I LA CERCA DEL WEYR

Tu batti, tamburino; tu soffia, pifferaio;

tu suona, arpista; e tu, soldato, va’.

Si scateni la fiamma, ardan tutte le erbe

finché la Stella Rossa passerà.

Lessa si svegliò, raggelata. L’agghiacciava qualcosa di più del freddo che emanava dalle mura di pietra perpetuamente viscide d’umidità. Era il gelo della precognizione di un pericolo ancora più grave di quello di dieci Giri completi prima, che pure l’aveva spinta a nascondersi, gemendo di terrore, nel covile fetido del wher da guardia.

Irrigidita nella concentrazione, Lessa rimase distesa sulla paglia del puzzolente magazzino dei formaggi, dove dormiva insieme alle altre sguattere. In quel presagio malaugurante vi era un’immediatezza incalzante, diversa da qualunque altro presentimento. Lessa sfiorò la consapevolezza del wher da guardia, che strisciava in cerchio nel cortile. Girava al limite estremo della catena, fin quasi a soffocarsi. Era irrequieto: tuttavia non sembrava aver notato qualcosa di insolito nelle tenebre che precedevano l’alba.

Lessa si raggomitolò su se stessa, tesa, cercando di alleviare la tensione delle spalle. Poi si costrinse a rilassarsi, muscolo dopo muscolo, giuntura dopo giuntura, e cercò di comprendere quale potesse essere la minaccia impalpabile che aveva potuto svegliarla, senza tuttavia allarmare il sensibilissimo wher da guardia.

Indubbiamente, il pericolo non si trovava all’interno delle mura della Fortezza di Ruatha. E neppure si stava avvicinando al perimetro selciato, all’esterno della Fortezza, dove l’erba implacabile si era insinuata tra l’antica calce, verde testimonianza della decadenza della Fortezza, un tempo di sasso polito. Il pericolo non stava avanzando lungo il camminamento, ormai pochissimo usato, che saliva dalla valle, e non era neanche in agguato nelle dimore in pietra degli artigiani ai piedi del precipizio. Il suo odore non contaminava il vento che soffiava dalle fredde spiagge di Tillek. Eppure faceva vibrare acutamente i suoi sensi, scuoteva ogni nervo della sua snella figura. Ormai completamente sveglia, Lessa cercò di identificarlo prima che la precognizione si dileguasse. Si protese all’esterno, verso il Passo, più lontano di quanto si fosse mai spinta. Quale che fosse la minaccia, non si trovava a Ruatha… per ora. E non aveva neppure un sentore conosciuto. Quindi non si trattava di Fax.

Lessa aveva provato una cauta soddisfazione nel constatare che ormai Fax non si faceva vedere a Forte Ruath da tre Giri completi. L’apatia degli artigiani, gli edifici in rovina, persino le pietre del Forte, orlate d’erba verde, facevano infuriare Fax, autoproclamatosi Signore delle Terre Alte, al punto che egli preferiva dimenticare la ragione che lo aveva spinto a soggiogare quella Fortezza, un tempo così fiera e prosperosa.

Spinta dall’impulso invincibile di identificare quella minaccia opprimente, Lessa cercò a tentoni i sandali, tra la paglia. Si alzò, scuotendosi meccanicamente i fili di paglia dai capelli opachi che si annodò sulla nuca, in fretta, in una rozza crocchia.

Avanzò tra le sguattere addormentate, che giacevano ammucchiate insieme per riscaldarsi, e salì silenziosamente la scala consunta che portava alla cucina. Il cuoco e il suo aiutante erano distesi sul lungo tavolo, davanti al grande camino, volgendo le ampie spalle al calore del fuoco coperto, e russavano in toni discordi. Lessa attraversò furtiva la cucina simile a una caverna, si diresse alla porta che dava sul cortile delle stalle. Schiuse l’uscio appena quanto bastava per far passare il suo corpo snello. I ciottoli trasmisero una sensazione di freddo attraverso le suole sottile dei sandali; rabbrividì, quando l’aria notturna si insinuò nei suoi indumenti rattoppati.

Il wher da guardia strisciò attraverso il cortile, verso di lei, supplicandola, come sempre, di liberarlo. Mentre la bestia si adattava al suo passo, lei accarezzò teneramente le grinze delle orecchie appuntite. Abbassò con dolcezza lo sguardo verso quella testa spaventosa, e gli promise una bella grattata. Il wher si acquattò gemendo, trattenuto dalla catena, mentre Lessa proseguiva, diretta verso i gradini corrosi che portavano al bastione sovrastante la porta massiccia della Fortezza. Giunta sulla torre, guardò verso oriente, dove i rialzi rocciosi del Passo spiccavano, in un rilievo nero, contro i primi bagliori del giorno.

Si girò indecisa verso sinistra, perché il senso di pericolo sembrava provenire anche da quella direzione. Levò lo sguardo, attratta dalla Stella Rossa che da qualche tempo aveva incominciato a dominare il cielo mattutino. La stella irradiò un’ultima pulsazione color rubino, prima che il suo splendore si perdesse nella luce sfolgorante del sole di Pern. Frammenti sconnessi e incoerenti di favole e di ballate, che parlavano dell’apparizione mattutina della Stella Rossa, le sfrecciarono nella mente, troppo fulminei per avere un senso. E l’istinto le diceva che, sebbene il pericolo potesse giungere anche da Nord-Est, una minaccia ancora più grave si stava profilando da oriente. Aguzzò gli occhi, come se la vista potesse varcare l’abisso tra il pericolo e lei, e fissò assorta verso Est. L’interrogativo fievole, zufolato del wher da guardia, la raggiunse proprio nell’istante in cui la precognizione svaniva.

Lessa sospirò. In quell’alba non aveva trovato una spiegazione, ma soltanto prodigi in contrasto fra loro. Doveva aspettare. L’avvertimento era giunto, e lei lo aveva accettato. Era abituata ad aspettare. Le altre sue armi erano la perversità, la costanza e l’astuzia, cariche della pazienza inesauribile della consacrazione alla vendetta.

La luce dell’alba illuminò il paesaggio sconvolto, i campi incolti della valle sottostante, scese sugli orti maltenuti, dove i branchi sparsi del bestiame da latte andavano alla ricerca delle erbe primaverili. A Ruatha, pensò Lessa, l’erba cresceva dove non avrebbe dovuto spuntare, e moriva dove avrebbe dovuto abbondare. Ormai faticava a ricordare l’aspetto che un tempo aveva avuto la Valle di Ruatha, dolce, felice, ricca. Prima dell’arrivo di Fax. Un bizzarro sorriso pensoso le incurvò le labbra disabituate a sorridere. Fax non traeva nessun vantaggio dalla conquista di Ruatha… e non lo avrebbe mai tratto finché lei, Lessa, era ancora viva. E Fax non sospettava neppure lontanamente la causa di quella decadenza.

O forse lo sospettava, pensò Lessa, la mente ancora echeggiante di quella selvaggia precognizione del pericolo. A occidente sorgeva la Fortezza avita di Fax, la sola che gli appartenesse legittimamente. A Nord-Ovest c’era ben poco, oltre le montagne nude e rocciose, e il Weyr che proteggeva Pern.

Lessa si stiracchiò, inarcando il dorso, aspirando il vento dolce e incontaminato del mattino.

Nel cortile delle stalle un gallo cantò. Lessa si girò di scatto su se stessa, il volto teso, gli occhi che sfrecciavano all’esterno del Forte, per accertarsi che nessuno la stesse osservando in quella posa così poco caratteristica. Si sciolse i capelli, lasciando ricadere la massa disordinata perché le nascondesse il viso. Il suo corpo si piegò nella postura aggobbita e sciatta che ostentava sempre. Scese a precipizio le scale, avviandosi verso il wher da guardia che gemeva pietosamente e sbatteva i grandi occhi abbagliati dalla luce sempre più intensa del giorno. Ignorando il puzzo del suo alito fetido, Lessa abbracciò la testa scagliosa, grattandone le orecchie e le orbite. Il wher da guardia, in un’estasi di piacere, tremava in tutto il lungo corpo: le ali tarpate frusciavano. Era il solo a sapere chi fosse lei. Ed era l’unico essere, in tutto Pern, di cui lei si era fidata, a partire da quel mattino in cui aveva cercato disperatamente rifugio nel covile buio e fetido, per sfuggire alle spade assetate che avevano bevuto già tanto sangue ruathano.

Si rialzò lentamente, raccomandando al wehr di mostrarsi cattivo con lei come con tutti gli altri, quando vi era qualcuno nelle vicinanze. L’animale promise di obbedirle, ondeggiando avanti e indietro per sottolineare la propria riluttanza.

I primi raggi del sole si affacciarono sopra le mura esterne del Forte; il wher da guardia, gridando, saettò nello sua tana scura. In fretta, Lessa ritornò alla cucina, rientrò nel magazzino dei formaggi.

Là dal Weyr e dalla Conca,

bronzei, marroni, azzurri e verdi,

I Dragonieri di Pern s’innalzano:

ora li vedi e subito li perdi.

F’lar, sul grande collo del bronzeo Mnementh, fu il primo ad apparire nel cielo, al di sopra della Fortezza principale di Fax, sedicente signore delle Terre Alte. Dietro di lui, in una perfetta formazione a cuneo, apparirono gli altri. F’lar controllò automaticamente la formazione: era esatta come nel momento del loro ingresso in mezzo.

Mentre Mnementh descriveva un arco che li avrebbe portati al perimetro del Forte, come si conveniva al carattere amichevole della visita, F’lar osservava con crescente avversione lo stato malconcio delle difese. Le fosse delle pietre focaie erano vuote, ed i canali tagliati nella roccia che si irradiavano dalle fosse erano coperti da uno strato verdastro di muschio.

Esisteva ancora un solo Signore, in tutto Pern, che conservasse la sua Fortezza tutta di pietra, in obbedienza alle antiche Leggi? F’lar strinse le labbra. Una volta che avesse concluso la sua Cerca e fosse stato impresso lo Schema di Apprendimento sarebbe stato giusto tenere al Weyr un solenne Concilio punitivo. E per il guscio d’oro della regina, lui, F’lar, aveva intenzione di esserne il moderatore. Avrebbe sostituito l’attività al letargo. Avrebbe estirpato la faccia verde e pericolosa dalle alture di Pern, le erbe verdi dai suoi edifici. In nessuna fattoria sarebbe stata ammessa una cintura verdeggiante. E le dècime che erano state versate con tanta avarizia e con tanto malanimo, sotto la minaccia delle pietre focaie, sarebbero affluite con debita generosità nel Weyr dei draghi.

Mnementh emise un rombo di approvazione mentre ripiegava le ali per atterrare leggermente sulle pietre inframmezzate d’erba della Fortezza di Fax. Il drago bronzeo finì di ripiegare le grandi ali, e F’lar udì risuonare la sirena d’allarme della Grande Torre del Forte. Mnementh si accucciò, quando F’lar gli indicò che voleva smontare. Il giovane rimase fermo accanto all’enorme testa aguzza di Mnementh, aspettando educatamente l’arrivo del Signore della Fortezza. Guardò pigramente la valle, avvolta nella foschia dal caldo sole primaverile. Non badò alle facce furtive che lo sbirciavano dalle feritoie dei parapetti e dalle finestre aperte nella roccia.

Non si voltò quando un soffio d’aria lo investì, annunciando l’arrivo del resto del suo squadrone. Si accorse tuttavia che F’nor, il cavaliere marrone suo fratellastro, aveva assunto l’abituale posizione alla sua sinistra, a una lunghezza di drago dietro di lui. Con la coda dell’occhio, lo vide schiacciare con il tacco dello stivale l’erba che spuntava tra le pietre.

Dal grande Cortile, oltre le porte spalancate, uscì un ordine, smorzato in un intenso bisbiglio. Quasi subito apparve un gruppo di uomini, guidati da un individuo robusto, di media statura.

Mnementh inarcò il collo, piegando la testa in modo da posare il mento al suolo. Gli occhi sfaccettati del drago, che si trovavano all’altezza della testa di F’lar, si fissarono con sconcertante interesse sul drappello che si avvicinava. I draghi non riuscivano mai a capire perché suscitassero, nella gente comune, una paura così irrefrenabile. In un solo momento della sua vita, un drago era capace di aggredire un essere umano; e la cosa era giustificabile, data la sua ignoranza. F’lar non poteva spiegare al drago le ragioni politiche che imponevano la necessità di ispirare paura agli abitanti delle Fortezze, sia al Signore che agli artigiani. Poteva soltanto constatare che la paura e l’apprensione dipinte sui volti di quegli uomini, sebbene turbasse Mnementh, a lui, F’lar, dava uno strano senso di soddisfazione.

«Benvenuto, bronzeo Cavaliere del Drago, alla Fortezza di Fax, Signore delle Terre Alte. Egli è al tuo servizio.» L’uomo eseguì un saluto adeguatamente rispettoso.

L’uso della terza persona poteva venire considerato, a voler essere meticolosi, come un insulto velato. Il particolare quadrava con ciò che F’lar sapeva di Fax; e quindi lo ignorò. Le informazioni erano esatte anche nel descrivere Fax come un individuo avido. I suoi occhi irrequieti saettavano annotando ogni dettaglio dell’abbigliamento di F’lar, e la fronte si aggrottò lievemente quando egli scorse l’impugnatura della spada, elegantemente intarsiata.

