarti con quel sorriso contento sulle labbra e quegli occhi radiosi.

— Te l’ho detto. Sono Jason Taverner. La star della televisione. Vado in onda tutti i martedì sera.

— No. — Kathy scosse la testa. — Ma non sono affari miei. Scusa. Non avrei dovuto fare domande. — Però continuò a fissarlo. Pareva quasi esasperata. — Stai facendo tutto alla rovescia. Sei davvero una celebrità. Quel tuo modo di metterti in posa è stato un riflesso automatico. Però non sei una celebrità. Non esiste un Jason Taverner che abbia qualche importanza, che sia qualcuno. Allora chi sei? Uno che si fa fotografare di continuo anche se è uno sconosciuto?

Jason rispose: — Mi sto comportando come farebbe una qualunque celebrità del tutto sconosciuta.

Lei lo scrutò per un attimo, poi rise. — Vedo. Be’, grande. Davvero grande. Me lo dovrò ricordare. — Riportò l’attenzione sul documento che stava falsificando. — Non voglio conoscere le persone per le quali lavoro. Però… — Alzò gli occhi. — Credo che mi piacerebbe conoscere te. Sei strano. Ho visto gente di tutti i tipi, centinaia, forse, ma nessuno come te. Lo sai cosa penso?

— Pensi che io sia pazzo.

— Sì. — Kathy annuì. — Clinicamente, legalmente, quello che vuoi. Sei psicotico. Hai una personalità sdoppiata. Il signor Nessuno e il signor Tutti. Come hai fatto a sopravvivere fino ad oggi?

Lui non rispose. Era impossibile da spiegare.

— Okay — disse Kathy. Uno dopo l’altro, con esperienza ed efficienza, falsificò i documenti necessari.

Eddy, il portiere dell’hotel, spuntò di nuovo sul fondo della stanza. Stava fumando un falso Avana. Non aveva niente da dire o da fare, ma per qualche oscura ragione restava lì. “Vorrei che se ne andasse” pensò Jason. “Mi piacerebbe parlare un po’ di più con Kathy…”

— Vieni con me — gli disse all’improvviso lei. Scese dallo sgabello e gli indicò una porta in legno sulla destra del banco da lavoro. — Voglio cinque copie della tua firma, ognuna un po’ diversa dall’altra, in modo che non si possano sovrapporre. È qui che tanti documentatori… — Sorrise mentre apriva la porta. — Noi ci chiamiamo così… È qui che tanti di noi mandano tutto a puttane. Si procurano una sola firma e la trasferiscono su tutti i documenti. Afferri?

— Sì — rispose lui, entrando con Kathy nella stanzetta umida di muffa che sembrava un ripostiglio.

Lei chiuse la porta, fece una pausa, poi disse: — Eddy è una spia della polizia.

Lui la fissò. — Perché?

— Perché? Perché cosa? Perché è una spia della polizia? Per i soldi. Per lo stesso motivo per cui lo sono anch’io.

— Dio vi stramaledica! — Jason la afferrò per il polso destro, la attirò a sé. Lei fece una smorfia sotto la presa della dita. — E ha già…

— Eddy non ha ancora fatto niente — ansimò lei, cercando di liberare il polso. — Mi fai male. Senti, calmati e ti farò vedere. Okay?

Riluttante, con il cuore che gli martellava nel petto, Jason la lasciò andare. Kathy accese una piccola lampada molto luminosa e spostò tre dei documenti falsificati nel fascio di luce. — Una chiazza color porpora sui margini — disse, e indicò i cerchietti quasi invisibili. — Un microtrasmettitore. Emetterai un bip ogni cinque secondi. Vanno in cerca di cospiratori. Vogliono la gente che sta con te.

Jason ribatté con voce roca: — Io non sto con nessuno.

— Ma loro non lo sanno. — Kathy si massaggiò il polso con una smorfia da ragazzina imbronciata. — Certo che voi celebrità televisive del tutto sconosciute avete i riflessi rapidi — mormorò.

— Perché me l’hai detto? — chiese Jason. — Dopo avere falsificato i documenti, dopo…

— Voglio che tu riesca a scappare — rispose lei con semplicità.

— Perché? — Lui continuava a non capire.

— Perché, per la miseria, tu hai qualcosa di magnetico. Me ne sono accorta appena sei entrato. Sei… — Kathy cercò la parola. — Sexy. Anche alla tua età.

— La mia presenza.

— Sì. — Lei annuì. — L’ho già visto in altri personaggi pubblici, da lontano, ma mai tanto da vicino. Capisco benissimo perché immagini di essere una star televisiva. Lo sembri sul serio.

— E come faccio a scappare? — chiese lui. — Me lo dici tu? O mi costerà anche questo?

— Dio, come sei cinico.

Lui rise, la afferrò di nuovo per il polso.

— Ma non credo di avercela con te. — Kathy scosse la testa, assunse un’espressione da maschera impenetrabile. — Per prima cosa potresti comperare Eddy. Altri cinquecento dollari dovrebbero bastare. In quanto a me, non dovrai comperarmi. Se, e solo se, e non scherzo, se resterai con me per un po’. Sei… seducente, come un buon profumo. Reagisco alla tua presenza, ed è una cosa che non mi capita mai con gli uomini.

— Con le donne, allora? — chiese Jason, acido.

Kathy ignorò la frase. — Resterai?

— Al diavolo — disse lui. — Me ne andrò. — Tese la mano, aprì la porta alle spalle di Kathy, la superò e tornò in laboratorio. Lei lo seguì immediatamente.

Lo raggiunse, tra le ombre vuote e indecifrabili del ristorante abbandonato. Lo guardò dritto in faccia nella tenebra. Ansimava. — Ti hanno già messo addosso un trasmettitore.

— Ne dubito.

— È vero. È stato Eddy.

— Stronzate — disse lui, e si allontanò verso la luce della porta rotta, penzolante, del ristorante.

Kathy gli tenne dietro come un erbivoro lesto di piedi. Ansimò: — Ma supponi che sia vero. Potrebbe essere. — Sull’ingresso, praticabile solo a metà, si interpose tra Jason e la libertà. Si fermò a mani levate, come per schivare un colpo, e disse: — Resta con me una sola notte. Vieni a letto con me. Okay? Basterà, te lo prometto. Lo farai, per una sola notte?

Lui pensò: “Una parte delle mie capacità, delle mie supposte e ben note doti, è ancora con me. Si è trasferita in questo strano mondo nel quale vivo ora. In questo posto dove io non esisto, se non su documenti falsificati da un’informatrice della polizia. Inquietante” e rabbrividì. “Tessere d’identità fornite di microtrasmettitori per tradirmi, per consegnare me e tutti quelli che stanno con me ai pol. Non me la sto cavando molto bene, qui. A parte il fatto che sono seducente, come dice lei. Gesù. E la capacità di seduzione è l’unica cosa che stia tra me e un campo di lavori forzati.”

— Okay — disse allora. Gli sembrava la scelta più saggia, di gran lunga.

— Vai a pagare Eddy — disse Kathy. — Chiudi la faccenda con lui. Fallo sparire da qui.

— Mi chiedevo perché si trattenesse ancora nei paraggi. Ha fiutato altro denaro?

— Probabilmente sì — rispose lei.

— Voi due lo fate sempre — disse Jason, mentre tirava fuori le banconote. pos: Procedura Operativa Standard. E lui si era lasciato infinocchiare.

Kathy rispose allegramente: — Eddy è psionico.

4

A due isolati di distanza, all’ultimo piano di un edificio con una facciata un tempo verniciata di bianco e ora completamente scrostata, Kathy aveva un monolocale con un piccolo angolo cottura che era appena sufficiente per preparare da mangiare a una sola persona.

Jason si guardò attorno. Una stanza da ragazza: il letto, una specie di brandina, aveva una coperta fatta a mano, file su file di pompon verdi. “Quasi un cimitero militare” pensò lui lugubre, mentre si aggirava nel locale. Si sentiva oppresso dalle dimensioni minuscole della stanza.

Su un tavolino di vimini c’era una copia di Alla ricerca del tempo perduto di Proust.

— Fin dove sei arrivata? — le chiese.

All’ombra delle fanciulle in fiore. — Kathy diede due giri di chiave e attivò una specie di congegno elettronico. Jason non capì di cosa si trattava.

— Non è molto — le disse.

Lei si tolse la giacca di plastica. — E tu dove sei arrivato? — Appese la giacca in un armadietto, assieme a quella di Jason.

— Non l’ho mai letto — rispose lui. — Ma nel mio show abbiamo fatto la riduzione televisiva di una scena. Non so quale. Sono arrivate un sacco di lettere di complimenti, ma non abbiamo mai ripetuto l’esperimento. Con cose del genere bisogna stare attenti a non esagerare. Altrimenti, si tagliano le gambe a tutti gli altri, a tutte le reti, per il resto dell’anno. — Si aggirò, per quel che era possibile, nella stanza. Studiò un libro qui, una videocassetta là, una microrivista. Kathy aveva persino un giocattolo parlante. “Come una bambina” pensò lui. “Non è una vera adulta.” Incuriosito, accese il giocattolo parlante.

— Ciao! — disse quello. — Sono Charley l’Allegrone e sono sintonizzato sulla tua lunghezza d’onda cerebrale.

— Nessuno che si chiami Charley l’Allegrone è sintonizzato sulla mia lunghezza d’onda cerebrale — disse Jason. Fece per spegnerlo, ma il giocattolo protestò. — Scusa — disse Jason, — ma ti metto a tacere, piccolo farabutto.

— Ma io ti amo! — si lamentò con voce esile Charley l’Allegrone.

Lui fermò il dito che stava per premere il pulsante. — Allora dimostramelo — rispose Jason. Nel suo show aveva fatto promozioni pubblicitarie per spazzatura come quella. Tutti prodotti che odiava. Senza discriminazioni. — Dammi dei soldi.

— So come puoi riavere il tuo nome, la fama e la bella vita — lo informò Charley l’Allegrone. — Va bene per cominciare?

— Sicuro.

Charley l’Allegrone piagnucolò: — Vai a trovare la tua ragazza.

— Di chi stai parlando? — chiese lui, cauto.

— Di Heather Hart — trillò Charley l’Allegrone.

— Fuochino. — Jason premette la lingua contro gli incisivi superiori. Annuì. — Altri consigli?

— Ho sentito parlare di Heather Hart. — Kathy prese dall’armadietto frigorifero appeso alla parete una bottiglia di succo d’arancia. Era già vuota per tre quarti. Kathy la agitò, versò lo schiumoso surrogato istantaneo in due bicchieri di plastica. — È molto bella. Ha quei lunghi capelli rossi. È davvero la tua ragazza? Ha ragione Charley?

— Lo sanno tutti — rispose Jason — che Charley l’Allegrone ha sempre ragione.

— Già. Suppongo che sia vero. — Kathy versò del pessimo gin, il Mountbatten’s Privy Seal Finest, nel succo d’arancia. — Screwdriver — annunciò, fiera di sé.

— No, grazie — disse lui. — Non a quest’ora. — “Nemmeno se ci fosse dello scotch b l imbottigliato in Inghilterra” pensò. “Questa maledetta stanza così piccola… Ma lei non guadagna niente falsificando documenti e facendo la spia per la polizia? È davvero un’informatrice come dichiara? Strano. Magari fa tutte e due le cose. Magari nessuna.”

— Chiedi! — cinguettò Charley l’Allegrone. — Vedo che hai in mente qualcosa, mister. Tu, bastardone. Proprio tu.

Lui lo ignorò. — Questa ragazza… — cominciò, ma Kathy gli strappò all’istante Charley l’Allegrone e lo tenne stretto in mano. Aveva le narici dilatate per l’indignazione.

