Spegnetevi, vane luci, più non brillate!
Non v’è notte nera a sufficienza per chi,
in preda alla disperazione, piange la persa fortuna.
La luce altro non fa che svelare la vergogna.
Nel grigiore della sera sopravveniente, prima che sui marciapiedi di cemento fiorisse la vita notturna, il generale di polizia Felix Buckman atterrò con il suo lussuoso trabi sul tetto della sede dell’accademia di polizia di Los Angeles. Restò seduto a bordo per un po’, a leggere gli articoli di prima pagina dell’unico quotidiano della sera; poi, ripiegato con cura il giornale, lo mise sul sedile posteriore del trabi, aprì la portiera e scese.
Nessuna attività sotto di lui. Un turno aveva cominciato ad andarsene, l’altro non era ancora arrivato.
Gli piaceva quel momento della giornata: il grande edificio sembrava appartenere a lui solo. — E lascia il mondo alla tenebra e a me — disse, ricordando un verso dell’Elegia di Thomas Gray. Un autore che amava da molto fin dall’infanzia.
Con la chiave che gli spettava in virtù della propria carica, aprì il tubo di discesa rapida e nel giro di pochi secondi si trovò al suo piano, il tredicesimo. Dove aveva lavorato per la maggior parte della sua esistenza.
Scrivanie senza personale, file su file. Solo che, sul fondo della stanza centrale, un agente era ancora chino a scrivere un laborioso rapporto. E al distributore del caffè c’era una agente che beveva dalla sua tazza Dixie.
— Buonasera — le disse Buckman. Non la conosceva, ma non importava: lei, come chiunque altro nell’intero edificio, conosceva lui.
— Buonasera, signor Buckman. — L’agente raddrizzò le spalle e si mise quasi sull’attenti.
— Deve essere stanca — disse Buckman.
— Prego, signore?
— Vada a casa. — Buckman la lasciò, superò la fila posteriore di scrivanie, la serie di forme quadrate di metallo grigio sulle quali venivano espletati i compiti di quella sezione della polizia mondiale.
Quasi tutti i ripiani erano sgombri. Gli uomini avevano completato il loro lavoro prima di andarsene. Ma sulla scrivania 37 c’erano parecchie carte. Il signor Chissà Chi lavorava fino a tardi, pensò Buckman. Si chinò a leggere il nome sulla targhetta.
L’ispettore McNulty. Ovvio. Il ragazzo prodigio dell’accademia. Sempre preso a immaginarsi complotti e tradimenti… Buckman sorrise, si accomodò sulla poltroncina girevole e raccolse le carte.
Un documento in fotocopia uscito dagli archivi della polizia. Riesumato dall’oblio da un ispettore McNulty troppo zelante, e decisamente in sovrappeso. Una nota a matita: “Taverner non esiste”.
“Strano” pensò Buckman. E incominciò a sfogliare le carte.
— Buonasera, signor Buckman. — Il suo assistente, Herbert Maime, giovane e scaltro, in impeccabili abiti borghesi: un privilegio al quale teneva molto, come Buckman.
— Pare che McNulty stia lavorando sul dossier di qualcuno che non esiste — disse Buckman.
— In quale distretto non esiste? — chiese Maime, e risero tutti e due. Non amavano troppo McNulty, ma la polizia in uniforme grigia aveva bisogno di uomini di quel tipo. Tutto sarebbe andato bene, almeno finché i McNulty dell’accademia non fossero arrivati ai livelli di chi stabiliva le procedure. Per fortuna, questo accadeva di rado. E di certo non sarebbe successo finché lui avesse potuto impedirlo.
Il soggetto ha dato il nome falso di Jason Tavern. Recuperato file errato di Jason Tavern di Kememmer, Wyoming, meccanico di motori diesel. Il soggetto sostiene di essere Tavern dopo una chirurgia plastica. I documenti lo identificano come Taverner, Jason, ma non esiste un dossier.
“Interessante” pensò Buckman, mentre leggeva gli appunti di McNulty. Nessun fascicolo sull’individuo. Terminò di leggere.
Ben vestito. Questo fatto fa presumere che disponga di soldi, forse dell’influenza necessaria per far sparire il suo dossier dalla banca dati. Indagare sui suoi rapporti con Katharine Nelson, contatto pol della zona. Lei sa chi sia l’uomo? Ha tentato di non segnalarcelo, ma il contatto 1659bd gli ha messo addosso un microtras. Soggetto al momento su un taxi. Settore n8823b. Procede in direzione est, verso Las Vegas. 12/10, ore 22.00, tempo dell’accademia. Prossimo rapporto previsto per ore 14.40, tempo dell’accademia.
Katharine Nelson. Buckman l’aveva incontrata una volta, a un corso di orientamento per informatori della polizia. Era la ragazza che segnalava solo le persone che non le piacevano. In una maniera strana e contorta, la ammirava. Dopo tutto, se non fosse intervenuto lui, l’8 aprile del 1982 lei sarebbe stata spedita in un campo di lavori forzati in Colombia.
Disse a Herb Maime: — Chiamami McNulty al telefono. Penso che sia meglio parlare con lui della cosa.
Un istante dopo, Maime gli passò il ricevitore. Sul piccolo schermo grigio apparve il volto di McNulty. Era disfatto, come il suo soggiorno: minuscoli e in disordine tutti e due.
— Sì, signor Buckman. — McNulty puntò lo sguardo su Buckman e si concentrò, si irrigidì, per quanto stanco fosse. Nonostante la spossatezza e quello che doveva essersi iniettato, McNulty sapeva esattamente come comportarsi di fronte ai superiori.
Buckman disse: — Mi faccia un rapporto veloce e sintetico su questo Jason Taverner. Non riesco a ricostruire l’intera storia dai suoi appunti.
— Il soggetto ha preso una camera d’albergo al 453 di Eye Street. Ha avvicinato il contatto pol 1659bd, noto come Ed, e ha chiesto di essere accompagnato da un falsificatore di documenti. Ed gli ha messo addosso un microtras, poi l’ha portato dal contatto pol 1980cc, Kathy.
— Katharine Nelson — disse Buckman.
— Sì, signore. Lei deve avere fatto un lavoro insolitamente accurato. Ho fatto eseguire dei test preliminari di laboratorio e risultano quasi perfetti. Evidentemente Kathy voleva che ci sfuggisse.
— Ha contattato Katharine Nelson?
— Mi sono incontrato con tutti e due nella stanza in cui vive lei. Nessuno dei due ha collaborato. Ho esaminato i documenti del soggetto, ma…
— Sembravano veri — interruppe Buckman.
— Sì, signore.
— Lei pensa ancora di potere stabilire questa cosa a occhio nudo.
— Sì, signor Buckman. Comunque, sono serviti a fargli superare un punto di controllo mobile. Documenti eccellenti.
— Buon per lui.
McNulty riprese a raccontare. — Gli ho sequestrato i documenti e gli ho dato un pass valido sette giorni, soggetto a revoca. Poi l’ho portato alla stazione del distretto 469, nel mio ufficio, e ho fatto richiamare il suo file… Il dossier di Jason Tavern. Il soggetto è stato brillante a proposito della chirurgia plastica. Sembrava plausibile, così l’abbiamo lasciato andare. No, aspetti un momento. Gli ho rilasciato il pass solo dopo…
— In parole povere — lo interruppe Buckman, — cosa sta combinando? Chi è?
— Lo stiamo seguendo col microtras. Stiamo cercando di recuperare dei dati su di lui. Ma, come ha letto nei miei appunti, credo che sia riuscito a far sparire il suo dossier da tutte le banche dati. Non c’è, anche se dovrebbe esserci, perché noi abbiamo un file su tutti, come sa ogni bambino delle elementari. È la legge. Dobbiamo avere un file.
— Ma non lo abbiamo — disse Buckman.
— Lo so, signor Buckman. Ma quando un file non c’è, deve esserci una ragione. Non è successo per caso. Qualcuno l’ha fatto sparare.
— Sparire — corresse Buckman, divertito.
— L’ha rubato, trafugato. — McNulty era sconcertato.— Ho appena cominciato a indagare, signor Buckman. Tra ventiquattr’ore ne saprò di più. Al diavolo, possiamo arrestarlo quando vogliamo! Non credo che sia una cosa importante. È solo un tizio pieno di soldi, con le conoscenze giuste per riuscire a far sparire il suo dossier da…
— Va bene. Vada a letto. — Buckman riappese, restò lì un attimo, poi si avviò in direzione del suo ufficio. Riflettendo.
Là, addormentata sul divano, c’era sua sorella Alys. Che indossava, scoprì Felix Buckman con grande dispiacere, calzoni neri iperaderenti, una camicia da uomo in pelle, orecchini ad anello e una cintura a maglie di catena con una fibbia in ferro battuto. Aveva chiaramente fatto uso di droghe. E, com’era già successo tante altre volte, era riuscita a mettere le mani su una delle chiavi del fratello.
— Dio ti maledica! — le disse lui. Chiuse la porta dell’ufficio prima che Herb Maime potesse vedere Alys.
Lei si mosse nel sonno. Il suo viso da gatta fece una smorfia di irritazione. La mano destra annaspò nell’aria per spegnere la luce fluorescente che Buckman aveva acceso.
Lui afferrò la sorella per le spalle, scoprì quanto fossero irrigiditi i muscoli, la mise a sedere. — Cos’hai usato questa volta? — chiese. — Termalina?
— No. — Ovviamente, aveva la lingua impastata. — Idrosolfato di esofenofrenina. Non tagliato. Sottocutaneo. — Spalancò i grandi occhi chiari e lo fissò con un’aria sfrontata da ribelle.
Buckman chiese: — Perché diavolo vieni sempre qui? — Tutte le volte che Alys si concedeva i piaceri del feticismo o della droga finiva nell’ufficio di suo fratello. Lui non sapeva perché, e lei non gliel’aveva mai detto. Una volta aveva borbottato qualcosa a proposito dell’“occhio del ciclone”, come a dire che lì, negli uffici dell’accademia di polizia, si sentiva al sicuro da un arresto. Grazie, ovviamente, alla posizione di lui.
— Feticisti!—ringhiò Buckman, furibondo. — Sistemiamo cento casi come il tuo al giorno. Tu e le tue camicie di pelle e le catene e i peni artificiali! Dio! — Ansimava. Si sentiva tremare.
Con uno sbadiglio, Alys scivolò giù dal divano, si alzò e stirò le braccia lunghe e snelle. — Mi fa piacere che sia sera — disse serena, a occhi chiusi. — Adesso posso tornare a casa e mettermi a letto.
— E come pensi di uscire di qui? — chiese lui. Ma lo sapeva già. Ogni volta era la stessa storia: usavano il tubo di salita per i prigionieri politici “in isolamento”; collegava il suo ufficio, all’estrema ala nord del palazzo, con il tetto, e quindi con il campo d’atterraggio dei trabi. Alys entrava e usciva da lì, grazie alle chiavi del fratello. — Un giorno o l’altro — le disse lui, minaccioso, — uno dei miei uomini userà il tubo di discesa per motivi di servizio e ti vedrà.
— E cosa potrebbe farmi? — Alys gli accarezzò i capelli grigi, tagliati a spazzola. — Me lo dica lei, signore. Mi costringerà a pentirmi, ad ansimare sotto i suoi colpi?
— Basta dare un’occhiata alla tua faccia, a quell’espressione da stravolta…
— Sanno che sono tua sorella.
Buckman disse con un tono di voce duro: — Lo sanno perché continui a intrufolarti qui.
Dopo essersi appollaiata sull’orlo di una scrivania vicina, con le ginocchia chiuse tra le braccia, Alys lo studiò grave. — Ti dà proprio fastidio.
— Sì, mi dà proprio fastidio.
— Che io venga qui e metta a repentaglio il tuo posto di lavoro.
— Tu non puoi mettere a repentaglio il mio posto di lavoro — ribatté Buckman. — Ci sono solo cinque uomini al di sopra di me, escluso il direttore, e tutti e cinque sanno di te e non possono farci niente. — Dopo di che, uscì furibondo dall’ufficio dell’ala nord, percorse il corridoio ed entrò nella suite più grande, dove svolgeva il grosso del proprio lavoro. Cercò di non guardare la sorella.
— Però hai chiuso subito la porta — disse Alys, saltellandogli dietro. — Per impedire che quell’Herbert Blame o Mame o Maine o quel che è mi vedesse.
— Sì — disse Buckman. — Per un uomo normale, tu sei ripugnante.
— Maime è normale? Tu come fai a saperlo? Te lo sei scopato?
— Se non te ne vai di qui — disse lui, calmo, scrutandola da dietro due scrivanie, — ti faccio ammazzare. Dio mi aiuti.
Lei scrollò le spalle tornite. E sorrise.
— Non c’è niente che ti spaventi — la accusò lui. — Dopo l’operazione al cervello. Ti sei fatta togliere apposta tutti i centri nervosi di umanità. Adesso sei un… — Si sforzò di trovare le parole: Alys lo paralizzava sempre in quel modo, riusciva addirittura a mettere fuori uso le sue capacità verbali. — Sei — riprese, con voce strozzata — una macchina che agisce di riflesso, che ripete le proprie azioni all’infinito, come un topo in un esperimento. Sei collegata al centro del piacere del tuo cervello e premi l’interruttore cinquemila volte all’ora, tutti i giorni della tua vita. Quando non dormi. Per me resta un mistero capire perché ti prenda il disturbo di dormire. Perché non continui a godere ventiquattr’ore su ventiquattro?
Aspettò una risposta, ma Alys non aprì bocca.
— Un giorno o l’altro — disse lui, — uno di noi due morirà.
— Sì? — Alys inarcò un sottile sopracciglio verde.
— Uno di noi — disse Buckman — sopravviverà all’altro. E chi resterà avrà di che stare allegro.
Il telefono sulla scrivania più grande ronzò. Buckman, automaticamente, sollevò il ricevitore. Sullo schermo apparve il viso disfatto di McNulty, che doveva essere in preda a una qualche droga. — Scusi se la disturbo, signor Buckman, ma mi ha appena chiamato un uomo del mio staff. A Omaha non risulta che sia mai esistito un certificato di nascita per Jason Taverner.
Pazientemente, Buckman replicò:— Allora è un nome falso.
— Gli abbiamo preso le impronte digitali, vocali, dei piedi, e gli abbiamo fatto l’elettroencefalogramma. Abbiamo mandato tutto alla Centrale Uno, alla banca dati globale di Detroit. Nessun riscontro. Tutte quelle impronte non esistono in nessuna banca dati del pianeta. — McNulty si tirò su alla meglio e sussurrò, in tono di scusa: — Jason Taverner non esiste.
Jason Taverner non desiderava, al momento, tornare da Kathy. E decise che non voleva nemmeno ritentare con Heather Hart. Controllò nella tasca della giacca: aveva ancora i soldi, e grazie al pass della polizia si sentiva libero di andare ovunque. Un pass dei pol era un passaporto per l’intero pianeta; finché non avessero emesso un avviso di ricerca per lui, poteva spostarsi dappertutto, comprese le aree non urbanizzate come certe particolari isole del Pacifico meridionale ancora infestate dalla giungla. Era possibile che lì non riuscissero a trovarlo per mesi, con tutto quello che il denaro gli avrebbe permesso di comperare in una zona tanto primitiva. “Ho tre cose che giocano a mio favore” si disse. “I soldi, un bell’aspetto e la personalità. Anzi, quattro: anche quarantadue anni di esperienza come Sei.”
Un appartamento.
“Ma” pensò “se affitto un appartamento, l’amministratore sarà tenuto per legge a prendermi le impronte digitali, che poi saranno spedite, come procedura standard, alla centrale dati dei pol… E quando la polizia avrà scoperto che i miei documenti sono falsi, avrà contemporaneamente un contatto diretto con me. Niente da fare.
“Devo trovare qualcuno che abbia già un appartamento. Intestato a suo nome, con le sue impronte digitali.
“Il che significa un’altra ragazza.
“Dove la trovo?” si chiese, e aveva già la risposta sulla punta della lingua: in una sala cocktail d’alto bordo. Il tipo di posto dove vanno tante donne e dove c’è un gruppo di tre uomini, preferibilmente neri, ben vestiti, che suonano similjazz.
“Ma sono ancora presentabile?” si domandò, e si mise a studiare il vestito di seta alla luce bianca e rossa di una grande insegna dell’AAMCO. Non era l’abito migliore che possedesse, ma quasi… Però era spiegazzato. Be’, nella penombra di una sala cocktail non si sarebbe notato.
Fermò un taxi e si trovò a viaggiare verso i quartieri rispettabili della città, la zona alla quale era abituato; o, perlomeno, a cui era stato abituato negli ultimi anni della sua vita, della sua carriera. Quando aveva raggiunto la vetta.
“Un club” pensò “dove mi sono esibito. Un club che conosco. Dove so chi siano il direttore di sala, la guardarobiera, la fiorista… A meno che anche loro, come me, non siano in qualche modo cambiati.”
Però, a quanto sembrava, nulla era mutato, a parte lui. A parte la sua situazione.
La Blue Fox Room dell’Hayette Hotel, a Reno. Aveva cantato lì parecchie volte; conosceva il posto, e il personale, piuttosto a fondo.
Disse al taxi: — Reno.
Con una virata elegante, il taxi tracciò un ampio arco a dritta. Jason si sentì parte integrante di quel moto, e ne provò piacere. Il taxi acquistò velocità: erano entrati in un corridoio aereo praticamente inutilizzato, e il limite massimo di velocità arrivava forse a duecento chilometri orari.
— Vorrei usare il telefono — disse Jason.
La fiancata sinistra del taxi si aprì e comparve un videotelefono con il cavo attorcigliato in un ghirigoro barocco.
Conosceva a memoria il numero della Blue Fox Room. Lo compose e aspettò. Ci fu un clic. Una matura voce maschile rispose: — Blue Fox Room, dove Freddy Hydrocephalic si esibisce tutte le sere in due spettacoli, alle venti e alle ventiquattro. Solo trenta dollari d’ingresso, e ragazze per tenere compagnia. Posso esserle utile?
— È il caro vecchio Jumpy Mike? — chiese Jason. — Il caro vecchio Jumpy Mike in persona?
— Sì, certo. — La voce perse il tono formale. — Con chi sto parlando, se posso chiederlo? — Una risatina calorosa.
Jason inspirò a pieni polmoni. — Sono Jason Taverner.
— Mi spiace, signor Taverner. — Jumpy Mike sembrava perplesso. — Al momento non riesco…
— è passato molto tempo — lo interruppe Jason. — Può fissarmi un tavolo nelle prime file del locale…?
— La Blue Fox Room è completamente prenotata, signor Taverner — borbottò Jumpy Mike con quel suo vocione. — Sono davvero spiacente.
— Nessun tavolo? A nessun prezzo?
— Mi spiace, signor Taverner. Niente. — La voce si perse in direzioni remote. — Riprovi tra un paio di settimane. — Il caro vecchio Jumpy Mike riappese.
Silenzio.
“Merda” si disse Jason. — Dio! — disse ad alta voce. — Miseriaccia fottuta. — Aveva i denti serrati. Fitte di dolore gli correvano nel trigemino.
— Nuove istruzioni, signore? — chiese in tono incolore il taxi.
— Facciamo Las Vegas — grugnì Jason. “Proverò alla Nellie Melba Room del Drakes Arms” decise. Non molto tempo prima, aveva avuto un bel colpo di fortuna lì, quando Heather Hart era impegnata in una tournée in Svezia. Una quantità ragionevole di pollastre di classe piuttosto alta bazzicavano il locale. Giocavano d’azzardo, bevevano, ascoltavano i cantanti e se la spassavano. Valeva la pena di tentare, se la Blue Fox Room, e altri posti di quel calibro gli erano vietati. Dopo tutto, cos’aveva da perdere?
Mezz’ora più tardi il taxi lo depositò sul tetto del Drake’s Arms. Rabbrividendo nella gelida aria della sera, Jason raggiunse lo sfolgorante tappeto mobile. Pochi istanti dopo si trovava nel calore-colore-luci-movimento della Nellie Melba Room.