A sua volta, F’lar notò i molti, ricchi anelli scintillanti alle dita della mano sinistra di Fax. La destra era rimasta lievemente inclinata, secondo l’abitudine del guerriero di professione. La tunica, di tessuto prezioso, era macchiata, non troppo fresca. I piedi calzati di pesanti stivali di pelle di wher erano saldamente piantati al suolo; il suo peso era equilibrato in avanti, sulla punta delle dita. Era un uomo da trattare con cautela, decise F’lar, come si conveniva al conquistatore di cinque Fortezze confinanti. Quell’audacia avida era già una rivelazione in se stessa. Fax ne aveva acquisita una sesta per matrimonio, e aveva ereditato legalmente una settima, per quanto in circostanze molto insolite. E godeva la reputazione di uomo molto libertino. In quelle sette Fortezze, pensò F’lar, avrebbe potuto condurre una Cerca fruttuosa. R’gul poteva pure andarsene a svolgere la sua Cerca a Sud, tra quelle donne indolenti, anche se incantevoli. Il Weyr, questa volta, aveva bisogno di una donna forte; Jora era stata peggio che inutile con Nemorth. L’avversità e l’incertezza erano le condizioni in cui si forgiavano le qualità che F’lar più desiderava in una Dama del Weyr.

«Siamo impegnati nella Cerca,» dichiarò gentilmente F’lar. «E chiediamo l’ospitalità della tua Fortezza, Nobile Fax.»

Fax socchiuse impercettibilmente gli occhi, appena sentì parlare della Cerca.

«Avevo sentito dire che Jora era morta,» rispose Fax, smettendo bruscamente di usare la terza persona, come se F’lar, ignorandola, avesse superato una specie di prova. «Così, Nemorth ha deposto un uovo da cui nascerà una regina, hum?» continuò, mentre il suo sguardo sfrecciava sullo schieramento dello squadrone, valutando la disciplina dei piloti, il colorito sano dei draghi.

F’lar non si degnò di rispondere a una domanda così ovvia.

«E, Nobile…» Fax esitò, inclinando lievemente la testa, con aria d’attesa, in direzione del dragoniere.

Per un attimo breve quanto un battito del cuore, F’lar si chiese se quell’uomo lo stesse provocando volutamente con questi insulti sottili. I nomi dei cavalieri bronzei avrebbero dovuto essere conosciutissimi in tutto Pern, come il nome della Regina dei draghi e della sua Dama del Weyr, F’lar conservò un’espressione composta, gli occhi fissi in quelli di Fax.

Tranquillamente, con una ben calcolata sfumatura di arroganza, F’nor si fece avanti e si fermò un poco più indietro della testa di Mnementh, sfiorando negligentemente con una mano la giuntura della mascella dell’enorme animale.

«Il cavaliere bronzeo di Mnementh, il Nobile F’lar, avrà bisogno di un alloggio personale. Io, F’nor, cavaliere marrone, preferisco essere alloggiato insieme agli altri. In tutto, siamo dodici.»

F’lar apprezzò l’elegante allusione di F’nor, che poneva in risalto la forza dello squadrone, come se Fax fosse stato incapace di contare. E F’nor aveva formulato la frase con abilità estrema, in modo che il Signore delle Terre Alte non aveva la possibilità di protestare per l’insulto che gli veniva restituito.

«Nobile F’lar,» disse Fax, con un sorriso a denti stretti, «le Terre Alte sono molto onorate della tua Cerca.»

«Tornerà a tutto onore delle Terre Alte,» rispose serenamente F’lar, «se una di esse potrà fornire la Dama del Weyr.»

«Tornerà a nostro eterno onore,» replicò Fax, con altrettanta soavità. «Nei tempi andati, molte famose Dame del Weyr sono venute dalle mie Fortezze.»

«Dalle tue Fortezze?» chiese F’lar, con un sorriso educato, sottolineando quel plurale. «Ah, già, ora tu sei Signore di Ruatha, non è vero? Molte Dame del Weyr provenivano appunto da quella Fortezza.»

Un’espressione strana e tesa apparve sul viso di Fax, subito sostituita da un ampio sorriso volutamente affabile. Poi l’uomo si fece da parte, e fece un gesto per invitare F’lar ad entrare nella sua Fortezza.

Il comandante del drappello di Fax latrò frettoloso un ordine, e gli uomini si disposero in doppia fila; gli stivali dai tacchi rinforzati di metallo fecero scaturire scintille dalle pietre.

Senza bisogno di ordini impartiti a voce, tutti i draghi si innalzarono in un vortice d’aria smossa e di polvere. F’lar avanzò a grandi passi disinvolti verso il drappello d’onore. Gli uomini rotearono gli occhi, allarmati, mentre gli animali planavano, diretti verso i cortili interni. Qualcuno, dalla Torre Alta, lanciò un grido di spavento quando Mnementh andò a sistemarsi su quella posizione elevata. Con le grandi ali spingeva zaffate d’aria cariche del sentore di fosforo attraverso il cortile interno, mentre manovrava con il corpo massiccio su quella piattaforma d’atterraggio non abbastanza spaziosa.

Per quanto esteriormente non desse segno di accorgersi della costernazione e della paura ispirate dai draghi, F’lar era segretamente divertito e soddisfatto dell’effetto. Era un bene che i Signori delle Fortezze ricordassero di dover avere a che fare anche con i draghi e non soltanto con le loro guide, che erano umane, mortali e assassinabili. Era necessario instillare nuovamente, nel cuore degli uomini moderni, il rispetto per i dragonieri, e non soltanto per i draghi.

«Qui alla Fortezza ci siamo appena alzati da tavola, Nobile F’lar; se vuoi…», suggerì Fax; poi la sua voce si spense, di fronte al rifiuto sorridente di F’lar.

«Presenterò i miei omaggi alla tua Dama, Nobile Fax,» disse questi, e notò, con tacita soddisfazione, che i muscoli della mascella dell’ospite si erano contratti, nell’udite quella risposta protocollare.

F’lar si divertiva mooltissimo. Non era ancora nato al tempo dell’ultima Cerca, la Cerca sfortunata che aveva fornito una incompetente come Jora. Ma aveva studiato i resoconti di molte Cerche precedenti nelle Antiche Cronache, dove si parlava di abili sistemi escogitati per confondere quei Nobili che preferivano tenere sottochiave le loro dame quando arrivavano i dragonieri. Da parte di Fax, rifiutare a F’lar l’occasione di rendere omaggio alla Dama sarebbe stato un insulto gravissimo, da regolare in un duello all’ultimo sangue.

«Non preferisci vedere prima il tuo alloggio?» replicò Fax.

F’lar si tolse dalla manica di morbida pelle di wher un immaginario granello di polvere e scrollò il capo.

«Prima il dovere,» rispose, alzando le spalle in gesto di rincrescimento.

«Naturalmente,» fece secco Fax, e lo precedette a passi decisi, battendo i tacchi per sfogare la rabbia che non poteva esprimere in altro modo.

F’lar e F’nor lo seguirono a passo più lento, varcando l’ingresso a doppi battenti, dai grandi pannelli metallici. Entrarono nella Grande Sala, scavata all’interno della roccia. La tavola a forma di U veniva sparecchiata in quel momento dai servi innervositi, che fecero cadere qualche stoviglia all’ingresso dei due dragonieri. Fax era già arrivato all’estremità opposta della Sala e s’era soffermato, impaziente, davanti alla porta aperta fatta d’una lastra di pietra, unica via d’accesso all’interno della Fortezza che, come tutte le altre, era scavata nelle profondità della roccia, per offrire rifugio a tutti nei momenti di pericolo.

«Non mangiano poi troppo male,» osservò distrattamente F’nor, rivolgendosi a F’lar e accennando agli avanzi che stavano ancora sulla tavola.

«Meglio che al Weyr, a quanto pare,» rispose asciutto F’lar, coprendosi la bocca con una mano quando vide due sguatteri barcollare sotto il peso di un vassoio contenente una carcassa mezza divorata.

«Giovane e tenero,» osservò F’nor, sottovoce, con una sfumatura di amarezza. «Almeno, a giudicare dall’aspetto. E le bestie coriacee le consegnano a noi.»

«Naturalmente.»

«È una Sala molto fortunata,» disse amabilmente F’lar, quando raggiunsero Fax. Poi, accorgendosi che il suo ospite era impaziente di proseguire, si voltò deliberatamente a guardare la Sala ornata di bandiere. Indicò a F’nor le finestre a feritoia dalle forti strombature, le pesanti imposte di bronzo aperte sul luminoso cielo meridiano.

«Rivolta a oriente, come è giusto. La nuova sala, a Forte Telgar, invece, è rivolta a meridione, a quanto mi hanno riferito. Dimmi, Nobile Fax, qui vi attenete ancora alle antiche tradizioni, e fate montare la guardia all’alba?»

Fax aggrottò la fronte, cercando di intuire il significato delle parole dell’altro.

«C’è sempre una guardia alla Torre.»

«Una guardia ad Est?»

Lo sguardo di Fax sfrecciò verso le finestre, poi sfiorò il volto di F’lar, si posò su quello di F’nor, e infine tornò a puntare verso le finestre.

«Vi sono sempre guardie,» rispose, in tono tagliente, «a tutte le vie di accesso.»

«Oh, solo le vie d’accesso.» F’lar si rivolse a F’nor e annuì con aria grave.

«E dove, se no?» domandò Fax, preoccupato, guardando in faccia, alternativamente, i due dragonieri.

«Questo devo chiederlo al tuo arpista. Nella tua Fortezza c’è un arpista esperto?»

«Certamente. Io ho parecchi arpisti esperti.» Fax raddrizzò le spalle, di scatto.

F’lar finse di non aver capito.

«Il Nobile Fax è signore di altre sei Fortezze,» gli rammentò F’nor.

«Certamente,» assentì F’lar, con la stessa inflessione usata da Fax un attimo prima.

Quella scimmiottatura non sfuggì all’ospite: ma poiché non poteva proclamare che un’affermazione innocente fosse un insulto deliberato, si avviò lungo i corridoi illuminati, seguito dai dragonieri.

«Fa piacere vedere il Signore di una Fortezza che osserva tante antiche tradizioni,» disse F’lar a F’nor, in tono di approvazione, perché Fax lo sentisse, mentre entravano nella parte interna del Forte. «Molti hanno abbandonato purtroppo la sicurezza della roccia compatta e hanno ampliato in misura pericolosa le Fortezze esterne. È un rischio che non posso perdonare.»

«Il rischio è tutto loro, Nobile F’lar. E qualcun altro ci guadagna.» Fax sbuffò con fare sarcastico, rallentando il passo.

«Ci guadagna? E come?»

«È facile penetrare in una Fortezza esterna, cavaliere bronzeo… con forze addestrate, un comandante esperto, ed una strategia adeguatamente studiata.»

Quell’uomo non era uno spaccone, pensò F’lar. E anche in quei tempi di pace non trascurava di tenere guardie sulla Torre. Tuttavia restava nella sua Fortezza per prudenza, non già per obbedienza alle antiche Leggi. Teneva gli arpisti per ostentazione, non perché l’imponeva la tradizione. E lasciava che le fosse andassero in rovina; lasciava che crescesse l’erba. Da una parte accordava ai cavalieri dei draghi un trattamento appena appena civile, e dall’altra si rivolgeva a loro con insulti velati. Era un uomo da tenere d’occhio.

Nella Fortezza di Fax, gli alloggi delle donne non erano nei corridoi più interni, come voleva la tradizione; erano stati spostati vicino alla parete esterna del precipizio. La luce del Sole filtrava dalle finestre strombate e a doppie imposte. F’lar notò che i cardini di bronzo erano bene oliati. I davanzali erano dell’ampiezza regolamentare, la lunghezza d’una lancia. Fax non seguiva la recente abitudine di assottigliare le pareti protettive.

La sala era riccamente addobbata di arazzi che rappresentavano donne occupate in ogni genere di mansioni femminili. Ai lati, si aprivano porte che davano nelle piccole alcove; all’ordine di Fax, le sue donne cominciarono ad uscirne, un po’ esitanti. Fax rivolse un gesto autoritario ad una donna vestita d’azzurro, con i capelli striati di ciocche bianche, il volto segnato dalle rughe della delusione e dell’amarezza, il corpo gonfio per la gravidanza avanzata. La donna procedette, impacciata, e si fermò a una certa distanza dal suo signore. Giudicando dal suo atteggiamento, F’lar dedusse che non si avvicinava a Fax più di quanto fosse assolutamente necessario.

«La Dama di Crom, madre dei miei eredi,» disse Fax, senza fierezza né cordialità.

«Dama…» F’lar esitò, in attesa che gli venisse detto il nome della donna.

Questa lanciò un’occhiata timorosa al suo signore.

«Gemma,» fece secco Fax.

F’lar si inchinò profondamente.

«Dama Gemma, il Weyr è in Cerca, e chiede l’ospitalità della Fortezza.»

«Nobile F’lar,» rispose Dama Gemma a voce bassa, «sei il benvenuto.»

A F’lar non sfuggì la lieve esitazione sull’aggettivo, né il fatto che Gemma non aveva avuto difficoltà nel riconoscerlo. Le rispose con un sorriso più cordiale di quanto imponesse la semplice cortesia, un sorriso caldo di gratitudine e di comprensione. A giudicare dal numero delle donne presenti in quell’alloggio, Fax aveva parecchie concubine di bell’aspetto. Forse Dama Gemma avrebbe detto addio senza rimpianti ad una o due di loro.

Fax procedette alle presentazioni, borbottando i nomi, fino a quando si rese conto dell’inutilità di quella strategia, perché F’lar, educatamente, chiedeva di nuovo il nome della dama. F’nor, il cui sorriso si accentuava nel prendere nota delle dame che Fax preferiva tenere nell’anonimato, oziava con aria indolente accanto all’ingresso. Più tardi, F’lar avrebbe potuto scambiare con lui le sue impressioni, anche se, ad un esame superficiale, lì non c’era nessuna che potesse giustificare la Cerca. Fax preferiva le donne piccolette e grassottelle; e in tutto il mazzo, non ce n’era una dotata di vivacità. E se mai un tempo qualcuna di loro era stata vivace ed energica, ormai ogni vitalità si era spenta. Fax, senza alcun dubbio, era più uno stallone che un amante. Alcune di quelle dame non dovevano aver fatto grande uso d’acqua, almeno per l’inverno trascorso, a giudicare dalla quantità di olio dolce irrancidito sui loro capelli. Tra tutte, ammesso che quelle fossero tutte le donne di Fax, Dama Gemma era l’unica dotata di energia, e purtroppo era vecchia.