— Col cavolo che chiederai delle informazioni su di me al mio Charley l’Allegrone — disse. Inarcò un solo sopracciglio. “Come un uccello selvatico” pensò lui “che si muove in danze complicate per proteggere il nido.” Rise.

— Cosa c’è di tanto divertente? — domandò Kathy.

— Quei giocattoli parlanti sono più d’impiccio che d’aiuto. Dovrebbero proibirli. — Jason si allontanò da Kathy, si spostò al portatelevisore. Il piano era coperto di posta. Distrattamente, si mise a frugare tra le buste, e notò che nessuna di quelle che contenevano bollette o fatture era stata aperta.

— È roba mia — disse Kathy sulla difensiva, scrutandolo.

— Ricevi parecchie fatture — disse lui — per una che vive in uno schifo di monolocale. Comperi i vestiti, o che altro, da Metter’s? Interessante.

— Ho… una taglia difficile da trovare.

— E scarpe di Sax Crombie.

— Nel mio lavoro… — cominciò lei, ma lui l’interruppe con un cenno nervoso della mano.

— Risparmia il fiato — grugnì.

— Guarda nel mio armadio. Non ci troverai molto. Niente di straordinario, però quel che ho è di buona qualità. Preferisco avere poche cose belle… — Kathy tacque un istante. — Insomma, hai capito. Piuttosto che quintali di robaccia.

Jason disse: — Hai un altro appartamento.

Colpì il bersaglio. Gli occhi di Kathy guizzarono, e lei guardò dentro se stessa in cerca di una risposta. Il che, per lui, non era poco.

— Andiamo là — disse. Ne aveva abbastanza di quella stanzetta senza spazio per muoversi.

— Non ti ci posso portare — rispose Kathy — perché lo divido con altre due ragazze, e, in base ai turni che abbiamo stabilito, oggi tocca a…

— è chiaro che non volevi fare colpo su di me. — La cosa lo divertiva. Però lo irritava anche: si sentiva svilito, anche se in maniera confusa.

— Ti ci avrei portato, se oggi fosse stato il mio giorno — disse Kathy. — È per questo che non posso lasciare il monolocale. Devo pur andare da qualche parte quando non è il mio giorno. Il mio prossimo turno sarà venerdì. Da mezzogiorno in poi. — Il suo tono era diventato sincero, come se le stesse molto a cuore convincere Jason. Probabilmente, rifletté lui, era proprio così. Ma l’intera situazione lo irritava. Lei e tutta quanta la sua vita. Aveva la sensazione di essere stato afferrato da qualcosa che lo stava trascinando verso abissi a lui sconosciuti, forse persino verso i suoi vecchi orribili tempi. E non gli piaceva.

All’improvviso desiderò trovarsi fuori di lì. L’animale in trappola era lui.

— Non guardarmi in quel modo — disse Kathy, sorseggiando il suo Screwdriver.

Tra sé e sé, ma ad alta voce, Jason disse: — Hai spalancato la porta della vita con la tua grande, ottusa testa. E ora non si può più richiudere.

— Da dove l’hai presa? — chiese Kathy.

— È roba mia.

— Ma sembra una poesia.

— Se guardassi il mio show, sapresti che ho spesso delle uscite poetiche di questo genere.

Kathy lo soppesò con calma. — Adesso guardo i programmi televisivi e vedo se ci sei. — Appoggiò sulla cucina lo Screwdriver e frugò tra i vecchi giornali ammucchiati ai piedi del tavolino di vimini.

— Io non sono nemmeno nato — disse lui. — Ho controllato.

— E non c’è traccia del tuo show. — Kathy piegò la pagina degli spettacoli e studiò i programmi televisivi.

— Esatto — aggiunse Jason. — Così adesso hai tutte le risposte sul mio conto. — Batté la mano sulla tasca del panciotto che conteneva le tessere falsificate. — Comprese queste. Con i loro microtrasmettitori, se è vero.

— Ridammi i documenti — disse Kathy — e toglierò i microtrasmettitorì. Ci vorrà solo un secondo. — Tese la mano.

Lui le restituì le tessere.

— Non ti interessa che lo faccia? — chiese Kathy.

Lui rispose, in tutta sincerità: —No. In effetti, no. Ho perso la capacità di capire cosa sia bene o male, vero o falso. Se vuoi togliere quella roba, accomodati pure. Se ti fa piacere.

Un attimo dopo lei gli restituì le tessere, con quel suo sorriso caliginoso da sedicenne.

Scrutando la sua giovinezza, la sua innata radiosità, lui disse: — “Mi sento vecchio come quell’olmo laggiù.”

Finnegans Wake — disse Kathy, contenta. — Quando le vecchie lavandaie al tramonto si confondono con alberi e rocce.

— Hai letto Finnegans Wake? — Jason era sorpreso.

— Ho visto il film. Quattro volte. Mi piace Hazeltine. Penso che sia il miglior regista vivente.

— È stato ospite del mio show. Vuoi sapere com’è nella vita reale?

— No — rispose Kathy.

— Forse dovresti.

— No — ripeté lei, scuotendo la testa. La sua voce era salita di tono. — E non cercare di dirmelo, okay? Crederò quello che voglio, e tu credi quel che ti pare. Va bene?

— Ma certo. — Jason provò un moto di simpatia. La verità, aveva spesso riflettuto, è sopravvalutata come virtù. Nella maggioranza dei casi, una bugia comprensiva ottiene risultati migliori ed è più misericordiosa. Soprattutto tra uomo e donna. Anzi, tutte le volte che c’è di mezzo una donna.

Ovviamente, a voler essere precisi, quella non era una donna ma una ragazza. Quindi Jason decise che la bugia pietosa era ancora più necessaria.

— È uno studioso e un artista — disse.

— Sul serio? — Lei lo guardò speranzosa.

— Sì.

Kathy sospirò di sollievo.

— Allora credi — disse lui, affondando il colpo — che io abbia conosciuto Michael Hazeltine, il miglior regista cinematografico vivente, come hai detto tu stessa. Quindi credi che io sia un Sei… — Si interruppe. Non era quello che intendeva dire.

— Un Sei — gli fece eco Kathy. Corrugò la fronte come se stesse cercando di ricordare. — Ne ho letto su “Time”. Ma non sono tutti morti? Il governo non li ha fatti fucilare dopo che quel tizio, il loro leader… Come si chiamava…? Teagarden. Sì, esatto. William Teagarden. Be’, ha cercato di mettere in piedi, come si dice?, un colpo di Stato contro i naz federali. Ha cercato di fare sciogliere il corpo perché era un’organizzazione parimutuale illegale…

— Paramilitare — la corresse Jason.

— Non t’interessa niente di quel che sto dicendo.

— Sì che m’interessa — rispose lui, sincero. Aspettò. La ragazza non andò avanti. — Cristo! — abbaiò lui. — Finisci quello che stavi dicendo!

— Mi pare — disse alla fine Kathy — che siano stati i Sette a far fallire il colpo di Stato.

Jason pensò: “Sette”. In vita sua, non aveva mai sentito parlare dei Sette. Nulla avrebbe potuto scioccarlo di più. “Che fortuna” pensò “che mi sia scappato quel lapsus linguae. Ho imparato qualcosa di nuovo. Finalmente. In questo labirinto di confusione e di mezza realtà.”

Una piccola sezione di parete si socchiuse cigolando, e nella stanza entrò un gatto, bianco e nero e molto giovane. Kathy lo raccolse subito dal pavimento. Si illuminò in volto.

— La filosofia di Dinman — disse Jason. — Il gatto obbligatorio. — Conosceva quel punto di vista; anzi, aveva presentato Dinman al pubblico televisivo in uno dei suoi special autunnali.

— No. È solo che lo amo. — Con occhi che brillavano, Kathy porse il gatto a Jason per farglielo esaminare.

— Però credi — disse lui accarezzando la testolina del gatto — che possedere un animale aumenti l’empatia di una persona…

— Ma figuriamoci! — Kathy stringeva il gatto alla gola come se fosse una bimba di cinque anni con il suo primo animaletto. L’adorata cavia di un progetto di ricerca per la scuola. — Ti presento Domenico — disse.

— In onore di Domenico Scarlatti? — chiese lui.

— No. In onore del Domenico’s Market in fondo alla strada. Ci siamo passati davanti venendo qui. Quando sto nell’appartamento più piccolo, questa stanza, faccio spesa lì. Domenico Scarlatti è un musicista? Mi pare di averne sentito parlare.

Jason disse: — L’insegnante di inglese di Abramo Lincoln alle superiori.

— Oh… — Lei annuì distrattamente e si mise a cullare il gatto.

— Ti sto prendendo in giro — disse lui, — ed è una cattiveria. Mi spiace.

Kathy, continuando a stringere il gatto, alzò su Jason due occhioni ingenui. — Non riesco mai ad accorgermi della differenza — mormorò.

— Ecco perché è una cattiveria.

— Perché? Se non me ne rendo nemmeno conto, be’, significa solo che sono un’idiota. No?

— Tu non sei un’idiota. Hai solo poca esperienza. — Jason calcolò, a spanne, la differenza d’età fra loro due. — Ho vissuto più del doppio di te — le fece notare. — E negli ultimi dieci anni mi sono trovato in una posizione che mi ha permesso di entrare in contatto con alcune delle più famose persone del pianeta. E…

— E — disse Kathy — sei un Sei.

Non aveva scordato il lapsus dì Jason. Ovvio. Lui poteva raccontarle un milione di cose, e lei le avrebbe dimenticate tutte nel giro di dieci minuti, tranne quell’unico vero sbaglio. Così va il mondo. Con gli anni, Jason si era abituato; era uno dei tratti che si acquisivano arrivando alla sua età, così lontana da quella di Kathy.

— Cosa significa Domenico per te? — Jason cambiò discorso. Si rese conto che era una crudeltà, ma proseguì lo stesso. — Cosa ti dà di più degli esseri umani?

Lei aggrottò la fronte, divenne pensosa. — Ha sempre da fare. È sempre impegnato in qualche progetto. Come seguire un insetto. È bravissimo con le mosche. Ha imparato a prenderle e a mangiarle. — Un sorriso disarmante. — E con lui non devo chiedermi se denunciarlo al signor McNulty. McNulty è il mio contatto nei pol. Gli passo i ricevitori analogici per i microtrasmettitori, quei puntini che ti ho fatto vedere…

— E lui ti paga.

Lei annuì.

— Eppure guarda come vivi.

— Non… — Kathy andò in cerca di una risposta. — Non mi capitano molti clienti.

— Idiozie. Sei in gamba. Ti ho vista lavorare. Hai esperienza.

— Un talento naturale.

— Un talento allenato.

— Okay. Tutti i soldi finiscono nell’appartamento dei quartieri alti. Il mio appartamento grande. — Kathy strinse i denti. Non le piacevano gli interrogatori.

— No. — Jason non ci credeva.

Kathy fece una pausa. Poi: — Mio marito è vivo. È in un campo di lavori forzati in Alaska. Sto cercando di comperargli la libertà passando informazioni al signor McNulty. Tra un anno… — Scrollò le spalle. Adesso la sua espressione era malinconica, da introversa. — Lui dice che Jack potrà uscire. E tornare qua.

“E così” pensò lui “tu spedisci altra gente nei campi per tirare fuori tuo marito. Il tipico accordo degno della polizia. Probabilmente è vero.”

— Un affare fantastico per loro — disse. — Perdono un uomo e ne guadagnano… Quanti diresti di averne fregati per conto loro? Decine? Centinaia?

Lei rifletté. — Forse centocinquanta.

— È una malvagità — disse lui.

— Davvero? — Kathy lo scrutò con occhi nervosi, stringendo Domenico al seno piatto. Poi, lentamente, andò in collera. Glielo si poteva leggere in volto, e dalla stretta feroce sul gatto contro il petto. — Un accidente! — ribatté decisa, scuotendo la testa. — Io amo Jack e lui ama me. Mi scrive di continuo.