L’ora: le sette e mezzo. Il primo spettacolo sarebbe iniziato di lì a poco. Guardò il cartellone: Freddy Hydrocephalic si esibiva anche lì, ma per uno show più modesto, a prezzi più modesti. “Magari si ricorderà di me” pensò Jason. “Probabilmente no.” E poi, riflettendoci più a fondo, concluse: “È impossibile”.
Se Heather Hart non si ricordava di lui, nessuno sarebbe stato in grado di farlo.
Sedette al banco sovraffollato, sull’unico sgabello libero e, quando finalmente il barista si accorse di lui, ordinò scotch e miele shakerati. Nel bicchiere galleggiava un panetto di burro.
— Sono tre dollari — disse il barista.
— Li metta sul mio… — cominciò Jason, ma si fermò subito. Tirò fuori un biglietto da cinque.
Poi la notò.
A diversi sgabelli di distanza. Era stata la sua amante anni prima; non la vedeva da un sacco di tempo. Però aveva ancora un bel corpo, anche se era molto invecchiata. Ruth Rae. Di tutte le persone…
Una qualità di Ruth Rae: era tanto furba da non abbronzarsi mai troppo. Niente invecchia la pelle più in fretta dell’abbronzatura, e ben poche donne lo sanno. In una della sua età (ormai doveva avere trentotto anni o trentanove), l’abbronzatura avrebbe trasformato la pelle in cuoio incartapecorito.
E vestiva bene. Sapeva mettere in mostra il suo splendido fisico. Se solo il tempo avesse annullato la sua implacabile serie di appuntamenti con il viso di Ruth… Comunque, aveva ancora splendidi capelli neri, raccolti a crocchia sulla nuca. Ciglia di piumoplastica, brillanti striature violacee sulle guance, come se fosse stata graffiata dagli artigli di una tigre psichedelica.
Vestita di un sari multicolore, a piedi nudi (come al solito doveva essersi liberata delle scarpe dai tacchi alti) e senza occhiali, non sembrava affatto brutta.
“Ruth Rae. Si cuce i vestiti da sé. Occhiali a lenti bifocali che non porta mai quando c’è altra gente… escluso me. Legge ancora i volumi che le manda il Club del Libro del Mese? Quegli interminabili, noiosissimi romanzi sulle malefatte sessuali che succedono nelle piccole, bizzarre, ma apparentemente normali città del Midwest?”
Era il punto debole di Ruth Rae: la sua ossessione per il sesso. Un anno, a quanto ricordava Jason, era andata a letto con sessanta uomini, escluso lui; lui era arrivato prima, quando le statistiche non avevano ancora raggiunto quei livelli.
E gli era sempre piaciuta la sua musica. Ruth Rae amava i cantanti sexy, le ballate pop e gli sdolcinati, troppo sdolcinati, brani per archi. Una volta aveva installato nel suo appartamento di New York un enorme impianto quadrifonico e aveva praticamente vissuto all’interno dell’impianto, mangiando panini dietetici e bevendo surrogati di bibite. Ascoltando per quarantotto ore di fila, album dopo album, i Purple People Strings, che Jason odiava.
Visto che i gusti di Ruth gli facevano schifo, lo irritava sapere di essere in cima alla sua lista di preferenze. Un’anomalia che non era mai riuscito a sottoporre a una vera analisi.
Che altro ricordava di lei? Cucchiaiate di un liquido giallo, oleoso, tutte le mattine: la vitamina E. Strano a dirsi, nel suo caso sembrava che funzionasse; il suo livello di energia erotica cresceva a ogni cucchiaiata. Praticamente trasudava sesso.
E, rammentò, odiava gli animali. Il che gli fece pensare a Kathy e al gatto Domenico. Ruth e Kathy non si sarebbero mai piaciute, no di certo. Ma la cosa non aveva importanza. Non si sarebbero mai incontrate.
Scese dallo sgabello, si spostò lungo il banco con il suo drink fino a trovarsi di fronte a Ruth Rae. Non si aspettava che lei lo riconoscesse, ma, un tempo, l’aveva trovato irresistibile… Perché non doveva essere così anche adesso? Nessuno sapeva valutare un’occasione sessuale meglio di lei.
— Ciao — le disse.
Con la vista annebbiata, dato che non portava gli occhiali, Ruth Rae sollevò la testa e lo scrutò. — Ciao — rispose con la voce roca per il troppo bourbon tracannato. — Chi sei?
— Ci siamo conosciuti qualche anno fa a New York. Avevo una parte in un episodio dello Scopatore fantasma. Se ricordo bene, tu eri la costumista.
— L’episodio — gracchiò Ruth Rae — in cui lo Scopatore fantasma cade nella trappola di pirati omosessuali provenienti da un altro tempo. — Gli sorrise. — Come ti chiami? — chiese, facendo sobbalzare i seni nudi, sostenuti da un balconcino di metallo.
— Jason Taverner.
— Ricordi il mio nome?
— Oh, sì. Ruth Rae.
— Adesso è Ruth Gomen — sussurrò lei. — Siediti. — Si guardò attorno, ma non vide sgabelli liberi. — Quel tavolo là. — Scese con grande lentezza da dove sedeva e ondeggiò in direzione di un tavolo vuoto; lui la prese sottobraccio e la guidò. Dopo un attimo di difficile navigazione, riuscì a metterla a sedere e si accomodò al suo fianco.
— Sei bella proprio come… — cominciò, ma lei lo interruppe.
— Sono vecchia — gracchiò. — Trentanove anni.
— Be’? Io ne ho quarantadue.
— Vanno benissimo per un uomo. Non per una donna. — Ruth Rae, con occhi miopi, scrutò il bicchiere di Martini sollevato a metà. — Lo sai cosa fa Bob? Bob Gomen? Alleva cani. Grossi cani pelosi che fanno un fracasso del diavolo. E il pelo finisce sempre in frigorifero. — Sorseggiò malinconica il Martini; poi, all’improvviso, il suo volto si illuminò. Si girò verso Jason e disse: — Tu non dimostri quarantadue anni. Hai un aspetto perfetto! Lo sai cosa penso? Dovresti lavorare nel cinema o in televisione.
Jason rispose cauto: — In tivù ci sono stato. Per un po’.
— Già. Per esempio nello Scopatore fantasma. — Lei annuì. — Dài, ammettiamolo. Nessuno dei due ce l’ha fatta.
— Ci berrò su — disse lui, ironicamente divertito. Bevve il suo cocktail di scotch e miele. Il panetto di burro si era sciolto.
— Mi sembra proprio di ricordarti — disse Ruth Rae. — Non avevi il progetto di ritirarti in una casa sul Pacifico, a un migliaio di chilometri dall’Australia? Eri tu?
— Ero io — mentì lui.
— E guidavi un’aerauto Rolls-Royce.
— Sì. — Questo era vero.
Ruth Rae sorrise. — Lo sai cosa ci faccio qui? Ne hai la più pallida idea? Sto cercando di riuscire a incontrare Freddy Hydrocephalic. Ne sono innamorata. — Esplose in una di quelle risate di gola che lui ricordava dai vecchi tempi. — Gli mando di continuo bigliettini che dicono: “Ti amo” e lui mi risponde con biglietti scritti a macchina che dicono: “Non voglio lasciarmi coinvolgere. Ho problemi personali”. — Rise di nuovo, e finì il suo drink.
— Un altro? — chiese Jason, alzandosi.
— No. — Ruth Rae scosse la testa. — Non bevo più. C’è stato un periodo… — Fece una pausa. Aveva un’espressione turbata. — Mi chiedo se a te sia mai successo qualcosa del genere. Guardandoti, direi di no.
— Successo cosa?
Ruth Rae si mise a giocherellare con il bicchiere vuoto.—Bevevo sempre. A partire dalle nove di mattina. E lo sai che effetto mi faceva? Mi faceva sembrare più vecchia. Dimostravo cinquant’anni. Maledetto alcol. Se hai paura che ti succeda qualcosa, l’alcol la farà accadere. Secondo me, l’alcol è il più grande nemico della vita. Sei d’accordo?
— Non ne sono certo — rispose Jason. — Io credo che la vita abbia nemici peggiori dell’alcol.
— Probabile. Come i campi di lavori forzati. Lo sai che l’anno scorso hanno cercato di mandarmici? Ho passato un periodo davvero tenibile. Non avevo soldi, non avevo ancora conosciuto Bob Gomen e lavoravo in una finanziaria. Un giorno arrivò un deposito in contanti. Tre o quattro biglietti da cinquanta dollari. — Ruth Rae fece una pausa. — Be’, ho preso i soldi e ho buttato busta e ricevuta del versamento nel tritadocumenti. Ma mi hanno scoperta. Era un trucco, una trappola.
— Oh…
— Però avevo una relazione col mio boss. I pol volevano sbattermi in un campo di lavori forzati in Georgia, dove sarei stata violentata e picchiata a morte da quei buzzurri, ma lui mi ha protetta. Non so ancora come abbia fatto, però mi hanno lasciata libera. Devo moltissimo a quell’uomo, e non l’ho mai più rivisto. Non rivedi mai la gente che ti ama e ti aiuta sul serio. Finisci sempre per trovarti coinvolto con estranei.
— Mi consideri un estraneo? — chiese Jason. Pensò: “Io ricordo un’altra cosa di te, Ruth Rae”. Lei aveva sempre un appartamento terribilmente costoso. Con chiunque fosse sposata, viveva sempre alla grande.
Ruth Rae lo scrutò con aria interrogativa. — No. Ti considero un amico.
— Grazie. — Jason le prese la mano dalla pelle secca, la tenne stretta per un secondo. Poi la lasciò andare proprio al momento giusto.
Il lusso dell’appartamento di Ruth Rae lasciò Jason Taverner a bocca aperta. Doveva costarle, calcolò, come minimo quattrocento dollari al giorno. Si disse che Bob Gomen doveva essere messo bene in quanto a soldi. O comunque doveva esserlo stato in passato.
— Non era necessario che prendessi quella bottiglia di Vat 69 — disse Ruth Rae. Afferrò la giacca di Jason, la sistemò assieme alla propria in un armadio ad apertura automatica. — Ho qui del Cutty Sark e del bourbon Hiram Walkers…
Lei aveva imparato molte cose dall’ultima volta che erano stati a letto assieme, era vero. Esausto, sdraiato nudo sulle lenzuola del letto ad acqua, Jason si massaggiava un punto contuso sul naso. Ruth Rae, o meglio la signora Ruth Gomen, sedeva sulla moquette e fumava una Pall Mall. Nessuno dei due parlava da un po’. Nella stanza era calato il silenzio. “La camera si è svuotata come sono svuotato io” pensò lui. “Non c’è una legge della termodinamica che dice che il calore non si può distruggere, ma solo trasmettere? Però c’è anche l’entropia.
“In questo momento sento il peso dell’entropia su di me. Mi sono scaricato nel vuoto, e non riavrò mai quello che ho dato. È un processo a senso unico. Sì. Sono certo che questa sia una delle leggi fondamentali della termodinamica.”
— Hai una macchina enciclopedica? — chiese alla donna.
— Diavolo, no. — Sul viso da prugna secca di lei apparve la preoccupazione. Da prugna secca… Jason si corresse mentalmente. Non era giusto. Il suo viso avvizzito, decise. Si avvicinava di più alla realtà.
— Cosa stai pensando? — le chiese.
— Dimmi cosa stai tu pensando — ribatté Ruth. — Cosa passa in quel tuo grande cervello supersegreto tipo coscienza alfa?
— Ti ricordi una ragazza che si chiamava Monica Buff? — chiese Jason.
— Se la ricordo?! Monica Buff è stata mia cognata per sei anni. In tutto quel tempo non si è lavata i capelli una sola volta. Un cespuglio disordinato di pelo canino castano scuro che le scendeva sulla faccia pallida e sul collo lurido.
— Non avevo capito che non ti piacesse.
— Jason, rubava. Se lasciavi la borsetta in giro, ti fregava tutto fino all’ultimo centesimo. Non solo le banconote, anche le monetine. Aveva il cervello di una gazza e la voce di un corvo, anche se per fortuna non parlava spesso. Lo sai che era capace di andare avanti per sei o sette giorni di fila, una volta persino otto, senza dire una sola parola? Se ne stava raggomitolata in un angolo come un ragno ferito a strimpellare su quella chitarra da cinque dollari che aveva. E non era mai riuscita a imparare un solo accordo. Okay, era carina, in quel suo modo disordinato e sporco. Te lo concedo. Se ti piacciono gli articoli dozzinali.
— Come tirava avanti? — chiese Jason. Aveva conosciuto Monica Buff solo superficialmente, attraverso Ruth. Ma in quel periodo aveva avuto con lei una veloce, incredibile relazione.
— Rubava nei negozi. Aveva quella grossa borsa di vimini che aveva trovato a Baja California. La riempiva di roba e poi usciva dal negozio con la borsa gonfia, enorme.
— Com’è che non l’hanno mai beccata?
— Sì che la beccavano. Le davano una multa e arrivava suo fratello con i soldi, così lei tornava in circolazione. Ricominciava a camminare a piedi nudi, dico sul serio!, per la Shewsbury Avenue di Boston e a fregare tutte le pesche nei reparti di frutta e verdura dei supermercati. Dedicava dieci ore al giorno a quello che chiamava “shopping”. — Ruth lo scrutò con occhi di fuoco. — Lo sai cosa ha continuato a fare senza essere mai scoperta? — Abbassò la voce. — Dava da mangiare agli studenti in fuga.
— E per questo fatto non l’hanno mai arrestata? — Sfamare o ospitare uno studente fuggito dal campus significava due anni in un clf, la prima volta. La seconda, la condanna era di cinque anni.
— No, mai. Se pensava che i pol stessero per eseguire un controllo a sorpresa, telefonava a una centrale e raccontava che un uomo stava cercando di introdursi in casa sua. Poi faceva uscire lo studente e lo chiudeva fuori. I pol arrivavano e trovavano qualcuno che stava prendendo a pugni la porta, proprio come aveva detto lei. Così quelli portavano via lo studente e lasciavano libera lei. — Ruth ridacchiò. — Una volta l’ho sentita fare una di queste telefonate ai pol. Da come l’aveva messa lei, l’uomo…
Jason disse: — Monica è stata la mia donna per tre settimane. Cinque anni fa, all’incirca.
— L’hai mai vista lavarsi i capelli?
— No — ammise lui.
— E non portava le mutandine — aggiunse Ruth. — Perché mai a un bell’uomo come te dovrebbe interessare una relazione con un mostriciattolo sporco, scalcinato e rognoso come Monica Buff? Non potevi portarla da nessuna parte. Puzzava. Non si lavava mai.
— Ebefrenia — disse Jason.
— Sì. — Ruth annuì. — La diagnosi era questa. Non so se lo sai, ma è scomparsa. È uscita per uno dei suoi shopping e non è più ritornata. Non l’abbiamo più rivista. Probabilmente a quest’ora sarà morta. E stringerà ancora tra le braccia quella borsa di vimini trovata a Baja. È stato il grande momento della sua vita, quel viaggio in Messico. Per l’occasione si è fatta il bagno, e io le ho sistemato i capelli, dopo averli lavati cinque o sei volte. Cosa ci hai trovato? Come potevi sopportarla?
— Mi piaceva il suo senso dell’umorismo — rispose Jason. “Non è giusto” pensò “paragonare Ruth Rae a una ragazza di diciannove anni. Nemmeno a Monica Buff. Però il confronto era continuamente presente nella sua mente. E gli rendeva impossibile sentirsi attratto da Ruth Rae. Per quanto a letto fosse brava, e ora anche molto esperta.
“La sto usando” pensò. “Come Kathy ha usato me. Come McNulty ha usato Kathy.
“McNulty: ma non è che io ho addosso un microtrasmettitore?”
Jason Taverner afferrò di corsa i vestiti e li portò in bagno. Seduto sull’orlo della vasca, cominciò a ispezionarli minuziosamente.
Gli ci volle mezz’ora. Ma alla fine riuscì a individuarlo. Per quanto minuscolo fosse. Lo gettò nel water e tirò l’acqua. Scosso, tornò in camera da letto. “Così sanno dove mi trovo” si rese conto. “Non posso restare qui.
“E ho messo a rischio la vita di Ruth per niente.”
— Aspetta — disse.
— Sì? — Ruth se ne stava appoggiata, stanca, alla parete del bagno, con le braccia conserte sotto il seno.
— I microtrasmettitori — disse adagio Jason — danno solo delle indicazioni approssimative. A meno che non ci sia un apparecchio sintonizzato sul loro segnale a rintracciare la posizione esatta. Prima di allora…
Non poteva esserne sicuro. Dopo tutto, McNulty lo aveva aspettato nell’appartamento di Kathy. Ma si era recato lì grazie al segnale del microtrasmettitore o perché sapeva che Kathy ci viveva? Stordito da troppa ansietà, sesso e scotch, non riusciva a ricordare. Seduto sull’orlo della vasca, massaggiandosi la fronte, si sforzò di pensare, di ricordare esattamente cosa avesse detto McNulty quando lui e Kathy, rientrati nella stanza, l’avevano trovato ad aspettarli.
“Ed” pensò. “Hanno detto che è stato Ed a mettermi addosso il microtras che mi ha fatto individuare. Però…”
Però poteva sempre darsi che avesse indicato loro solo l’area in generale. E che i pol avessero dedotto, correttamente, che doveva trattarsi dell’appartamento di Kathy.
Con la voce rotta, disse a Ruth Rae: — Porca miseria, spero di non averti messo i pol alle calcagna. Sarebbe troppo. — Scosse la testa, nel tentativo di schiarirsi le idee. — Hai del caffè bollente?
— Vado a schiacciare qualche pulsante in cucina. — Ruth Rae, a piedi nudi, vestita solo di un braccialetto di legno, si trasferì dal bagno in cucina. Un attimo dopo tornò con una grossa tazza di plastica. Sopra c’era stampata la scritta dacci dentro. Lui la prese e bevve il caffè fumante.
— Non posso restare qui — disse. — E, comunque, tu sei troppo vecchia.
Lei lo fissò con un’espressione grottesca, da bambola fracassata, calpestata. Poi scappò in cucina. “Perché l’ho detto?” si chiese Jason. “La tensione, le mie paure.” La seguì.
Ruth apparve sulla soglia. Aveva in mano un piatto di ceramica con la scritta souvenir della knotts berry farm. Si scagliò addosso a Jason e gli scaraventò il piatto sulla testa. La sua bocca si contorceva come una creaturina appena nata, viva da pochi istanti. All’ultimo momento, Jason riuscì a sollevare il gomito sinistro. Venne colpito lì. Il piatto si frantumò in tre pezzi dai contorni frastagliati, e dal suo gomito schizzò del sangue. Lui guardò il sangue, i frammenti del piatto sulla moquette, poi Ruth.
— Mi spiace — mormorò lei in un debole sussurro. Le parole parevano mute. I serpenti nati da poco si contorcevano di continuo, chiedendo scusa.
Jason disse: — Spiace a me.
— Ti metto un cerotto. — Lei fece per andare in bagno.
— No — la fermò lui. — Me ne vado. Il taglio è pulito. Non si infetterà.
— Perché me l’hai detto? — chiese Ruth, rauca.
— È stata la mia paura di invecchiare. Mi sta prosciugando. Non mi rimane quasi più energia. Nemmeno per un orgasmo.
— Però te la sei cavata molto bene, prima.
— Ma è stato l’ultimo. — Jason tornò in bagno. Lavò via il sangue dal braccio, continuò a lasciare scendere acqua fredda sul taglio finché non cominciò la coagulazione. Cinque minuti, cinquanta; non avrebbe saputo dirlo. Restò lì, con il gomito sotto il rubinetto. Ruth Rae era scomparsa. Dio sapeva dove. Probabilmente a spifferare tutto ai pol, si disse Jason, stancamente. Era troppo esausto per preoccuparsene.