Conclusi i convenevoli, Fax condusse fuori i suoi ospiti scarsamente graditi. F’nor si congedò dal suo comandante e andò a raggiungere gli altri dragonieri. Fax, con aria perentoria, condusse il cavaliere bronzeo all’alloggio destinatogli.

La stanza si trovava ad un livello inferiore a quello dell’alloggio delle donne, ed era certamente adeguata alla dignità del suo occupante. Gli arazzi multicolori mostravano battaglie sanguinose, duelli, draghi in volo dalle tinte smaglianti, pietre focaie che bruciavano sulle vette dei monti, e tutto ciò che poteva offrire la storia cruenta di Pern.

«Una stanza bellissima,» commentò F’lar, togliendosi i guanti e la tunica di pelle di wher e gettandoli disinvoltamente sulla tavola. «Andrò a provvedere ai miei uomini e agli animali. I draghi hanno mangiato tutti da poco,» continuò, per porre in risalto il fatto che Fax non l’aveva chiesto. «Ti chiedo l’autorizzazione a girare per i quartieri degli artigiani.»

Fax rispose, acido, che secondo la tradizione quello era un privilegio dei dragonieri.

«Non voglio trattenerti oltre, Nobile Fax, perché devi avere molto da fare, con sette Fortezze da governare.» F’lar s’inchinò leggermente verso l’ospite, poi si voltò, quasi in atto di congedo. Non faticava a immaginare l’espressione infuriata di Fax, mentre ascoltava il suo passo irritato che si allontanava. Attese quanto bastava per assicurarsi che l’altro fosse uscito dal corridoio, poi ritornò verso la Grande Sala.

Gli sguatteri indaffarati che stavano montando altre tavole a cavalletto interruppero il loro lavoro per sbirciare il dragoniere. Lui rispose con un gentile cenno del capo, cercando di scoprire se qualcuna delle donne era fatta, per caso, della stoffa delle Dame del Weyr. Ma sfinite dalle fatiche, sottoalimentate, segnate dalle cicatrici della sferza e delle malattie, erano soltanto ciò che erano: sguattere, adatte solo al duro lavoro manuale.

F’nor e gli uomini si erano sistemati in un dormitorio frettolosamente lasciato libero. I draghi erano appollaiati comodamente sui costoni di roccia al di sopra della Fortezza. Si erano disposti in modo che nessun tratto dall’ampia valle potesse sfuggire alla loro vigilanza. Erano stati tutti nutriti prima di lasciare il Weyr, e ogni cavaliere teneva il suo animale lievemente sotto tensione. Non dovevano esserci incidenti, in una Cerca.

I dragonieri si alzarono quando F’lar entrò.

«Nessun trucco e nessun fastidio, ma state molto attenti,» disse lui, laconicamente. «Ritornate al tramonto con i nomi di tutte le possibili candidate.» Notò il sogghigno di F’nor, e ricordò che Fax aveva borbottato alcuni nomi per renderli incomprensibili. «Le descrizioni devono essere fatte secondo l’ordine dell’iscrizione alle varie arti.»

Gli uomini annuirono, con occhi scintillanti. Erano piacevolmente sicuri del buon esito della Cerca, mentre i dubbi di F’lar crescevano, adesso che aveva visto tutte le donne di Fax. Secondo la logica, il meglio delle Terre Alte si doveva trovare nella Fortezza principale di Fax; e invece non era così. Vi erano comunque molti grossi insediamenti artigianali, per non parlare poi delle altre sei Fortezze da visitare. Comunque…

Di tacito accordo, F’lar e F’nor lasciarono l’alloggiamento. Gli uomini li avrebbero seguiti, soli o a coppie, senza farsi troppo notare, per recarsi a visitare gli insediamenti degli artigiani e le vicine fattorie. Erano apertamente ansiosi di andarsene in giro, quanto F’lar lo era segretamente. Un tempo, i cavalieri dei draghi erano spesso gli ospiti preferiti di tutte le grandi Fortezze di Pern, dalla meridionale Nerat all’alta Tillek. Ma quella piacevole usanza si era spenta con tutte le altre tradizioni; e ciò dimostrava che il Weyr, attualmente, era tenuto in scarsa considerazione. F’lar si ripromise di porre rimedio a quella situazione.

S’impose di enumerare, mentalmente, tutti quei cambiamenti insidiosi. Le Cronache tenute dalle varie Dame del Weyr stavano a dimostrare il declino graduale ma percettibile, che si era protratto durante gli ultimi duecento Giri. Ma conoscere la verità non migliorava la situazione. E F’lar era uno di quei pochi, anche nel Weyr, che prestavano ancora fede alle Cronache e alle ballate. Se si doveva credere agli antichi racconti, poteva darsi che ben presto la situazione si sarebbe radicalmente modificata.

F’lar era convinto che vi fosse una ragione, una spiegazione, uno scopo per ciascuna delle Leggi del Weyr, dal Primo Schema di Apprendimento alle Pietre Focaie, dalle alture prive d’erba ai canali che scorrevano nelle rocce. E per altri fattori apparentemente di minore importanza, come il controllo dell’appetito dei draghi o la limitazione del numero degli abitanti del Weyr. Tuttavia, F’lar non sapeva perché gli altri cinque Weyr fossero stati abbandonati. Si chiese se in quei luoghi deserti esistessero ancora Cronache polverose, sul punto di sgretolarsi. Doveva trovare il modo di andare a controllare, la prossima volta che il suo squadrone fosse stato in servizio di pattugliamento. Certamente, nel Weyr di Benden non esistevano possibili spiegazioni.

«C’è molta attività, ma nessun entusiasmo,» stava dicendo F’nor, attirando di nuovo l’attenzione di F’lar sul loro compito più immediato.

Avevano disceso la rampa corrosa che portava dalla Fortezza all’insediamento degli artigiani, l’ampia strada fiancheggiata da casette che portava agli imponenti opifici di pietra. Tacitamente, F’lar notò sui tetti i canali incrostati di muschio, i rampicanti aggrappati alle mura. Era molto doloroso, per uno come lui, prendere atto di quella clamorosa trascuratezza nei confronti delle precauzioni più elementari. Le piante non avevano diritto di esistere, in prossimità delle abitazioni degli esseri umani.

«Le notizie volano,» ridacchiò F’nor, accennando con il capo a un artigiano frettoloso, rivestito del camice da fornaio, che mormorò loro un saluto. «Non c’è una sola femmina in vista.»

L’osservazione era esatta. A quell’ora le donne avrebbero dovuto essere in giro, per portare le vettovaglie dai magazzini, o per fare il bucato al fiume, in una giornata luminosa e calda come quella, o per recarsi alle fattorie, a lavorare alle semine. Ma non si vedeva in giro una sola figura dalla gonna lunga.

«Una volta, noi eravamo la compagnia preferita,» osservò F’nor in tono caustico.

«Visiteremo per primo l’Opificio dei Tessitori. Se la memoria mi assiste…»

«… come al solito,» concluse F’nor, ironico. Non approfittava mai della loro parentela, ma con il cavaliere bronzeo si trovava a suo agio più che con quasi tutti gli altri, inclusi gli altri cavalieri bronzei. F’lar era assai riservato, in quella società molto unita, dominata da una serena eguaglianza. Comandava uno squadrone rigorosamente disciplinato, ma gli uomini facevano di tutto per passare al suo servizio. Il suo squadrone primeggiava sempre nei Giochi. Nessuno dei suoi finiva per sbaglio in mezzo per scomparirvi per sempre, e nessuno dei suoi animali si ammalava mai, lasciando la sua guida nell’esilio senza draghi fuori dal Weyr, menomata per sempre.

«L’tol era venuto da queste parti e si era sistemato in una delle Terre Alte,» continuò F’lar.

«L’tol?»

«Sì, un cavaliere verde dello squadrone di S’lel. Dovresti ricordarlo.»

Una sterzata mal calcolata, durante i Giochi di Primavera, aveva portato L’tol e il suo animale nel soffio d’una sbuffata fosforica di Tuenth, il bronzeo drago di S’lel. L’tol era stato scagliato lontano dal collo del suo drago, mentre questi cercava di sfuggire allo sbuffo. Un suo compagno di squadra s’era lanciato in picchiata per afferrarlo a volo, ma il drago verde, con l’ala sinistra carbonizzata, il corpo ustionato, era morto per il trauma e per l’avvelenamento da fosfina.

«L’tol ci può aiutare nella nostra Cerca,» commentò F’nor, mentre si avviavano verso le porte bronzee dell’Opificio dei Tessitori. Si soffermarono sulla soglia, in attesa che i loro occhi si abituassero alla luce meno intensa dell’interno. I lumi punteggiavano le nicchie nelle pareti e pendevano a grappoli sopra i telai maggiori, dove i maestri artigiani intessevano gli arazzi più belli e le stoffe più fini. Aleggiava un’atmosfera di attività silenziosa e decisa.

Tuttavia, prima che i loro occhi si fossero adattati, un uomo scivolò verso di loro, mormorando un cortese, conciso invito a seguirlo.

Vennero guidati a destra dell’ingresso, entro un piccolo ufficio che una tenda divideva dal locale più grande. La loro guida si girò verso di loro, mostrando il volto nella luce dei lumi appesi alle pareti. C’era in quell’uomo qualcosa di indefinibile che lo qualificava come un cavaliere dei draghi. Ma il suo viso era segnato da rughe profonde, e una guancia portava le cicatrici di vecchie ustioni. Le sue palpebre sbattevano continuamente.

«Ora mi chiamo Lytol,» disse, con voce rauca.

F’lar annuì.

«Tu devi essere F’lar,» disse Lytol. «E tu F’nor. Tutti e due somigliate a vostro padre.»

F’lar annuì di nuovo.

Lytol deglutì, convulsamente; i muscoli del volto fremevano, come se la presenza dei dragonieri rendesse più acuta la consapevolezza del suo esilio. Ma riuscì a sorridere.

«Draghi nel cielo! La notizia si è sparsa più rapidamente dei Fili.»

«Nemorth ha deposto un uovo di regina.»

«E Jora è morta?» chiese preoccupato Lytol; per un attimo, il movimento nervoso cessò, sul suo volto. «Math ha accompagnato Nemorth nel volo nuziale?»

F’lar annuì.

Lytol ebbe una smorfia di amarezza.

«Ancora R’gul, eh?» Guardò lontano, le palpebre ferme; ma i muscoli della mascella si muovevano continuamente. «A voi sono toccate le Terre Alte? Tutte?» chiese Lytol, rivolgendosi di nuovo al dragoniere, accentuando leggermente la parola «tutte».

F’lar annuì di nuovo, affermativamente.

«Avete visto le donne.» Le parole di Lytol tradivano il disgusto. Era una contestazione, non una domanda, perché subito proseguì. «Bene, nelle Terre Alte non c’è di meglio.» Il suo tono esprimeva il massimo disprezzo. Prese posto al pesante tavolo che quasi riempiva un angolo della stanzetta. Stringeva con tanta forza le mani attorno all’ampia cintura da piegarne in due la pelle robusta.

«Vi sareste aspettati che le cose andassero diversamente, no?» continuò Lytol. Parlava troppo e troppo in fretta. Sarebbe stata una scorrettezza insultante da parte di chiunque altro. Ma era la terribile solitudine dell’esilio dal Weyr che lo spingeva ad essere così loquace. Lytol sfiorava appena la superficie con domande affrettate cui rispondeva egli stesso, anziché immergersi decisamente in argomenti troppo scottanti… come l’insaziabile bisogno di essere vicino a quelli della sua razza. Eppure, stava dando ai dragonieri proprio le informazioni loro necessarie. «Ma a Fax piace che le sue donne siano grassottelle e docili,» continuò. «Persino Dama Gemma lo ha imparato. Le cose sarebbero andate diversamente, se non avesse bisogno dell’appoggio della famiglia di lei. Ah, sì, sarebbe molto diverso. E allora, lui continua a metterla incinta, nella speranza che una volta o l’altra muoia di parto. E ci riuscirà. Oh, se ci riuscirà!»

La risata di Lytol era stridula, sgradevole.

«Quando Fax è giunto al potere, tutti gli uomini dotati di buon senso hanno allontanato le figlie dalle Terre Alte… o le hanno sfregiate.» S’interruppe, il volto aggrondato e incupito al ricordo, gli occhi socchiusi che lanciavano bagliori d’odio. «Io sono stato uno sciocco, e ho creduto che la mia posizione mi assicurasse l’immunità.»

Si riprese, raddrizzando le spalle, e si girò completamente verso i due uomini. La sua espressione era vendicativa, la voce bassa e tesa.

«Uccidete quel tiranno, cavalieri dei draghi, per il bene di Pern. Del Weyr. Della regina. Quello sta solo aspettando il momento propizio. Sparge il malcontento tra gli altri Signori. E…» La risata di Lytol, adesso, aveva una sfumatura isterica. «E crede di valere quanto chi cavalca un drago.»

«Quindi, non ci sono candidate qui, in questa Fortezza?» chiese F’lar, con voce tagliente, interrompendo l’esposizione della bizzarra teoria dell’altro.

Lytol lo guardò fisso.

«Non ve l’ho già detto? Le migliori sono morte per colpa di Fax, o sono state allontanate. Quelle che restano non valgono nulla, nulla. Stupide, ignoranti, sciocche, svanite. Voi avete già avuto Jora. Lei…» Strinse le labbra di colpo, scrollò la testa, massaggiandosi il viso per alleviare l’angoscia.

«E nelle altre Fortezze?»

Lytol scosse il capo, accigliandosi cupo.

«Lo stesso. O morte o fuggite.»

«E a Forte Ruath?»

Lytol smise di scrollare la testa e guardò fisso F’lar, arricciando le labbra in un sorriso saputo. Poi rise, senza gaiezza.