Lui fu crudele. — Lettere falsificate. Certamente da qualcuno dei pol.

Dagli occhi di Kathy sgorgarono lacrime in quantità sorprendente. Le offuscarono lo sguardo. — Credi? A volte lo penso anch’io. Vuoi guardarle? Riusciresti ad accorgertene?

— È probabile che non siano false. È più economico e semplice tenerlo in vita e lasciargli scrivere le lettere. — Jason sperò che quella risposta la facesse sentire meglio, ed evidentemente fu così. Le lacrime si fermarono.

— Non ci avevo pensato. — Lei annuì, ma continuò a non sorridere. Fissò lo sguardo nel vuoto, cullando automaticamente il gattino.

— Se tuo marito è vivo… — Jason, adesso, ci andò cauto. — Pensi che sia il caso che tu vada a letto con altri uomini, per esempio con me?

— Ma certo. Jack non ha mai fatto obiezioni. Anche prima che lo arrestassero. E sono sicura che non le farà adesso. A dire il vero, me ne ha parlato in una lettera. Vediamo, dev’essere stato forse sei mesi fa. Credo che dovrei riuscire a trovarla. Le ho tutte su microfilm. In laboratorio.

— Perché?

— A volte ne faccio leggere qualcuna ai clienti. Così poi potranno capire perché ho fatto quel che ho fatto.

A quel punto, Jason francamente non sapeva più quali emozioni provasse per lei, o quali dovesse provare. Gradualmente, con gli anni, Kathy era stata coinvolta in una situazione dalla quale non poteva più uscire. E nemmeno lui vedeva altre vie di fuga per lei; la faccenda era andata avanti per troppo tempo. I semi del male erano stati gettati e lasciati crescere.

— Non puoi più tornare indietro. — Lo sapeva, e sapeva che lei lo sapeva. — Ascolta — le disse in tono dolce. Le appoggiò una mano sulla spalla, ma Kathy, come prima, si ritrasse immediatamente. — Di’ ai pol che lo vuoi libero subito, e che non gli consegnerai altre persone.

— Lo libererebbero, se dicessi questo?

— Provaci. — Di certo quel tentativo non avrebbe potuto produrre delle gravi conseguenze. Però poteva immaginare McNulty, e come apparisse agli occhi della ragazza. Non sarebbe mai riuscita ad affrontarlo; i McNulty del mondo intero non si lasciano affrontare da nessuno. Tranne quando succede qualcosa di molto strano.

— Lo sai cosa sei? — disse Kathy. — Sei una persona molto buona.

Lui scrollò le spalle. Come tante verità, era questione d’opinioni. Forse era proprio così. In quella situazione, perlomeno. Non in altre. Ma Kathy non lo sapeva.

— Siediti — le disse. — Coccola il gatto e bevi il tuo Screwdriver. Non pensare a niente. Ci riesci? Sei capace di svuotare la mente per un po’? Provaci. — Le portò una sedia; e lei, obbediente, sedette.

— Lo faccio sempre — disse con voce vacua, cupa.

— Ma fallo in modo positivo.

— Cosa vorresti dire?

— Fallo per un vero scopo, non solo per cercare di sfuggire a verità sgradevoli. Fallo perché ami tuo marito e lo vuoi riavere. Perché vuoi che tutto torni a essere come prima.

— Sì — convenne lei. — Ma adesso ho incontrato te.

— E questo cosa significa? — Jason tornò a essere più cauto. Quella risposta lo lasciava perplesso.

— Sei più magnetico di Jack. È magnetico anche lui, ma tu lo sei molto di più. Magari, dopo avere conosciuto te, non riuscirò più ad amarlo sul serio. O tu pensi che si possano amare due persone con la stessa intensità ma in modi diversi? Il conduttore del mio gruppo di terapia dice di no. Dice che devo scegliere. Dice che è uno degli aspetti basilari della vita. Il fatto è che è già successo. Ho incontrato diversi uomini più magnetici di Jack… Però nessuno quanto te. Adesso non so proprio cosa fare. È molto difficile decidere su cose simili perché non ne puoi parlare con nessuno. Nessuno capisce. Bisogna cavarsela da soli, e a volte si fanno le scelte sbagliate. Per esempio, come se io scegliessi te al posto di Jack e poi lui tornasse e a me non fregasse più niente di lui: cosa succederebbe? Cosa proverebbe lui? È importante, ma è importante anche quello che provo io. Se tu, o qualcun altro come te, mi piace più di lui, devo dare via libera a quel che sento, questo almeno secondo il mio gruppo di terapia. Lo sapevi che sono stata in un ospedale psichiatrico per otto settimane? Il Morningside Mental Hygiene Relations di Atherton. Me l’hanno pagato i miei. È costato una fortuna, perché non avevano diritto alle sovvenzioni federali. Comunque, là ho imparato tante cose su di me e mi sono fatta un sacco di amici. La maggior parte della gente che conosco davvero l’ho incontrata al Morningside. Certo, quando li ho visti per la prima volta ero convinta che fossero gente famosa, come Mickey Quinn e Arlene Howe. Insomma, celebrità. Come te.

Lui disse: — Conosco sia Quinn che la Howe. Non ti sei persa niente.

Kathy lo scrutò. — Forse non sei una celebrità. Forse sono regredita al mio periodo delle illusioni. Hanno detto che probabilmente mi sarebbe successo, prima o poi. Ora è capitato.

— Il che — fece notare Jason — mi renderebbe una tua allucinazione. Sforzati di più. Non mi sento del tutto reale.

Lei rise. Ma il suo umore restò piuttosto cupo. — Non sarebbe strano se ti avessi inventato io, come hai appena detto? Se guarissi del tutto, tu scompariresti.

— Non scomparirei. Però smetterei di essere una celebrità.

— Hai già smesso di esserlo. — Kathy alzò la testa e lo fissò senza timori. — Ecco perché, forse. Ecco perché sei una celebrità che nessuno ha mai sentito nominare. Ti ho creato io. Sei un prodotto della mia mente in preda alle illusioni, e adesso sto recuperando la sanità mentale.

— Una visione solipsistica dell’universo…

— Per favore, lo sai che non ho idea di cosa significhino parole come quella. Che razza di persona credi che io sia? Non sono famosa e potente come te. Sono solo una che fa un lavoro orribile, mostruoso, e fa finire della gente in prigione perché amo Jack più di tutto il resto della specie umana. Stai a sentire. — Il tono di Kathy diventò deciso, fermo. — L’unica cosa che mi abbia riportata alla normalità è stato il fatto di amare Jack più di Mickey Quinn. Io pensavo che quel ragazzo, quel David, fosse Mickey Quinn, e che fosse un gran segreto che Mickey Quinn fosse uscito di testa e si fosse fatto ricoverare in quell’ospedale per rimettersi in forma, e nessuno doveva saperne niente perché avrebbe rovinato la sua immagine. Così lui faceva finta di chiamarsi David. Però io sapevo. O piuttosto, credevo di sapere. E il dottor Scott ha detto che dovevo scegliere tra Jack e David, o Jack e Mickey Quinn, qualunque cosa pensassi. E ho scelto Jack. Così ne sono uscita. Magari… — Ebbe un attimo di instabilità sulle gambe. Le tremò il mento. — Magari adesso riesci a capire perché devo credere che Jack sia più importante di tutto e di tutti, o comunque di tanta altra gente. Lo capisci?

Jason capiva. Annuì.

— Anche di uomini come te — disse Kathy. — Uomini che sono più magnetici di lui. Nemmeno voi potete strapparmi da Jack.

— Ma io non voglio farlo. — Gli parve una buona idea chiarire quel punto.

— Sì. Sì che vuoi. È una competizione.

— Per me — disse lui, — tu sei solo una ragazzina in una stanzetta di un piccolo edificio. Per me, l’intero mondo è mio, con tutti quelli che ci vivono.

— Non se ti trovi in un campo di lavori forzati.

Dovette darle ragione. Kathy aveva l’irritante abitudine di far sparare a salve le armi della retorica.

— Adesso cominci a capire, vero? — chiese lei. — Di me e di Jack, e del perché posso venire a letto con te senza fare un torto a Jack. Sono andata a letto con David quando eravamo al Morningside, ma Jack ha capito. Sapeva che dovevo farlo. Tu avresti capito?

— Se eri dissociata…

— No, non per quello. Perché era destino andare a letto con Mickey Quinn. Bisognava farlo. Io stavo svolgendo il mio ruolo cosmico. È chiaro?

— Okay — rispose lui dolcemente.

— Credo di essere ubriaca. — Kathy guardò il suo Screwdriver. — Hai ragione, è troppo presto per bere uno di questi. — Mise giù il bicchiere mezzo vuoto. — Jack ha capito. O comunque ha detto di avere capito. Avrebbe potuto mentire? Per non perdermi? Perché se avessi dovuto scegliere tra lui e Mickey Quinn… — Una pausa. — Ma ho scelto Jack. Lo sceglierei sempre. Però ho dovuto andare a letto lo stesso con David. Volevo dire, con Mickey Quinn.

“Mi trovo coinvolto in questa situazione con una creatura complicata, affetta da problemi molto bizzarri” si disse Jason Taverner. “Conciata male come Heather Hart. Anzi, peggio. L’essere umano più disturbato che io abbia incontrato in quarantadue anni. Ma come faccio a liberarmene senza che McNulty ne sappia qualcosa? Cristo. Magari non me ne libererò mai. Magari lei continuerà a giocare con me finché non si sentirà annoiata, poi chiamerà i pol. E io resterò fregato.”

— Tu pensi che ti denuncerò, dopo che sarai venuto a letto con me — disse Kathy.

Non voleva ancora arrivare a quel punto. Però l’ipotesi, in linea generale, era proprio quella. Quindi, scegliendo le parole con cautela, lui le rispose: — Credo che tu, con questo tuo modo di fare sincero, innocente, da diciannovenne, abbia imparato a usare la gente. Il che mi pare orribile. E quando hai cominciato, non riesci più fermarti. Non ti rendi nemmeno conto di farlo.

— Non ti consegnerei mai ai pol. Io ti amo.

— Mi conosci da cinque ore. Anzi, nemmeno.

— Ma capisco sempre quando m’innamoro. — Il tono e l’espressione di Kathy erano decisi. E solenni.

— Non sai nemmeno di preciso chi io sia!

Lei disse: — Non so mai chi sia chiunque.

Su questo, evidentemente, non c’era da discutere. Così Jason tentò un altro approccio. — Senti, tu sei una strana combinazione di innocente romantica e… — Si interruppe. Gli era venuto in mente il termine “traditrice”, ma lo scartò subito. — … E di sottile manipolatrice. Una che sa fare i suoi calcoli. — “Sei” pensò “una prostituta mentale. Perché è la tua mente a prostituirsi. Anche se non lo ammetteresti mai. E, se lo ammettessi, sosterresti di esserci stata costretta. Già, costretta, ma da chi? Da Jack? Da David? No, da te stessa. Perché vuoi avere due uomini contemporaneamente, e ci riesci.

“Povero Jack” pensò. “Povero stronzo. Te ne stai a spalare merda in un campo di lavori forzati in Alaska e aspetti che questo relitto umano dai percorsi cerebrali tanto contorti ti salvi.”


Quella sera, senza convinzione, cenò con Kathy in una specie di ristorante italiano, a un isolato di distanza dal monolocale. A quanto pareva, lei conosceva il proprietario e i camerieri, anche se molto superficialmente; comunque, loro la salutarono e lei rispose con aria assente, come se li avesse uditi appena. O come se avesse solo una consapevolezza approssimativa di dove si trovasse.