“Al diavolo!” pensò. “Dopo quello che le ho detto, non potrei biasimarla.”
— No — disse il generale di polizia Felix Buckman, scuotendo la testa. — Jason Taverner esiste. In qualche modo è riuscito a far sparire i dati da tutte le banche in cui sono depositate le matrici. — Rifletté. — È sicuro di potergli mettere le mani addosso, se fosse necessario?
— Purtroppo ci sono delle brutte notizie, signor Buckman — rispose McNulty. — Ha trovato il microtras e l’ha tolto di mezzo. Quindi non sappiamo se sia ancora a Las Vegas. Se ha un po’ di buonsenso, avrà tagliato la corda. E quasi certamente è così.
— Sarà meglio che lei venga qui. Se Taverner è in grado di sottrarre dei dati dalle nostre banche, materiale che viene direttamente dalle fonti di base, deve presumibilmente essere coinvolto in attività di importanza enorme. Fino a che punto erano precisi i rilevamenti sulla sua posizione?
— Si trova, o si trovava, in uno degli ottantacinque appartamenti di un’ala di un complesso residenziale di seicento unità. Tutti interni lussuosi nel distretto di West Fireflash. Il complesso si chiama Copperfield II.
— Sarà meglio chiedere a Las Vegas di controllare tutti e ottantacinque gli appartamenti finché non lo trovano. E, quando l’avranno in pugno, lo faccia spedire direttamente a me per via aerea. Ma la voglio in ufficio. Si prenda un paio di stimolanti, lasci perdere il suo sonnellino drogato e venga qui.
— Sì, signor Buckman. — Nella voce di McNulty si avvertiva il disappunto. Fece una smorfia.
— Lei non crede che lo troveremo a Las Vegas, vero? — domandò Buckman.
— No, signore.
— Ma forse ci riusciremo. Adesso che ha eliminato il microtras, potrebbe pensare di essere al sicuro.
— Mi permetto di dissentire. Trovandolo, avrà capito che l’abbiamo tenuto sotto controllo da qui a West Fireflash. Per cui se la darà a gambe. In tutta fretta.
— Lo farebbe se il comportamento degli esseri umani fosse razionale. Ma non lo è. O lei non se n’è accorto, McNulty? Quasi tutti agiscono in maniera illogica. — “Il che” pensò Buckman “torna parecchio utile a noi. La gente è prevedibile.”
— Mi sono accorto che…
— Si presenti in ufficio tra mezz’ora. — Buckman chiuse la comunicazione. La pedante affettazione di McNulty e la letargia nebulosa prodotta dalla roba che si iniettava al calare del buio lo irritavano sempre.
Alys aveva osservato tutto. — Un uomo che è diventato inesistente. È mai successo prima?
— No — rispose Buckman. — E non è successo nemmeno questa volta. Da qualche parte, in chissà quale oscuro posto, avrà trascurato un microdocumento di importanza secondaria. Continueremo a cercare finché non lo troveremo. Prima o poi, rintracceremo l’impronta vocale o il tracciato cerebrale giusti, e allora sapremo chi è.
— Forse è proprio chi dice di essere. — Alys aveva studiato i grotteschi appunti di McNulty. — Il soggetto è iscritto al Sindacato musicisti. Dice di essere un cantante. Forse un’impronta vocale sarebbe la…
— Vattene dal mio ufficio — le disse Buckman.
— Sto solo facendo delle ipotesi. Forse ha inciso quel nuovo successo pornoaudio, Sdraiati Mosè, che…
— Ti dico io cosa devi fare: vai a casa e guarda nello studio. In una busta di pergamena trasparente, nel cassetto centrale della mia scrivania d’acero. Troverai una copia in condizioni perfette, con un annullo leggerissimo, dell’unico esemplare di Dollaro Nero emesso dal Trans-Mississippi. L’ho comperato per la mia collezione, ma puoi tenerlo tu per la tua. Io mi procurerò un’altra rarità. Vai, prendi quel maledetto francobollo, mettilo nel tuo album e chiudilo nella tua cassaforte per l’eternità. Non dovrai più nemmeno guardarlo. Ti basterà averlo. E lasciami lavorare in pace. Affare fatto?
— Gesù. — Gli occhi di Alys si illuminarono. — Dove l’hai trovato?
— L’ho avuto da un prigioniero politico in viaggio per un campo di lavori forzati. L’ha barattato con la libertà. Mi è sembrato uno scambio equo. Non pare anche a te?
Alys disse: — Il più bel francobollo che sia mai stato emesso. In tutti i tempi.
— Lo vuoi?
— Sì. — Alys uscì dall’ufficio e infilò il corridoio. — Ci vediamo domani. Ma non sei tenuto a farmi un regalo simile per convincermi ad andarmene. Voglio tornare a casa e fare una doccia; cambiarmi d’abito e mettermi a letto per qualche ora. D’altra parte, se vuoi…
— Voglio — disse Buckman. E aggiunse tra sé: “Perché ho questa fottuta paura di te? Perché sono così spaventato da tutto ciò che ti riguarda, persino dalla tua voglia di andartene? Persino di quella ho paura!
“Perché?” si chiese, guardandola mentre si dirigeva verso il tubo di salita riservato ai prigionieri, al lato opposto dell’ufficio suite. “La conoscevo da bambina e ne avevo paura anche allora. Perché, in qualche modo che non sono in grado di comprendere, lei non agisce in base alle regole. Abbiamo tutti delle regole; differiscono tra loro, ma tutti ne seguiamo alcune. Per esempio, non uccidiamo un uomo che ci ha appena fatto un favore. Nemmeno in questo Stato di polizia. Persino noi osserviamo questa regola. E non distruggiamo deliberatamente degli oggetti che per noi sono preziosi. Ma Alys è capace di tornare a casa, trovare il Dollaro Nero e dargli fuoco con la sigaretta. Lo so, eppure gliel’ho regalato. Prego ancora che col tempo torni tra noi e ricominci a giocare a biglie come facciamo tutti.
“Ma non lo farà mai.
“E se le ho offerto il Dollaro Nero è solo perché speravo di allettarla, di cercare di farla ritornare a regole che noi possiamo capire. La sto corrompendo, ed è uno spreco di tempo, se non molto di più: lo so io e lo sa lei. Sì. Probabilmente darà fuoco al Dollaro Nero, il francobollo più bello mai emesso, una rarità filatelica che in vita mia non avevo mai trovato in vendita. Nemmeno alle aste. E stasera, quando tornerò a casa, mi farà vedere la cenere. Forse ne lascerà un angolo intatto, per dimostrarmi di averlo fatto veramente.
“E io le crederò. E avrò ancora più paura.”
Depresso, Buckman aprì il terzo cassetto della grande scrivania e inserì un nastro nel piccolo registratore che teneva lì. Le arie di Dowland per quattro voci… Restò ad ascoltare quella che gli piaceva più di tutte, fra le canzoni per liuto di Dowland.
… poiché ora, abbandonato e derelitto,
io seggo, sospiro, piango, svengo, muoio
in mortale dolore e immensa tristezza.
“Il primo” rifletté Buckman “a scrivere un brano di musica ‘astratta’.” Tolse il nastro, inserì la prima cassetta dei brani per liuto, e rimase ad ascoltare la Lachrimae Antiquae Pavana. “Da questo” si disse “sono nati, col tempo, gli ultimi quartetti di Beethoven. E tutto il resto. Tranne Wagner.”
Detestava Wagner. Wagner e quelli come lui, per esempio Berlioz, avevano fatto tornare la musica indietro di tre secoli. Finché Karlheinz Stockhausen, con Gesang der Jünglinge, non l’aveva di nuovo aggiornata.
In piedi davanti alla scrivania, esaminò per un attimo la recente foto quadridimensionale di Jason Taverner, quella scattata da Katharine Nelson. “Che bell’uomo” pensò. “Di una bellezza quasi artefatta. Be’, è un cantante. Logico. Lavora nello show-business.”
Sfiorò la foto, la ascoltò che diceva: — E adesso, vacca miseria? — E sorrise. Poi, riprendendo ad ascoltare la Lachrimae Antiquae Pavana, pensò:
Scorrete, mie lacrime…
“Ho davvero il karma del poliziotto?” si chiese. “Con tutto il mio amore per la poesia e per la musica? Sì. Io sono un pol superbo perché non penso da pol. Non penso, per esempio, come un McNulty, che sarà sempre… com’è che si usava dire? un porco per tutta la vita. Io penso non come le persone che cerchiamo di arrestare, ma come le persone importanti che cerchiamo di arrestare. Come quest’uomo, questo Jason Taverner. Ho il sospetto, un’intuizione irrazionale ma fantastica, che si trovi ancora a Las Vegas. Lo intrappoleremo lì, e non dove pensa McNulty. Non altrove, come sarebbe più razionale, più logico.
“Io sono come Byron, che ha lottato per la libertà, che ha dato la vita per la Grecia. Solo che io non lotto per la libertà, ma per una società più giusta.
“È proprio vero? È per questo che faccio questo mestiere? Per avere ordine e armonia nel mondo? Regole. Sì. Le regole sono troppo importanti per me, ed è per questo che mi sento minacciato da Alys; è per questo che riesco ad affrontare tanti altri ostacoli, ma non lei.
“Grazie a Dio, non tutti sono come lei. Grazie a Dio, lei è un esemplare unico.”
Premette un pulsante del citofono interno. — Herb, vuoi venire qui, per favore?
Herbert Maime entrò in ufficio. Aveva tra le mani un fascio di stampate del computer. Pareva preoccupato.
— Vuoi fare una scommessa, Herb? — gli chiese Buckman. — Scommettiamo che Jason Taverner è ancora a Las Vegas?
— Perché si prende tanto a cuore una faccenducola così insignificante? — chiese Herb. — È roba al livello di McNulty, non al suo.
Buckman sedette alla scrivania e cominciò a giocare oziosamente con i colori evocati dai tasti del videotelefono; ricreò le bandiere di diverse nazioni scomparse. — Guarda cos’ha fatto quest’uomo. In qualche modo è riuscito a far sparire tutti i dati sul suo conto da ogni banca dati del pianeta e delle colonie lunari e marziane… McNulty ha provato anche là. Pensa per un attimo a cosa occorre per riuscire a tanto. Soldi? Somme enormi. Bustarelle astronomiche. Se Taverner ha speso cifre del genere, ha in ballo qualcosa di grosso. Potere personale? Stesse conclusioni. Ha un potere enorme e dobbiamo considerarlo una figura di primo piano. È quello che rappresenta a preoccuparmi di più. Penso che, da qualche parte sul pianeta, ci sia un gruppo che lo sostiene, ma non ho idea del perché, né dei loro obiettivi. D’accordo, azzerano tutti i dati che lo riguardano. Jason Taverner è l’uomo che non esiste. Ma, una volta fatto questo, cos’hanno concluso?
Herb rifletté.
— Non riesco a capire — continuò Buckman. — Non ha senso. Ma, se fanno una cosa del genere, deve significare qualcosa. Se no, non spenderebbero così tanto… — Ebbe uno scatto nervoso delle mani. — Qualunque sia stato il loro investimento. Soldi, tempo, potere: quel che è. Forse tutte e tre le cose.
— Certo. — Herb annuì.
— A volte — disse Buckman, — prendere all’amo un pesce piccolo significa pescarne poi di più grossi. È questo un incerto del nostro mestiere. Il prossimo pesce piccolo che prenderai sarà il trait d’union con qualcosa di gigantesco o… — Scrollò le spalle. — O soltanto con un altro pesciolino insignificante da gettare nella padella dei campi di lavoro? E forse Jason Taverner è proprio questo. Potrei sbagliarmi completamente. Però sono interessato a questo caso.
— Il che — concluse Herb — è una vera rogna per Taverner.
— Sì. — Buckman annuì. — Ora rifletti su questo. — Fece un attimo di pausa per una scorreggia silenziosa, poi continuò: — Taverner si è presentato da una falsificatrice di documenti, una normalissima falsificatrice che lavora in un ristorante abbandonato. Non aveva alcun contatto. Dio santo, si è servito del portiere dell’hotel dove alloggiava. Quindi doveva avere un bisogno disperato di documenti d’identità. D’accordo, e allora dove stavano i suoi potenti sostenitori? Perché non sono stati in grado di fornirgli delle eccellenti tessere false se sono riusciti a fare tutto il resto? Buon Dio, l’hanno gettato sulla strada, nella fogna della giungla urbana, dritto nelle braccia di un informatore della polizia. Hanno messo a rischio tutto!
— Sì. — Herb annuì di nuovo. — Qualcosa è andato per il verso sbagliato.
— Esatto. é successo qualcosa. Lui si è ritrovato all’improvviso in città senza un solo documento. Tutti quelli che aveva sono stati falsificati da Kathy Nelson. Come mai? Come hanno fatto a mandare tutto a puttane e costringere Taverner a una disperata ricerca di documenti falsi per poter percorrere tre o quattro isolati senza problemi? Capisci il mio ragionamento?
— Ma è così che li prendiamo.
— Prego? — chiese Buckman. E abbassò il volume del registratore.
— Se non commettessero errori del genere, non avremmo una sola possibilità. Per noi resterebbero un’entità metafisica, nemmeno mai intravista. Sono errori simili che ci fanno andare avanti. A me non pare importante perché commettono un errore; l’unica cosa che conti è che lo commettano. E dovremmo esserne felici.
“Io lo sono” pensò Buckman. Si protese sulla scrivania e compose il numero interno di McNulty. Non ci fu risposta. McNulty non era ancora rientrato. Buckman consultò l’orologio. Ancora un quarto d’ora e avrebbe saputo qualcosa.
Chiamò la centrale operativa Blu. — Come vanno le cose con l’operazione nel distretto Fireflash di Las Vegas? — chiese alle ragazze che, sedute su alti sgabelli, spostavano segnalini di plastica sulla mappa con lunghe stecche da biliardo. — La retata per l’uomo che si fa chiamare Jason Taverner.
Un ronzio, un ticchettio di computer, mentre l’operatrice premeva dei pulsanti. — La collego col capitano incaricato dell’operazione. — Sul video di Buckman apparve un uomo in uniforme. Aveva un’aria placidamente idiota. — Sì, signor Buckman?
— Avete preso Taverner?
— Non ancora, signore. Abbiamo già controllato una trentina circa degli appartamenti di…
— Quando lo prenderete — disse Buckman, — chiami direttamente me. — Diede al pol dall’aria un po’ idiota il numero del suo interno. Si sentiva vagamente sconfitto.
— Ci vuole tempo — disse Herb.
— Come per la buona birra — mormorò Buckman, fissando il nulla, con il cervello in funzione. Ma stava lavorando senza ottenere risultati.
— Lei e le sue intuizioni junghiane — disse Herb. — Ecco cos’è lei nella tipologia junghiana: una personalità intuitiva, con lampi di genio che sono il suo modo principale di procedere e pensare…
— Balle. — Buckman accartocciò uno dei fogli degli appunti di McNulty e lo gettò nel tritadocumenti.
— Non ha letto Jung?
— Sicuro. Quando ho fatto il master a Berkeley. Tutti dovevano leggere Jung, al corso di scienze politiche. Ho imparato tutto quel che hai imparato tu, e molto di più. — Buckman udì il tono d’irritazione nella propria voce, e non gli piacque. — Probabilmente staranno conducendo l’operazione come se fossero degli spazzini, tra fragori e strepiti… Taverner li sentirà molto prima che arrivino all’appartamento nel quale si trova.
— Pensa di prendere in trappola anche qualcun altro, oltre a Taverner? Qualcuno più in alto nella…
— Non può essere in compagnia di gente importante. Non con i suoi documenti sotto chiave in una stazione di polizia. Non con noi che gli stiamo alle calcagna, come sa benissimo. Non mi aspetto niente. A parte Taverner.
Herb disse: — Scommetterò con lei.
— Okay.
— Cinque pezzi d’oro da cinque dollari che, quando lo prenderà, si ritroverà con un pugno di mosche in mano.
Buckman, stupefatto, si rizzò sulla schiena. Pareva il suo stesso tipo di intuizione: nessun fatto concreto, nessun dato su cui basarsi. Solo l’intuito.
— Vuole scommettere? — chiese Herb.
— Ti dirò cosa farò. — Buckman tirò fuori il portafogli e contò il denaro. — Scommetto mille dollari in banconote che, quando prenderemo Taverner, entreremo in uno dei giri più importanti con cui abbiamo mai avuto a che fare.
Herb disse: — Non scommetto cifre simili.
— Pensi che io abbia ragione?
Il telefono ronzò. Buckman alzò il ricevitore. Sullo schermo apparve il viso del capitano idiota di Las Vegas. — Il nostro termoradex indica un maschio dell’altezza, del peso e della struttura fisica di Taverner in uno degli appartamenti nei quali non siamo ancora entrati. Ci stiamo muovendo con molta cautela. Stiamo facendo sgomberare tutti dagli interni vicini.
— Non uccidetelo — disse Buckman.
— Certo che no, signor Buckman.
— Rimanga in linea con me. Voglio assistere a tutto, da questo momento stesso.
— Sì, signore.
Buckman disse a Herb Maime: — L’hanno già preso. — E sorrise, deliziato.
Quando Jason Taverner andò a riprendere i vestiti, trovò Ruth Rae seduta, nella penombra della camera da letto, sul letto disfatto, ancora caldo. Si era rivestita e fumava una delle sue solite sigarette di tabacco. La luce grigia della notte filtrava dalle finestre. La brace della sigaretta ardeva incandescente.
— Quella roba lì ti ucciderà — disse lui. — C’è un motivo se hanno deciso di razionarle a un pacchetto settimanale a testa.
— Vaffanculo — rispose Ruth Rae, e continuò a fumare.
— Però tu te le procuri al mercato nero — disse Jason. Una volta era andato con lei a comperarne un’intera stecca. Nonostante quello che guadagnava, il prezzo gli aveva fatto impressione. Ma lei non ci aveva nemmeno fatto caso. Era chiaro che se l’aspettava: conosceva il costo del vizio.
— Le trovo. — Lei spense la sigaretta appena iniziata in un posacenere di ceramica a forma di polmone.
— La stai sprecando.
— Amavi Monica Buff? — chiese Ruth.
— Ma certo.
— Non vedo come tu abbia potuto. Jason disse: — Ci sono diversi tipi d’amore.
— Come per il coniglio di Emily Fusselman. — Ruth alzò lo sguardo su Jason. — Una donna che conoscevo, sposata, con tre figli. Aveva due gattini, poi si è comperata uno di quei grossi conigli belgi, quei conigli grigi che saltellano come matti sulle zampe posteriori. Il primo mese, il coniglio aveva paura di uscire dalla gabbia. Era un maschio, almeno da quello che siamo riusciti a capire. Dopo un mese usciva dalla gabbia e zampettava in giro per il soggiorno. Dopo due mesi aveva imparato a salire le scale e a grattare alla porta della camera da letto di Emily per svegliarla. Ha cominciato a giocare con i gatti, e lì sono iniziati i guai, perché non era furbo come un gatto.
— I conigli hanno cervelli più piccoli — disse Jason.