«Tu speri di trovare una Torene o una Moreta nascosta a Forte Ruath di questi tempi? Ebbene, cavaliere bronzeo, tutti quelli di sangue ruathano sono morti. Quel giorno, la spada di Fax era assetata. Sapeva che le ballate degli arpisti erano vere, che i Signori ruathani accordavano ospitalità senza riserve ai dragonieri, che i ruathani erano una razza a sé. Lo erano davvero…» La voce di Lytol si abbassò in un bisbiglio. «In quella casata c’erano molti uomini del Weyr, esiliati come me.»

F’lar annuì, grave: non se la sentiva di privare quell’uomo del suo conforto.

«No, nella Valle di Ruath è rimasto poco, pochissimo,» ridacchiò sommessamente Lytol. «Da quella Fortezza, Fax ricava soltanto guai.» Quel pensiero riportò Lytol ad una parvenza di contegno normale, e il suo viso assunse un’espressione meno tetra. «Noi, qui, in questa Fortezza, siamo ormai i migliori tessitori di tutta Pern. E i nostri fabbri realizzano le armi meglio temprate.» Gli occhi gli brillarono d’orgoglio per la sua comunità adottiva. «I coscritti che vengono da Ruatha finiscono per morire di malattie strane o di incidenti ancora più strani. E le donne che Fax si prendeva…» La sua risata divenne maligna. «Si dice che, dopo, rimanesse impotente per mesi interi.»

La mente attenta di F’lar balzò ad una conclusione curiosa.

«Non è rimasto nessuno, del Sangue?»

«Nessuno!»

«E tra gli artigiani ed i contadini non ci sono famiglie che abbiano sangue del Weyr?»

Lytol corrugò la fronte e scrutò F’Iar, sorpreso. Poi si massaggiò pensieroso la guancia sfregiata dalla cicatrice.

«C’erano,» ammise, lentamente. «C’erano. Ma credo che non ne sia rimasta nessuna.» Rifletté ancora per un istante, poi scosse il capo, deciso. «Durante l’invasione, ci fu una resistenza accanita, e non venne dato quartiere. Nella Fortezza, Fax decapitò le dame e i bambini. E imprigionò o giustiziò chiunque avesse preso le armi in favore di Ruatha.»

F’Iar scrollò le spalle. La sua idea era stata solo una probabilità. Con quelle rappresaglie feroci, Fax indubbiamente aveva eliminato la resistenza, e anche i migliori artigiani. Questo poteva spiegare la pessima qualità dei prodotti ruathani e l’affermarsi dei tessitori delle Terre Alte come d migliori delle varie specializzazioni.

«Vorrei tanto poterti dare notizie migliori, dragoniere,» mormorò Lytol.

«Non importa,» lo riassicurò F’Iar, tendendo la mano per aprire la tenda che chiudeva l’ufficio.

Lytol gli si avvicinò, con voce concitata.

«Ricorda ciò che ti ho detto delle ambizioni di Fax. Costringi R’gul, o chiunque sia il Comandante del Weyr dopo di lui, a sorvegliare le Terre Alte.»

«Fax è al corrente di quello che hai scoperto?»

Un’espressione spiritata balenò sul volto di Lytol. Deglutì innervosito, e rispose con voce priva di emozione.

«La mia corporazione mi protegge dalle persecuzioni. Sono abbastanza al sicuro. Fax ha troppo bisogno della nostra produzione.» Sbuffò, sarcastico. «Io sono il miglior tessitore di scene di battaglie. Certo,» aggiunse, inarcando un sopracciglio, «i draghi non vengono più raffigurati come i compagni degli eroi. Senza dubbio, avrai notato la prevalenza delle piante.»

F’Iar ebbe una smorfia di disgusto.

«E non è la sola cosa che abbiamo notato. Fax, però, tiene in vita le altre tradizioni…»

Lytol l’interruppe con un gesto.

«Lo fa perché è logico, dal punto di vista militare. I suoi vicini si armarono quando lui prese Ruatha, perché la prese a tradimento, lascia che te lo dica. E lascia che ti dia un altro avvertimento…» Lytol puntò un dito in direzione della Fortezza. «Lui ride apertamente delle leggende dei Fili. Si burla degli arpisti perché le vecchie ballate sono piene di sciocchezze, e ha bandito dal loro repertorio tutte le tradizioni che parlavano dei draghi. La nuova generazione crescerà completamente ignara del dovere, della tradizione e delle precauzioni.»

F’lar non si stupì nell’udirlo, dopo le altre rivelazioni di Lytol, benché ciò lo turbasse più di quanto aveva sentito fino a quel momento. C’erano anche altri che negavano la trasmissione orale degli eventi storici e li consideravano invenzioni degli arpisti. Eppure la Stella Rossa palpitava nel cielo, e si avvicinava il momento in cui avrebbero istericamente fatto appello alle antiche tradizioni per salvarsi la vita.

«Sei mai stato all’aperto di prima mattina, in questi ultimi tempi?» chiese F’nor, con un sogghigno malizioso.

«Sì,» mormorò Lytol, sommessamente. «Sì…» Un gemito gli sfuggì dal petto. Girò di scatto su se stesso, scostandosi dai dragonieri, incassando il capo fra le spalle. «Andate,» disse, digrignando i denti. E, poiché quelli esitavano, li supplicò: «Andate

F’lar si affrettò ad uscire dalla stanza, seguito da F’nor. Il cavaliere bronzeo attraversò il grande opificio, silenzioso e fiocamente illuminato, a lunghi passi che lo portarono fuori, nel sole abbagliante. Lo slancio lo portò al centro della piazza. Poi si fermò così bruscamente che F’nor, il quale lo seguiva da vicino, per poco non lo urtò.

«Trascorreremo esattamente lo stesso tempo negli altri Opifici,» annunciò con voce tesa, distogliendo il viso dallo sguardo di F’nor. Si sentiva la gola serrata: all’improvviso, parlare gli era difficile. Deglutì a fatica parecchie volte.

«Essere senza drago…», mormorò F’nor, in tono di commiserazione. L’incontro con Lytol lo aveva sconvolto profondamente, suscitando in lui sentimenti ai quali non era abituato. Il fatto che F’lar apparisse non meno turbato sfatò in buona misura la personale convinzione che il suo fratellastro fosse incapace di emozioni.

«Non c’è altra possibilità, dopo che il Primo Schema di Apprendimento si è compiuto. Lo sai bene,» disse F’lar seccamente, con uno sforzo. Si avviò verso l’Opificio che ostentava l’insegna dei pellai.

Onora quelli che allevano i draghi

nel pensiero e nell’opera in favore.

Interi mondi sono salvi o perduti,

e ciò dipende dal loro valore.

Dragoniere, e tu sfuggi ogni eccesso.

Dolore al Weyr porta l’avidità;

se tu rispetterai le Antiche Leggi,

il Weyr dei Draghi ognor prospererà.

F’lar era divertito… e irritato. Era il quarto giorno che trascorrevano in compagnia di Fax, e solo il saldo controllo che egli aveva su se stesso e sul suo squadrone era riuscito ad impedire che la situazione esplodesse nel modo più violento.

Era stato un capriccio della sorte, pensò F’lar, mentre Mnementh planava tranquillamente verso il Passo che portava a Ruatha, il fatto che lui avesse scelto le Terre Alte. La tattica di Fax avrebbe avuto successo con R’gul, il quale era molto suscettibile quando si trattava del suo onore, o con S’lan o D’nol, troppo giovani per avere acquisito la pazienza e la discrezione necessarie. S’lel si sarebbe ritirato confuso: un comportamento, questo, non meno disastroso del combattimento, per il Weyr.

Avrebbe dovuto correlare le varie indicazioni già da molto tempo. La decadenza del Weyr e della sua influenza non era dovuta esclusivamente ai Signori delle Fortezze e alla loro gente. Nasceva anche all’interno dello stesso Weyr, era il risultato delle regine inferiori e delle Dame di Weyr troppo incompetenti. Nasceva dall’inspiegabile tendenza di R’gul a non «infastidire» i Signori delle Fortezze, a tenere i dragonieri dentro al Weyr. E ancora, nel Weyr si era attribuita troppa importanza alla preparazione dei Giochi, al punto che la competizione interna tra gli squadroni aveva finito per diventare la cosa più importante in tutta la loro attività.

L’erba non si era diffusa da un giorno all’altro; i Signori non si erano svegliati di colpo, una mattina, decidendo di non versare interamente al Weyr le dècime tradizionali. Era avvenuto gradualmente, e il Weyr aveva permesso che continuasse, fino a quando lo scopo e la ragione della stessa esistenza del Weyr e dei draghi erano scesi al punto più basso, tanto che un arrivista, un erede collaterale di un’antica Fortezza aveva potuto mostrarsi così sprezzante nei confronti dei cavalieri dei draghi e delle semplici, fondamentali precauzioni che servivano a mantenere Pern libero dai Fili.

F’lar pensava che Fax non avrebbe mai tentato un simile programma aggressivo nei confronti delle Fortezze vicine se il Weyr avesse conservato la sua antica preminenza. Ogni Fortezza doveva avere il suo Signore, per proteggere dai Fili la valle e la gente. Una Fortezza, un Signore… non un Signore che dominava sette Fortezze. Era contrario all’antica tradizione, e per giunta era un male, perché come poteva, un uomo solo, proteggere contemporaneamente sette valli? Gli uomini, eccettuati i dragonieri, potevano trovarsi in un solo posto, in un dato momento. E a meno che un uomo non fosse montato su un drago, avrebbe impiegato ore per andare da una Fortezza all’altra. Nessun abitatore del Weyr d’un tempo avrebbe mai permesso un simile, clamoroso dispregio nei confronti delle antiche usanze.

F’lar vide le fiamme lingueggiare lungo le alture spoglie del Passo, e Mnementh, obbediente, mutò rotta per permettergli di osservare meglio. F’lar aveva mandato avanti metà del suo squadrone, a precedere il convoglio a cavallo. Era un buon addestramento, passare a volo radente su un terreno accidentato. Aveva distribuito piccoli frammenti di pietra focaia, con l’ordine di bruciare tutte le piante, come esercitazione. Sarebbe stato utile rammentare a Fax ed alle sue truppe la spaventosa abilità dei draghi, un fenomeno che la gente comune di Pern sembrava aver dimenticato quasi completamente.

Le fiammeggianti emissioni al fosforo dei draghi mostravano un perfetto coordinamento. R’gul poteva sostenere che le esercitazioni con le pietre focaie erano inutili, poteva citare incidenti simili a quelli che avevano costretto Lytol all’esilio… ma F’lar si atteneva alla tradizione, e così pure tutti coloro che volavano con lui, se non volevano lasciare lo squadrone. Ma nessuno l’aveva mai deluso.

F’lar sapeva che gli uomini godevano quanto lui della gioia selvaggia che dava il cavalcare un drago fiammeggiante; i fumi della fosfina erano a loro modo esilaranti, e il senso di potenza che invadeva l’uomo il quale controllava la forza e la maestà di un drago non aveva equivalenti nell’esperienza umana. I cavalieri dei draghi erano uomini eternamente diversi, a partire dal momento del Primo Schema di Apprendimento. E cavalcare un drago da combattimento, azzurro, verde, marrone o bronzeo, valeva certo i rischi, la vigilanza incessante, l’isolamento dal resto dell’umanità.

Mnementh piegò obliquamente le ali per insinuarsi attraverso la stretta spaccatura del Passo che portava da Crom a Ruatha. Non appena l’ebbero valicato, la differenza tra le due Fortezze balzò subito agli occhi.

F’lar rimase sbalordito. Nel corso delle visite alle ultime quattro Fortezze si era convinto che la sua Cerca si sarebbe conclusa a Ruatha.

C’era quella piccola bruna, il cui padre era tessitore a Nabol, ma… E una ragazza alta e malinconica, dagli occhi immensi, figlia di un Connestabile di Crom, eppure… Erano solo possibilità; se F’lar fosse stato S’lel o K’net o D’nol, forse le avrebbe accettate come possibili compagne, anche se non proprio come Dame del Weyr.

Ma, sempre, aveva detto a se stesso che la scelta ideale sarebbe stata compiuta nel Sud. Adesso osservava Ruatha ridotta in rovina, e le sue speranze svanirono. Sotto di lui, vide la bandiera di Fax piegarsi nella sequenza che significava l’invito a scendere.

Dominando la delusione opprimente, diede istruzioni a Mnemneth di scendere. Fax, che controllava rudemente i balzi terrorizzati della sua cavalcatura, agitò le braccia laggiù, nella valle dall’aria desolata.

«Guarda la grande Ruatha, nella quale avevi riposto tante speranze,» disse, sarcastico.

F’lar lo ricambiò con un sorriso gelido, chiedendosi come mai Fax l’avesse indovinato. Si era forse tradito, quando aveva proposto di cercare nelle altre Fortezze? Oppure Fax aveva indovinato per puro caso?

«Si vede subito perché adesso vengono preferiti i prodotti delle Terre Alte,» rispose F’lar, con un certo sforzo. Mnementh lanciò un rombo, e F’lar lo richiamò bruscamente all’ordine. Il grande animale bronzeo dimostrava nei confronti di Fax un disgusto che sconfinava nell’odio. Una simile antipatia, in un drago, era un fenomeno del tutto insolito, e costituiva per F’lar motivo di preoccupazione. Non gli sarebbe certamente dispiaciuto se Fax fosse morto… ma non per il respiro di Mnementh.

«Da Ruatha viene ben poco di buono,» disse Fax con un tono di voce assai simile a un ringhio. Diede un brusco strattone alla briglia della sua cavalcatura, e la schiuma sul muso di questa si colorò di sangue. L’animale rovesciò all’indietro la testa per alleviare la pressione dolorosa del morso, e Fax gli sferrò rabbiosamente un colpo tra le orecchie. F’lar si rese conto che la botta non era in realtà destinata alla povera bestia, bensì all’improduttiva Ruatha. «Io sono il sovrano. La mia presa di potere non è stata contestata da nessuno del Sangue. Sono nel mio pieno diritto. Ruatha deve pagare il tributo al suo legittimo signore…»

«E soffrire la fame per tutto il resto dell’anno,» osservò asciutto F’lar, scrutando l’ampia valle. Pochissimi campi erano arati. Nei pascoli si scorgevano scarse greggi. Persino gli orti apparivano miseri. A Crom, nella valle accanto, i fiori erano abbondanti, ma qui erano rari, come se rifiutassero di sbocciare in un luogo tanto squallido. Benché il sole fosse già alto, non sembrava vi fosse attività nelle fattorie, almeno in quelle più vicine. L’atmosfera era carica di tetra disperazione.