“Ragazzina” si chiese, “a cosa stai pensando realmente?” — Le lasagne sono ottime — disse Kathy, senza guardare il menu. Adesso pareva lontanissima. Si stava allontanando sempre di più, attimo dopo attimo. Jason intuì che era prossima a una crisi. Ma non conosceva Kathy a sufficienza; non sapeva in quale modo si sarebbe manifestata. E quell’idea non gli piaceva.

— Quando ti viene una crisi — chiese improvvisamente, nel tentativo di coglierla alla sprovvista, — cosa fai?

— Oh… — La voce di lei era incolore. — Mi butto sul pavimento e urlo. Oppure tiro calci. A chiunque tenti di fermarmi. A chi interferisce con la mia libertà.

— Credi di volerlo fare adesso?

Lei alzò la testa. — Sì. — Il suo viso, notò Jason, era diventato una maschera dai tratti distorti. Ma gli occhi restavano perfettamente asciutti. Quella volta non ci sarebbero state lacrime. — Non ho preso le mie medicine: venti milligrammi di Actozine al giorno.

— Perché? — Non le prendevano mai. Jason aveva notato quel comportamento molte volte.

— Mi annebbiano la mente. — Kathy si toccò il naso con l’indice, come impegnata in un complesso rituale che doveva essere eseguito in modo assolutamente perfetto.

— Ma se ti…

Lei lo interruppe in modo secco. — Non possono combinare casini con la mia mente. Non permetto a nessuno psicofarmaco di agire su di me. Lo sai cos’è uno psicofarmaco?

— L’hai appena detto tu. — Jason rispose in tono calmo e pacato, mantenendo la concentrazione su di lei. Come se stesse cercando di trattenerla lì, di non far disgregare la sua mente.

Arrivò il cibo. Era disgustoso.

— Non è meravigliosamente italiano? — chiese Kathy, arrotolando gli spaghetti sulla forchetta con maestria.

— Sì — rispose lui senza convinzione.

— Tu pensi che stia per venirmi una crisi. E non vuoi restarne coinvolto.

— Esatto.

— Allora vattene.

— Tu… — Jason esitò. — Tu mi piaci. Voglio assicurarmi che non ti succeda niente di male. — Una bugia benevola, del tipo che lui approvava. Gli sembrava meglio che dire: “Se me ne vado di qui, tra venti secondi tu telefonerai a McNulty”. Il che, in effetti, era esattamente la situazione in cui si trovava.

— Andrà tutto bene. Mi porteranno a casa. — Con un cenno vago della mano, Kathy indicò all’intorno i clienti, i camerieri, la cassiera. Il cuoco che sudava nella cucina surriscaldata e poco ventilata. Un ubriaco al banco, che giocherellava con il bicchiere di birra Olympia.

Jason, dopo un puntuale calcolo mentale, ragionevolmente certo di fare la cosa giusta disse: — Tu non ti assumi mai delle responsabilità.

— Per chi? Non mi assumo responsabilità per la tua vita. Se è questo che intendi. È compito tuo. Non scaricarlo sulle mie spalle.

— Responsabilità — disse lui — per le conseguenze che i tuoi atti avranno su altri. Da un punto di vista etico, tu vai alla deriva. Stabilisci un contatto qui, uno là, poi torni in immersione. Come se nulla fosse successo. E lasci che siano gli altri a dover rimettere insieme i pezzi.

Kathy alzò la testa di nuovo e lo fissò negli occhi. — Ti ho fatto del male? Ti ho salvato dai pol. Ecco cos’ho fatto per te. Ho sbagliato? È così? — La sua voce si alzò di tono. Fissava Jason senza misericordia, a occhi sbarrati, con la forchettata di spaghetti ancora in mano.

Lui sospirò. Non c’era via d’uscita. — No. Non hai sbagliato. Grazie. Te ne sono grato. — E, mentre lo diceva, provò un’ondata di odio per Kathy. Che lo aveva messo in trappola in quel modo. Una stupida Ordinaria di diciannove anni che chiudeva in angolo un Sei adulto come lui: era tutto così improbabile da sembrare assurdo. Avrebbe avuto quasi voglia di ridere. Ma non era il caso.

— Stai reagendo al mio calore umano? — chiese lei.

— Sì.

— Senti arrivarti il mio amore, vero? Ascolta. Lo puoi quasi udire. — Kathy si concentrò. — Il mio amore sta crescendo, ed è un giovane virgulto.

Jason fece un cenno al cameriere. — Cos’avete da offrire? — chiese in tono brusco. — Solo birra e vino?

— Ed erba, signore. Acapulco Gold della migliore qualità. E hashish. Eccellente.

— Ma niente superalcolici.

— No, signore.

Lui congedò il cameriere.

— L’hai trattato da servo — disse Kathy.

— Già. — Jason emise un gemito. Chiuse gli occhi e si massaggiò il naso. Tanto valeva andare sino in fondo; dopo tutto, era già riuscito a innescare l’ira di Kathy. — Il cameriere è penoso, e questo è un ristorante indecente. Usciamo.

La voce di Kathy era acida. — Oh, ecco cosa significa essere una celebrità. Capisco. — Mise giù, con calma, la forchetta.

— Cosa pensi di avere capito? — ribatté lui, senza più argini. Ormai il suo ruolo di conciliatore era finito a gambe all’aria. E non lo avrebbe più ritrovato. Si alzò, afferrò la giacca. — Io me ne vado — informò Kathy.

— Dio. — Lei chiuse gli occhi. La sua bocca, in una smorfia innaturale, restò spalancata. — Dio. No. Cos’hai fatto? Lo sai cos’hai fatto? Lo capisci? Riesci ad afferrare l’enormità della cosa? — E poi, a occhi chiusi e a pugni stretti, abbassò la testa e cominciò a urlare. Jason non aveva mai sentito niente del genere. Restò paralizzato da quel suono, e dalla vista del viso contratto di Kathy. Si sentì sopraffatto, travolto. “Urla psicotiche” si disse. “Escono dall’inconscio collettivo.

Non da un singolo ma dalla più profonda radice della nostra specie.”

Saperlo non gli era d’aiuto.

Il proprietario e due camerieri, con i menu ancora in mano, corsero al loro tavolo. Jason notò dei particolari che gli si impressero stranamente nella mente. Sembrava che tutto, alle urla di Kathy, si fosse congelato. Paralizzato. I clienti che sollevavano le forchette, abbassavano i cucchiai, masticavano… Tutto si fermò, e restò solo quel terribile suono.

E lei stava pronunciando delle parole. Parole crude, di quelle che si trovano scritte sui muri. Parole brevi, distruttive, che colpirono nel profondo tutte le persone presenti nel ristorante, lui compreso. Soprattutto lui.

Il proprietario, con i baffi che vibravano, annuì ai due camerieri, che sollevarono Kathy di peso dalla sedia. La presero per le spalle, la tennero sospesa in aria, poi, a un cenno del proprietario, la trascinarono lontano dal séparé, attraversando tutto il locale, fino alla strada.

Jason pagò il conto e corse fuori.

All’ingresso, però, il proprietario lo fermò. Tese la mano. — Trecento dollari — disse.

— Perché? — chiese Jason. — Per averla portata fuori?

— Per non chiamare i pol — rispose quello. Jason pagò, con una smorfia truce.

I camerieri l’avevano depositata sulla strada, a ridosso del marciapiede. Kathy adesso era muta. Con le dita premute sugli occhi, ondeggiava avanti e indietro, e la sua bocca si muoveva senza più produrre suoni. I camerieri la scrutarono, a quanto sembrava per decidere se avrebbe provocato o no altri guai. Poi tornarono dentro di corsa lasciando Jason e Kathy lì sulla strada, assieme, sotto l’insegna al neon rossa e bianca.

Lui si inginocchiò a fianco di Kathy, le mise una mano su una spalla. Questa volta lei non cercò di scostarsi. — Mi spiace — le disse. Ed era sincero. — Mi spiace di averti spinta fino a questo punto. — “Ho pensato che il tuo fosse un bluff” pensò, “ma non lo era. Okay, hai vinto. Mi arrendo. D’ora in poi, le cose andranno come vuoi tu. Basta che me lo chieda. Però fai in fretta, per amor di Dio. Lasciami libero prima che si può.”

L’intuito però gli disse che non sarebbe successo troppo presto.

5

Mano nella mano, passeggiarono sul marciapiede immerso nella sera, superando lagune di colore in gara tra loro, lampeggianti, intermittenti, create dalle insegne rotanti, pulsanti, dondolanti. A Jason non piaceva quel tipo di ambiente; l’aveva visto un milione di volte, duplicato dappertutto sulla faccia della Terra. Era da luoghi come quello che era fuggito, in tempi remoti della sua vita; aveva usato le sue qualità di Sei come via d’uscita. E adesso era tornato indietro.

Non gli dava fastidio la gente, gli Ordinari che vedeva intrappolati lì, persone che senza colpa erano costrette a restare. Non avevano inventato loro tutto ciò; non lo amavano; lo sopportavano, mentre a lui era stato concesso di evadere. In effetti, si sentiva in colpa di fronte a quei visi cupi, a quelle smorfie su bocche contratte, infelici.

— Sì — disse Kathy alla fine, — credo proprio che mi stia innamorando di te. Ma è colpa tua. È quel potente campo magnetico che emani. Sai che riesco a vederlo?

— Accidenti — rispose lui, automaticamente.

— È viola scuro, vellutato. — Kathy gli afferrò una mano con dita sorprendentemente forti. — Molto intenso. Tu riesci a vedere il mio? La mia aura magnetica?

— No.

— Mi sorprende. Avrei pensato che ci riuscissi. — Adesso Kathy sembrava calma; le urla esplosive avevano lasciato il posto a una relativa stabilità. “Una personalità quasi pseudoe-pilettoide” congetturò lui. “Giorno per giorno può portare a…” Lei si intromise nei suoi pensieri. — La mia aura è di un bel rosso acceso. Il colore della passione.

— Fantastico.

Kathy si fermò bruscamente e si voltò a scrutarlo in viso. Per decifrare la sua espressione. Jason si augurò che fosse adeguatamente opaca. — Sei arrabbiato perché ho perso le staffe? — chiese lei.

— No.

— Però sembri arrabbiato. Secondo me, lo sei. Be’, probabilmente solo Jack capisce. E Mickey.

— Mickey Quinn — disse lui, pensieroso.

— Non è una persona notevole?

— Molto. — Jason avrebbe potuto raccontarle tante cose su Quinn, ma sarebbe stato inutile. In realtà, Kathy non voleva sapere. Credeva di capire già.

“E cos’altro credi, ragazzina” si chiese lui, “per esempio di me? Quel poco che sai di Mickey Quinn e di Arlene Howe e di tutti gli altri che, per te, in realtà non esistono? Pensa a quello che potrei dirti se, per un momento, tu fossi capace di ascoltare. Ma non ne sei in grado. Quel che potresti sentire ti spaventerebbe. E, comunque, sai già tutto.”

— Che effetto fa — le chiese — essere andata a letto con tanta gente famosa?

A quella frase, Kathy si bloccò. — Credi che sia andata a letto con loro perché erano famosi? Credi che io sia una fc, una fotticelebrità? È questo che pensi veramente di me?

“È come la carta moschicida” rifletté Jason. Kathy lo invischiava con ogni parola che pronunciava. Non poteva vincere.

— Penso — rispose — che tu abbia avuto un’esistenza interessante. Sei una persona interessante.

— E importante — aggiunse lei.

— Sì. Anche importante. Da un certo punto di vista, la persona più importante che io abbia mai incontrato. Un’esperienza eccitante.

— Dici sul serio?