Ruth Rae continuò: — Vero. Comunque, adorava i gatti e cercava di fare tutto quello che facevano loro. Ha persino imparato a usare quasi sempre la cassetta della sabbia. Strappandosi dei ciuffi di pelo dal petto ha costruito un nido sotto il divano, e voleva che i gattini ci andassero. Ma a quelli l’idea non piaceva. E poi è quasi stata la fine quando ha cercato di giocare a Prendimi con un pastore tedesco che una tizia aveva portato con sé. Il coniglio aveva imparato a giocare coi gatti, con Emily Fusselman e coi bambini. Si nascondeva dietro il divano, poi usciva a razzo, si metteva a correre velocissimo in cerchio, e tutti cercavano di prenderlo; ma di solito non ci riuscivano, e allora lui tornava a mettersi al sicuro dietro il divano, dove nessuno aveva il diritto di seguirlo. Però il cane non conosceva quelle regole, e quando il coniglio è scappato dietro il divano l’ha seguito e l’ha azzannato alle chiappe. Emily è riuscita a staccare il cane, ma il coniglio era conciato male. Si è ripreso, però da allora è rimasto terrorizzato dai cani. Scappava se ne vedeva uno anche solo dalla finestra. E teneva nascosta dietro le tende la parte del corpo morsicata dal cane perché non aveva più peli e si vergognava. Ma la cosa più toccante in lui era lo sforzo di superare i limiti della sua… come la chiameresti?… fisiologia? I suoi limiti di coniglio, tentando di diventare una forma più evoluta, come i gatti. Ha sempre desiderato stare e giocare con loro da pari a pari. E la morale è tutta qui. I gatti non volevano stare nel nido che lui aveva preparato per loro e il cane non conosceva le regole e l’ha azzannato. È vissuto parecchi anni. Ma chi avrebbe pensato che un coniglio potesse sviluppare un comportamento tanto complesso? E, se c’era qualcuno seduto sul divano e lui voleva che quello scendesse per potersi sdraiare, prima dava dei colpetti col muso, poi, se non succedeva niente, mordeva. Ma considera le aspirazioni di quel coniglio e poi il suo fallimento. Una piccola vita che compie degli sforzi. Senza avere la benché minima speranza. Ma il coniglio non lo sapeva. Oppure lo sapeva e ci tentava lo stesso. Però, secondo me, non capiva. Solo lo desiderava tantissimo. Era tutta la sua vita, perché amava i gatti.
— Credevo che non ti piacessero gli animali — disse Jason.
— Non più. Non dopo tante sconfitte e tante morti. Come il coniglio: alla fine, ovviamente, è morto, ed Emily Fusselman ha pianto per giorni. Per una settimana. Ho visto che dolore le aveva procurato quella morte e non ho più voluto degli animali.
— Ma smettere completamente di amare gli animali per poter…
— Le loro vite sono così brevi. Così dannatamente brevi. Okay, certa gente perde una creatura amata e tira dritto e sposta il proprio affetto su un’altra. Ma è doloroso, troppo doloroso.
— Allora perché l’amore è così bello? — Jason ci aveva riflettuto sopra, nel corso delle sue numerose relazioni, durante tutta la sua vita di adulto. In quel momento lo fece in modo particolarmente profondo. Riandando col pensiero da quello che gli era accaduto di recente al coniglio di Emily Fusselman. A quel momento di dolore. — Ami qualcuno, e se ne va. Un giorno torna a casa e comincia a mettere le sue cose in valigia e tu chiedi: “Cosa succede?”, e ti senti rispondere: “Ho avuto un’offerta migliore da un’altra parte”. E se ne va, esce per sempre dalla tua vita, dopo di che, fino alla morte, ti porterai dietro questo fardello, e non hai nessuno con cui condividerne il peso. E se trovi qualcun altro, succede di nuovo la stessa cosa. Oppure un giorno chiami quel qualcuno al telefono, gli dici: “Sono Jason”, e ti senti dire: “Chi?”, e allora capisci che è finita. L’altro non sa più chi diavolo sei. Quindi probabilmente non l’ha mai saputo. In realtà, non hai mai veramente “avuto” nessuno.
Ruth disse: — L’amore non è solo volere un’altra persona allo stesso modo in cui vuoi impossessarti di un oggetto che vedi in una vetrina. Quello è solo desiderio. Vuoi avere l’oggetto tutto per te, portarlo a casa e metterlo da qualche parte nel tuo appartamento. Una lampada, o altro… L’amore è… — Fece una pausa. Rifletté. — Per esempio, un padre che salva i figli dalla casa in fiamme. Li porta fuori e muore. Quando ami, smetti di vivere per te stesso. Vivi per un’altra persona.
— E questo è bene? — A lui non sembrava tanto.
— Supera l’istinto. L’istinto ci spinge a lottare per la sopravvivenza. Come quando i pol accerchiano i campus. La sopravvivenza di noi stessi a spese di altri. Ognuno di noi si apre la via con gli artigli. Posso farti un buon esempio: il mio ventunesimo marito, Frank. Siamo rimasti sposati sei mesi. In quel periodo lui ha smesso di amarmi ed è diventato terribilmente infelice. Io lo amavo ancora. Avrei voluto restare con lui, ma lui soffriva. Così l’ho lasciato andare. Capisci? È stato meglio per lui, e siccome io lo amavo, era quella l’unica cosa importante. Capisci?
— Ma perché è bene andare contro l’istinto di sopravvivenza? — chiese Jason.
— Tu credi che io non ti sappia rispondere, vero?
— Infatti.
— Perché alla fine l’istinto di sopravvivenza è perdente. In ogni creatura vivente: sia essa una talpa, un pipistrello, un essere umano o un rospo. Persino i rospi che fumano sigari e giocano a scacchi. Non riuscirai mai a fare quello che è nelle intenzioni dell’istinto di sopravvivenza, per cui tutti i tuoi tentativi falliranno, soccomberai alla morte, e sarà finita lì. Ma se ami, puoi svanire e osservare…
— Io non sono pronto a svanire — disse Jason.
— Puoi svanire e osservare con felicità, e con una fresca, armoniosa gioia di tipo alfa, la più alta forma di gioia, la vita di quelli che ami che continua.
— Ma muoiono anche loro.
— Vero. — Ruth Rae si mordicchiò il labbro.
— È meglio non amare, così non sperimenterai mai nessuna morte. Anche un animale — un cane o un gatto, come hai detto tu — puoi amarlo, e poi muore. Se la morte di un coniglio è dolorosa… — Jason ebbe, in quel momento, una specie di visione orrorifica: le ossa frantumate e i capelli di una ragazza che grondava sangue, prigioniera delle fauci di un nemico appena intravisto, più grande di…
— Ma puoi soffrire. — Ruth scrutò con ansia il viso di lui. — Jason! La sofferenza è l’emozione più forte che un uomo o un bambino o un animale possano provare. È una buona sensazione.
— E sapresti dirmi, per favore, in che modo? — rispose lui con voce roca.
— La sofferenza ti spinge a lasciare te stesso. Esci dal tuo piccolo e limitato guscio. E non puoi soffrire se prima non hai amato. La sofferenza è l’esito finale dell’amore, perché è amore perduto. Tu capisci, lo so. Però non vuoi pensarci. È il completamento del ciclo dell’amore: amare, perdere, soffrire, lasciare e lasciarsi, poi amare di nuovo. Jason, soffrire è la consapevolezza che dovrai essere solo, e al di là di questo non c’è nulla, perché essere solo è il destino ultimo, definitivo di ogni creatura vivente. Ecco cos’è la morte: la grande solitudine. Ricordo la prima volta che ho fumato erba da una pipa ad acqua, invece del solito spinello. Il fumo era fresco, e non mi sono resa conto di averne inalato troppo. All’improvviso, sono morta. Per un breve istante, ma che dev’essere durato diversi secondi. Il mondo, ogni sensazione, persino la consapevolezza del mio corpo, del fatto stesso di avere un corpo, sono svaniti. E non mi sono trovata isolata nel solito senso, perché quando sei sola nel solito senso continui a ricevere dati, anche magari soltanto dal tuo corpo. Ma anche l’oscurità è scomparsa. Tutto ha cessato di esistere. Silenzio. Nulla. Sola.
— Devono aver bagnato l’erba dentro una di quelle merde tossiche. Tanta gente si è fritta il cervello così, a quei tempi.
— Sì, sono stata fortunata a tornare in me. Un caso, un incidente. Avevo già fumato erba un’infinità di volte e non era mai successo. Per questo, dopo quel giorno, fumo solo tabacco. Comunque, non è stato come svenire. Non ho avuto la sensazione di cadere perché non avevo nulla con cui cadere, non avevo un corpo… e non c’era un giù verso il quale cadere. Tutto, compresa me stessa, era semplicemente… — Ruth gesticolò. — Andato. Come l’ultimo goccio che esce da una bottiglia. Poi, dopo un po’, hanno ricominciato a proiettare il film. La pellicola che chiamiamo realtà. — Fece una pausa, aspirò dalla sigaretta. — Non l’avevo mai raccontato a nessuno.
— Ti sei spaventata?
Lei annuì. — La coscienza della mancanza di coscienza, se mi segui. Quando moriremo non ce ne accorgeremo, perché morire è perdere tutto quanto. Così io non ho più paura di morire, per niente, dopo quel brutto viaggio con l’erba. Ma soffrire è morire ed essere vivi allo stesso tempo. L’esperienza più assoluta, più totale che si possa provare. La forza. A volte giurerei che non siamo stati creati per superare un ostacolo simile. È troppo. Il corpo arriva quasi a distruggersi, con tutti quei sussulti, quelle contorsioni. Ma io voglio provare dolore. Versare lacrime.
— Perché? — Jason non riusciva a capirlo; per lui era una cosa da evitare. Appena cominciava a provarla, se la dava a gambe.
Ruth disse: — La sofferenza ti unisce di nuovo a ciò che hai perso. è una fusione. Te ne vai anche tu con la cosa o la persona amata che scompare. In un certo senso, ti dividi da te stesso e l’accompagni, fai con lei una parte del viaggio. La segui sin dove ti è concesso spingerti. Ricordo che una volta avevo un cane che amavo. Avevo diciassette o diciott’anni. Ero quasi maggiorenne, per quel che rammento. Il cane si ammalò e lo portammo dal veterinario. Dissero che aveva ingerito del veleno per topi e che ormai i suoi visceri erano solo un sacco di sangue e che le ventiquattro ore successive avrebbero stabilito se sarebbe sopravvissuto o no. Io tornai a casa e aspettai, poi verso le undici di sera crollai. Il veterinario doveva telefonarmi al mattino, appena rientrato in clinica, per dirmi se Hank aveva superato la notte. Io mi alzai alle otto e mezzo e cercai di rimettere ordine nella mia testa, in attesa della telefonata. Andai in bagno, volevo lavarmi i denti, e vidi Hank nell’angolo in fondo a sinistra. Con molta dignità e contegno, stava salendo lentamente una scala invisibile. Lo guardai salire in diagonale e poi, nell’angolo in alto a destra del bagno, scomparve, proseguendo su per la scala. Non si girò una sola volta. Capii che era morto. Poi il telefono squillò e il veterinario mi disse che Hank non ce l’aveva fatta. Ma io l’avevo visto salire. E, ovviamente, provai un dolore orribile, devastante, e patendo quella sofferenza mi persi e salii con lui quelle dannate scale.
Tutti e due rimasero in silenzio per un po’.
— Ma alla fine — proseguì Ruth, schiarendosi la gola — la sofferenza se ne va e tu torni in sintonia col mondo. Senza l’altro.
— E tu riesci ad accettarlo.
— Che scelta abbiamo? Piangi, continui a piangere, perché non torni mai del tutto indietro dal posto in cui sei andato con l’altro. Un frammento che si è staccato dal tuo cuore pulsante è ancora là. C’è una lesione. Una ferita che non guarisce mai. E se ti succede una volta e un’altra e un’altra ancora nella vita, col tempo se ne va una parte troppo grande del tuo cuore e non riesci più a soffrire. E allora tu stesso sei pronto a morire. Salirai la scala in diagonale e qualcun altro resterà indietro a soffrire per te.
— Non ci sono tagli nel mio cuore — disse Jason.
— Se te ne vai adesso — rispose Ruth, rauca, ma con una compostezza insolita in lei —, è così che mi sentirò io.
— Resterò fino a domani — rispose lui. Occorreva come minimo quell’intervallo di tempo perché il laboratorio della polizia scoprisse che i suoi documenti erano falsi.
“Kathy mi ha salvato?” si chiese. “O mi ha rovinato?” Proprio non lo sapeva. “Kathy, che mi ha usato, che a diciannove anni ne sa più di te e di me messi assieme. Più di quanto scopriremo nell’intero corso della nostra vita.”
Come un abile moderatore di una tavola rotonda, lo aveva demolito. E perché? Per ricostruirlo, più forte di prima? Ne dubitava. Ma restava una possibilità. Non doveva dimenticarla. Provava nei confronti di Kathy una certa fiducia, strana e cinica, a un tempo assoluta e poco convinta; metà del suo cervello la riteneva affidabile al di là dei propri poteri di comprensione, e l’altra metà la vedeva come una persona svilita, in vendita, pronta a darsi a chiunque. Non poteva fare convergere quelle percezioni. Le due immagini di Kathy restavano sovrapposte nella sua testa.
“Magari potrei districare le mie due opinioni parallele di Kathy prima di andarmene da qui” pensò. Prima del mattino. Ma forse poteva fermarsi anche un altro giorno, anche se avrebbe significato tirare troppo la corda. “Fino a che punto è in gamba la polizia?” si chiese. “Sono riusciti a sbagliarsi sul mio cognome; hanno ripescato il dossier errato. È possibile che riescano a mandare tutto a puttane sul serio? Forse. E forse no.”
Aveva idee assolutamente opposte tra loro anche sulla polizia. E non era in grado di risolvere nemmeno quel dilemma. E così, come un coniglio, come il coniglio di Emily Fusselman, si fermò dove si trovava. Sperando che tutti conoscessero le regole: non si distrugge una creatura che non sa cosa fare.
I quattro pol in uniforme grigia si erano radunati in corridoio sotto la luce dell’applique in ferro battuto a forma di candela. Il cono di quella fiamma falsa e perennemente luminosa tremolava nel buio della notte.
— Ne restano solo due — disse il sergente, quasi senza farsi udire. Lasciò che parlassero per lui le dita che stava facendo scorrere sull’elenco degli inquilini. — Una certa signora Ruth Gomen al 211 e un certo Allen Mufi al 212. Quale per primo?
— Mufi — rispose uno degli agenti in uniforme. Nella penombra si batté sul palmo della mano il manganello in plastica e piombo, ansioso di farla finita adesso che si cominciava a intravedere la meta.
— Allora il 212 — disse il sergente, e fece per suonare il campanello. Poi gli venne in mente di provare prima la maniglia.
Aperta. Una possibilità su moltissime contrarie, una coincidenza remota, ma improvvisamente favorevole. La porta non era chiusa a chiave. Fece cenno di fare silenzio, si concesse un sorrisetto, poi spalancò la porta.
Apparve un soggiorno buio, con calici per il vino vuoti e semivuoti sparsi in giro, alcuni anche sul pavimento. E una grande quantità di posacenere stracolmi di pacchetti di sigarette accartocciati e mozziconi spenti.
Un sigaretta-party, decise il sergente. Arrivato al capolinea. Adesso, tutti sarebbero tornati a casa. A eccezione forse del signor Mufi.
Entrò, puntò qua e là il fascio di luce della torcia elettrica. Infine lo diresse sulla porta che immetteva nelle altre stanze di quell’appartamento costosissimo. Nessun suono. Nessun movimento. Tranne il chiacchiericcio lontano, distante, smorzato, di un talk-show radiofonico a volume molto basso.
Camminò sul tappeto da parete a parete che raffigurava, in color oro, l’ascesa di Richard Nixon in paradiso, tra gioiosi canti in cielo e gemiti di dolore in terra. Arrivato alla porta di fronte, posò i piedi su Dio, che sorrideva radioso nel riaccogliere nel proprio seno il suo secondo figlio unigenito. Il sergente spalancò la porta della camera da letto.
Sul grande, morbidissimo letto matrimoniale dormiva un uomo, con spalle e braccia nude. I suoi vestiti erano ammucchiati su una sedia lì vicino. Il signor Allen Mufi, ovviamente. Sano e salvo nel suo letto. Però non era solo, in quel suo talamo così lussuoso. C’era un’altra forma indistinta, raggomitolata tra le lenzuola e le coperte dai toni pastello. La signora Mufi, pensò il sergente, e le puntò addosso la luce della torcia, con curiosità tutta maschile.
Di colpo, Allen Mufi, ammesso che fosse lui, si mosse. Aprì gli occhi. E si rizzò a sedere all’istante, fissando i pol. E la luce della torcia elettrica.
— Cosa? — disse, e ansimò di paura: una profonda, convulsa, tremante emissione di respiro. — No. — Dopo di che, fece per afferrare qualcosa sul comodino; frugò nelle tenebre, pallido e peloso e nudo, in cerca di qualcosa d’invisibile che per lui doveva essere molto prezioso. Disperatamente. Poi si rizzò a sedere sul letto, ansante, stringendo l’oggetto: un paio di forbici.
— A cosa le servono? — chiese il sergente, puntando il fascio di luce sul riflesso metallico delle forbici.
— Mi ucciderò — disse Mufi. — Se non se ne va e non… ci lascia in pace. — Premette le forbici, chiuse, contro il petto coperto di peli, all’altezza del cuore.
— Allora non è la signora Mufi — disse il sergente. Spostò il fascio di luce sull’altra forma raggomitolata, nascosta dalle coperte. — Eh? Una roba tipo una botta e via, grazie tante signorina? Ha trasformato il suo appartamento di lusso in un motel? — Il sergente raggiunse il letto, afferrò lenzuola e coperte, e tirò.
Nel letto, a fianco del signor Mufi, c’era un ragazzino nudo, magro, con lunghi capelli biondi.
— Mi venisse un accidente! — esclamò il sergente.
Uno dei suoi uomini disse: — Gli ho preso le forbici. — Le gettò a terra, davanti al piede destro del sergente.
Il signor Mufi se ne stava seduto, tremante, gli occhi colmi di un terrore stupefatto. Il sergente gli chiese: — Quanti anni ha il ragazzo?
L’adolescente si era svegliato. Teneva gli occhi fissi al soffitto, ma non si muoveva. Non c’era alcuna espressione sul suo viso tenero, dai contorni solo accennati.
— Tredici — rispose con voce rotta, quasi implorante, Mufi. — L’età per il libero consenso sessuale.
Il sergente chiese al ragazzo: — Lo puoi dimostrare? — Ora provava disgusto. Una forte sensazione di repulsione che gli faceva quasi venire voglia di vomitare. Sul letto c’erano delle chiazze umide, non ancora del tutto asciutte, di sudore e liquido seminale.
— La tessera d’identità — ansimò Mufi. — Nel suo portafogli. I pantaloni sulla sedia.
Uno degli uomini chiese al sergente: — Sarebbe a dire che se questo qui ha tredici anni non è stato commesso nessun reato?
— Al diavolo! — fece un altro agente, indignato. — È chiaro che si tratta di un reato. Perversione. Portiamoli dentro tutti e due.
— Aspettate un minuto, okay? — Il sergente prese i calzoni del ragazzo, frugò, trovò il portafogli, lo tirò fuori, studiò il documento. E come no: tredici anni. Chiuse il portafogli e lo rimise nella tasca. — No — disse. Si stava ancora godendo a metà la situazione. Lo divertiva il nudo imbarazzo di Mufi, ma si sentiva sempre più disgustato, di attimo in attimo, dal vigliacco orrore dell’uomo all’idea di essere stato scoperto. — Il nuovo testo rivisto del codice penale, articolo 640.3, dice che a dodici anni un minorenne è legalmente autorizzato a praticare attività sessuali o con un altro giovane di entrambi i sessi o con un adulto di entrambi i sessi, però con un solo partner per volta.
— Ma è disgustoso — protestò uno degli uomini.
— Questa è la sua opinione — ribatté Mufi. Adesso aveva un tono meno pavido.
— Perché non li sbattiamo dentro? Non sarebbe un bel colpo? — insistettero i pol raccolti attorno a lui.
— Stanno sistematicamente eliminando tutti i reati senza vittime — rispose il sergente. — È un processo che va avanti da dieci anni.
— Questo? Questo sarebbe un reato senza vittime?
Il sergente chiese a Mufi: — Cos’è che le piace nei ragazzini? Me lo spieghi. Mi sono sempre domandato cosa provino i sodo come lei.
— Sodo — fece eco Mufi, storcendo la bocca in una smorfia di fastidio. — Ecco cosa sono, allora.