«C’è stata resistenza alla mia signoria su Ruatha.»

F’lar lanciò un’occhiata a Fax, perché la voce di quell’uomo era rabbiosa, il volto contratto sembrava augurare altre sofferenze ai ribelli ruathani. L’impulso vendicativo che colorava l’atteggiamento di Fax nei confronti di Ruatha e dei suoi ribelli era sfumato di un’altra forte emozione, che F’lar non era riuscito a identificare, ma che gli era apparsa evidente fin da quando aveva abilmente proposto, per la prima volta, di fare il giro delle Fortezze. Non poteva trattarsi di paura, perché Fax era evidentemente un uomo coraggioso, spavaldamente sicuro di sé. Repulsione? Preoccupazione? Incertezza? F’lar non riusciva a definire la natura della composita riluttanza che Fax provava all’idea di visitare Ruatha: ma era certo che la prospettiva non gli era piaciuta, e adesso reagiva con violenza, nel trovarsi entro quei confini inquietanti.

«Che sciocchi, questi ruathani,» commentò F’lar, amabilmente. Fax si girò di scatto verso di lui, una mano posata sull’impugnatura della spada, gli occhi sfolgoranti. F’lar sentì, con una sensazione molto vicina al piacere, che l’usurpatore sarebbe stato veramente capace di sfidare un cavaliere dei draghi. Rimase quasi deluso quando l’altro si controllò, strinse saldamente le redini e con un calcio lanciò la sua cavalcatura in un galoppo frenetico.

Lo ucciderò, prima o poi, si disse F’lar, e Mnementh spiegò le ali per dimostrare la sua approvazione.

F’nor scese accanto al suo comandante.

«Ho visto che stava per sguainare la spada contro di te.» Gli occhi di F’nor erano accesi, il suo sorriso acido.

«Ma poi ha ricordato che io ero montato su un drago.»

«Stai in guardia, cavaliere bronzeo. Ha intenzione di ucciderti presto.»

«Se ci riuscirà!»

«È considerato un combattente accanito,» ammonì F’nor, senza più sorridere.

Mnementh sbatté di nuovo le ali, e F’lar accarezzò distrattamente il grande collo liscio.

«Mi troverei in svantaggio?» chiese poi, punto dalle parole di F’nor.

«No, a quanto mi risulta,» rispose prontamente F’nor, sconcertato. «Non l’ho mai visto in azione, ma non mi piace ciò che ho sentito dire. Uccide spesso, con un motivo o anche senza.»

«E poiché noi dragonieri non cerchiamo il sangue, non dobbiamo essere combattenti temuti?» scattò F’lar. «Ti vergogni forse di essere quello che sei?»

«Io no!» F’nor trattenne il respiro, sbigottito dal tono del suo comandante. «E gli altri del tuo squadrone, no! Ma nell’atteggiamento degli uomini di Fax c’è qualcosa che… che mi mette la voglia di cercare un pretesto per battermi.»

«Come hai detto poco fa, probabilmente finiremo per batterci. C’è qualcosa, qui, a Ruatha, che esaspera il nostro nobile ospite.»

Mnementh e Canth, il drago marrone di F’nor, spiegarono le ali e le agitarono, per attirare l’attenzione delle loro guide.

F’lar osservò il drago che inclinava la testa all’indietro, verso di lui: i grandi occhi scintillavano come opali colpiti da un raggio di sole.

«C’è una forza sottile, in questo valle,» mormorò F’lar, ricevendo il significato dell’ansioso messaggio del drago.

«Sì, c’è davvero; lo sente anche il mio marrone,» rispose F’nor, illuminandosi in volto.

«Sii prudente, cavaliere marrone,» lo avvertì F’lar. «Sii prudente. Di’ all’intero squadrone di levarsi ad alta quota, di esplorare la valle. Avrei dovuto capirlo. Avrei dovuto sospettarlo. Era tutto lì, davanti a me, e bastava che lo valutassi. Che sciocchi siamo diventati, noi dragonieri!»

La Fortezza è sbarrata,

la Sala è spoglia,

ogni persona è svanita.

Il suolo è incolto,

la roccia è nuda,

ogni speranza è bandita.

Lessa stava togliendo le ceneri dal focolare con una paletta quando il messaggero, agitato, entrò vacillando nella Grande Sala. Cercò di non farsi notare, perché il Connestabile non l’allontanasse. Era riuscita a farsi mandare nella Grande Sala, quella mattina, poiché sapeva che il Connestabile intendeva punire il capo tessitore per la pessima qualità dei prodotti preparati per la spedizione a Fax.

«Sta arrivando Fax! Con i dragonieri!» ansimò l’uomo, precipitandosi nella Grande Sala semibuia.

Il Connestabile, che stava per frustare il capo tessitore, si voltò, sbalordito. Il messaggero, un contadino che veniva dai confini di Ruatha, gli si avvicinò incespicando, così eccitato che arrivò ad afferrarlo per un braccio.

«Come hai osato lasciare la tua fattoria?» Il Connestabile levò la frusta verso il messaggero sbalordito. Il primo colpo fu così forte che l’uomo cadde. Strisciò via, gemendo, per sfuggire ad una seconda frustata. «Dragonieri! Proprio! Fax? Ah! Lui evita Ruatha. Prendi!» Il Connestabile sottolineò ogni smentita con un altro colpo, prendendo a calci il poveraccio; poi si voltò, senza fiato, a fissare minaccioso il tessitore e le guardie. «Come ha potuto arrivare fin qui con una simile menzogna?» Il Connestabile si avviò verso la porta della Grande Sala, che si spalancò nell’istante stesso in cui egli stava per toccarne la maniglia di ferro. Cinereo in viso, l’ufficiale di guardia si precipitò dentro, e per poco non travolse il Connestabile.

«Dragonieri! Draghi! Su tutta Ruatha!» balbettò l’uomo, agitando furiosamente le braccia. Afferrò anch’egli il Connestabile per un gomito, e lo trascinò verso il cortile esterno, per dimostrargli che aveva detto la verità.

Lessa raccolse l’ultimo mucchio di cenere. Riunì i suoi attrezzi, e sgattaiolò fuori dalla Grande Sala. Sotto lo schermo dei capelli opachi un sorriso soddisfatto era dipinto sul suo volto.

Un dragoniere a Ruatha! Era una grande occasione; doveva riuscire, in un modo o nell’altro, a far sì che Fax si sentisse così umiliato o così infuriato da rinunciare ad ogni pretesa sulla Fortezza in presenza di un dragoniere. Allora avrebbe potuto rivendicare i suoi diritti.

Doveva essere straordinariamente cauta, però. I dragonieri erano una razza a sé. La collera non obnubilava la loro intelligenza; l’avidità non alterava il loro giudizio, la paura non sminuiva le loro reazioni. Gli stupidi potevano benissimo credere a tutte quelle storie di sacrifici umani, di appetiti innaturali, di orge folli. Lei non era tanto credula. E tutte quelle storie cozzavano contro il suo istinto. I dragonieri erano pur sempre umani, e lei aveva nelle vene sangue del Weyr. Era sangue che aveva lo stesso colore di quello di chiunque altro; e ne era stato versato quanto bastava per dimostrarlo.

Si arrestò per un attimo, traendo un improvviso respiro. Era quello il pericolo che aveva intuito quattro giorni prima, all’alba? Lo scontro finale nella sua lotta per riconquistare la Fortezza? No, si disse, no; in quel portento c’era qualcosa di più della vendetta.

Il secchio della cenere le urtò contro gli stinchi, mentre procedeva a passo strascicato lungo il basso corridoio che portava all’uscio della stalla. Fax avrebbe trovato un’accoglienza molto fredda. Lei non aveva riacceso il fuoco nel camino. La sua risata echeggiò, aspra, tra le pareti umide. Depose il secchio, la scopa e la paletta e cominciò a cercare di smuovere la pesante porta di bronzo che conduceva nelle stalle nuove.

Erano state costruite fuori dalla parete rocciosa di Ruatha dal primo Connestabile di Fax, un uomo più accorto e sottile dei suoi otto successori. Aveva realizzato più di tutti gli altri, e a Lessa era sinceramente dispiaciuto farlo morire. Ma quell’uomo avrebbe reso impossibile la sua vendetta. L’avrebbe scoperta prima che lei avesse imparato a camuffare se stessa e le sue interferenze. Come si chiamava? Non riusciva a ricordarlo. Comunque, le dispiaceva di averlo fatto morire.

Il secondo Connestabile era sufficientemente avido, ed era stato facile stabilire un’atmosfera di incomprensione tra lui e gli artigiani. Quell’uomo era deciso a spremere la produzione di Ruatha per ricavarne ogni profitto, in modo che qualche briciola finisse nelle sue tasche, prima che Fax si accorgesse dell’ammanco. Gli artigiani, che avevano incominciato ad accettare l’abile diplomazia del primo Connestabile, si erano irritati per l’atteggiamento rapace e superbo del secondo. Erano irritati per la fine della Vecchia Casata e soprattutto per il modo come era finita. Non perdonavano l’umiliazione di Ruatha, la sua posizione ormai secondaria nelle Terre Alte, ed erano offesi per le umiliazioni personali che tutti, artigiani e contadini, avevano subito ad opera del secondo Connestabile. Era occorso ben poco per far sì che a Ruatha le cose andassero di male in peggio.

Il secondo Connestabile era stato sostituito, e il suo successore non aveva avuto un destino migliore. Era stato sorpreso mentre s’impadroniva dei prodotti migliori. Fax l’aveva fatto giustiziare. La sua testa rotolava ancora dentro la fossa principale, sopra la grande Torre.

Il Connestabile attuale non era riuscito a mantenere la Fortezza neppure nelle condizioni già misere in cui l’aveva trovata. Molte cose, in apparenza semplicissime, si trasformarono rapidamente in catastrofi. Come la produzione dei tessuti, ad esempio. Contrariamente a quanto l’uomo aveva assicurato a Fax, la qualità non era migliorata, e anche la quantità si era ridotta.

E adesso Fax era lì. E in compagnia di dragonieri! Perché proprio i dragonieri? Il pensiero paralizzò Lessa, e la pesante porta, chiudendosi dietro di lei, le batté sui calcagni, dolorosamente. Un tempo, i dragonieri facevano visite frequenti a Ruatha… questo lo sapeva, addirittura lo ricordava vagamente. I ricordi erano simili al racconto di un arpista, come se parlassero di qualcun’altra, non appartenevano alla sua esperienza diretta. Lei aveva concentrato la sua attenzione ardente soltanto su Ruatha. Non riusciva neppure a rammentare il nome della regina, o della Dama di Weyr, tra le nozioni che aveva imparato nell’infanzia; e a quanto ricordava nessuno, in quegli ultimi dieci Giri, aveva mai parlato, nella Fortezza, di regine e di Dame di Weyr.

Forse i dragonieri si erano finalmente decisi a richiamare all’ordine i Signori delle Fortezze per lo spettacolo indecoroso delle piante che circondavano gli insediamenti umani. Bene, a Ruatha la responsabilità era soprattutto di Lessa, ma neppure un dragoniere avrebbe potuto permettersi di rinfacciarle quella colpa. Anche se tutta Ruatha avesse ceduto ai Fili, sarebbe stato sempre meglio che rimanere sotto il dominio di Fax! E nell’attimo stesso in cui la pensava, quell’eresia scandalizzò Lessa.

Si augurò di poter liberare la propria coscienza da quella bestemmia con la stessa facilità con cui versava le ceneri nel letame della stalla. Attorno a lei la pressione dell’aria cambiò all’improvviso. Poi un’ombra fuggevole l’indusse ad alzare lo sguardo.

Dietro la roccia sovrastante apparve planando un drago, con le ali enormi completamente spiegate per cogliere il vento ascensionale del mattino. Descrisse agilmente un cerchio nell’aria e discese. Un secondo drago, un terzo, un’intero squadrone lo seguì nel volo silenzioso e nella discesa, in uno spettacolo elegante e tremendo. La sirena suonò, in ritardo, sulla Torre; dalla cucina giunsero le urla e gli strilli degli sguatteri atterriti.

Lessa corse al riparo. Si precipitò in cucina, dove l’assistente del cuoco l’afferrò e la spinse, con una sberla e un calcio, verso l’acquaio. Fu subito messa al lavoro, a raschiare con la sabbia gli utensili incrostati di grasso.

I canidi uggiolanti erano già stati legati allo spiedo, e facevano girare sul fuoco uno sparuto animale del gregge, posto ad arrostire. Il cuoco versava mestoli di condimento sulla carcassa, imprecando al pensiero di essere costretto ad offrire un pasto tanto misero a un così grande numero di ospiti, molti dei quali erano d’altissimo rango. La frutta disseccata nell’inverno, avanzata dall’ultimo scarso raccolto, era già stata messa a mollo, e due delle sguattere più vecchie stavano raschiando le radici per metterle a bollire.

Un apprendista cuoco stava preparando il pane, un altro condiva con le spezie una salsa. Lessa, guardandolo fissamente, sviò la mano di lui da una cassetta di spezie verso un’altra meno adatta, mentre quello dava la mescolata finale all’impasto. Aggiunse troppa legna nel forno a muro, per rovinare il pane. Controllò abilmente i canidi, facendo rallentare l’uno e accelerare l’altro, in modo che la carne restasse semicruda da una parte e fosse bruciacchiata dall’altra. Aveva intenzione di far sì che il festino si risolvesse in un digiuno collettivo, che i cibi presentati fossero immangiabili.