— Sì — rispose lui, dando grande enfasi alla propria affermazione. E, in un modo bizzarro e maledettamente contorto, era vero. Nessuno, nemmeno Heather, era mai riuscito a legarlo in maniera così totale. Non sopportava quel che gli stava accadendo e non poteva liberarsene. Gli sembrava di trovarsi al volante del suo trabi fuori serie, costruito solo per lui, e di essere davanti a un semaforo contemporaneamente verde, rosso e giallo: nessuna risposta razionale era possibile. Grazie all’irrazionalità di Kathy. Il terribile potere dell’illogicità. Degli archetipi. Che entravano in azione dai desolati abissi dell’inconscio collettivo, collegando lui, e lei, e tutti gli altri in un insieme indistinto. In un nodo impossibile da sciogliere, finché fossero rimasti in vita.

“Non mi meraviglia” pensò “che certa gente, tanta gente, desideri la morte.”

— Vuoi andare a vedere un film col Capitano Kirk? — chiese Kathy.

— Come desideri — rispose laconicamente lui.

— Ce n’è uno bello al cinema Dodici. È ambientato su un pianeta del sistema di Betelgeuse, molto simile al pianeta di Tarberg, quello del sistema di Proxima. Solo che nel film del Capitano Kirk è abitato dagli schiavi di un invisibile…

— L’ho visto. — In realtà, un anno prima aveva avuto ospite del suo show Jeff Pomeroy, che interpretava il Capitano Kirk nel film. Ne avevano persino trasmesso un breve spezzone: la solita promozione pubblicitaria, la promessa di una sua visita allo studio di Pomeroy. Non gli era piaciuto allora e dubitava che potesse piacergli adesso. E, inoltre, detestava Jeff Pomeroy.

— Non vale proprio niente? — domandò Kathy, fiduciosa.

— Jeff Pomeroy, per quel che mi riguarda, è la quintessenza dell’idiozia. Lui e quelli come lui. I suoi imitatori.

Kathy disse: — Per un po’ è stato al Morningside. Non l’ho conosciuto proprio bene, ma c’era.

— Non mi è difficile crederlo — rispose Jason. Ma non ne era convinto.

— Lo sai cosa mi ha detto una volta?

— Conoscendolo — cominciò lui, — direi…

— Mi ha detto che sono la persona più docile che abbia mai incontrato. Non è fantastico? E mi ha vista entrare in uno dei miei stati mistici, insomma quando mi butto per terra e urlo, eppure l’ha detto. Secondo me, è una persona molto sensibile. Lo penso proprio. Tu, no?

— Sì — rispose lui.

— Allora adesso torniamo alla mia stanza? E scopiamo come ricci?

Jason emise un grugnito incredulo. Kathy aveva davvero detto una cosa simile? Si girò, cercò di decifrare il suo viso, ma erano finiti in una zona d’ombra tra le insegne: tutto era buio, in quel momento. “Gesù” si disse, “devo tirarmi fuori di qui. Devo ritrovare la strada per il mio mondo!”

— La mia onestà ti turba? — chiese lei.

— No — rispose lui, cupo. — L’onestà non mi turba mai. Come celebrità, devi essere capace di affrontarla. — “Anche questo” pensò. — Qualunque tipo di onestà. Soprattutto il tuo.

— Che tipo è il mio?

— Onestà onesta.

— Allora mi capisci davvero.

— Sì. — Lui annuì. — Ti capisco davvero.

— E non mi guardi dall’alto in basso? Non mi vedi come una piccola persona insignificante che dovrebbe essere morta?

— No. Tu sei una persona molto importante. E anche molto onesta. Uno degli esseri più onesti e sinceri che io abbia mai conosciuto. Lo penso sul serio. Lo giuro su Dio.

Kathy gli diede una pacca cordiale sul braccio. — Non fare l’esagerato. Lascia che ti venga naturale.

— Mi viene naturale — le assicurò lui. — Davvero.

— Bene. — Il tono di Kathy era felice. Evidentemente Jason era riuscito a dissipare le sue preoccupazioni; si sentiva sicura di lui. E da quello dipendeva la sua vita… O no? Non stava capitolando davanti alla logica psicopatica di lei? Al momento, non ne era affatto sicuro.

— Senti — le disse incerto, — sto per dirti qualcosa, e voglio che tu mi ascolti attentamente: tu dovresti stare in un carcere per malati di mente.

Lei non reagì. Non aprì bocca. Ma il silenzio che si era creato era spaventoso.

— E — continuò lui — io metterò tutta la distanza possibile fra te e me. — Strappò la mano dalla stretta di Kathy, girò sui tacchi e si avviò nella direzione opposta. Si perse tra gli Ordinari che si affollavano su entrambi i marciapiedi scalcinati, illuminati al neon, di quella sudicia parte della città.

“L’ho persa” pensò. “E, perdendo lei, ho probabilmente perso anche la mia vita.

“E adesso?” Si fermò, si guardò attorno. “Ho addosso un microtrasmettitore, come dice lei? Mi sto tradendo a ogni passo che faccio?

“Charley l’Allegrone” pensò “mi ha detto di andare da Heather Hart. E, come sanno tutti a tivulandia, Charley l’Allegrone non sbaglia mai. Ma vivrò abbastanza a lungo per arrivare da lei? E se avessi davvero addosso una pulce, non scatenerei anche su di lei la mia sorte avversa? E se Al Bliss e Bill Wolfer non mi conoscono, perché dovrebbe conoscermi Heather Hart? Ma Heather è una Sei, come me. Forse sarà questo a fare la differenza.”

Trovò una cabina telefonica, entrò, chiuse la porta isolandosi dai rumori del traffico e infilò nella fessura una moneta d’oro da cinque dollari.

Heather Hart disponeva di parecchi numeri che non comparivano sull’elenco. Alcuni per gli affari, altri per gli amici; uno, poi, per gli amanti. Jason, ovviamente, conosceva quel numero, visto ciò che era stato per lei e che sperava di essere ancora.

Lo schermo si illuminò. Dalle forme cangianti, Jason dedusse che Heather stava rispondendo dall’automobile.

— Ciao — le disse.

Heather si schermò gli occhi per decifrare il viso di lui.

— Chi diavolo sei? — I suoi occhi viola emettevano lampi. I capelli rossi erano abbacinanti.

— Jason.

— Non conosco nessun Jason. Come hai fatto ad avere questo numero? — Il tono era preoccupato, ma anche duro. — Sparisci dal mio videotelefono! — Lo scrutò con aria corrucciata dallo schermo. — Chi ti ha dato questo numero? Voglio il nome.

Jason rispose: — Me l’hai dato tu sei mesi fa. Quando te lo sei fatta assegnare. La “più privata delle tue linee private”, giusto? Non l’hai definita così?

— Chi te l’ha detto?

— Tu. Eravamo a Madrid. Tu eri lì per lavoro, e io mi sono preso sei giorni di ferie. Stavo a mezzo chilometro dal tuo hotel. Venivi da me sulla tua Rolls verso le tre del pomeriggio. Giusto?

Heather chiese con un tono che voleva mascherare indifferenza: — Sei di qualche rivista?

— No, Sono il tuo amore numero uno.

— Il mio cosa?

— Il tuo amante.

— Sei un fan? Sei un fan, un maledetto aborto di fan! Se non sparisci subito, ti uccido. — Audio e video si spensero. Heather aveva riappeso.

Jason infilò un’altra moneta da cinque e compose di nuovo il numero.

— Ancora quell’aborto di fan — rispose Heather. Adesso sembrava più padrona di sé. O era solo rassegnazione?

— Hai un dente finto — le disse Jason. — Quando sei con uno dei tuoi amanti te lo fissi con una resina speciale che comperi da Harney. Però con me a volte te lo togli e lo metti in un bicchiere con il disinfettante del dottor Sloom. È il prodotto per la pulizia dei denti che preferisci. Perché, dici sempre, ti ricorda i giorni in cui il Bromo Seltzer era legale, non la roba da mercato nero che oggi si produce illegalmente in cantina con tutti e tre i bromuri che la Bromo Seltzer ha smesso di usare anni fa, quando…

— Come hai fatto — lo interruppe Heather — ad avere queste informazioni? — La sua espressione era dura, le frasi secche, decise. Il tono… Jason l’aveva già sentito altre volte. Heather lo usava con la gente che detestava.

— Non usare quel tono da non-me-ne-frega-niente con me — le disse rabbioso. — Il tuo dente finto è un molare. Lo chiami Andy. Giusto?

— Un aborto di fan sa tutte queste cose su di me! Dio. La conferma dei miei peggiori timori. Come si chiama il tuo club, e quanti sono gli iscritti, e tu da dove vieni, e come, Dio ti stramaledica!, come hai fatto a scoprire particolari della mia vita privata che non hai nessunissimo diritto di conoscere? Guarda che quello che stai facendo è illegale. Violazione della privacy. Se mi richiami, ti metto alle calcagna i pol. — Fece per riappendere.

— Io sono un Sei — disse Jason.

— Un cosa? Un Sei cosa? Hai sei gambe, è così? O, più probabilmente, sei teste.

— Sei una Sei anche tu. È questo che ci ha tenuto legati per tanto tempo.

— Mi farai crepare. — Heather, adesso, era terrea. Jason poteva vedere, anche nella penombra del trabi, quanto fosse cambiato il colorito del suo viso. — Quanto mi costerà convincerti a lasciarmi in pace? Ho sempre saputo che prima o poi un aborto di fan sarebbe…

— Smettila di chiamarmi “un aborto di fan” — ribatté secco Jason. Quella definizione lo faceva letteralmente infuriare. Gli pareva l’insulto più spregevole. O magari una presa per i fondelli.

— Cosa vuoi? — chiese Heather.

— Vederti da Altrocci.

— Già. Ovviamente sai anche questo. L’unico posto dove io possa andare senza che ci sia qualche demente a starmi addosso. Qualcuno che vuole la mia firma su un menu che non è nemmeno suo. — Heather sospirò disfatta. — Be’, addio anche a quello. Non ti incontrerò da Altrocci né da nessun’altra parte. Stai alla larga da me o ti farò tagliare le palle dai miei pol privati e…

— Tu hai un pol privato — l’interruppe lui. — Ha sessantadue anni e si chiama Fred. Era tiratore scelto dei Volontari della contea di Orange. Faceva fuori gli sbarbatelli della California University. All’epoca era in gamba, ma oggi non fa più paura a nessuno.

— Com’è vero — disse Heather.

— Okay. Adesso ti dirò un’altra cosa che proprio non capirai come io possa sapere: ti ricordi di Constance Ellar?

— Sì. Quella starlet insignificante, quella nullità che sembrava Barbie, a parte il fatto che aveva una testa troppo piccola e un corpo che sembrava gonfiato con una bombola di anidride carbonica. Troppo gonfiato. — Heather piegò il labbro in una smorfia di disprezzo. — Era completamente scema.

— Infatti — convenne lui. — Completamente scema. Definizione perfetta. Ricordi cosa le abbiamo fatto nel mio show? Alla sua prima apparizione a livello mondiale, perché me l’avevano imposta in coppia con qualcun altro? Ricordi cosa le abbiamo fatto, tu e io?

Silenzio.

Jason continuò: — Per farcela accettare nello show, il suo agente ha acconsentito a utilizzare la sua immagine per uno dei nostri sponsor da due soldi. Noi ci siamo incuriositi sul prodotto, così, prima che la signorina Ellar si facesse viva, abbiamo aperto il sacchetto di carta e scoperto che si trattava di una crema per la depilazione delle gambe. Dio, Heather, ti devi…

— Sto ascoltando — interloquì Heather.

— Abbiamo tolto lo spray per le gambe e l’abbiamo sostituito con uno per l’igiene intima femminile, lasciando lo stesso foglietto di istruzioni della pubblicità. Diceva: “Dare una dimostrazione dell’uso del prodotto con un’espressione di contentezza e soddisfazione”. Dopo di che abbiamo tagliato la corda e ci siamo messi ad aspettare.