— È una categoria. Gli individui che sfruttano i minori a scopi omosessuali. Un comportamento legale, ma ancora aborrito. Lei cosa fa nella vita?
— Vendo trabi usati.
— Se i suoi datori di lavoro sapessero che è un sodo, non le lascerebbero toccare i loro trabi. Non dopo quello che le sue mani esangui e pelose hanno fatto nel tempo libero. Giusto, signor Mufi? Nemmeno un venditore di trabi usati la può passare liscia, se è un sodo. Anche se il reato, in quanto tale, non esiste più.
Mufi disse: — È colpa di mia madre. Dominava mio padre, che era un uomo debole.
— Quanti ragazzini ha convinto a venire a letto con lei negli ultimi dodici mesi? — chiese il sergente. — Guardi che parlo sul serio. E poi saranno certo tutte storie di una sola notte, giusto?
— Io amo Ben. — Mufi teneva gli occhi fissi sul pol. La sua bocca si muoveva appena. — Col tempo, quando la mia situazione economica migliorerà e potrò permettermi di mantenerlo, lo sposerò.
Il sergente domandò a Ben: — Vuoi che ti portiamo via di qui? Dai tuoi?
— Vive qui. — Mufi accennò un sorrisetto.
— Sì, resto qui — rispose imbronciato il ragazzo. Poi rabbrividì. — Mostri, mi volete ridare le coperte? — Irritato, allungò una mano verso il lenzuolo.
— Cerchiamo di mantenere basso il livello di rumore qui dentro. — Il sergente cominciò a indietreggiare, depresso. — Cristo! E l’hanno depenalizzato.
— Probabilmente — continuò Mufi, molto più sicuro di sé adesso che i pol avevano iniziato a sgomberare — perché qualcuno di quei vecchi comandanti di polizia, uno di quei grassoni, si scopa anche lui i ragazzini e non vuole finire dentro. Non reggerebbe lo scandalo. — Il suo sorriso si allargò in un ghigno insinuante.
— Spero — disse il sergente — che un giorno o l’altro lei commetta qualche infrazione alla legge e la portino dentro, e ci sia io di servizio. Per avere l’onore di sbatterla in cella di persona. — Si raschiò la gola, poi sputò su Mufi. Sul suo viso senza espressione.
In silenzio, il gruppo di pol ripercorse il soggiorno ingombro di mozziconi di sigarette, cenere, pacchetti accartocciati, bicchieri vuoti a metà. Tornò in corridoio, sotto il portico. Il sergente chiuse con un colpo deciso la porta, rabbrividì, e per un attimo rimase ad ascoltare il buio nella propria mente, del tutto lontana dal luogo in cui si trovava. Poi disse: — 211 : Ruth Gomen. Dove l’uomo che stiamo cercando, Taverner, dovrebbe trovarsi, visto che è l’ultimo appartamento rimasto. Ammesso che lui sia davvero qui. — “Finalmente” pensò.
Bussò alla porta del 211. E restò in attesa, pronto a colpire col suo manganello di plastica e piombo; e d’un tratto non gli importò più nulla del suo lavoro. — Abbiamo visto Mufi — disse tra sé e sé, o quasi. — Adesso vediamo com’è la signora Gomen. Secondo voi, sarà meglio? Speriamo. Per stanotte ne ho avuto abbastanza.
— Qualunque cosa sarebbe meglio — disse, serio, uno dei pol al suo fianco. Annuirono tutti e si misero in posizione, nell’attesa di udire dei passi lenti dietro la porta.
Nel soggiorno del nuovo e lussuoso appartamento di Ruth Rae nel distretto Fireflash di Las Vegas, Jason Taverner disse: — Sono abbastanza sicuro di poter contare su quarantotto ore all’esterno e ventiquattro ore qui dentro. Per cui penso di non dovermene andare immediatamente. — “E se questo nostro nuovo, rivoluzionario principio è esatto” pensò, “è ovvio che la situazione ne risulterà modificata a mio beneficio. Sarò al sicuro.”
LA TEORIA CAMBIA…
— Sono lieta — disse senza il minimo entusiasmo Ruth — che tu possa restare qui con me in maniera civile. Così potremo chiacchierare ancora un po’. Vuoi qualcos’altro da bere? Scotch e Coca, magari?
LA TEORIA CAMBIA LA REALTÀ CHE DESCRIVE. — No — rispose lui, e si aggirò nel soggiorno, ascoltando… Non sapeva cosa. Forse l’assenza di suoni. Nessun televisore acceso, nessun rumore di passi sul pavimento sopra le loro teste. Nemmeno una pornocanzone da qualche parte, sparata a tutto volume da un impianto quadrifonico. — Le pareti di questi appartamenti sono molto spesse? — chiese a Ruth.
— Io non sento mai niente.
— Non noti qualcosa di strano? Niente fuori dell’ordinario?
— No. — Ruth scosse la testa.
— Stupida maledetta stronza! — Il tono di Jason era furioso. Lei lo fissò a bocca aperta, offesa, perplessa. — So — ringhiò lui — che mi hanno incastrato. Adesso. Qui. In questa stanza.
Squillò il campanello.
— Facciamo finta di niente — balbettò Ruth, impaurita. — Io voglio solo starmene qui a chiacchierare con te delle cose più gustose della vita, di quello che vuoi e non hai ancora ottenuto… — La sua voce si spense nel silenzio. Jason andò alla porta. — “Probabilmente sarà quello del piano di sopra. Ruba. Ruba cose strane. Come due quinti di una cipolla.”
Jason aprì la porta. Tre pol in uniforme grigia occupavano l’ingresso, con le pistole a tubo puntate su di lui. — Il signor Taverner? — chiese il pol con i gradi.
— Sì.
— Lei è in custodia di protezione, quindi la preghiamo di seguirci e non allontanarsi o perdere in alcun modo il contatto fisico con noi. I suoi effetti personali, se ne possiede, verranno recuperati più tardi e le saranno consegnati ovunque lei verrà trasferito.
— Okay — disse lui. Non provava quasi nulla.
Alle sue spalle, Ruth Rae emise uno strillo soffocato.
— Anche lei, signora — disse il poliziotto con i gradi, accennando a Ruth col manganello.
— Posso prendere il cappotto? — chiese timidamente lei.
— Andiamo. — Il poliziotto superò di scatto Jason, afferrò Ruth Rae per un braccio e la trascinò fuori dall’appartamento, in corridoio.
— Fai quello che ti dice — le consigliò Jason sottovoce.
Ruth piagnucolò: — Mi metteranno in un campo di lavori forzati.
— No — disse Jason. — Probabilmente ti uccideranno.
— Lei è proprio un uomo simpatico — commentò uno dei pol, mentre lui e i suoi colleghi trascinavano Jason e Ruth Rae giù per la scala con il corrimano in ferro battuto fino a pianterreno. Nel parcheggio c’era un trabifurgone della polizia; tutt’attorno, diversi pol armati. Avevano un’aria passiva e annoiata.
— Mi faccia vedere la sua tessera d’identità — disse a Jason il pol con i gradi. Tese la destra e aspettò.
— Ho un pass della polizia valido sette giorni. — Con mani tremanti, Jason lo tirò fuori, lo mostrò all’altro.
Studiando il pass, il pol chiese: — Lei ammette liberamente, di sua spontanea volontà, di essere Jason Taverner?
— Sì.
Due pol lo perquisirono con mani esperte, in cerca di armi. Lui lasciò fare in silenzio, ancora stordito, assente. L’unica cosa che provasse era un vago rimpianto perché non aveva fatto quel che sapeva che avrebbe dovuto: andarsene. Lasciare Las Vegas. Sparire in un luogo qualunque.
— Signor Taverner — disse il pol con i gradi, — l’ufficio di polizia di Los Angeles ci ha chiesto di prenderla in custodia di protezione e di trasferirla, con la dovuta sollecitudine e cura, alla sede dell’accademia di polizia nel centro di Los Angeles. La procedura ha già avuto inizio. Ha qualche lamentela da fare sul trattamento che le è stato riservato?
— No — rispose Jason. — Non ancora.
— Salga nella parte posteriore del trabifurgone — disse il poliziotto, indicando il portellone spalancato.
Jason obbedì.
Ruth Rae, salita al suo fianco, cominciò a mugolare tra sé, nel buio, dopo che il portellone venne richiuso. Lui le cinse una spalla col braccio e la baciò sulla fronte. — Cos’hai fatto? — gemette lei, con la voce roca per il bourbon. — Perché vogliono ucciderci?
Un agente si trasferì dall’abitacolo sul retro, insieme a loro. Disse: — Non la faremo fuori, signora. Portiamo solo tutti e due a Los Angeles. Nient’altro. Si calmi.
— Non mi piace Los Angeles — piagnucolò Ruth Rae. — Non ci vado da anni. Odio Los Angeles. — Si guardò attorno con occhi che tradivano tutta la sua angoscia.
— Anch’io. — L’agente chiuse il divisorio tra cabina di guida e retro del furgone e lasciò cadere la chiave in una feritoia, per passarla agli uomini in cabina. — Ma dobbiamo imparare a conviverci. Esiste.
— Probabilmente staranno passando al setaccio tutto il mio appartamento — si lamentò Ruth Rae. — Guarderanno dentro ogni cosa, romperanno tutto.
— Non c’è dubbio — disse Jason in tono incolore. Adesso gli faceva male la testa e si sentiva la nausea. Era stanco. — Da chi ci porteranno? — chiese all’agente. — Dall’ispettore McNulty?
— Probabilmente no — rispose affabile il pol, mentre il trabifurgone si alzava con fragore nell’aria. — “Parlan di me gli sfaccendati in piazza, mi canzonano pure i bevoni”, e stando a loro è i1 generale di polizia Felix Buckman che vuole interrogarla. — Spiegò: — La citazione era dal Salmo 69, versetto 13. Io sono qui con voi come testimone di Geova. “Ecco dunque ch’io sto per crear cieli nuovi ed una terra nuova. Non si ricorderanno più le cose passate, non torneranno più in mente”: Isaia, 65,17.
— Un generale di polizia? — chiese Jason, incredulo.
— Così si dice — rispose il cordiale e fanatico pol testimone di Geova. — Non so cosa abbiate combinato voialtri, ma di certo l’avete fatta grossa.
Ruth Rae singhiozzò nel buio.
— Ogni carne è come erba — intonò il fanatico della religione. — Come maria giovanna di bassa qualità, probabilmente. Poiché un bambino ci è nato, un successo ci è stato donato. Gli storpi saranno raddrizzati, i dritti piegati.
— Ha uno spinello? — gli chiese Jason.
— No. Li ho finiti. — Il pol fanatico religioso batté con le dita sul divisorio di metallo. — Ehi, Ralf, potresti passare uno spino a questo fratello?
— Ecco qua. — Dalla feritoia spuntò un braccio coperto da una manica grigia, una mano che stringeva un pacchetto spiegazzato di Goldies.
— Grazie — disse Jason, accendendo. — Ne vuoi uno? — chiese a Ruth Rae.
— Io voglio Bob — gemette lei. — Voglio mio marito.
Chino in avanti, muto, Jason fumò e meditò.
— Non smetta di sperare — disse nel buio il poliziotto stretto al suo fianco.
— E perché dovrei avere delle speranze? — chiese Jason.
— I campi di lavori forzati non sono poi così male. Ce ne hanno fatto visitare uno al corso di addestramento di base. Ci sono le docce, e letti con i materassi, e attività ricreative come la pallavolo. Attività artistiche. Si possono coltivare hobby come l’artigianato, ha presente? Per esempio, fare candele. A mano. E i familiari possono mandare pacchi, e una volta al mese loro o gli amici possono venire a trovarla. — Aggiunse: — E si può professare la propria fede nella propria chiesa preferita.
Jason disse, sardonico: — La mia chiesa preferita è il mondo libero, all’aperto.
Dopo di che cadde il silenzio. A parte i rumorosi scoppiettii del motore del trabifurgone e il pianto sommesso di Ruth Rae.
Venti minuti più tardi, il trabifurgone atterrò sul tetto dell’accademia di polizia di Los Angeles.
Jason Taverner, tutto intirizzito, scese, si guardò attorno, fiutò l’aria satura di smog, vide di nuovo, sopra di sé, il cielo giallastro della più grande città del Nordamerica. Si voltò per aiutare Ruth Rae a scendere, ma il giovane e cordiale poliziotto con le manie religiose aveva già provveduto.
Attorno a loro si raccolse un gruppo di pol di Los Angeles, molto interessati ai nuovi venuti. Parevano rilassati e allegri. Jason non vide cattiveria in nessuno di loro, e pensò: “Quando ti hanno preso, diventano gentili. È solo quando devono chiuderti nella rete che sono crudeli. Perché è ancora possibile che tu riesca a scappare. Mentre qui, adesso, questa possibilità non esiste”.
— Ha tentato il suicidio? — chiese un sergente di Los Angeles al pol fanatico religioso.
— No, signore.
Allora era per questo che l’avevano portato lì.
Quell’idea non aveva mai sfiorato Jason, e probabilmente nemmeno Ruth Rae… Tranne magari solo come una pura ipotesi: compiere un gesto estremo, concepito in teoria ma mai preso in seria considerazione per…
— Okay — disse il sergente di Los Angeles agli uomini di Las Vegas. — Da questo momento assumiamo formalmente la custodia dei due sospetti.
I pol di Las Vegas tornarono a bordo del trabifurgone, che si alzò in volo per rientrare in Nevada.
— Da questa parte — disse il sergente, con un cenno deciso della mano in direzione del tubo di discesa. I pol di Los Angeles sembravano a Jason un po’ più rozzi, un po’ più duri e anziani di quelli di Las Vegas. O forse era la sua immaginazione. Forse si trattava solo delle sue paure che aumentavano.
“Cosa si dice a un generale di polizia?” si chiese. “Specialmente quando tutte le spiegazioni che puoi dare non reggono, quando non sai niente, non credi in niente, e il resto è buio. Ma che se ne vada al diavolo!” decise esausto. E si lasciò cadere, praticamente a peso morto, nel tubo di discesa assieme a Ruth Rae e ai pol.
E al tredicesimo piano uscirono dal tubo.
Di fronte a loro c’era un uomo ben vestito. Portava occhiali con la montatura a giorno, il soprabito sul braccio, scarpe di pelle con la punta, e Jason notò che aveva due capsule d’oro in bocca. Un uomo, gli parve, più o meno della sua stessa età. Alto, grigio di capelli, con un’espressione di autentico calore umano sul viso aristocratico, dai lineamenti quasi perfetti. Non sembrava un pol.
— Lei è Jason Taverner? — chiese l’uomo. Porse la mano. Jason la strinse solo per un riflesso automatico. A Ruth, il generale di polizia disse: — Lei può scendere ai piani inferiori. La interrogherò più tardi. Per adesso voglio parlare col signor Taverner.
I pol portarono via Ruth. Jason la sentì che continuava a lamentarsi finché non scomparve. Dopo di che, si trovò davanti solo il generale di polizia, e nessun altro. Nessun uomo armato.
— Sono Felix Buckman — disse il generale di polizia. Indicò la porta aperta e il corridoio alle sue spalle. — Venga nel mio ufficio. — Girò sui tacchi e guidò con garbo Jason davanti a sé, in una grande suite con le pareti tinte in toni pastello blu e grigi. Jason sgranò gli occhi: non aveva mai visto prima un ufficio di polizia. Non aveva mai immaginato che potesse essere tanto elegante.
Incredulo, un istante più tardi si trovò seduto su una poltrona in pelle, con la morbidezza dello styroflex dietro la schiena. Buckman, comunque, non si accomodò alla scrivania in quercia, così alta e imponente da incutere timore. Aprì invece un armadio per riporre il soprabito.
— Sarei venuto ad accoglierla sul tetto — spiegò. — Ma, a quest’ora, là sopra il vento Santana soffia troppo forte. È un problema per la mia sinusite. — A quel punto, si voltò a guardare Jason. — Vedo in lei qualcosa che non risulta dalle sue foto quadridimensionali. Non si vede mai. È sempre una sorpresa, almeno per me. Lei è un Sei, giusto?
Improvvisamente all’erta, Jason si rizzò sulla schiena. — È un Sei anche lei, generale?
Con un grande sorriso, mettendo in mostra i denti incapsulati in oro, Felix Buckman alzò sette dita.
Nella sua carriera di ufficiale della polizia, Felix Buckman aveva usato quel trucchetto ogni volta che si era trovato di fronte un Sei. Vi faceva affidamento soprattutto quando, come in quel caso, l’incontro risultava imprevisto. Ne aveva conosciuti quattro. Alla fine, tutti quanti gli avevano creduto. Lo trovava divertente. I Sei, esperimenti genetici, per di più segreti, parevano insolitamente creduloni di fronte all’asserzione che fosse stato portato a termine un ulteriore progetto genetico, segreto quanto il loro.
Senza quella bugia, per un Sei lui sarebbe stato semplicemente un Ordinario. Una posizione di svantaggio dalla quale non avrebbe potuto trattare con un Sei nel migliore dei modi. Quindi, l’inganno. Grazie al quale il suo rapporto con un Sei si capovolgeva. E, in quelle condizioni artefatte, poteva gestire con successo un essere umano che, diversamente, sarebbe sfuggito al suo controllo.
Una volta, in un momento di relax, aveva detto ad Alys:
— Riesco a pensare meglio di un Sei all’incirca dai dieci ai quindici minuti. Ma se la cosa va avanti… — Aveva fatto un cenno con la mano, accartocciando un pacchetto di sigarette acquistate al mercato nero. Ne conteneva ancora due.
— Dopo quel periodo, le loro facoltà iperamplificate hanno il sopravvento. Quello che mi occorre è un grimaldello per aprire quelle loro boriose, stramaledette menti. — E, col tempo, l’aveva trovato.
— Perché un Sette? — aveva chiesto Alys. — Se imbrogli, perché non dire che sei un Otto o un Trentotto?
— Il peccato della vanagloria. L’esagerazione. — Buckman non voleva commettere quell’errore. — Dirò loro — aveva confessato a sua sorella — qualcosa che, secondo me, crederanno. — E, alla fine, la sua ipotesi si era dimostrata giusta.
— Non la berranno — aveva detto Alys.
— Oh, diavolo se la berranno! — aveva ribattuto lui. — È la loro paura segreta, la loro bestia nera. Sono al sesto posto in una serie di sistemi di ricostruzione del dna e sanno che, se è stato possibile farlo a loro, potrebbe essere fatto anche ad altri, con tecniche più avanzate.
Alys, indifferente, aveva commentato distratta: — Tu dovresti andare in televisione a vendere saponette. — Questa era stata l’unica sua reazione. Se ad Alys non interessava qualcosa, quel qualcosa, per lei, smetteva di esistere. Probabilmente non avrebbe dovuto farla franca con quell’atteggiamento per tutto quel tempo… “Ma, una volta o l’altra” aveva spesso pensato lui, “arriverà la giusta punizione: la realtà negata tornerà per la persecuzione. Si impossesserà senza preavviso dell’individuo che la nega e lo porterà alla follia.”
E Alys, aveva pensato molte volte, era un caso patologico davvero strano, un caso clinico del tutto bizzarro.
Buckman aveva questa intuizione senza riuscire a definirla con esattezza. Comunque, molte delle sue intuizioni avevano queste caratteristiche. L’idea non lo turbava, per quanto amasse sua sorella. Sapeva di avere ragione.
E ora, di fronte a Jason Taverner, profuse tutto il suo impegno nel trucchetto che aveva già funzionato altre volte.
— Eravamo in pochissimi — disse, sedendosi alla gigantesca scrivania di quercia. — Quattro in tutto. Uno è già morto, quindi restiamo in tre. Non ho la più pallida idea di dove siano gli altri. Manteniamo tra noi contatti ancora più ridotti di quanto facciate voi Sei. E già voi ne avete ben pochi.
— Chi era il suo mutatore? — chiese Jason.