E non aveva alcun dubbio che anche certe altre misure, prese in tempi diversi in previsione di quella contingenza, venivano scoperte lassù, nella Fortezza.

Con le dita insanguinate per i colpi di bacchetta ricevuti, una delle donne del Connestabile entrò in cucina, gridando, nella speranza di trovare rifugio.

«Gli insetti hanno mangiato le coperte migliori, le hanno ridotte a brandelli! E una canide, che aveva figliato sulle lenzuola migliori, mi ha ringhiato contro, mentre stava allattando. E le camere migliori sono piene di sporcizia, portata dal vento quest’inverno. Qualcuno ha lasciato socchiuse le imposte… di pochissimo, ma è stato sufficiente!» La donna continuò a gemere, stringendosi le mani al petto e dondolando avanti e indietro.

Lessa si piegò, diligentemente, a lustrare i piatti.

Wher da guardia, wher da guardia,

che nel covile te ne stai,

vigila attentamente!

Cosa succede mai?

«Il wher da guardia nasconde qualcosa,» disse F’lar a F’nor, mentre si consultavano nella grande camera frettolosamente ripulita. Vi regnava ancora il freddo dell’inverno, ma nel camino ardeva un fuoco generoso.

«Quando Canth gli ha parlato, balbettava cose senza senso,» osservò F’nor. S’era appoggiato alla mensola, e si girava leggermente, per assorbire un po’ di calore, mentre seguiva con lo sguardo il suo comandante che camminava impaziente avanti e indietro.

«Mnementh lo sta calmando,» rispose F’lar. «Forse non riuscirà a distinguere di che incubo si tratta. Quell’animale può essere rimbecillito, ma…»

«Ne dubito,» concluse F’nor. Lanciò uno sguardo apprensivo al soffitto carico di ragnatele. Era sicuro di avere scovato quasi tutti gli insetti, ma non aveva voglia di provarne la puntura. Sarebbe stato il colmo dei disagi spiacevoli che già aveva provato in quella Fortezza. Se la notte fosse stata tiepida, decise, sarebbe andato a dormire con Canth sulle alture. «Sarebbe una spiegazione più ragionevole di quelle formulate da Fax o dal suo Connestabile.»

«Uhm,» mormorò F’lar, guardando preoccupato il cavaliere marrone.

«Bene, è incredibile che Ruatha possa essersi ridotta in questo modo in dieci brevi Giri. Tutti i draghi hanno captato il senso di potere ed è evidente che il wher da guardia è stato condizionato. E questo richiede una capacità di controllo non comune.»

«Da parte di qualcuno del Sangue,» gli ricordò F’lar.

F’nor lanciò un’occhiata fulminea al suo comandante, chiedendosi se parlava seriamente, dato che tutte le informazioni in loro possesso confermavano il contrario.

«Ammetto che qui c’è il potere, F’lar,» riconobbe F’nor. «Ma potrebbe trattarsi di un bastardo del vecchio Sangue che si tiene nascosto. E noi abbiamo bisogno di una donna. Ma Fax ci ha detto chiaro, nel suo modo inimitabile, di non aver lasciato in vita un solo individuo del vecchio Sangue, qui nella Fortezza, il giorno in cui l’espugnò. Dame, bambini, tutti. No. no.» Il cavaliere marrone scosse il capo, quasi per scacciare la mancanza di fiducia nella bizzarra insistenza del comandante, il quale sembrava sicuro che la Cerca si sarebbe conclusa a Ruatha con la scoperta d’una candidata del Sangue ruathano.

«Quel wher da guardia nasconde qualcosa, e a questo può riuscire soltanto qualcuno che appartenga al Sangue della sua Fortezza, cavaliere marrone,» dichiarò F’lar, sottolineando le parole. Indicò con un gesto la stanza e la finestra. «Ruatha è stata sconfitta. Ma resiste… in un modo molto sottile. Secondo me, tutto fa pensare al vecchio Sangue e al potere. Non al potere soltanto.»

L’espressione ostinata degli occhi di F’lar, la linea decisa della sua mascella indussero F’nor a cercare un altro argomento.

«Cercherò di vedere tutto quello che c’è da vedere attorno a Ruatha,» mormorò. E uscì dalla camera.

F’lar era profondamente annoiato della dama che Fax gli aveva cerimoniosamente assegnato. Ridacchiava di continuo e non la finiva mai di starnutire. Agitava incessantemente, senza portarselo mai al naso, un fazzoletto che da un pezzo aveva bisogno di un buon bucato. Dalla sua persona trasudava un odore acido, misto di sudore, di olio dolce e di cibo rancido. Anche lei era incinta di Fax. Non lo si vedeva ancora, ma la dama aveva confidato le proprie condizioni a F’lar, sia che non si rendesse conto dell’insulto che la cosa comportava per l’ospite, sia che avesse ricevuto dal suo signore l’ordine di lasciar cadere distrattamente quella notizia. F’lar ignorò volutamente la cosa; anzi, aveva ignorato anche la donna, tranne quando la sua compagnia era obbligatoria, per tutta la durata del viaggio.

Dama Tela stava ciarlando nervosamente delle condizioni terribili in cui erano le stanze assegnate la Dama Gemma e alle altre signore del seguito di Fax.

«Le imposte, tutte, sono rimaste aperte per l’intero inverno, e avresti dovuto vedere la sporcizia sul pavimento. Alla fine siamo riuscite a trovare due sguattere che hanno scopato tutto quanto nel camino. E poi il camino ha continuato a gettare un fumo incredibile, fino a quando non abbiamo mandato su un uomo.» Dama Tela ridacchiò. «Quello si è trovato bloccato da una pietra del comignolo che era caduta di traverso. Il resto del comignolo però, era in buone condizioni, un vero miracolo.»

La dama agitò il fazzoletto, e F’lar trattenne il respiro, perché quel gesto inviò nella sua direzione un odore poco piacevole.

Guardò, attraverso la Sala, in direzione della porta della Fortezza interna e vide Dama Gemma che scendeva, a passi lenti e impacciati. Nella sua andatura c’era qualcosa di lievemente diverso che attirò l’attenzione di F’lar; questi la guardò, cercando di capire di cosa si trattasse.

«Oh, sì, povera Dama Gemma,» continuò Dama Tela, con un profondo sospiro. «Siamo così preoccupate. Perché il Nobile Fax abbia insistito per farla venire, proprio non so. Non è ancora venuto il momento del parto, eppure…» La preoccupazione di quella svampita sembrava sincera.

Bruscamente, l’odio che F’lar provava per Fax e per la sua brutalità maturò. Lasciò la sua compagna a ciarlare al vento, e offrì cortesemente il braccio a Dama Gemma, per aiutarla a scendere i gradini, ad avvicinarsi alla tavola. Soltanto una lieve stretta delle dita sul suo braccio tradì la gratitudine di lei. Era pallidissima, tirata in viso, con le rughe incise profondamente attorno alla bocca e agli occhi, segni inequivocabili dello sforzo che stava sostenendo.

«Vedo che è stato fatto qualche tentativo per ristabilire un po’ di ordine nella Sala,» osservò Dama Gemma, in tono discorsivo.

«Qualcuno, sì,» ammise asciutto F’lar, guardandosi intorno. La Sala, dalle proporzioni grandiose, aveva le travi festonate dalle ragnatele accumulatesi in molti Giri. Di tanto in tanto, gli occupanti di quei nidi di velo cadevano con tonfi grassi sul pavimento, sulla tavola, persino sui piatti di portata. Le vecchie bandiere del Sangue di Ruatha erano state tolte dalle mura di pietra scura, ma non erano state mai sostituite. Uno strato di paglia fresca nascondeva il pavimento sporco di grasso. Le tavole a cavalletto apparivano raschiate e pulite da poco, i piatti scintillavano nel chiarore rinforzato dei lumi. Ma questo, purtroppo, era stato un errore, perché la luce viva metteva in risalto una scena che sarebbe apparsa più rassicurante nella penombra.

«Era una Sala tanto bella,» mormorò Dama Gemma, in modo che solo F’lar potesse udirla.

«Eri una loro amica?» chiese lui, educatamente.

«Sì, quando ero giovane.» Abbassò la voce a quell’ultima parola, come se rimpiangesse un’adolescenza felice. «Era una nobile casata!»

«Tu credi che almeno uno abbia potuto sfuggire alla strage?»

Dama Gemma gli lanciò uno sguardo sbigottito, poi si ricompose in fretta, perché nessuno se ne avvedesse. Scrollò impercettibilmente il capo, poi si spostò, impacciata, per prendere posto a tavola. Chinò gentilmente la testa in direzione di F’lar, per ringraziarlo e congedarlo con quell’unico gesto.

F’lar ritornò alla sua accompagnatrice e la fece accomodare a tavola, alla propria sinistra. Erano le sole persone di alto rango che avrebbero cenato nella Fortezza di Ruatha, quella sera: Dama Gemma sedeva alla sua destra, Fax avrebbe preso posto accanto a lei. I dragonieri e gli ufficiali di Fax si sarebbero seduti alle tavole più basse. Nessun membro delle corporazioni era stato invitato a Ruatha.

Fax arrivò in quel momento, insieme alla sua amante in carica e a due vicecomandanti, preceduto dal Connestabile che s’inchinava a profusione. Quell’uomo, notò F’lar, si teneva a buona distanza dal suo signore; ed era comprensibile, dato che la Fortezza affidata alla sua responsabilità era in condizioni catastrofiche. F’lar scacciò un insetto strisciante, con un gesto rapido. Con la coda dell’occhio, vide Dama Gemma che rabbrividiva.

Fax si avviò a passo marziale verso la tavola rialzata, il volto oscurato di rabbia repressa. Scostò rudemente la sedia, sbattendola contro quella di Dama Gemma prima di sedersi, poi la tirò verso la tavola con tanta forza da fare ondeggiare sui cavalietti il piano malfermo. Scrutò con una smorfia la coppa e il piatto, ne toccò la superficie con le dita, pronto a gettarli via se non ne fosse stato soddisfatto.

«Un arrosto, Nobile Fax, e pane fresco, Nobile Fax, e poi radici e frutta, tutto quello che è rimasto.»

«Tutto quello che è rimasto? Ma come? Mi hai detto che qui non era stato raccolto niente.»

Il Connestabile sbarrò gli occhi e deglutì, prima di balbettare una risposta.

«Niente che potessimo mandarti. Niente di abbastanza buono. Niente. Se avessi saputo del tuo arrivo, avrei potuto mandare qualcuno a Crom…»

«A Crom?» ruggì Fax, sbattendo sul tavolo il piatto che stava esaminando. L’orlo si piegò sotto le sue dita. Il Connestabile rabbrividì, come se fosse stato lui stesso a subire quel trattamento.

«A prendere un po’ di viveri decenti, mio Signore,» mormorò.

«Il giorno che una delle mie Fortezze non sarà in grado di provvedere a se stessa o alla visita del suo legittimo sovrano, io l’abbandonerò rinunciandovi per sempre.»

Dama Gemma spalancò le labbra. Nello stesso istante, i draghi ruggirono. F’lar sentì il flusso inconfondibile del potere. Cercò istintivamente con gli occhi F’nor, al tavolo più basso. Il cavaliere marrone e tutti gli altri dragonieri avevano egualmente percepito quell’inspiegabile corrente di esultanza.

«Qualcosa che non va, dragoniere?» scattò Fax.

Ostentando la massima disinvoltura, F’lar tese le gambe sotto la tavola e assunse una posa indolente.

«Qualcosa che non va?»

«I draghi!»

«Oh, niente! Ruggiscono spesso… al tramonto, o quando passa uno storno di wherry, o all’ora del pasto.» E F’lar sorrise amabilmente al Signore delle Terre Alte. La sua vicina di tavola lanciò un breve squittìo.

«All’ora del pasto? Non li avete fatti mangiare?»

«Oh, sì. Cinque giorni fa.»

«Ah… Cinque… giorni fa? E hanno fame… adesso?» La voce della donna si spense in un bisbiglio impaurito, mentre lo guardava ad occhi sgranati.

«Fra qualche giorno,» la rassicurò F’lar. Con aria di distaccato divertimento, scrutò la Sala. Il flusso era venuto da molto vicino. O dalla stessa Sala, o poco lontano. Probabilmente da lì dentro. E s’era fatto sentire subito dopo le parole di Fax; sembrava esserne stato una conseguenza. F’lar notò che F’nor e gli altri dragonieri stavano furtivamente scrutando i volti di tutti i presenti. I soldati di Fax potevano venire esclusi, e così pure gli uomini del Connestabile. E il potere aveva un sentore indefinibilmente femminile.

Una delle donne di Fax? Per F’lar era molto difficile crederlo. Mnementh si era trovato vicino a ciascuna di loro, e nessuna aveva dimostrato di possedere una parvenza di potere e neppure d’intelligenza… con la sola eccezione di Dama Gemma.

Una delle donne della Sala. Fino a quel momento aveva visto soltanto le squallide sguattere e le vecchie che prestavano servizio agli ordini del Connestabile. La donna personale del Connestabile? Dove scoprire se ne aveva una. Una delle donne delle guardie della Fortezza? F’lar represse a stento l’intenso desiderio di alzarsi per andare a cercarla.

«Hai un servizio di guardia?» chiese distrattamente a Fax.

«Doppia, alla Fortezza di Ruatha,» rispose Fax con voce dura e tesa, che sembrava uscirgli dal profondo dei visceri.

«Qui?» Per poco F’lar non rise, mentre indicava con un gesto quel locale malamente assestato.

«Qui!» Fax cambiò argomento con un ruggito. «Servite in tavola!»