— Uhm.

— Alla fine, la signorina Ellar è arrivata, è entrata nel suo camerino, ha aperto il sacchetto, e poi… Questa è la parte che mi fa ancora piegare in due dalle risate… Si è presentata da me, assolutamente seria, e mi ha detto: “Signor Taverner, scusi se la disturbo, ma per dare una dimostrazione di questo spray per l’igiene intima femminile dovrò togliermi gonna e mutandine davanti alle telecamere”. “E con ciò?” le ho risposto io. “Qual è il problema?” E la signorina Ellar ha detto: “Mi servirà un tavolino per appoggiare i miei vestiti. Non posso buttarli per terra. Non starebbe bene. Mi spruzzerò quella roba sulla vagina davanti a sessanta milioni di spettatori, e se fai una cosa del genere non puoi lasciare i vestiti sparsi sul pavimento. Non è elegante”. E l’avrebbe fatto sul serio, in diretta, se Al Bliss non…

— Una storia di cattivo gusto.

— Però a te è sembrata piuttosto divertente. Quella ragazza completamente scema, alla sua prima grande occasione, pronta a fare una cosa simile. “Dare una dimostrazione dell’uso del prodotto con un’espressione di contentezza e…”

Heather riappese.

“Come faccio a farle capire?” si chiese rabbiosamente lui. Strinse i denti, e quasi si fece saltare un’otturazione. Odiava quella sensazione: masticare un pezzo di otturazione. Divorare il proprio corpo, costretto all’impotenza. “Ma non si rende conto che il fatto che io sappia tutto di lei significa qualcosa di impossibile?” si domandò. Chi poteva sapere questi particolari? Solo qualcuno che le era stato molto vicino per parecchio tempo. Non poteva esserci altra spiegazione, eppure Heather ne aveva inventata un’altra, così complessa da impedire a lui di far filtrare il messaggio. E aveva la nuda verità davanti agli occhi. Ai suoi occhi di Sei.

Infilò un’altra moneta e richiamò.

— Ciao di nuovo — disse, quando finalmente Heather si decise ad alzare il ricevitore. — Ecco un’altra cosa che so di te: non sei capace di lasciare squillare un telefono. È per questo che hai dieci numeri privati, ognuno per uno scopo ben preciso.

— Ne ho tre — disse Heather. — Quindi tu non sai tutto.

— Volevo solo…

— Quanto? — chiese lei.

— Per oggi ne ho avuto abbastanza — rispose Jason, ed era sincero. — Non puoi comperarmi perché non è questo che voglio. Io voglio… stammi a sentire, Heather… voglio scoprire perché nessuno mi conosce. Soprattutto tu. E, siccome sei una Sei, credevo che me lo potessi spiegare. Hai qualche ricordo di me? Guardami sullo schermo. Guardami!

Lei lo scrutò, con un solo sopracciglio inarcato. — Sei giovane, ma non troppo. Sei bello. Hai una voce autorevole e non ti fai scrupolo di rompermi le scatole in questo modo. Hai esattamente l’aspetto, il tono e il comportamento di un aborto di fan. Okay, sei soddisfatto?

— Sono nei guai — rispose Jason. Era del tutto irrazionale farle una confessione simile, visto che Heather non aveva il più pallido ricordo di lui. Ma con gli anni si era abituato a esporle i propri problemi e ad ascoltare i suoi, e quell’abitudine non era certo venuta meno. La forza dell’abitudine se ne infischiava della sua percezione della realtà, andava avanti alimentata dalla propria energia.

— Che peccato — commentò Heather.

— Nessuno si ricorda di me — disse lui. — E non ho un certificato di nascita. Non sono mai nemmeno nato! Per cui, ovviamente, non ho documenti d’identità, a parte quelli falsi che ho comperato da un’informatrice dei pol per duemila dollari, più altri mille per il mio contatto. Adesso li porto con me, ma potrebbero contenere dei microtrasmettitori. Anche sapendolo, li devo avere con me. Tu sai perché. Anche tu che sei sulla vetta, anche tu sai come funziona questa società. Ieri avevo trenta milioni di spettatori che si sarebbero messi a strillare fino a farsi scoppiare la testa se solo un pol o un naz avessero osato toccarmi. Adesso la mia unica prospettiva è un CLF.

— Cos’è un CLF?

— Un campo di lavori forzati. — Jason ringhiò la risposta. Sperava di riuscire a bloccarla, e poi a inchiodarla. — La puttanella perversa che ha falsificato i miei documenti mi ha costretto a portarla in uno schifo di ristorante, dimenticato da Dio, e mentre ce ne stavamo lì a parlare si è buttata sul pavimento, urlando. Urla psicotiche. È una reduce del Morningside, per sua stessa ammissione. La cosa mi è costata altri trecento dollari, e a questo punto, chi lo sa? Probabilmente mi ha sguinzagliato dietro pol e naz. — Spinse ancora un po’ più in là l’autocommiserazione. — È probabile che in questo stesso momento stiano tenendo sotto controllo il telefono.

— Cristo, no! — strillò Heather, e riappese di nuovo. Jason non aveva più monete da cinque dollari. Sicché rinunciò. Aveva commesso una grossa stupidaggine, si rese conto: dire del telefono controllato. Chiunque avrebbe riappeso. “Mi sono strangolato con la rete delle mie stesse parole. Mi ci sono strozzato dentro, mi ci sono incastrato fino alla vita. Metà dentro, metà fuori. Come se fossi finito in un grande buco di culo artificiale.”

Spinse di lato la porta della cabina telefonica e tornò sul marciapiede affollato. “Eccomi qui a Slumville. Dove si aggirano gli informatori dei pol. Che spettacolo fantastico, come diceva quel classico spot pubblicitario che abbiamo studiato a scuola. Sarebbe divertente se succedesse a qualcun altro. Ma sta capitando a me. No, non sarebbe divertente in nessun caso. Perché a passare il tempo dietro le quinte, in attesa, ci sono vere sofferenze e vera morte. Pronte a entrare in scena da un momento all’altro.

“Mi sarebbe piaciuto filmare la telefonata, più tutto quello che ho detto a Kathy e quello che lei ha detto a me. A colori e in tre dimensioni, su videonastro: sarebbe un bel pezzo per il mio show, magari verso il finale, quando a volte restiamo a corto di materiale. A volte un cavolo. Quasi sempre. Sempre.”

Poteva quasi sentire la sua voce fuori campo che introduceva il servizio: — Cosa può succedere a un uomo, un brav’uomo senza precedenti penali, un uomo che un giorno, all’improvviso, perde tutti i suoi documenti e si trova a fronteggiare… — Eccetera. Li avrebbe incollati allo schermo, tutti e trenta i milioni di spettatori. Perché era quello che ognuno di loro temeva. — Un uomo invisibile — avrebbe proseguito, — eppure un uomo persino troppo appariscente. Invisibile nella legalità, appariscente nell’illegalità. Cosa ne sarà di un uomo come lui, se non riuscirà a rimpiazzare… — Eccetera eccetera. Al diavolo. Non tutto quello che faceva o diceva o gli capitava finiva nello show; sarebbe stato così anche quella volta. Un altro perdente fra tanti. “Molti sono i chiamati” si disse, “ma pochi gli eletti. Ecco cosa significa essere un professionista. Ecco come riesco a mandare avanti la mia vita, nel pubblico e nel privato: riduci le perdite al minimo e scappa quando è il caso di farlo.” Citava se stesso dai vecchi tempi in cui il suo primo show mondiale era stato mandato in onda dalla rete satellitare.

“Troverò un altro falsificatore” si disse, “uno che non sia un informatore dei pol, e mi procurerò un altro set di documenti senza microtrasmettitori. Dopo di che, avrò bisogno di una pistola. Avrei dovuto pensarci già quando mi sono risvegliato in quella camera d’hotel.”

Una volta, anni addietro, quando gli uomini di Reynolds avevano tentato di infiltrarsi nel suo show, aveva imparato a usare la pistola, e la portava sempre con sé: una Barber’s Hoop con una portata di tre chilometri, senza la minima deviazione dalla traiettoria fino agli ultimi trecento metri.

La “trance mistica” di Kathy, la sua crisi di urla… Nel sonoro ci sarebbe stata anche una voce maschile, matura, sovrapposta alle urla in sottofondo: — Ecco cosa significa essere psicotici. Essere psicotici è soffrire, soffrire oltre… — Eccetera. Inspirò una lunga boccata d’aria della sera, fino a riempirsi i polmoni. Rabbrividì, si unì al mare di persone sul marciapiede, con le mani infilate nelle tasche dei calzoni.

E si trovò di fronte una fila di tre metri, ferma a un punto di controllo dei pol. In fondo alla fila c’era un poliziotto in uniforme grigia. Se ne stava lì per assicurarsi che nessuno tagliasse la corda nella direzione opposta.

— Non puoi superare il controllo, amico? — chiese il pol a Jason, quando lui, involontariamente, fece per andarsene.

— Certo che posso — rispose Jason.

— Ottimo — disse il pol, di buonumore. — Perché siamo qui a controllare da stamattina e non abbiamo ancora raggiunto la nostra quota.

6

Due pol in uniforme grigia ben piantati, alle prese con l’uomo che precedeva Jason, dissero all’unisono: — Questi sono stati falsificati un’ora fa. Sono ancora umidi. Vedi? L’inchiostro cola sotto il calore. Okay. — Annuirono. L’uomo, afferrato da quattro pol dall’aria truce, scomparve nel trabifurgone parcheggiato lì nei pressi, minacciosamente grigio e nero: i colori della polizia.

— Okay — disse allegramente uno dei pol robusti rivolgendosi a Jason. — Vediamo dove sono state stampate le tue tessere.

— Le ho da anni — rispose Jason. Porse ai pol il portafogli con le sette tessere d’identità.

— Controlla le firme — disse il pol più anziano al collega. — Vedi se si sovrappongono.

Kathy aveva ragione.

— No. — Il pol più giovane mise via lo scanner. — Non si sovrappongono. Però questo documento, quello del servizio militare, doveva avere un punto tras che è stato grattato via. E da mani molto esperte. Bisogna guardarlo con l’ingranditore. — Spostò la lente e la lampada, illuminando i particolari nel crudo fulgore bianco della luce. — Visto?

— Quando lei è stato congedato — chiese a Jason il pol più anziano, — questo documento aveva un punto elettronico? Se lo ricorda? — I due poliziotti, mentre attendevano la risposta, restarono a scrutare Jason.

“Che diavolo devo dire?” si chiese lui. — Non lo so — rispose. — Non so nemmeno come sia un… — Stava per dire “microtrasmettitore a punto”, ma si corresse in fretta. Abbastanza in fretta, sperò. — Un punto elettronico.

— È un semplice punto, amico — lo informò il pol più giovane. — Non ci sta ascoltando? È sotto l’effetto di qualche droga? Qui, sulla tessera della sua situazione droghe, non risulta niente, almeno per quanto riguarda lo scorso anno.

Intervenne uno dei pol dall’aria truce. — Però questo dimostra che i documenti sono autentici. Chi farebbe falsificare un reato su una tessera d’identità? Soltanto un idiota.

— Già — disse Jason.

— Be’, non è roba di nostra competenza. — Il poliziotto più giovane restituì le tessere a Jason. — Dovrà vedersela con quelli della narcotici. Si muova. — Spinse via Jason con il manganello e si protese ad afferrare i documenti dell’uomo che si trovava dietro di lui.

— Finito? — chiese Jason ai pol dall’aria truce. Non poteva crederci. “Non darlo a vedere” si disse. “Muoviti!”

Fece qualche passo.