— Dill-Temko. Lo stesso vostro. Si è occupato dei gruppi dal Cinque al Sette, poi è andato in pensione. Come lei saprà senz’altro, adesso è morto.
— Sì — disse Jason. — È stato uno shock per tutti.
— Anche per noi. — Buckman fece ricorso al suo tono più grave. — Dill-Temko era il nostro genitore. Il nostro unico genitore. Lo sapeva che al momento della morte aveva cominciato a preparare il progetto del gruppo Otto?
— Come sarebbero stati?
— Solo Dill-Temko lo sapeva — rispose Buckman, e sentì crescere la propria superiorità sul Sei. Eppure, quanto era fragile il suo vantaggio psicologico. Un solo sbaglio, una semplice frase di troppo, e sarebbe svanito. Una volta perso, non l’avrebbe più recuperato.
Era proprio questo il rischio che correva. Ma gli piaceva: gli era sempre piaciuto scommettere contro le proprie possibilità, giocare d’azzardo al buio. In momenti come quello, avvertiva quasi sensibilmente tutta la sua abilità. E non riteneva che fosse solo un prodotto della sua immaginazione, a dispetto di ciò che avrebbe detto un Sei al corrente della sua natura di Ordinario. La cosa non gli dava il minimo fastidio.
Premette un pulsante. — Peggy, portaci una caraffa di caffè con la panna e il resto. Grazie. — Poi si appoggiò all’indietro sulla poltrona con studiata noncuranza. E scrutò Jason Taverner.
Chiunque avesse già incontrato un Sei avrebbe riconosciuto la vera natura di Taverner. Il petto robusto, la struttura massiccia di braccia e schiena. La testa forte, da ariete. Ma la maggioranza degli Ordinari non si sarebbero mai resi conto di avere a che fare con un Sei. Non avevano l’esperienza di Buckman. Le conoscenze sul conto dei Sei che lui aveva mentalmente archiviato con tanta cura.
Una volta aveva detto ad Alys: — Non si impadroniranno mai del potere. Non governeranno il mio mondo.
— Tu non hai un mondo. Tu hai un ufficio. A quel punto, lui aveva chiuso il discorso.
— Signor Taverner — disse a bruciapelo, — com’è riuscito a far sparire dalle banche dati dell’intero pianeta documenti, tessere, microfilm, persino dossier completi? Ho tentato di immaginare come abbia potuto fare, ma alla fine mi sono dovuto arrendere. — Si concentrò con lo sguardo sul viso, bello ma ormai sulla via dell’invecchiamento, del Sei, e aspettò.
“Cosa posso dirgli?” si chiese Jason Taverner, mentre sedeva in silenzio davanti al generale di polizia. “Raccontargli esattamente tutto quello che è successo, per filo e per segno? Non mi crederebbe, perché in realtà quasi quasi non ci credo nemmeno io.
“Ma forse un Sette potrebbe…” Solo Dio sapeva cosa poteva fare. “Cercherò di dargli” decise “una spiegazione plausibile.”
Ma quando fece per rispondere, qualcosa gli fermò le parole sulla punta della lingua. “Non voglio raccontargli niente. Non esiste un limite a quello che potrebbe farmi. È un generale, ha un potere enorme e, se è un Sette, per lui questo limite potrebbe essere il cielo. Devo partire da questo presupposto se voglio salvarmi.”
— Il fatto che lei sia un Sei — disse Buckman, dopo un attimo di silenzio — mi porta a considerare la situazione sotto una luce diversa. Lei sta lavorando con altri Sei, vero? — Tenne gli occhi puntati su Jason, che trovò questo fatto sgradevole e sconcertante. — Secondo me — continuò Buckman, — ci troviamo di fronte alla prima prova concreta del fatto che i Sei stanno…
— No — disse Jason.
— No? — Buckman continuò a fissarlo. — Lei non è in combutta con altri Sei in questa faccenda?
— Conosco un solo altro Sei — disse Jason. — Heather Hart. E lei mi considera un “aborto di fan”. — Pronunciò quelle parole con il più amaro dei toni di voce.
Buckman trovò il dato interessante. Non sapeva che la celebre cantante Heather Hart fosse un Sei. Ma, ripensandoci, era più che ragionevole. Comunque, nel corso della sua intera carriera non si era mai trovato di fronte a un Sei femmina; i suoi contatti con i Sei erano tutt’altro che frequenti.
— Se la signorina Hart è un Sei — disse, — forse dovremmo chiedere anche a lei di presentarsi qui per un colloquio. — Un eufemismo classico della polizia che gli uscì con estrema facilità dalle labbra.
— Faccia pure — disse Jason. — La metta pure sotto torchio. — Il suo tono era diventato furibondo. — L’arresti. La sbatta in un campo di lavori forzati.
“Voi Sei” si disse Buckman “siete davvero poco leali gli uni con gli altri.” L’aveva già scoperto, ma era un fatto che non mancava mai di sorprenderlo. Un gruppo d’élite, creato da vecchi circoli aristocratici per ristabilire e far rispettare la moralità nel mondo, si era praticamente volatilizzato, ridotto a nulla, perché i suoi membri non si sopportavano tra loro. Rise tra sé; lasciò che in volto trapelasse quel sorriso.
— Si sta divertendo? — chiese Jason. — Non mi crede?
— Non ha importanza. — Buckman prese da un cassetto della scrivania una scatola di sigari Cuesta Rey e usò il suo coltellino per tagliarne la punta a uno. Il coltellino d’acciaio serviva a quell’unico scopo.
Jason Taverner lo scrutava affascinato.
— Un sigaro? — Buckman tese la scatola a Jason.
— Non ho mai fumato un buon sigaro. Se si fosse sparsa la voce che io… — Jason si interruppe.
— Se si fosse sparsa la voce? — Le orecchie di Buckman si drizzarono. — Cioè se la voce fosse arrivata a chi? Alla polizia?
Jason non aprì bocca. Ma aveva stretto il pugno, e il suo respiro si era fatto affannoso.
— Esistono dei gruppi sociali all’interno dei quali lei è molto conosciuto? — chiese Buckman. — Per esempio, gli intellettuali chiusi nei campi di lavori forzati? Sa, quelli che fanno circolare manoscritti ciclostilati.
— No.
— Negli ambienti musicali, allora? Jason rispose a denti stretti: — Non più.
— Lei ha mai inciso dischi?
— Non qui.
Buckman continuò a fissarlo senza batter ciglio, una tecnica che aveva perfezionato in lunghi anni. — Allora dove? — chiese, con una voce appena al di sopra della soglia dell’udibile. Un effetto deliberato, voluto: un tono che cullava, che interferiva con la capacità di capire appieno il significato delle parole.
Ma Jason Taverner lo lasciò cadere nel nulla, non rispose. “Maledetti bastardi di Sei!” pensò Buckman, rabbioso soprattutto con se stesso. “Non posso fare i miei soliti giochetti con un Sei. Non funzionano. E, da un momento all’altro, questo potrebbe cancellare dalla mente la mia asserzione, la mia pretesa di possedere un patrimonio genetico superiore al suo.”
Premette un pulsante del citofono interno. — Fai portare qui la signorina Katharine Nelson — ordinò a Herb Maime. — Un’informatrice della polizia che vive nel distretto di Watts, l’ex zona dei neri. Ho bisogno di parlare con lei.
— Mezz’ora.
— Grazie.
Jason Taverner chiese: — Perché mettere in mezzo anche lei?
— Ha falsificato i suoi documenti.
— Di me sa soltanto quello che le ho fatto scrivere sulle tessere.
— Ed erano dati falsi?
Dopo una pausa, Jason scosse la testa.
— Allora lei esiste.
— Non… qui.
— Dove?
— Non lo so.
— Mi spieghi com’è riuscito a cancellare quei dati da tutte le banche.
— Non l’ho mai fatto.
A quella risposta, Buckman si sentì afferrare da un’intuizione grandiosa, che lo strinse con artigli d’acciaio. — Lei non ha tolto informazioni dalle banche dati. Ha cercato di inserirle. Non ci sono mai stati dati su di lei nelle banche.
Finalmente, Jason Taverner annuì.
— Okay. — Buckman sentiva ardere dentro la fiamma della scoperta; gli si stava svelando nel fulgore della comprensione. — Però dev’esserci una ragione, se i suoi dati non sono mai esistiti. Perché? Lo sa?
— Sì. — Jason Taverner abbassò gli occhi sulla scrivania. Il suo viso si era trasformato in uno specchio deformante. — Io non esisto.
— Però, una volta esisteva.
— Sì. — Taverner annuì a malincuore, con il dolore che gli affiorava nella voce.
— Dove?
— Non lo so!
“Si torna sempre allo stesso punto” pensò Buckman. “ ‘Non lo so.’ Be’, forse non lo sa sul serio. Però si è spostato da Los Angeles a Las Vegas; è andato a letto con quella tizia magra e rugosa che i pol di Las Vegas hanno caricato sul trabifurgone con lui. Forse potrei ricavare qualcosa da lei.” Ma l’intuito gli diceva di no.
— Ha cenato? — chiese.
— Sì.
— Però mi terrà compagnia. Faccio portare qualcosa per tutti e due. — Attivò di nuovo il citofono interno. — Peggy, è così tardi… Ordina due pasti a quel nuovo locale in fondo alla strada. Non quello dove andavamo prima. Quello nuovo, con l’insegna del cane con la testa da ragazza. Barfy.
— Sì, signor Buckman — rispose Peggy, e chiuse la comunicazione.
— Perché non la chiamano generale? — chiese Jason Taverner.
— Quando lo fanno — rispose Buckman, — ho l’impressione che avrei dovuto scrivere un libro su come invadere la Francia senza trovarmi coinvolto in una guerra su due fronti.
— Allora lei è un semplice “signore”.
— Esatto.
— E loro glielo permettono?
— Per me — disse Buckman, — non esistono “loro”. A parte i cinque marescialli di polizia sparsi qua e là per il mondo, e anche loro si fanno chiamare “signore”. — “E quanto sarebbero felici di farmi retrocedere di grado ancora di più” pensò. “Per tutto quello che ho fatto.”
— Però c’è il direttore.
— Il direttore non mi ha mai visto. Non mi vedrà mai. Non vedrà nemmeno lei, signor Taverner. Anche se, in realtà, nessuno può vederla perché, come lei stesso ha osservato, lei non esiste.
Una agente di polizia in uniforme grigia entrò in ufficio, reggendo un vassoio. — Quello che lei ordina di solito a quest’ora — disse, depositandolo sulla scrivania di Buckman. — Panini caldi con prosciutto e panini caldi con salsiccia.
— Lei cosa preferisce? — chiese Buckman a Jason Taverner.
— La salsiccia è ben cotta? — Jason Taverner si protese in avanti a sbirciare. — Mi pare di sì. Prendo quella.
— Sono dieci dollari e una moneta d’oro da cinque — disse la pol. — Chi paga?
Buckman si frugò in tasca e tirò fuori la banconota e la moneta. — Grazie. — L’agente uscì. — Lei ha figli? — chiese Buckman a Taverner.
— No.
— Io ne ho uno. Adesso le mostro una sua foto tridimensionale che ho appena ricevuto. — Il generale Buckman si chinò verso i cassetti ed estrasse un palpitante quadrato di colori tridimensionali ma immobili. Jason prese la fotografia, la alzò secondo l’angolatura giusta di luce e vide il ritratto statico di un bambino in calzoni corti e maglione, a piedi nudi. Stava correndo su un campo col filo di un aquilone in una mano. Come il generale, aveva corti capelli chiari e una mascella forte, imponente. Già a quell’età.
— Bello — disse Jason. Restituì la fotografia.
Buckman continuò: — Non è mai riuscito a far volare l’aquilone. Forse è troppo giovane. O ha troppa paura. Il nostro ragazzo è pieno di ansietà. Penso che sia perché vede così poco me e sua madre. Sta in una scuola in Florida e noi siamo qui, e non è una bella cosa. Lei ha detto di non avere figli?
— Non che io sappia.
— Non che lei sappia? — Buckman inarcò un sopracciglio. — Il che significa che non ha mai indagato sulla questione? Non ha mai cercato di scoprirlo? Fosse anche solo per via della legge, lo deve sapere: se lei è il padre, è tenuto a provvedere al mantenimento dei figli, che sia sposato oppure no.
Jason annuì.
— Be’ — disse il generale Buckman, risistemando la foto in un cassetto, — ognuno fa a modo suo. Ma rifletta su quello che ha escluso dalla sua vita. Non ha mai amato un bambino? Colpisce dritto al cuore, nella parte più intima di una persona, dove è così facile morire.
— Non lo sapevo.
— Oh, sì. Mia moglie dice che si può dimenticare qualsiasi amore, tranne quello per i bambini. Scorre a senso unico, non torna mai indietro. E se qualcosa si frappone tra noi e un bambino, per esempio la morte o una terribile calamità come un divorzio, non si riesce mai a riprendersi.
— Oh, be’, allora… — Jason gesticolò con la forchetta su cui era infilzata la salsiccia. — Allora sarebbe meglio non provare quel tipo d’amore.
— Non sono d’accordo — rispose Buckman. — Bisognerebbe sempre amare, e soprattutto un bambino, perché è questo l’amore più forte.
— Capisco — disse Jason.
— No, lei non capisce. I Sei non capiscono. Non vale la pena discuterne. — Spostò un fascio di carte sulla scrivania, accigliato, perplesso e irritato. Ma poco per volta si calmò, riacquistò la sua consueta freddezza. Però non riusciva a comprendere l’atteggiamento di Jason Taverner. Per lui, suo figlio era la cosa più importante; oltre, ovviamente, all’amore per la madre del bambino. Erano quelli i cardini della sua vita.
Per un po’ mangiarono in silenzio. All’improvviso, non c’era più un ponte che li collegasse.
— In questo palazzo c’è una tavola calda — disse alla fine Buckman, bevendo un bicchiere di pseudo Tang. — Ma serve cibi avvelenati. Tutto il personale deve avere parenti nei campi di lavori forzati. Si vendicano su di noi. — Rise. Jason Taverner non lo imitò. — Signor Taverner… — Buckman si passò il tovagliolo sulla bocca. — La lascio andare. Non la trattengo.
Jason lo fissò. — Perché?
— Perché lei non ha fatto niente.
Jason disse con voce roca: — Procurarsi documenti d’identità falsi è reato.
— La mia autorità mi permette di far annullare tutte le imputazioni che voglio — disse Buckman. — Ritengo che lei sia stato costretto a procurarsi dei documenti falsi a causa di una situazione nella quale è venuto a trovarsi, una situazione di cui rifiuta di parlarmi ma che io sono riuscito a intuire.
Dopo una pausa, Jason disse: — Grazie.
— Però — proseguì Buckman — sarà tenuto sotto sorveglianza elettronica ovunque vada. Non sarà mai solo, fatta eccezione per i pensieri nella sua mente, e forse nemmeno per quelli. Prima o poi, tutti coloro che raggiungerà o incontrerà o vedrà saranno portati qui per essere interrogati… come stiamo per fare adesso con la Nelson. — Si protese verso Jason Taverner, sillabando con lentezza ogni singola parola, in modo che Taverner ascoltasse attentamente. — Ritengo che lei non abbia sottratto alcun dato da nessuna banca, pubblica o privata. Ritengo che lei stesso non capisca quale sia con esattezza la sua situazione attuale. Però… — Lasciò salire in modo molto chiaro il tono della voce. — Prima o poi la capirà, e, quando accadrà, noi vogliamo esserne informati. Quindi saremo sempre con lei. Le pare corretto?
Jason Taverner si alzò. — Tutti voi Sette pensate in questo modo?
— Quale modo?
— Siete capaci di prendere decisioni estreme e vitali all’istante come fa lei? Il suo modo di fare domande e ascoltare… Dio, come ascolta…! Per poi arrivare a una decisione definitiva.
Buckman, in tutta sincerità, rispose: — Non lo so, perché non ho praticamente contatti con gli altri Sette.
— Grazie. — Jason tese la mano. Buckman gliela strinse. — Grazie per la cena. — Adesso sembrava calmo. Padrone di sé. E molto, molto sollevato. — Esco di qui ed è finita? Come arrivo alla strada?
— Dovremo trattenerla fino a domattina — rispose Buckman. — È la prassi. Non rilasciamo mai i sospetti durante la notte. Col buio, in strada succede di tutto. Le daremo una brandina e una stanza. Dovrà dormire vestito… E domattina alle otto la farò scortare da Peggy all’ingresso principale dell’accademia. — Attivò il citofono interno. — Peg, per ora porta il signor Taverner nell’area detentiva. Alle otto in punto di domattina riaccompagnalo fuori. Chiaro?
— Sì, signor Buckman.
Il generale Buckman aprì le mani a ventaglio e sorrise. — Questo è tutto. Non c’è altro.
— Signor Taverner, — stava dicendo Peggy, in tono insistente — venga con me. Si vesta e mi raggiunga nell’ufficio esterno. L’aspetto lì. Passi per la porta azzurra e bianca.
Tenendosi in disparte, il generale Buckman ascoltò la voce della ragazza, gradevole e fresca. A lui sembrava bellissima, e probabilmente doveva sembrarlo anche a Taverner.
— Un’altra cosa. — Buckman fermò Taverner, insonnolito, con gli abiti spiegazzati, mentre si avviava verso la porta azzurra e bianca. — Non potrò rinnovare il suo pass se qualcun altro dei miei colleghi opporrà un veto. Lo capisce? Quel che deve fare è richiederci, seguendo l’esatta procedura legale, una serie completa di documenti. Il che significherà sottoporsi a un interrogatorio intensivo, ma… — Batté la mano sul braccio di Taverner. — Un Sei ce la può fare.
— Okay. — Jason Taverner lasciò l’ufficio e chiuse alle proprie spalle la porta azzurra e bianca.
Buckman attivò il citofono interno. — Herb, fagli mettere addosso un microtras e una testata eterostatica di classe Ottanta. Per poterlo seguire e, se dovesse essere necessario, eliminare in qualunque momento.
— Magari anche una pulce vocale? — chiese Herb.
— Sì, se riesci a sistemargliela sulla gola senza che se ne accorga.
— Farò provvedere da Peg — disse Herb, e chiuse la comunicazione.
“Se, diciamo, McNulty e io avessimo giocato al poliziotto buono e a quello cattivo saremmo riusciti a strappargli più informazioni?” si chiese Buckman. “No” decise. “Semplicemente perché lui stesso non sa altro. Quel che dobbiamo fare è aspettare che capisca… ed essere lì con lui, o di persona o a livello elettronico, quando accadrà. Come in effetti gli ho detto.
“Però continuo a sospettare che potremmo esserci imbattuti in qualcosa che i Sei potrebbero fare collettivamente, nonostante la loro solita animosità reciproca.”
Premette di nuovo il pulsante del citofono. — Herb, fai mettere sotto sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro quella cantante pop, Heather Hart o come diavolo si fa chiamare. E chiedi alla centrale dati tutti i dossier sui Sei. Hai capito?
— Esistono schede specifiche per questa categoria? — chiese Herb.
— Probabilmente no — rispose Buckman, fosco. — Probabilmente nessuno ha pensato di prepararle dieci anni fa, quando Dill-Temko era vivo e progettava nuove forme di vita ancora più bizzarre da creare. — “Come noi Sette” pensò caustico. — E di certo nessuno lo farebbe al giorno d’oggi, dopo il fallimento politico dei Sei. Ne convieni?
— Ne convengo — rispose Herb. — Comunque tenterò lo stesso.
Buckman disse: — Se esistono delle schede specifiche, voglio una sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro su tutti i Sei. E anche se non riusciamo a scovarli tutti, se non altro possiamo mettere sotto controllo quelli di cui ci è nota l’identità.
— Sarà fatto, signor Buckman. — Herb chiuse la comunicazione.
— Addio e buona fortuna, signor Taverner — gli disse l’agente di polizia Peg, nell’ampio ingresso del palazzo dell’accademia.