Entrarono barcollando, sotto il peso di un animale arrostito intero, cinque sguatteri; due erano donne, vestite di stracci grigio-marroni così sudici da indurre F’lar ad augurarsi che non avessero messo mano alla preparazione dei cibi. Nessuno che possedesse sia pure una traccia labile del potere sarebbe mai precipitato tanto in basso, a meno che…

L’odore che lo investì nel momento in cui il grande piatto venne posato sulla tavola lo disgustò. Puzzava di osso carbonizzato e di carne bruciata. Anche la caraffa di klah che veniva fatta passare aveva un pessimo odore. Il Connestabile affilava freneticamente i coltelli, per poter affettare in qualche modo porzioni accettabili da quella carcassa ripugnante.

Dama Gemma trattenne di nuovo il respiro, e F’lar la vide stringere le mani sui braccioli della sedia. Scorse il movimento convulso della gola di lei, nel deglutire. Anche lui del testo, non aveva nessuna voglia di incominciare quel pasto.

Gli sguatteri ricomparvero, portando vassoi di legno carichi di pane. Prima di servirlo, avevano grattato via le croste bruciate, in qualche punto le avevano tagliate. Quando vennero portati altri vassoi, F’lar cercò di vedere in faccia i servitori. Una massa di capelli opachi nascondeva il volto della sguattera che venne a offrire a Dama Gemma un piatto di legumi galleggianti in un liquido untuoso. Disgustato, F’lar frugò tra i legumi per trovare qualche boccone cotto decentemente, per servirlo a Dama Gemma. Lei lo rifiutò con un gesto, incapace di nascondere il proprio disagio.

Mentre F’lar stava per voltarsi a servire Dama Tela, si accorse che Dama Gemma stringeva convulsamente le mani sui braccioli, e comprese che non era solo nauseata da quel cibo disgustoso. Era stata colpita all’improvviso dalle doglie del parto.

F’lar lanciò un’occhiata verso Fax. Il sovrano stava osservando con una smorfia il Connestabile, il quale continuava a cercare qualche porzione decente di carne da servire.

F’lar sfiorò con la punta delle dita il braccio di Dama Gemma, e quella girò appena il volto, in modo da vederlo con la coda dell’occhio. Riuscì ad esibire un educato mezzo sorriso.

«Non oso andarmene proprio adesso, Nobile F’lar. Lui è sempre pericoloso, a Ruatha. E potrebbero anche essere false doglie. Alla mia età…»

F’lar ne dubitò, quando la vide scossa da un altro lungo tremito. Quella donna avrebbe potuto essere una magnifica Dama del Weyr, pensò, tristemente, se soltanto fosse stata più giovane.

Il Connestabile presentò a Fax, con mani tremanti, la carne affettata troppo cotta: una quantità neppure sufficiente.

Fax agitò furioso il grosso pugno, e il Connestabile ricevette in piena faccia il piatto, la carne e il sugo. Nonostante tutto, F’lar sospirò, perché senza dubbio quella porzione era l’unica mangiabile dell’intero animale.

«E tu lo chiami cibo? Tu lo chiami cibo!» urlò Fax. La voce rimbombò contro la volta nuda del soffitto e fece cadere gli insetti dalle loro tele, spezzando con le vibrazioni i fili fragilissimi. «Questa ignobile sbobba!»

F’lar si affrettò a scuotere via gli insetti caduti addosso a Dama Gemma, che in quel momento era in preda alle doglie di una contrazione fortissima.

«Non potevamo trovare altro, con un preavviso così breve,» gemette il Connestabile, le guance rigate dal sugo sanguinolento. Fax gli tirò contro la coppa, e il vino colò sul petto dell’uomo. Poi scagliò anche il piatto fumigante di radici, e l’uomo gridò, investito dal liquido bollente.

«Mio Signore, mio Signore, se avessi saputo!»

«È evidente che Ruatha non può provvedere alla visita del suo Signore. Devi rinunciarvi.» F’lar sentì la propria voce pronunciare quelle parole.

Il trauma, nell’udirle uscire dalle sue stesse labbra, non fu meno forte per lui di quanto lo fosse per tutti gli altri presenti nella Sala. Cadde il silenzio, interrotto soltanto dai tonfi degli insetti e dallo sgocciolio del brodo di radici che cadeva dalle spalle del Connestabile sulla paglia del pavimento. Si udì chiaramente lo strusciare dei tacchi degli stivali, quando Fax girò lentamente per fronteggiare il pilota bronzeo.

Mentre vinceva il proprio sbalordimento e cercava rapidamente di pensare a ciò che avrebbe potuto fare per sistemare le cose, F’lar vide F’nor alzarsi in piedi lentamente, con la mano sull’impugnatura della daga.

«Ho sentito bene?» chiese Fax, il volto privo d’espressione, gli occhi sfolgoranti.

Incapace di comprendere come avesse potuto pronunciare quella sfida avventata, F’lar ostentò una posa languida.

«Sei stato tu stesso a dire, Signore,» mormorò, «che se qualcuna delle tue Fortezze non fosse stata più in grado di provvedere a se stessa o alla visita del suo legittimo sovrano, vi avresti rinunciato.»

Fax ricambiò il suo sguardo, con un volto che tradiva molte emozioni represse, ma in cui predominava uno sfolgorio trionfale. F’lar, il viso irrigidito in un’espressione forzata d’indifferenza, stava riflettendo fulmineamente. Nel nome dell’Uovo, aveva dunque perduto il senso della discrezione?

Fingendo la massima disinvoltura, infilzò sul coltello qualche pezzo di verdura e cominciò a masticarlo. Nello stesso istante, notò che F’nor si stava guardando intorno, scrutando tutti i presenti. All’improvviso, F’lar comprese cos’era accaduto. In qualche modo, pronunciando quella frase lui, un dragoniere, aveva reagito ad un’azione segreta del potere. F’lar, il cavaliere di bronzo, veniva messo in condizione di doversi battere con Fax. Perché? A quale scopo? Per costringere quell’uomo a rinunciare alla Fortezza? Era incredibile. Tuttavia, la piega assunta dagli avvenimenti poteva avere una sola spiegazione. Nell’animo di F’lar proruppe un’esultanza intensa e quasi dolorosa. Non poteva far altro che mantenere quella posa d’indifferenza annoiata, concentrare ogni sforzo per deludere Fax, se quello avesse cercato un duello. Un duello non avrebbe avuto scopo. Lui, F’lar, non aveva tempo da perdere in cose del genere.

Un gemito sfuggì dalle labbra di Dama Gemma, spezzando la tensione tra i due antagonisti che continuavano a fissarsi negli occhi. Irritato, Fax abbassò lo sguardo verso la donna, il pugno serrato e già alzato a colpirla per la temerarietà con cui aveva osato interrompere il suo signore e padrone. Ma la contrazione che le squassava il ventre gonfio era inequivocabile, come lo era la sua sofferenza. F’lar non osò guardarla, ma si chiese se avesse lanciato volutamente quel gemito per porre fina alla scena.

Incredibilmente, Fax mcominciò a ridere. Rovesciò indietro la testa, mettendo in mostra i grossi denti chiazzati, in una risata che sembrava un ruggito.

«Sicuro, vi rinuncio, in favore di suo figlio, se è un maschio… e se è vivo!» gracchiò, rauco.

«Udito e testimoniato!» scattò F’lar, balzando in piedi e indicando i suoi uomini. Quelli balzarono subito ritti. «Udito e testimoniato!» dichiararono, come voleva la tradizione.

Tutti cominciarono a parlare contemporaneamente, mossi da un sollievo nervoso. Le altre donne reagirono, ognuna a suo modo, all’imminenza del parto, lanciando ordini alla servitù e scambiandosi suggerimenti. Accorsero attorno a Dama Gemma, ondeggiando indecise fuori della portata di Fax, come sciocchi wherry scacciati dai loro trespoli. Si capiva che erano combattute tra la paura del loro Signore e il desiderio di aiutare la partoriente.

Fax intuì le loro intenzioni e la loro riluttanza e, continuando nella sua risata stridula, arretrò rovesciando la sedia. La scavalcò, si diresse alla tavola delle carni e mcominciò a tagliarne dei pezzi con il suo coltello, cacciandoseli in bocca sgocciolanti di sugo, senza smettere di sghignazzare.

Quando F’lar si piegò su Dama Gemma per aiutarla ad alzarsi, lei gli strinse convulsamente il braccio. I loro occhi s’incontrarono; quelli della donna erano velati dalla sofferenza. Lei l’attirò più vicino.

«Ha intenzione di ucciderti, cavaliere bronzeo. Gli piace uccidere,» bisbigliò.

«Non è facile uccidere i dragonieri, nobile signora. Ti ringrazio.»

«Non voglio che tu venga ucciso,» rispose lei, sommessa, mordendosi le labbra. «Abbiamo così pochi cavalieri bronzei.»

F’lar la fissò, sbigottito. Possibile che la consorte di Fax credesse davvero nelle Vecchie Leggi? Fece un cenno a due degli uomini del Connestabile perché la trasportassero nell’interno della Fortezza. Poi afferrò per un braccio Dama Tela, mentre gli passava accanto svolazzando.

«Che cosa ti occorre?»

«Oh, oh,» esclamò la donna, il volto sfigurato dal panico, torcendosi disperata le mani. «Acqua. Calda. Pulita. Panni. E una levatrice. Oh, sì, abbiamo bisogno d’una levatrice.»

F’lar girò lo sguardo sulle donne della Fortezza, sfiorando appena la prima figura squallida che aveva incominciato a pulire il cibo rovesciato sul pavimento. Poi fece un segno al Connestabile e gli ordinò perentoriamente di mandare a cercare la levatrice. Il Connestabile sferrò un calcio alla sguattera accucciata sul pavimento.

«Tu… tu, come ti chiami, vai a prenderla dal quartiere degli artigiani. Devi pure sapere chi è.»

Con un’agilità che contraddiceva il suo aspetto decrepito, la sguattera evitò il calcio di commiato sferrato dal Connestabile. Attraversò correndo la Sala e sparì oltre la porta della cucina.

Fax continuava ad affettare la carne; di tanto in tanto scoppiava anora in una sonora risata latrante, divertito dei propri pensieri. F’lar si avviò a sua volta verso la carcassa, e senza attendere l’invito del suo ospite, cominciò a tagliarsi altre fette di carne, accennando ai suoi uomini di imitarlo. I soldati di Fax, comunque, attesero che il loro Signore avesse finito di mangiare.

O Signore della Fortezza, la tua roba è sol sicura

tra muri spessi, porte metalliche e niente verzura.

Lessa uscì correndo dalla Sala per andare a cercare la levatrice nel quartiere degli artigiani. La sua mente ribolliva per la frustazione. Era mancato così poco! Così poco! Come aveva potuto arrivare tanto vicina al suo scopo e poi fallire? Fax avrebbe dovuto sfidare il dragoniere. E il dragoniere era giovane e forte; il suo viso era quello di un combattente, austero e controllato. Non avrebbe dovuto temporeggiare. L’onore, dunque, era morto a Pern, soffocato dall’erba verdeggiante?

E perché, oh, perché Dama Gemma aveva scelto proprio quel momento prezioso per incominciare il travaglio? Se il suo gemito non avesse distratto Fax, il duello ci sarebbe stato, e neppure Fax, nonostante il suo tanto vantato valore di combattente feroce, sarebbe riuscito a spuntarla contro un dragoniere che avesse l’appoggio di Lessa. La Fortezza doveva ritornare al Sangue legittimo. Fax non doveva uscire vivo da Ruatha.

Sopra di lei, sulla Torre, il grande drago bronzeo lanciò un verso bizzarro: i suoi occhi sfaccettati scintillavano nell’oscurità che si andava addensando.

Inconsciamente, lo zittì come avrebbe zittito il wher da guardia. Ah, quel wher! Non era uscito dal covile, quando lei era passata. Sapeva che i draghi avevano cercato di aggredirlo. Poteva sentirlo delirare in preda al panico: avrebbero finito per farlo morire.

La discesa che conduceva all’insediamento degli artigiani aggiunse slancio ai suoi passi rapidi; dovette frenare, quasi sdrucciolando, per arrestarsi davanti alla soglia dell’abitazione della levatrice. Bussò con forza alla porta chiusa e udì, all’interno, l’esclamazione di sorpresa impaurita.

«Un parto. Un parto alla Fortezza!» gridò Lessa, al ritmo del suo bussare.

«Un parto» Il grido le giunse smorzato; poi sentì scorrere i chiavistelli. «Alla Fortezza?»

«La dama di Fax. Se ci tieni alla tua vita, corri! Perché, se è un maschio, sarà il Signore di Ruatha.»

Questo avrebbe dovuto decidere la donna, pensò Lessa. E in quel momento la porta si spalancò, aperta dall’uomo della casa. Lessa scorse la levatrice che raccoglieva in fretta le sue cose, ammucchiandole nello scialle. La esortò ad affrettarsi, la guidò lungo l’erta che portava alla Fortezza, oltre la porta della Torre, afferrandola per un braccio quando quella cercò di fuggire alla vista di un drago che la sbirciava dall’alto. La trascinò nel Cortile e la spinse nella Sala.

La levatrice si aggrappò alla porta interna, sgomenta alla vista che si offriva ai suoi occhi. Il Nobile Fax, con i piedi sulla tavola, si stava pareggiando le unghie con il coltello, e continuava ancora a ridacchiare. I dragonieri, nelle tuniche di pelle di wher, stavano mangiando tranquillamente seduti a un tavolo, mentre i soldati, finalmente, si spartivano la carne avanzata.

Il cavaliere bronzeo notò l’arrivo delle due donne e indicò loro, concitatamente, l’interno della Fortezza. La levatrice sembrava inchiodata al suolo. Lessa la tirò inutilmente per il braccio, per indurla ad attraversare la Sala. Con sua grande sorpresa, il pilota bronzeo si diresse verso di loro.

«Presto, donna, il parto di Dama Gemma è prematuro,» disse aggrottando la fronte preoccupato. Con un gesto imperioso indicò l’ingresso della Fortezza interna. L’afferrò per la spalla e la condusse verso i gradini, nonostante la resistenza della donna, mentre Lessa la tirava per l’altro braccio.