Dall’ombra una mano lo toccò. Lui si immobilizzò a quel contatto; si sentì trasformare in ghiaccio, a partire dal cuore. — Cosa pensi di me, adesso? — chiese Kathy. — Del mio lavoro, di quello che ho fatto per te?

— Ha funzionato — rispose lui, riprendendosi solo in parte.

— Non ti consegnerò ai pol, anche se mi hai insultata e abbandonata. Però stanotte devi restare con me come hai promesso. Capito?

Fu costretto ad ammirarla. Acquattandosi nelle vicinanze del punto di controllo, Kathy aveva ottenuto una testimonianza diretta della qualità dei suoi documenti falsi, che gli avevano permesso di farla franca con i pol. Così, di colpo, la situazione tra loro due si era rovesciata: adesso era lui a trovarsi in debito. Non era più la vittima di cui lei approfittava. Adesso Kathy aveva dei diritti su di lui. Prima il bastone: la minaccia di denunciarlo ai pol. Poi la carota: le tessere d’identità falsificate perfettamente. La ragazza lo teneva in pugno. Jason doveva ammetterlo, con lei e con se stesso.

— Sarei riuscito a farti passare in ogni caso — disse Kathy. Alzò il braccio destro e indicò una parte della manica. — Ho lì una targhetta grigia d’identificazione della polizia. Sotto le loro macrolenti si vede. Serve a non farmi arrestare per sbaglio. Avrei detto…

— Finiamola — la interruppe lui con voce rauca. — Non voglio sapere altro. — Si allontanò. La ragazza lo seguì, sfiorando appena il terreno con i piedi, come un uccello aggraziato che sta per spiccare il volo.

— Vuoi tornare al mio monolocale? — chiese Kathy.

— Quella maledette stanza deprimente. — “Io ho una casa aerea a Malibù” pensò lui, “con otto camere da letto, sei bagni rotanti e un soggiorno quadridimensionale col soffitto a infinito. E, per colpa di qualcosa che non capisco e che non posso controllare, devo trascorrere il tempo in questo modo. A visitare posti insignificanti, in rovina. Ristoranti schifosi, laboratori ancora più schifosi, monolocali schifosissimi. Sto pagando per una colpa che ho commesso? Qualcosa che non so o che non ricordo? Ma nessuno paga. L’ho imparato tanto tempo fa: non devi pagare per il male o per il bene che fai. Alla fine, non si è mai in pari.”

— Immagina un po’ cosa c’è in cima alla mia lista della spesa per domani — stava dicendo Kathy. — Mosche morte. Sai perché?

— Sono ricche di proteine.

— Sì, ma non è questo il punto. Non le compero per me. Ne prendo un sacchetto tutte le settimane per Bill, la mia tartaruga.

— Non ho visto nessuna tartaruga.

— Vive nel mio appartamento più grande. Non avrai pensato sul serio che comperi mosche morte per me, eh?

De gustibus non disputandum est — citò lui.

— Vediamo. I gusti non si discutono. Giusto?

— Esatto. E questo significa che, se vuoi mangiare mosche morte, fai pure. Mangiale.

— Bill le mangia. Gli piacciono. È una di quelle tartarughine verdi. Non una grossa tartaruga terrestre. Hai mai visto come ingoiano di scatto il cibo, come per esempio una mosca che galleggia sull’acqua? Un animaletto piccolo così, ma è terribile. Un secondo prima la mosca c’è, e un secondo dopo, glunk, è dentro la tartaruga. — Kathy rise. — Viene digerita. C’è una lezione da imparare in tutto questo.

— Quale? — Jason anticipò la risposta. — Che, quando mordi, o prendi tutto oppure niente, e mai una sola parte.

— È così.

— E tu cosa prendi? — chiese lui. — Tutto o niente?

— Non lo so. Buona domanda. Be’, non ho Jack. Ma forse non lo voglio più. È passato tanto di quel fottuto tempo. Probabilmente ho ancora bisogno di lui. Ma ho più bisogno di te.

Jason disse: — Credevo che tu fossi il tipo capace di amare due uomini nello stesso modo.

— Io ho detto una cosa simile? — Kathy rifletté mentre camminavano. — Quello che intendevo è che questo è l’ideale, ma nella vita reale si può arrivare solo a un’approssimazione… Capisci? Riesci a seguire il mio ragionamento?

— Sì e anche a vedere dove porta: a un temporaneo abbandono di Jack finché ci sarò io in circolazione, e poi a un ritorno a lui quando me ne sarò andato. Fai sempre così?

— Non lo lascio mai — rispose lei seccamente. Proseguirono in silenzio finché non raggiunsero il suo grande, vecchio condominio, con la foresta di antenne televisive in disuso che spuntavano da ogni parte del tetto. Kathy frugò nella borsetta, trovò la chiave, e quindi aprì la porta della sua stanza.

Le luci erano accese. E, seduto sul divano ammuffito di fronte a loro, c’era un uomo di mezza età, con i capelli grigi e vestito di grigio. Un uomo robusto ma impeccabile, con il viso perfettamente rasato. Il suo aspetto era curato nei minimi particolari; sulla sua testa, ogni singolo capello pareva occupare il posto giusto.

Kathy balbettò: — Signor McNulty.

L’uomo si alzò e porse la destra a Jason. Jason, automaticamente, fece per stringerla.

— No — disse l’uomo. — Non voglio stringerle la mano. Voglio vedere i suoi documenti, quelli che lei ha falsificato. Me li dia.

Senza una parola, Jason gli passò il portafogli.

— Non li ha fatti lei — disse McNulty, dopo una breve ispezione. — A meno che non stia migliorando di brutto.

Jason rispose: — Alcune di quelle tessere le ho da anni.

— Ma no — mormorò McNulty. Restituì portafogli e documenti a Jason. — Chi gli ha messo addosso il microtras? Lei? — Si girò verso Kathy. — Ed?

— Ed — rispose Kathy.

— Dunque, dunque: vediamo cosa abbiamo qui — McNulty si mise a scrutare Jason come se gli stesse prendendo le misure per la bara. — Un uomo sulla quarantina, ben vestito, abito di taglio moderno. Scarpe costose, di vera pelle… Giusto, signor Tavern?

— È pelle di vacca — disse Jason.

— I documenti la identificano come musicista. Suona uno strumento?

— Canto.

— Allora canti qualcosa per noi — disse McNulty.

— Vada all’inferno — ribatté Jason, e riuscì a controllare il ritmo del respiro. Le parole uscirono esattamente con il tono che voleva.

McNulty disse a Kathy: — Non sembra spaventato. Sa chi sono?

— Sì — rispose Kathy. — Gliel’ho detto.

— Gli ha detto di Jack? — McNulty poi si rivolse a Jason. — Non c’è nessun Jack. Lei ne è convinta, ma è un’illusione psicotica. Suo marito è morto tre anni fa in un incidente con il trabi. Non è mai stato in un campo di lavori forzati.

— Jack è ancora vivo — disse Kathy.

— Visto? — continuò McNulty rivolgendosi a Jason. — Si è adattata piuttosto bene al mondo esterno, a parte questa idea fissa che non la lascerà mai. Se la porterà dietro per il resto della vita. — Scrollò le spalle. — È un’idea innocua e serve benissimo ai nostri scopi. Quindi non abbiamo neanche provato a farla curare.

Kathy si era messa a piangere, in silenzio. Grandi lacrime le scendevano dalle guance e cadevano a goccioloni sulla camicetta. Delle macchie apparvero qua e là, erano dei grossi cerchi scuri.

— Tra un paio di giorni parlerò con Ed Pracim — disse McNulty. — Gli chiederò perché le ha messo addosso un microtras. Ha delle intuizioni felici, a volte. — Rifletté. — Tenga presente che i documenti nel suo portafogli sono riproduzioni di originali archiviati in diverse banche dati centrali su tutto il pianeta. Sono copie a posto, ma forse mi verrà voglia di controllare gli originali. Speriamo siano in ordine come le copie che lei ha con sé.

Kathy disse, con un filo di voce: — Ma è una procedura insolita. Statisticamente…

— In questo caso — rispose McNulty, — penso che valga la pena tentare.

— Perché? — chiese Kathy.

— Perché non pensiamo che lei ci consegni tutti quanti.

Mezz’ora fa, questo signor Tavern ha superato un punto mobile di controllo. L’abbiamo seguito servendoci del microtras. E i suoi documenti mi sembrano in ordine. Ma Ed dice…

— Ed beve — intervenne Kathy.

— Ma su di lui possiamo fare affidamento. — McNulty sorrise: un raggio di sole professionale nella stanza squallida. — Su di lei, invece, no. Non del tutto.

Jason prese la sua tessera del servizio militare, accarezzò la piccola foto quadridimensionale del suo profilo. E la foto disse, pronunciando le parole con voce metallica: — E adesso, vacca miseria?

— Come si può falsificare una cosa del genere? — chiese Jason. — È il tono di voce che avevo dieci anni fa, quando ho fatto il naz di leva.

— Ne dubito. — McNulty controllò l’orologio. — Le devo qualcosa, signorina Nelson? O per questa settimana siamo a posto?

— A posto — rispose Kathy, con uno sforzo. Poi, a voce bassa, insicura, quasi sussurrò: — Quando Jack sarà fuori, non potrete più contare su di me.

— Per lei — disse allegramente McNulty, — Jack non sarà mai fuori. — Strizzò l’occhio a Jason. Jason lo ricambiò. Due volte. Capiva McNulty. L’uomo si nutriva delle debolezze altrui; probabilmente Kathy aveva imparato da lui il particolare modo di fare che aveva. E dai suoi pittoreschi, allegri compagni.

Adesso si rendeva conto del modo in cui lei fosse diventata ciò che era. Il tradimento era un evento quotidiano; il rifiuto di tradire, come nel suo caso, miracoloso. Poteva solo meravigliarsene e provare un vago senso di gratitudine.

“Viviamo nel tradimento” si rese conto. “Quando ero una celebrità, ne ero immune. Adesso sono come tutti gli altri; devo affrontare le loro difficoltà. E quel che ho già passato anch’io ai vecchi tempi, quel che ho già vissuto e poi cancellato dalla memoria. Perché era troppo stressante da credere… Ho avuto la possibilità di scegliere, e ho scelto di non credere.”

McNulty appoggiò la mano carnosa, chiazzata di rosso, sulla spalla di Jason e disse: — Venga con me.

— Dove? — domandò Jason, scostandosi da McNulty esattamente come Kathy si era scostata da lui. Anche quello l’aveva imparato dai McNulty di questo mondo.

— Non può accusarlo di niente! — disse Kathy con voce roca e stringendo i pugni.

McNulty ribatté, tranquillo: — Ma non l’accuso di nulla. Voglio solo le sue impronte digitali e vocali, quelle dei piedi e il tracciato dell’elettroencefalogramma. D’accordo, signor Tavern?

Jason cominciò a dire: — Non mi piace correggere un funzionario di polizia… — Poi s’interruppe all’occhiata d’avvertimento di Kathy. — … Che sta facendo il suo dovere — concluse, — quindi verrò con lei. — Magari Kathy non aveva tutti i torti; magari poteva essere un bene che il funzionario pol sbagliasse il cognome di Jason. Chi poteva saperlo? Solo il tempo l’avrebbe detto.

— Signor Tavern — disse pigramente McNulty, spingendo Jason verso la porta della stanza. — Il suo nome suggerisce l’idea di birra e calore e posticini intimi, no? — Si girò a guardare Kathy e chiese in tono secco: — No?

— Il signor Tavern è un uomo caldo — rispose Kathy a denti stretti. La porta si chiuse alle loro spalle, e McNulty spinse con garbo Jason in corridoio, verso le scale, respirando l’odore di cipolla e sugo che giungeva da ogni dove.