— Grazie — rispose Jason. Inspirò forte l’aria mattutina, per quanto fosse molto inquinata. “Ne sono uscito” si disse. “Avrebbero potuto inchiodarmi con mille imputazioni, ma non l’hanno fatto.”
Una voce femminile, molto di gola, disse al suo fianco: — E adesso, omettino?
In vita sua, non si era mai sentito chiamare “omettino”; era alto più di un metro e ottanta. Si girò, fece per ribattere qualcosa, poi vide chi gli aveva rivolto la parola.
Anche lei era un metro e ottanta abbondanti; in quello, erano alla pari. Ma, a differenza di lui, la donna indossava calzoni neri aderenti, una camicia in pelle rossa con le frange, orecchini d’oro ad anello e una cintura a maglie di catena. E scarpe con i tacchi a spillo. “Gesù Cristo!” pensò Jason, esterrefatto. “Dov’è la frusta?”
— Stava parlando con me? — chiese.
— Sì. — Lei sorrise, mettendo in mostra denti intarsiati con i simboli zodiacali in oro. — Le hanno messo addosso tre aggeggi, prima di lasciarla uscire. Pensavo che dovesse saperlo.
— Lo so. — Jason si domandò chi o che cosa fosse quella donna.
— Uno dei tre — disse lei — è una bomba H miniaturizzata. Può esplodere se riceve un segnale radio emesso da questo edificio. Sapeva anche questo?
— No. Non lo sapevo.
— È il suo modo di fare — disse la donna. — Mio fratello… Fa il dolce, il carino, il civile. Poi ordina a qualcuno del suo staff, e ha uno staff molto numeroso, di metterle addosso quello schifo prima che lei possa uscire dalle porte del palazzo.
— Suo fratello — disse Jason. — Il generale Buckman. — Adesso notava le somiglianze tra i due. Il naso lungo e sottile, gli zigomi alti, il collo elegantemente affusolato, degno di un Modigliani. Un viso patrizio. Si sentiva estremamente colpito da tutti e due.
“Quindi dev’essere una Sette anche lei” si disse. Si mise di nuovo in guardia. Avvertiva come una sensazione di bruciore intenso al collo.
— Glieli tolgo io — disse lei. Come il generale Buckman, sfoggiava denti incapsulati in oro.
— Molto bene.
— Venga sul mio trabi. — Lei si avviò a passi lievi; lui la seguì zampettando goffo.
Un attimo dopo erano sui sedili anteriori di un trabi.
— Io mi chiamo Alys.
— Io sono Jason Taverner — rispose lui. — Cantante e star televisiva.
— Sul serio? Non guardo un programma televisivo da quando avevo nove anni.
— Non si è persa molto. — Jason non capì se l’avesse detto in maniera ironica. “Francamente” pensò, “sono troppo stanco perché me ne freghi qualcosa.”
— Questa piccola bomba è grande come un seme — disse Alys. — Ed è affondata nella sua pelle come una zecca. Con mezzi normali, se anche lei sapesse di averla addosso, non riuscirebbe mai a individuarla. Ma io ho rubato questo all’accademia. — Gli mostrò una torcia elettrica tascabile a forma di tubo. — Si accende quando c’è una bomba-seme nelle vicinanze. — Cominciò subito, in modo molto efficiente, quasi professionale, a passargli sul corpo la piccola torcia. La luce si accese sopra il polso sinistro di Jason.
— Ho anche il kit che usano per rimuovere le bombe-seme. — Estrasse dalla borsa una scatoletta di latta, che aprì subito. — Prima gliela tolgo, meglio è — disse, prendendo una specie di bisturi dalla scatola.
Armeggiò con mano esperta per un paio di minuti, continuando a spruzzare un analgesico sulla ferita. E alla fine estrasse la bomba. Come aveva detto lei, aveva le dimensioni di un seme.
— Grazie — disse Jason. — Grazie di avermi tolto la spina dalla zampa.
Alys rise allegra. Rimise il bisturi nella scatola, chiuse il coperchio e poi ripose la scatola nella grande borsa. — Vede, non lo fa mai lui di persona. Provvede sempre qualcuno del suo staff. In modo che lui possa continuare a bearsi del suo distacco, come se non c’entrasse per niente. Credo che sia la cosa che odio di più in lui. — Rifletté. — Lo odio sul serio.
— C’è qualcos’altro che può togliermi? — chiese Jason.
— Hanno cercato… ci ha provato Peg, che è un tecnico della polizia esperto in queste cose… di metterle una spia vocale sulla gola. Ma non mi pare che sia riuscita a farla aderire. — Alys esplorò con cautela il collo di Jason. — No, non ha fatto presa. È caduta. Ottimo. Quella è sistemata. Lei ha addosso da qualche parte un microtras. Occorre una luce stroboscopica per individuarne il fascio. — Frugò nel cassetto del cruscotto e pescò un disco stroboscopico a batteria. — Penso di poterlo individuare — disse, e mise in funzione il dispositivo che teneva in mano.
Si scoprì che il microtras era sistemato nel polsino della manica sinistra. Alys lo perforò con un ago.
— C’è nient’altro? — domandò Jason.
— Forse una minicamera. Una telecamera piccolissima che trasmette un’immagine televisiva ai monitor dell’accademia. Ma non li ho visti mettergliene addosso una. Penso che possiamo correre il rischio e lasciar perdere. — A quel punto, Alys si girò a scrutare Jason. — Lei chi è, fra parentesi? — chiese.
— Una nonpersona.
— Il che significa?
— Significa che non esisto.
— Fisicamente?
— Non lo so — rispose lui, in tutta sincerità. “Forse” pensò, “se fossi stato più aperto con suo fratello, il generale di polizia, magari lui sarebbe riuscito a capire.” Dopo tutto, Felix Buckman era un Sette. Qualunque cosa questo significasse.
In ogni caso, Buckman aveva sondato nella direzione giusta, aveva portato molte cose allo scoperto. E in un arco brevissimo di tempo: quanto era bastato per mangiare un boccone e fumare un sigaro.
La donna disse: — Allora lei è Jason Taverner. L’uomo che McNulty ha cercato di incastrare senza riuscirci. L’uomo sul quale non esistono dati nel mondo intero. Non c’è un certificato di nascita, un curriculum scolastico, un…
— Come mai sa tutte queste cose? — la interruppe Jason.
— Ho letto il rapporto di McNulty. — Il tono di Alys era allegro. — Nell’ufficio di Felix. Mi interessava.
— Allora perché mi ha chiesto chi sono?
— Mi domandavo se lei lo sapesse. Avevo sentito la versione di McNulty e volevo la sua. Il lato antipol, come lo chiamano.
— Non sono in grado di aggiungere niente a ciò che sa McNulty — disse Jason.
— Non è vero. — Adesso lei aveva cominciato a interrogarlo, nello stesso identico modo usato poco prima da suo fratello. Un tono di voce basso, colloquiale, come se si stesse discutendo di qualcosa che non aveva importanza; poi l’intensa concentrazione sul viso di Jason, gli aggraziati movimenti di braccia e mani, come se, parlando con lui, Alys stesse anche un poco danzando. Con se stessa. “La bellezza che danza con la bellezza” pensò lui. La trovava fisicamente, sessualmente eccitante. E Dio sapeva se non ne avesse avuto abbastanza di sesso per parecchi giorni.
— Okay — aggiunse. — Ne so di più.
— Più di quanto ha detto a Felix?
Lui esitò. E, così facendo, le rispose.
— Sì — disse Alys.
Jason scrollò le spalle. Ormai era ovvio.
— Senta una cosa. — Il tono di Alys era deciso. — Le piacerebbe vedere come vive un generale di polizia? La sua casa? Il suo castello da un miliardo di dollari?
— Lei mi ci lascerebbe entrare? — Jason era incredulo. — Se lui lo scoprisse… — Si fermò. “Dove mi sta portando questa donna?” si chiese. In un pericolo terribile: tutto in lui glielo faceva presagire, ogni singolo particolare lo metteva all’erta. Sentiva la propria astuzia pulsargli dentro, riversarsi in ogni parte del suo io somatico. Il suo corpo sapeva che in quel momento, più che in ogni altra occasione della sua vita, doveva stare attento. — Ha accesso legale alla sua casa? — chiese. Si calmò, rese la propria voce naturale, priva di tensioni.
— E che diavolo! Ci vivo — rispose Alys. — Siamo gemelli. Siamo molto intimi. Incestuosamente intimi.
— Non voglio finire in una trappola architettata da lei e dal generale Buckman.
— Una trappola architettata da Felix e da me? — Lei scoppiò a ridere. — Felix e io non riusciremmo a collaborare nemmeno per dipingere uova pasquali. Facciamo un salto a casa nostra. Fra tutti e due abbiamo accumulato diversi oggetti interessanti. Scacchiere medievali in legno, antiche tazze di porcellana inglese. Alcuni stupendi esemplari di vecchi francobolli emessi negli Stati Uniti dalla National Banknote Company. Le interessano i francobolli?
— No — disse Jason.
— Le armi?
Lui esitò. — Fino a un certo punto. — Ricordò la propria pistola. Era la seconda volta in ventiquattro ore che gli ritornava in mente.
Alys lo scrutò. — Per essere un omettino non è poi brutto. Ed è più vecchio di quel che piace a me… ma non troppo. Lei è un Sei, giusto?
Lui annuì.
— Allora? — disse Alys. — Vuol vedere il castello di un generale di polizia?
— Okay — rispose Jason. L’avrebbero trovato ovunque andasse, in qualunque momento. Con o senza un microtras sul suo polsino.
Alys Buckman accese il motore del trabi, sterzò, premette sull’acceleratore. Il trabi schizzò in su a un angolo di novanta gradi rispetto alla strada. “Un modello della polizia” osservò Jason. “Con una potenza doppia rispetto ai modelli normali.”
— C’è una cosa — disse Alys, manovrando nel traffico — che voglio che lei si ficchi bene in mente. — Si girò a guardarlo per assicurarsi che lui stesse ascoltando. — Non mi faccia delle avance. Se lo farà, la ucciderò. — Si batté una mano sulla cintura, e Jason vide, infilata sotto la catena, una pistola a tubo del tipo in dotazione alla polizia. Luccicava, blu e nera, nel sole del mattino.
— Ricevuto e preso nota — rispose lui, e si sentì a disagio. Già non gli piaceva l’abbigliamento di Alys in pelle e metallo: sottintendeva forti propensioni feticistiche, che non lo avevano mai interessato. E adesso, quell’ultimatum. Quali erano le inclinazioni sessuali della donna? Erano di tipo lesbico? Era così?
In risposta alla sua muta domanda, Alys disse, calma: — Tutta la mia libido e la mia sessualità sono dipendenti da Felix.
— Da suo fratello? — Jason avvertì una gelida incredulità che accrebbe la sua ansia. — Come mai?
— Abbiamo una relazione incestuosa da cinque anni — rispose Alys, destreggiandosi abilmente col trabi nell’intenso traffico del mattino di Los Angeles. — Abbiamo un figlio di tre anni. Sta con una governante e una bambinaia a Key West, in Florida. Si chiama Barney.
— E perché racconta queste cose a me? — Jason era stupefatto al di là del credibile. — A uno che nemmeno conosce?
— Oh, io la conosco molto bene, Jason Taverner. — Alys spostò il trabi su di una corsia di volo più alta e accelerò. Il traffico era diminuito; stavano uscendo dalla Grande Los Angeles. — Sono stata una sua fan, una fan del suo show del martedì sera per anni. E ho i suoi dischi, e una volta l’ho sentita cantare nella Orchid Room dell’hotel St Francis, a San Francisco. — Gli fece un sorriso veloce. — Felix e io siamo collezionisti, tutti e due… E una delle cose che io colleziono sono i dischi di Jason Taverner. — Il sorriso guizzante, frenetico, si aprì ancora di più. — Con gli anni, sono riuscita a recuperarli tutti e nove.
La voce di Jason era roca, tremante. — Dieci. Io ho inciso dieci album. Gli ultimi con effetti di proiezione luminosa.
— Allora me n’è sfuggito uno — disse Alys con un tono sereno di voce. — Forza, si volti e guardi sul sedile posteriore.
Girando la testa, Jason vide il suo primo album, Taverner and the Blue, Blue Blues. — Sì — disse. Lo afferrò, se lo mise sulle ginocchia.
— Ce n’è anche un altro — continuò Alys. — Il mio preferito in assoluto.
Guardando meglio, lui riuscì a vedere una copia, con la copertina sgualcita, di There’ll Be a Good Time with Taverner Tonight. — Sì — ripeté. — È il migliore che abbia mai inciso.
— Visto? — disse Alys. Il trabi cominciò a scendere a spirale verso un gruppo di grandi ville, circondate da alberi ed erba. — Siamo a casa.
Con le pale ora verticali, il trabi atterrò su uno spiazzo in asfalto al centro del grande prato. Jason notò solo distrattamente la casa: tre piani, architettura in stile spagnolo con ringhiere in ferro ai balconi, tetto a tegole rosse, pareti a mattoni oppure stuccate, non capiva bene. Una grande casa, circondata da splendide querce; una casa costruita in armonia col paesaggio, senza violarlo. Si fondeva con alberi ed erba, ne sembrava parte integrante, un’estensione della natura nel regno delle cose create dall’uomo.
Alys spense il motore e aprì con un calcio una portiera recalcitrante. — Lascia i dischi in macchina e vieni con me — disse a Jason, che stava per appoggiare i piedi sul prato.
A malincuore, lui rimise i dischi sul sedile posteriore e seguì Alys, accelerando il passo per raggiungerla. La donna si avvicinò velocemente al grande cancello d’ingresso.
— Abbiamo persino pezzi di vetro cementati in cima ai muri. Per tenere lontani i delinquenti… di questi tempi. Nella nostra epoca. La casa un tempo apparteneva al grande Ernie Till, l’attore dei western. — Alys premette un pulsante sul cancello di fronte alla casa e apparve un pol privato in uniforme grigia. Scrutò la donna, annuì e fece scivolare di lato il cancello.
— Tu cosa sai? — chiese Jason ad Alys. — Sai che sono…
— Sei favoloso — rispose lei, sicura di sé. — Lo so da anni.
— Ma tu sei stata nel luogo da cui provengo. Dove sono sempre stato. Non qui.
Prendendolo per il braccio, Alys lo guidò in un corridoio costruito in mattoni e ardesia. Poi, scesi cinque scalini, sbucarono in un soggiorno al di sotto del livello del suolo, fuori moda per quei tempi, ma bellissimo.
A lui, comunque, non importava proprio niente; voleva parlare con lei, scoprire cosa sapesse. E cosa significasse tutto quel che stava accadendo.
— Ricordi questo posto? — chiese Alys.
— No.
— Dovresti. Ci sei già stato.
— No — disse lui sulla difensiva. Ormai non se la sentiva più di mettere in dubbio anche una sola sillaba di quello che Alys gli diceva, dopo avere visto quei due dischi. “Devo averli” si disse Jason. “Per mostrarli a… già, a chi? Al generale Buckman? E se glieli faccio vedere, cosa ne ricaverò?”
— Una capsula di mescalina? — Alys si spostò davanti al mobile dove teneva le droghe, un grosso armadietto in noce lucido in fondo al banco in cuoio e ottone, al lato opposto del soggiorno.
— Solo una — rispose lui. Restò sorpreso della propria risposta. Sbatté le palpebre. — Voglio mantenermi lucido — spiegò.
Lei gli portò un vassoietto smaltato con un bicchiere di cristallo pieno d’acqua e una capsula bianca. — Roba ottima. Gialla Numero Uno di Harvey, importata all’ingrosso dalla Svizzera e confezionata in capsule a Bond Street. — Aggiunse: — E per niente forte. Altera la percezione dei colori.
— Grazie. — Jason accettò il bicchiere e la capsula. Mandò giù la mescalina con l’acqua e rimise il bicchiere sul vassoio. — Tu non ne prendi? — chiese, sentendosi, troppo tardi, sul chi vive.
— Sono già fatta — disse giuliva Alys, sfoggiando quel suo sorriso dai denti d’oro. — Non te n’eri accorto? Probabilmente no. Non mi hai mai vista in nessun altro stato.
— Sapevi che mi avrebbero portato all’accademia di polizia? — chiese lui. “Dovevi saperlo” pensò, “perché avevi con te i miei due dischi. Se non l’avessi saputo, le probabilità che ti portassi in giro quei dischi sarebbero state nulle.”
— Ho monitorato alcune delle loro trasmissioni. — Alys si voltò e si allontanò irrequieta, tamburellando con l’unghia lunghissima sul vassoietto laccato. — Ho intercettato le comunicazioni ufficiali tra Las Vegas e Felix. Ogni tanto mi diverte ascoltarlo, quando è in servizio. Non sempre, ma… — Indicò una stanza dietro un corridoio, sul lato della parete più vicino a lei. — Voglio vedere una cosa. La mostrerò anche a te, se è bella come dice Felix.
Lui la seguì, con la mente invasa dal mormorio delle domande che lo assillavano. “Se lei riesce a passare dall’altra parte” pensò, “a spostarsi avanti e indietro come sembra che abbia fatto…”
— Ha parlato del cassetto centrale della sua scrivania d’acero — disse meditabonda Alys, ferma al centro della biblioteca della casa: volumi rilegati in pelle su scaffali fissati all’alto soffitto della stanza. Diverse scrivanie, una vetrinetta con piccole tazze, alcune scacchiere antiche, due vecchi mazzi di tarocchi. Alys si avvicinò a una scrivania in stile New England, aprì un cassetto e vi sbirciò dentro. — Ah! — esclamò, ed estrasse una bustina di pergamena trasparente.
— Alys… — cominciò Jason, ma lei lo interruppe con un brusco schioccare di dita.
— Stai zitto intanto che guardo. — Prese dal piano della scrivania una grossa lente d’ingrandimento e studiò la bustina. — Un francobollo — spiegò, alzando la testa. — Lo tiro fuori, così puoi vederlo. — Trovò un paio di pinzette per filatelia, estrasse il francobollo con estrema cura e lo depositò sul tappetino in feltro della scrivania.
Obbediente, Jason guardò con la lente d’ingrandimento. A lui pareva un francobollo come tutti gli altri, a parte il fatto che, a differenza di quelli moderni, era stampato in un solo colore.
— Guarda gli animali — disse Alys. — Il branco di cavalli. Un’incisione assolutamente perfetta. Ogni linea è esatta. Questo francobollo non è mai stato… — Fermò la mano di Jason che stava per toccare il francobollo. — No, no. Mai toccare un francobollo con le dita. Bisogna sempre usare le pinzette.
— Allora è prezioso?
— Non esattamente. Però esemplari come questo non si trovano quasi mai in vendita. Un giorno ti spiegherò. È un regalo di Felix per me, perché mi ama. Perché, dice, sono brava a letto.
— Un bel francobollo — disse Jason, sconcertato. Restituì alla donna la lente d’ingrandimento.
— Felix mi ha detto la verità. È un bell’esemplare. Perfettamente centrato, annullo leggero che non deturpa il disegno centrale e… — Con le pinzette girò il francobollo sul retro e lo rimise sul tappetino capovolto. La sua espressione cambiò all’improvviso. Si imporporò in viso e disse: — Figlio di puttana.
— Cosa c’è? — chiese Jason.
— Un punto rovinato. — Alys toccò con le pinzette un angolo del rovescio del francobollo. — Be’, dal diritto non si vede. Ma è tipico di Felix. Al diavolo, probabilmente è falso. Solo che Felix, in un modo o nell’altro, riesce sempre a non farsi fregare. Okay, Felix. Un punto per te. — Pensosa, aggiunse: — Chissà se ne ha un altro nella sua collezione. Potrei sostituirlo con questo. — Si spostò a una cassaforte a parete, armeggiò per un po’ con la manopola, aprì la cassaforte e prese un album grosso e pesante che portò alla scrivania. — Felix non sa che conosco la combinazione di quella cassaforte. Quindi, non dirglielo. — Girò con cautela le spesse pagine, si fermò su una con quattro francobolli. — Nessun Dollaro Nero — disse. — Ma potrebbe averlo nascosto da qualche altra parte. Potrebbe persino tenerlo all’accademia. — Chiuse l’album e lo ripose nella cassaforte.