Alla stazione di polizia del distretto 469, Jason Taverner si trovò sperso tra una moltitudine di uomini e donne che si muovevano senza uno scopo, che aspettavano di entrare, aspettavano di uscire, aspettavano informazioni, aspettavano di sentirsi dire cosa fare. McNulty aveva messo sul bavero di Jason una targhetta colorata; solo Dio e la polizia sapevano cosa significasse.

Era chiaro che qualcosa voleva dire. Un agente in uniforme, seduto a una scrivania che andava da parete a parete, gli fece cenno di avvicinarsi.

— Okay — disse il pol. — L’ispettore McNulty ha compilato una parte del suo modulo J-2. Jason Tavern. Indirizzo: Vine Street, 2048.

Jason si chiese dove diavolo McNulty l’avesse scoperto. Vine Street. Poi si rese conto che era l’indirizzo di Kathy. McNulty aveva dato per scontato che vivessero insieme. Oberato di lavoro come tutti i pol, aveva scritto il dato che richiedeva il minimo sforzo. Una legge di natura: un oggetto, o una creatura vivente, sceglie la via più breve tra due punti. Jason compilò il resto del modulo.

— Metta la mano in quella fessura — disse l’agente, indicando una macchina per il rilevamento delle impronte. Jason obbedì. — Adesso — continuò l’agente — si tolga una scarpa. La destra o la sinistra. E il calzino. Può sedersi qui. — Fece ruotare una sezione della scrivania. Apparve un’apertura e, dietro, una sedia.

— Grazie. — Jason sedette.

Dopo che gli ebbero preso l’impronta del piede, recitò la frase: — Ambarabà ciccì coccò, tre civette sul comò, che facevano l’amore con la figlia del dottore. — Serviva per le impronte vocali. Poi, di nuovo seduto, si lasciò piazzare degli elettrodi sulla testa. La macchina sputò un metro di foglio coperto di ghiribizzi, e quello fu tutto. L’elettroencefalogramma. I test erano finiti.

McNulty apparve alla scrivania, allegro. Nell’impietosa luce bianca che scendeva dal soffitto, la barba ricresciuta nella giornata si vedeva benissimo sul mento, sul labbro superiore, sulla parte alta del collo. — Come va col signor Tavern? — chiese.

L’agente rispose: — Siamo pronti per il controllo anagrafico.

— Perfetto — disse McNulty. — Resto qui a vedere cosa salta fuori.

L’agente in uniforme infilò in una fessura il modulo che Jason aveva compilato e premette dei pulsanti contrassegnati da varie lettere, tutti verdi. Per qualche motivo, Jason lo notò. E le lettere erano maiuscole.

Da un’apertura simile a una bocca sulla lunga scrivania emerse una fotocopia, che cadde in un cestino di metallo.

— Jason Tavern — disse l’agente, studiando il documento.

— Di Kememmer, nel Wyoming. Età: trentanove anni. Meccanico di motori diesel. — Diede un’occhiata alla fotografia.

— Foto scattata quindici anni fa.

— Precedenti penali? — chiese McNulty.

— Niente di niente — rispose l’agente.

— Non ci sono altri Jason Tavern registrati al centro dati pol? — domandò McNulty. L’agente premette un pulsante, poi scosse la testa. — Okay. È lui. — McNulty scrutò Jason.

— Lei non ha l’aria di un meccanico di motori diesel.

— Non lo sono più — disse Jason. — Adesso sono nel ramo vendite. Macchine agricole. Vuole il mio biglietto da visita? — Un bluff. Fece per estrarre qualcosa con la mano nella tasca destra interna della giacca. McNulty scosse la testa. Era fatta: con i loro soliti metodi burocratici, avevano pescato per lui il fascicolo sbagliato. E, nella fretta, l’avevano preso per buono.

Jason pensò: “Sia lodato Iddio per le debolezze interne di questo grande, complicato, involuto apparato che domina il mondo intero. Troppi uomini, troppe macchine. L’errore è iniziato con un ispettore pol e si è fatto strada fino alla centrale dati di Memphis, nel Tennessee. È probabile che non riusciranno a correggerlo nemmeno con le impronte delle mani, dei piedi, quelle vocali e l’elettroencefalogramma. Non adesso. Non dopo che il mio modulo è stato archiviato”.

— Devo metterlo dentro? — chiese a McNulty l’agente in uniforme.

— E per cosa? Perché è un meccanico di motori diesel? — McNulty diede a Jason una pacca sulla schiena. — Lei può tornare a casa, signor Tavern. Dal suo amore col faccino da bambina. Dalla sua verginella. — Con un sorriso, si mischiò alla folla di ansiosi che vagava lì intorno.

— Lei può andare, signore — disse l’agente a Jason.

Con un cenno della testa, Jason uscì dalla stazione del distretto 469. Emerse sulla strada, nella sera, per unirsi alle persone libere che vivevano in quel quartiere.

“Ma prima o poi mi prenderanno” pensò. “Confronteranno le impronte. Però… Se la fotografia è vecchia di quindici anni, magari sono passati quindici anni anche da quando gli hanno rilevato le impronte vocali e gli hanno fatto l’elettroencefalogramma.”

Ma restavano sempre le impronte digitali e quelle dei piedi. Che non potevano cambiare.

Pensò: “Magari getteranno la fotocopia del fascicolo in un tritadocumenti, e sarà finita lì. E trasmetteranno i dati che hanno ottenuto a Memphis, per incorporarli nel mio — o meglio, nel supposto mio — dossier permanente. Nel dossier di Jason Tavern, per l’esattezza”.

Grazie a Dio, Jason Tavern, meccanico di motori diesel, non aveva mai infranto la legge, non aveva mai avuto a che fare con pol o naz. Buon per lui.

Un flipflap della polizia apparve in cielo. Proiettava il fascio rosso di un riflettore, e dai suoi altoparlanti si udì un messaggio. — Signor Jason Tavern, rientri immediatamente nella stazione di polizia del distretto 469. È un ordine. Signor Jason Tavern… — Le frasi continuarono a ripetersi. Jason si sentì trafitto. Se n’erano già accorti. Non nel giro di ore, giorni o settimane, ma di minuti.

Tornò alla stazione di polizia, salì le scale di stryaplex, superò la porta a fotocellula, si immerse di nuovo nel gorgo di infelici, raggiunse l’agente in uniforme che si era occupato del suo caso. C’era anche McNulty. I due stavano confabulando tra loro con aria accigliata.

— Oh — disse McNulty, alzando la testa, — ecco qui il nostro signor Tavern. Come mai è tornato, signor Tavern?

— Il flipflap della polizia — cominciò Jason, ma McNulty lo interruppe.

— Un’iniziativa non autorizzata. Abbiamo solo diramato un avviso di ricerca, e qualche idiota l’ha fatto arrivare a livello flipflap. Ma, visto che è qui… — McNulty gli mise sotto il naso la foto che aveva in mano, in modo che Jason potesse vederla bene. — Era questo l’aspetto che aveva quindici anni fa?

— Penso di sì — rispose Jason. La foto ritraeva un uomo dal viso olivastro, con un pomo d’Adamo sporgente, denti in pessime condizioni e occhi insignificanti puntati dritti sul nulla. I capelli, ricci e color granturco, scendevano su un paio di orecchie a sventola.

— Si è fatto fare la plastica facciale — suggerì McNulty.

— Sì — rispose Jason.

— Perché?

— Chi vorrebbe avere quell’aspetto?

— Quindi non c’è da meravigliarsi che lei sia così bello oggi — disse McNulty. — Così imponente. Così… — Cercò le parole. — Così autorevole. È davvero difficile credere che abbiano potuto fare a questo… — Batté l’indice sulla foto vecchia di quindici anni. — … Qualcosa per trasformarla in questo. — Diede una pacca cordiale al braccio di Jason. — Ma dove ha preso i soldi?

Mentre McNulty parlava, Jason si era messo a leggere in tutta fretta i dati stampati sul documento. Jason Tavern era nato a Cicero, nell’Illinois. Suo padre era un tornitore; suo nonno possedeva una catena di negozi che vendevano attrezzature agricole: una fortunata coincidenza, visto ciò che aveva appena raccontato a McNulty sulla sua attuale carriera.

— Da Windslow — rispose Jason. — Mi scusi. È che io penso sempre a lui con quel nome, e dimentico che gli altri non possono farlo. — Le sue capacità professionali l’avevano aiutato. Aveva letto e imparato a memoria quasi tutta la pagina mentre McNulty gli parlava. — Mio nonno. Aveva parecchi soldi, e io ero il suo prediletto. Ero l’unico nipote maschio, capisce?

McNulty studiò il documento e annuì.

— Avevo l’aspetto dello zotico di campagna — continuò Jason. — L’aspetto di quello che non ero: un contadino. Il lavoro migliore che fossi riuscito a trovare era riparare motori diesel, ma volevo arrivare più in alto. Così ho preso i soldi che Windslow mi ha lasciato e sono andato a Chicago…

— Okay. — McNulty stava ancora annuendo. — Collima tutto. Sappiamo che operazioni di chirurgia plastica così radicali sono possibili, e il costo non è poi eccessivo. Ma di solito vengono eseguite su nonpersone o gente fuggita dai campi di lavori forzati. Teniamo sotto controllo tutte le botteghe di rappezzo, come le chiamiamo noi.

— Ma guardi com’ero brutto — disse Jason.

McNulty rise. Una risata piena, di gola. — Lo era sul serio, signor Tavern. Okay, scusi se l’ho disturbata. Vada pure. — Fece un cenno, e Jason cominciò a fendere la folla di gente che aveva davanti. — Ehi! — urlò McNulty, gesticolando. — Un’altra… — La sua frase, disturbata dal brusio generale, non arrivò per intero a Jason. Così, con il cuore raggelato, tornò indietro.

“Se si accorgono di te” pensò, “non chiudono mai completamente il fascicolo. Non puoi riavere mai più il tuo anonimato. La cosa vitale è non farsi mai notare. Ma a me è successo.”

— Cosa c’è? — chiese a McNulty. Era alla disperazione. Stavano giocando con lui, per farlo crollare. Sentiva cuore, sangue, tutte le sue parti vitali vacillare nei loro processi biologici. Anche la superba fisiologia di un Sei si arrendeva di fronte a questa tortura.

McNulty tese la mano. — I suoi documenti. Voglio sottoporli a qualche esame di laboratorio. Se sono a posto, li riavrà domani l’altro.

Jason protestò: — Ma se un punto di controllo mobile…

— Le daremo un pass di polizia — rispose McNulty. Annuì a un agente sulla sua destra, un uomo anziano con una pancia enorme. — Fagli una foto quadridimensionale e preparagli un pass universale.

— Sì, ispettore — disse quell’ammasso di trippa. E allungò una zampa iperimbottita verso l’apparecchiatura fotografica.

Dieci minuti più tardi, Jason Taverner si ritrovò sul marciapiede, ora quasi deserto, e questa volta con un vero pass della polizia. Che era certo meglio di qualsiasi falso di Kathy, a parte il fatto che era valido una sola settimana. Ma comunque…

Per una settimana poteva permettersi di non preoccuparsi. E dopo…

Era riuscito nell’impossibile: aveva barattato un portafogli pieno di documenti falsi con un vero pass della polizia. Studiandolo alla luce dei lampioni, vide che la data di scadenza era olografica, e c’era spazio per inserire un altro numero. Sette. Poteva farla modificare da Kathy in settantacinque o novantasette, o in qualunque cifra le risultasse più facile.

Poi gli venne in mente che, non appena il laboratorio dei pol avesse accertato che i suoi documenti erano falsi, il numero del suo pass, il suo nome e la sua foto sarebbero stati trasmessi a ogni punto di controllo del pianeta.

Ma, finché questo non fosse successo, era al sicuro.

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