— La mescalina — disse Jason — sta cominciando a farsi sentire. — Avvertiva un dolore alle gambe: per lui quello era sempre il segno dell’inizio degli effetti della mescalina. — Mi siedo. — Riuscì a trovare una poltrona in pelle prima che le gambe gli cedessero. O che dessero l’impressione di cedergli. In realtà, era solo un’illusione provocata dalla droga. Ma sembrava comunque molto reale.
— Ti piacerebbe vedere una collezione di tabacchiere riccamente decorate? — chiese Alys. — Felix ha una collezione bellissima. Tutti pezzi d’antiquariato in oro, argento, leghe, con incisioni a cammeo, scene di caccia… No? — Sedette di fronte a lui, accavallando le lunghe gambe inguainate di nero. Le scarpe con i tacchi alti dondolavano avanti e indietro. — Una volta Felix ha comperato una vecchia tabacchiera a un’asta, l’ha pagata una cifra enorme. L’ha portata a casa e l’ha ripulita dai vecchi residui di tabacco e ha trovato una levetta a molla sul fondo, o quello che sembrava il fondo. La leva agiva se si faceva ruotare una minuscola vite. Gli è occorso tutto il giorno per trovare un cacciavite abbastanza piccolo. Ma alla fine ci è riuscito. — Rise.
— Cos’è successo?
— Il fondo era falso. Sotto era nascosta una placchetta in rame. Felix l’ha tirata fuori. — Alys rise di nuovo, facendo luccicare i suoi denti con gli intarsi in oro. — Era un’incisione pornografica vecchia di duecento anni. Una donna che copulava con un pony Shetland. Era anche dipinta, a otto colori. Valeva, diciamo, cinquemila dollari. Non molto, ma ci ha proprio deliziato. Il tipo che gli aveva venduto la tabacchiera, ovviamente, non sapeva che ci fosse la placca.
— Capisco — disse Jason.
— Le tabacchiere non t’interessano — commentò Alys, continuando a sorridere.
— Mi piacerebbe vederla — disse lui. E poi: — Alys, tu sai di me. Sai chi sono. Perché nessun altro lo sa?
— Perché non sono mai stati là.
— Dove?
Alys si massaggiò le tempie, schioccò la lingua, fissò gli occhi nel vuoto, come persa nei propri pensieri. Come se riuscisse a stento a udire Jason. — Lo sai — rispose. Pareva annoiata e un poco irritabile. — Cristo, ci hai vissuto per quarantadue anni! Cosa posso raccontarti di quel posto che tu già non sappia? — Rialzò la testa, e le sue labbra forti si piegarono in un sorriso malizioso.
— Come ho fatto ad arrivare qui? — chiese lui.
— Ti… — Lei esitò. — Non sono certa di dovertelo dire.
— E perché no? — La voce di Jason si era alzata di tono.
— Ogni cosa a suo tempo. — Alys lasciò cadere la mano. — A suo tempo, a suo tempo. Senti, te ne sono già successe tante. Sei quasi stato spedito a un campo di lavori forzati, e tu sai cosa siano, al giorno d’oggi. Grazie a quello stronzo di McNulty e al mio caro fratellino. Mio fratello, il generale di polizia. — Il viso di Alys era come stravolto dal disgusto, ma poi ritrovò quel suo sorriso provocatore. Quel sorriso pigro, invitante, incastonato di denti d’oro.
Jason disse: — Voglio sapere dove mi trovo.
— Sei nel mio studio, a casa mia. Sei al sicuro. Ti ho tolto di dosso tutte le microspie. E nessuno farà irruzione qui. — Poi balzò su dalla sedia, saltò in piedi come un animale straordinariamente agile. Jason, con un gesto istintivo, si ritrasse. — L’hai mai fatto per telefono? — chiese Alys, eccitata, con occhi raggianti.
— Fatto cosa?
— La rete. Non conosci la rete telefonica?
— No — rispose lui. Anche se non era vero.
— Le tue inclinazioni sessuali, o quelle di chiunque, vengono collegate elettronicamente e amplificate fino ai limiti di sopportazione. È una cosa che dà assuefazione, per via dell’amplificazione elettronica. Certa gente finisce in un’immersione così profonda da non riuscire più a riemergerne. Le loro vite cominciano a dipendere dal collegamento settimanale, o magari addirittura quotidiano, con la rete telefonica. Si usano normali videotelefoni, attivati con la carta di credito, per cui sul momento non si paga. I gestori mandano una bolletta mensile e, se non arriva il denaro, si viene esclusi dalla rete.
— Quante persone si collegano?
— Migliaia.
— Migliaia per volta?
Alys annuì. — Molti di loro lo fanno da due o tre anni. E hanno subito un deterioramento fisico e mentale. Perché la parte di cervello che prova l’orgasmo finisce gradualmente col bruciarsi. Ma non farti dei pregiudizi su queste persone. In rete si trovano alcune delle menti più brillanti e sensibili del pianeta. Per loro si tratta di una sacra comunione. A parte il fatto che puoi individuare subito un retaiolo, se lo vedi. Sono tutti disfatti, invecchiati, grassi, irrequieti… Irrequieti solo tra un collegamento in rete e l’altro, ovviamente.
— E tu lo fai? — Alys non sembrava affatto disfatta, invecchiata, grassa o irrequieta.
— Ogni tanto. Ma non mi lascio mai agganciare. Mi scollego appena in tempo. Vuoi provarci?
— No.
— Okay. — Il tono di Alys era molto pacato e sereno. — Cosa ti piacerebbe fare? Abbiamo una buona collezione di Rilke e Brecht su disco, con traduzioni interlineari. L’altro giorno Felix è tornato a casa con l’edizione completa delle sette sinfonie di Sibelius in quadrifonia, con effetti luminosi. Bellissima. Emma preparerà per cena zampe di rana… A Felix piacciono le zampe di rana e le lumache. Di solito mangia fuori, nei migliori ristoranti francesi e baschi, ma stasera…
— Voglio sapere — la interruppe Jason — dove mi trovo.
— Non puoi cercare di essere felice e basta?
Lui si alzò in piedi, con una certa difficoltà, e fissò Alys. In silenzio.
La mescalina aveva cominciato a fargli un effetto potentissimo. La stanza si illuminò di colori, e la prospettiva si alterò: il soffitto sembrava alto due milioni di chilometri. E, guardando Alys, Jason vide i suoi capelli prendere vita. Come quelli di Medusa, pensò, ed ebbe paura.
Alys lo ignorò. — A Felix piace soprattutto la cucina basca, ma è talmente ricca di burro che gli dà spasmi al piloro. Ha anche una bella collezione di Weird Tales, e adora il baseball. E… Vediamo. — Si scostò da lui, battendo l’indice sulle labbra mentre rifletteva. — Gli interessa l’occulto. Tu…
— Sento qualcosa — disse Jason.
— Cosa?
— Non me ne posso andare da qui.
— È la mescalina. Stai calmo.
— lo… — Rifletté. Un peso enorme gli gravava sul cervello, ma negli interstizi di quel peso brillavano qua e là lampi di luce, di illuminazione degna di un satori.
— Quello che colleziono io — disse Alys — si trova nella stanza qui accanto. Quella che chiamiamo “la biblioteca”. Questo è lo studio. Felix tiene in biblioteca tutti i suoi testi di legge… Lo sapevi che è avvocato, oltre che generale di polizia? E ha compiuto alcune buone azioni, devo ammetterlo. Lo sai cos’ha fatto una volta?
Jason non riusciva a rispondere. Poteva solo starsene lì, inerte, a udire il suono delle parole di lei. Ma senza comprenderne il significato.
— Per un anno, Felix ha avuto sulle sue spalle la responsabilità di un quarto dei campi di lavori forzati di tutta la Terra. Ha scoperto che, in forza di una legge quasi dimenticata, approvata anni addietro quando i campi di lavori forzati erano più che altro campi della morte, con moltissimi prigionieri di colore… Be’, ha scoperto che quella legge permetteva l’esistenza dei campi solo durante la seconda guerra civile. E di avere il potere di chiudere qualunque campo, nel momento che gli sembrasse più opportuno per l’interesse pubblico. E i neri e gli studenti che erano stati prigionieri nei campi erano diventati robusti dopo tutti quegli anni di pesante lavoro manuale. Non erano come gli studenti fiacchi e svogliati che vivono nelle aree dei campus. Poi ha fatto delle ricerche e ha scoperto un’altra legge ormai in disuso: un campo di lavori forzati che non produca profitto deve, o meglio doveva, essere chiuso. Così Felix ha aumentato lo stipendio, bassissimo ovviamente, versato ai detenuti. Gli è bastato far questo, dimostrare che i libri contabili erano in rosso e, bam!, si è trovato nella posizione di potere chiudere i campi. — Alys rise.
Lui tentò di parlare, ma non ci riuscì. La sua mente rotolava come una palla di gomma ridotta a brandelli, saliva e scendeva, rallentava, accelerava, sbiadiva e poi avvampava sfolgorante. I dardi di luce lo passavano da parte a parte, trafiggevano ogni atomo del suo corpo.
— Ma la cosa più sensazionale che ha fatto Felix — continuò Alys — riguarda i kibbutz degli studenti nei campus bruciati. Molti di loro hanno un bisogno disperato di cibo e acqua. E allora, cosa succede? Gli studenti cercano di introdursi in città per procurarsi dei viveri. Rubano e saccheggiano. Be’, la polizia ha un sacco di agenti infiltrati tra gli studenti. Fanno gli agitatori, cercano di provocare uno scontro decisivo con la polizia… un evento che pol e naz aspettano con grandi speranze. Riesci ad afferrare la situazione?
— Quello che afferro — rispose lui — è un cappello.
— Ma Felix ha sempre cercato di evitare lo scontro. Però, per riuscirci, doveva procurare dei viveri agli studenti. Mi segui?
— Il cappello è rosso — disse Jason. — Come le tue orecchie.
— Grazie alla sua posizione di maresciallo nella gerarchia della polizia, Felix aveva accesso ai rapporti degli informatori sulle condizioni di ogni kibbutz studentesco. Sapeva quali stessero andando a rotoli e quali funzionassero. Era suo compito estrarre dal calderone dei dati i fatti essenziali, importanti: quali kibbutz stessero andando in rovina e quali no. Dopo avere compilato un elenco dei kibbutz fallimentari, si incontrò con altri ufficiali ai massimi livelli per decidere le tattiche migliori per esercitare pressioni capaci di portare al tracollo definitivo. Sommosse scatenate dagli infiltrati della polizia, sabotaggio delle riserve di cibo e acqua. Sortite disperate, al di fuori dei confini universitari in cerca d’aiuto. Per esempio, alla Columbia a un certo momento avevano deciso di raggiungere il campo di lavoro Harry S. Truman, liberare i prigionieri e armarli, e lì persino Felix è stato costretto a dare l’ordine di intervenire. Comunque, spettava a lui decidere la tattica per ogni singolo kibbutz. Molte, moltissime volte ha consigliato di rinunciare a qualunque tipo di azione. Per questo, ovviamente, i reazionari più accaniti l’hanno criticato, hanno chiesto che venisse rimosso dal suo grado. — Alys fece una pausa. — All’epoca era maresciallo di polizia, devi rendertene conto.
— Il tuo rosso — disse Jason — è fantidoloso.
— Lo so. — Alys fece una smorfia. — Non sei capace di reggere la droga, amico? Sto cercando di dirti qualcosa. Felix è stato degradato, da maresciallo a generale di polizia, perché, quando ha potuto, ha fatto in modo che nei kibbutz gli studenti venissero lavati, nutriti, forniti di medicinali e di brandine. Proprio come ha fatto con i campi di lavori forzati sotto la sua giurisdizione. Così adesso è un semplice generale. Però lo lasciano in pace. Hanno già fatto tutto il possibile per punirlo, e lui ha ancora un grado elevato.
— Ma il vostro incesto… — disse Jason. — E se? — Si fermò. Non riusciva a ricordare il resto della frase. — Se — disse, e quello fu quanto. Provò un ardente calore interno, dovuto al fatto di essere riuscito a trasmettere ad Alys il proprio messaggio. — Se — ripeté, e il fulgore avvampò di furibonda gioia. Emise un’esclamazione.
— Vuoi dire: e se i marescialli sapessero che Felix e io abbiamo un figlio? Cosa farebbero?
— Farebbero — disse Jason. — Non potremmo ascoltare un po’ di musica? Oppure dammi… — Le sue parole si interruppero; non ne affluirono altre al suo cervello. — Gesù — disse. — Mia madre non sarebbe comunque qui. Morte.
Alys inspirò forte l’aria e poi sospirò. — Okay, Jason — disse. — La smetterò di cercare di chiacchierare con te. Finché non sarai tornato lucido.
— Parla.
— Vuoi vedere i miei fumetti sado?
— Cosa sono? — chiese lui.
— Disegni, molto stilizzati, di donne legate e uomini…
— Posso sdraiarmi? Non mi funzionano più le gambe. Mi pare che la destra arrivi fino alla Luna. In altre parole… — Jason rifletté. — Me la sono rotta stando in piedi.
— Vieni qui. — Passo dopo passo, Alys lo guidò fuori dallo studio, lo portò di nuovo in soggiorno. — Stenditi sul divano. — Con straziante lentezza, lui obbedì. — Vado a prenderti della Torazina. Annullerà gli effetti della mescalina.
— È tutto un disastro — disse lui.
— Vediamo. Dove diavolo l’ho messa? Ho bisogno di usarla solo di rado, anzi praticamente mai, però ne tengo sempre nel caso succeda qualcosa del genere… Porca miseria, non riesci a prendere una sola capsula di mescalina e continuare a essere te stesso? Io ne prendo cinque per volta.
— Ma tu sei gigantesca — disse Jason.
— Torno subito. Vado di sopra. — Alys si diresse verso una porta parecchio lontana. Per un lungo, lunghissimo tempo lui restò a guardarla rimpicciolirsi: come ci riusciva? Era incredibile che potesse restringersi praticamente fino a ridursi a zero. Poi sparì. A quel punto, lui provò una paura terribile. Sapeva di essere ormai solo. “Chi mi aiuterà?” si chiese. “Devo andarmene da questi francobolli e tazzine e tabacchiere e fumetti sado e reti telefoniche e zampe di rana devo arrivare a quel trabi devo volare via e tornare ai posti che conosco tornare in città magari da Ruth Rae se l’hanno lasciata andare o persino da Kathy Nelson questa donna è troppo per me come del resto suo fratello loro e il loro figlio incestuoso che sta in Florida e si chiama come?”
Si alzò ondeggiando, avanzò a fatica su un tappeto che gli proiettava addosso milioni di scie di pigmento allo stato puro mentre lui lo percorreva, mentre lo schiacciava con le sue possenti scarpe, e poi, finalmente, sbatté contro la porta d’ingresso di quella stanza instabile.
La luce del sole. Era uscito.
Il trabi.
Avanzò barcollando in quella direzione.
Salito, sedette al posto di guida, annichilito dalle legioni di interruttori, leve, ruote, pedali, quadranti. — Perché non parte? — disse. — Parti! — ordinò, cullandosi avanti e indietro sul sedile. — Alys non mi lascerà mai andare? — chiese al trabi.
Le chiavi. Ovviamente non poteva decollare senza chiavi.
La giacca di Alys sul sedile posteriore; l’aveva vista. E anche la sua grande borsa. Ecco dov’erano, le chiavi. Ecco dove. Nella borsa.
I due album. Taverner and the Blue, Blue Blues. E il migliore di tutti: There’ll Be a Good Time. Armeggiò sul retro del trabi, riuscì in qualche modo ad afferrare tutti e due gli album, a trasferirli sul sedile vuoto al suo fianco. “Ho le prove” si rese conto. “Sono qui nei dischi e qui in casa sua. Con lei. Devo trovarle qui, se voglio. Trovarle. Qui e da nessun’altra parte. Nemmeno il signor generale Felix comesichiama le troverà. Non sa. Proprio come me.”
Portando con sé i giganteschi album, tornò di corsa verso la casa. Attorno a lui fiorivano snelli, alti organismi simili ad alberi che ingurgitavano aria dal dolce cielo azzurro, organismi che assorbivano acqua e luce, divoravano il colore del cielo… Raggiunse il cancello, spinse. Il cancello non si mosse. Il pulsante.
Non lo trovò.
Passo dopo passo. Tastare ogni centimetro con le dita. Come se fosse al buio. “Sì” pensò, “sono al buio.” Mise giù gli album enormemente grandi, si appoggiò al muro a fianco del cancello, massaggiò lentamente la superficie gommosa del muro. Niente. Niente.
Il pulsante.
Lo premette, abbrancò gli album, restò in piedi davanti al cancello che incredibilmente, lentamente, si aprì, gracchiando una sua rumorosa protesta.
Apparve un uomo in uniforme marrone, armato. Jason disse: — Sono dovuto tornare a prendere una cosa che avevo scordato sul trabi.
— È tutto a posto, signore — disse l’uomo con l’uniforme marrone. — L’ho vista uscire e sapevo che sarebbe tornato.
— La donna è pazza? — gli chiese Jason.
— Non sono nella posizione per poterle dare una risposta, signore — rispose l’uomo con l’uniforme marrone, e indietreggiò, sfiorando con la mano la visiera del berretto.
La porta d’ingresso della casa era ancora aperta, come l’aveva lasciata lui. Jason rientrò, scese gli scalini di mattoni, si ritrovò in quel soggiorno del tutto irregolare, con il soffitto alto due milioni di chilometri. — Alys! — disse. Lei era nella stanza? Scrutò con cura meticolosa in ogni direzione, come aveva fatto per cercare il pulsante. Spostò lo sguardo su ogni centimetro visibile della stanza. Il banco all’estremità, con quel bel mobile in noce per le droghe. Divano, poltrone. Quadri alle pareti. Il viso di uno dei quadri si stava facendo beffe di lui, ma a Jason non importava: non poteva lasciare la parete. Il giradischi quadrifonico…
I suoi dischi. Ascoltarli.
Tentò di sollevare il coperchio del giradischi, ma non voleva muoversi. Perché? Era chiuso a chiave? No, bisognava spingerlo di lato. Jason lo spinse, e il coperchio si mosse con un rumore terribile, come se fosse stato distrutto. Il braccio. Il perno. Estrasse dalla busta uno dei suoi album e lo sistemò sul piatto. “Questi aggeggi li so far funzionare” si disse, e accese l’amplificatore, regolandolo sulla posizione “phono”. Il pulsante che accendeva il giradischi. Lo premette. Il braccio si sollevò; il piatto cominciò a girare, con una lentezza straziante. Che diavolo succedeva? Era sbagliata la velocità? No. Controllò; era a posto. Trentatré giri e un terzo. Il meccanismo ebbe un sussulto, e il disco scese sul piatto.
Il rumore forte della puntina che si appoggiava sui solchi iniziali. I crepitii della polvere. Ticchettii. Tipico dei vecchi album quadrifonici. Non ci voleva niente per danneggiarli: bastava respirarci sopra.
Suoni di fondo. Altri crepitii.
Nessuna musica.
Jason sollevò il braccio, lo spostò più avanti. Un forte ruggito quando la puntina si appoggiò sulla superficie. Lui fece una smorfia, cercò il comando per abbassare il volume. Ma ancora non c’era musica. Non c’era il suono della sua voce che cantava.
La morsa della mescalina cominciava a diminuire. Si sentiva freddamente, lucidamente sobrio. L’altro disco. Lo estrasse in fretta dalla copertina, lo mise sul perno, lo fece scendere sul piatto.
Il suono della puntina che toccava la superficie plastica. Suoni di sottofondo, e gli inevitabili crepitii. Ma niente musica.
Sui dischi non era inciso nulla.