Quando giunsero alla scala, l’uomo lasciò la presa, accennando a Lessa di scortare la levatrice fino a destinazione. Nell’attimo in cui giunsero alla massiccia porta interna, Lessa si avvide che il dragoniere stava fissando intento la sua mano, posata sulla spalla della levatrice. Anche lei la guardò, cautamente, e la vide come se appartenesse ad una estranea… le dita lunghe, eleganti nonostante la sporcizia e le unghie spezzate… una mano piccola, dalle ossa delicate, atteggiata con grazia nonostante la convulsività della stretta. Subito si affrettò a sfuocarla.

Dama Gemma era in preda al travaglio, e le cose non andavano bene. Quando Lessa cercò di lasciare la stanza, la levatrice le lanciò uno sguardo atterrito: nonostante la sua riluttanza, decise di rimanere. Era evidente che la presenza delle altre dame era inutile. Erano tutte raccolte da un lato dell’alto letto: si torcevano le mani e parlavano in toni alti e striduli. Toccò a Lessa e alla levatrice togliere a Gemma le vesti, adagiarla meglio e tenerle le mani durante le contrazioni.

Dal volto della partoriente era svanita quasi ogni traccia di bellezza. Sudava profusamente, e la sua carnagione aveva assunto una sfumatura grigiastra. Il respiro era secco, raschiante. si mordeva le labbra per non gridare.

«Non va affatto bene,» mormorò sottovoce la levatrice. «Ehi, tu. là, smettila di piagnucolare,» ordinò, girandosi verso una dama. Aveva perduto di colpo tutta la sua indecisione: l’importanza del suo compito le conferiva un’autorità temporanea anche sulle donne d’alto rango. «Portami dell’acqua calda. Passami quei panni. Trova qualcosa di caldo per il bambino. Se nasce vivo, bisognerà tenerlo al riparo dal freddo e dalle correnti d’aria.»

Rassicurate da quel tono tirannico, le donne smisero di gemere e si affrettarono ad obbedirle.

Se sopravvive. Quelle parole echeggiarono nella mente di Lessa. Sopravvive per diventare Signore di Ruatha. Uno del sangue di Fax? Non era stata quella la sua intenzione, per quanto…

Dama Gemma cercò, alla cieca, le mani di Lessa. Involontariamente, lei reagì offrendole tutto il conforto che poteva darle una stretta ben salda.

«Perde troppo sangue,» mormorò la levatrice. «Altri panni.»

Le donne ripresero a gemere, lanciando gridolini di paura e di protesta.

«Non avrebbe dovuto fare un viaggio tanto lungo.»

«Moriranno tutti e due.»

«Oh! Perde troppo sangue.»

Troppo sangue, pensò Lessa. Io non ho niente contro di lei. E il bambino è arrivato troppo presto. Morirà. Abbassò lo sguardo su quel volto sfigurato, sul labbro inferiore macchiato di sangue. Se non grida adesso, perché ha gridato prima? Lessa si sentì invadere dal furore. Quella donna, per qualche ragione sconosciuta, aveva volutamente distratto Fax e F’lar nel momento decisivo. Strinse le mani di Gemma con tanta forza che quasi gliele stritolò.

Quel dolore inatteso scosse Gemma dalla breve tregua tra una contrazione e l’altra, che ormai l’afferravano a intervalli sempre più brevi. Sbatté le palpebre per scuoterne le gocce di sudore, e mise a fuoco lo sguardo, disperatamente, sul volto di Lessa.

«Che cosa ti ho fatto» ansimò.

«Cosa mi hai fatto? Avevo quasi in pugno Ruatha, quando tu hai lanciato quel falso grido,» disse Lessa, piegando la testa in modo che neppure la levatrice, ai piedi del letto, potesse udirla. Era infuriata al punto di dimenticare la discrezione: ma non aveva importanza, perché quella donna stava per morire.

Dama Gemma spalancò gli occhi.

«Ma… il dragoniere… Fax non deve uccidere il dragoniere. Ci sono così pochi cavalieri bronzei. Sono tutti indispensabili. E le vecchie storie… la stella… la stella…» Non poté continuare, sopraffatta da una contrazione violenta. I pesanti anelli che le ornavano le dita affondarono nelle mani di Lessa, mentre lei si afferrava alla giovane donna.

«Che vuoi dire?» domandò quest’ultima, in un bisbiglio rauco.

Ma la sofferenza della donna era così intensa che quasi non riusciva a respirare. Gli occhi sembravano sul punto di schizzare dalle orbite. Per quanto fosse diventata inaccessibile a qualunque sentimento che non fosse la vendetta, Lessa si sentì sospinta dall’istinto femminile di alleviare le ultime sofferenze di quella donna. Comunque, le parole di Dama Gemma le riecheggiavano nella mente. La donna, quindi, non aveva cercato di proteggere Fax, ma il dragoniere. La stella? Intendeva alludere alla Stella Rossa? Quali vecchie storie?

La levatrice teneva entrambe le mani sul ventre di Gemma, e premeva cantilenando consigli che la partoriente, straziata dai dolori, non ascoltava. Il corpo sussultò, convulsamente, sollevandosi dal letto. Mentre Lessa tentava di sostenerla, Dama Gemma aprì gli occhi con un’espressione di incredulo sollievo. Crollò tra le braccia di Lessa e restò immobile.

«È morta!» strillò una delle donne, e uscì gridando dalla stanza. La sua voce riecheggiò nei corridoi di roccia. «Morta… orta… orta…aaa…» Le altre donne, stordite, sembravano pietrificate.

Lessa distese sul letto il corpo di Dama Gemma, fissando sbigottita il sorriso stranamente trionfante dipinto sul volto della donna. Si ritrasse nell’ombra, molto più sconvolta di tutte le altre. Benché non avesse mai esitato a compiere qualsiasi cosa, pur di ostacolare Fax o di mandare in rovina Ruatha, adesso tremava per il rimorso. Nella sua decisione fanatica, aveva dimenticato che potevano esservi altri a nutrire odio per Fax. Dama Gemma era una di loro, e aveva sofferto umiliazioni e indegnità anche più gravi di lei. Eppure Lessa l’aveva odiata, aveva riversato odio su una donna che avrebbe meritato il suo rispetto e il suo aiuto, non la sua condanna.

Lessa scosse il capo per disperdere quel senso di tragedia e di repulsione per se stessa che minacciava di sopraffarla. Non aveva tempo per il rimpianto e la contrizione. Non in quel momento. Non quando, provocando la morte di Fax, poteva vendicare non solo i torti subiti da lei, ma anche quelli subiti da Gemma.

E ne aveva la passibilità. Il bambino… sì, il bambino. Avrebbe detto che era vivo. Che era maschio. Il dragoniere sarebbe stato costretto a battersi: aveva udito e testimoniato la promessa di Fax.

Un sorriso, non molto diverso da quello apparso sul volto della morta, piegò le labbra di Lessa, mentre si dirigeva verso la Sala, percorrendo a passi affrettati i corridoi.

Stava per precipitarsi dentro, quando si rese conto di aver permesso che l’anticipazione del trionfo distruggesse il suo autocontrollo. Si arrestò davanti al portale, trasse un profondo respiro. Abbassò le spalle e si aggobbì: tornò ad essere, di nuovo, una sguattera scialba.

La donna che era fuggita dalla camera per dare l’annuncio della morte stava singhiozzando rannicchiata ai piedi di Fax.

Lessa digrignò i denti: il suo odio verso quell’uomo raddoppiò d’intensità. Lui era felice che Dama Gemma fosse morta dando alla luce un figlio suo. Proprio in quel momento stava ordinando all’isterica messaggera di andare a chiamare la sua favorita in carica; senza dubbio, aveva intenzione di insediarla quale dama principale.

«Il bambino è vivo,» gridò Lessa, con voce alterata dalla collera e dall’odio. «È un maschio.»

Fax balzò in piedi, allontanò da sé con un calcio la donna piangente e guardò Lessa con una smorfia rabbiosa.

«Che cosa stai dicendo?»

«Il bambino è vivo. È un maschio,» ripeté lei, scendendo. L’incredulità e la rabbia che invasero la faccia di Fax furono, ai suoi occhi, uno spettacolo meraviglioso. Gli uomini del Connestabile repressero a stento un incauto grido di esultanza.

«Ruatha ha un nuovo Signore!» I draghi ruggirono.

Lessa era così intenta a realizzare il suo scopo che non aveva osservato le reazioni degli altri presenti; e non udì neppure il ruggito dei draghi.

Fax scattò. Spiccò un balzo in avanti, urlando per rifiutare quella notìzia. Prima che Lessa avesse tempo di schivare il colpo, le sferrò un pugno in pieno viso. Lei venne scagliata all’indietro, rotolò sui gradini e cadde pesantemente sul pavimento di pietra, vi giacque immobile come un fardello di stracci sporchi.

«Fermati, Fax!» La voce di F’lar tagliò il silenzio, mentre il Signore delle Terre Alte levava il piede per prendere a calci quel corpo inerte.

Fax ruotò su se stesso, stringendo automaticamente la mano attorno all’impugnatura del coltello.

«Abbiamo udito e testimoniato, Fax,» lo ammonì il dragoniere, alzando una mano. «Mantieni la tua promessa!»

«Testimoniato? Dai dragonieri?» gridò Fax, con una risata irridente. «Dalle dragoniere, vuoi dire,» sbuffò, lo sguardo balenante di disprezzo, accomunandoli tutti in un ampio gesto.

Per un attimo fu colto alla sprovvista dalla rapidità con cui il coltello apparve nella mano del cavaliere bronzeo.

«Dragoniere?» chiese F’lar, con un sogghigno che gli scopriva i denti, la voce pericolosamente sommessa. Il chiarore dei lumi scintillava sulla lama della sua arma, mentre lui avanzava verso Fax.

«Donnicciole! Parassiti di Pern. Il potere del Weyr è finito per sempre.» Scese con un balzo i gradini, raccogliendosi per prepararsi a scattare.

I due antagonisti si accorgevano appena del tramestio alle loro spalle, mentre le tavole venivano scostate in fretta per dare spazio al duello. F’lar non aveva il tempo di concedere neppure un’occhiata alla figura accasciata della sguattera; eppure era certo, grazie all’istinto ed a qualcosa oltre l’istinto, che era proprio lei la fonte del potere. Lo aveva sentito quando era entrata nella Sala. Il ruggito dei draghi lo aveva confermato. Se quella caduta l’aveva uccisa… Avanzò verso Fax, balzando a lato per evitare l’avventarsi della lama, mentre l’avversario gli piombava contro con uno scatto poderoso.

Evitò facilmente quell’attacco; calcolò l’allungo delle braccia di Fax, e decise di essere leggermente avvantaggiato. Ma si disse, severamente, che si trattava d’un vantaggio di poco conto. Fax aveva una notevole esperienza in fatto di combattimenti a corpo a corpo all’ultimo sangue, mentre i suoi duelli si erano sempre conclusi al primo graffio, nel corso degli addestramenti. F’lar decise che non avrebbe dovuto avvicinarsi troppo a quell’individuo così robusto, pericoloso già per la sua stessa mole. Lui avrebbe dovuto adottare come arma l’agilità, non la forza bruta.

Fax eseguì una finta, cercando di scoprire i punti deboli di F’lar. I due si piegarono leggermente, fronteggiandosi a un paio di metri di distanza, agitando i coltelli e tenendo la mano libera protesa, a dita aperte, pronta per abbrancare.

Fax balzò di nuovo all’attacco. F’lar lo lasciò avvicinare quanto bastava per schivarlo con un guizzo all’indietro, e per sferrare nello stesso tempo un fendente. Sentì la stoffa lacerarsi sotto la punta del suo coltello, udì il ringhio dell’avversario. Fax era più agile e svelto di quanto facesse pensare la sua mole, e F’lar dovette schivare una seconda volta, mentre la lama dell’altro gli graffiava la pesante giubba di pelle di wher.

I due girarono l’uno attorno all’altro, rabbiosamente, cercando ognuno un’apertura nella guardia dell’avversario. Fax si avventò, tentando di fare del proprio peso e della propria massa un fattore di vantaggio nei confronti dell’avversario, più leggere e più svelto, bloccandolo tra la parete e la piattaforma rialzata.

F’lar contrattaccò, piegandosi al di sotto del braccio avventato di Fax, e sferrò un colpo obliquo al suo fianco. Fax lo abbrancò, tirò rabbiosamente, e F’lar si trovò intrappolato contro di lui. Si sforzò, disperatamente, di tenergli sollevato con la sinistra il braccio armato del coltello. Alzò di scatto il ginocchio e nello stesso istante si piegò per sfuggire. Indietreggiò, mentre Fax lanciava un gemito, ansimando, per l’improvviso dolore all’inguine. F’lar si allontanò agilmente: il bruciore inatteso alla spalla gli rivelò che non era uscito indenne da quella fase dello scontro.

Il viso di Fax era arrossato da una furia sanguinaria: gemeva per il dolore e lo shock. Ma F’lar non ebbe il tempo di approfittare di quel vantaggio momentaneo, perché l’altro, furibondo, si raddrizzò e lo caricò. Fu costretto a spostarsi rapidamente di lato, prima che l’altro gli fosse addosso. F’lar si portò dietro al tavolo delle carni, girandogli attorno cautamente, e provò a flettere la spalla per valutare la gravità della ferita. Il taglio bruciava come se fosse stato infetto con un ferro arroventato. Ogni movimento era doloroso, ma poteva comunque servirsi del braccio.

Improvvisamente, Fax afferrò una manciata di ritagli dal vassoio della carne e la scagliò contro F’lar. Il dragoniere la schivò, e Fax superò, di slancio, la distanza che lo separava da lui, girando attorno alla tavola. L’istinto spinse F’lar a spiccare un balzo laterale: la lama balenante dell’avversario saettò vicinissima al suo addome, mentre il suo coltello colpiva all’esterno il braccio di Fax. Immediatamente i due girarono su se stessi per fronteggiarsi: ma il braccio sinistro di Fax, adesso, penzolava inerte lungo il fianco.

F’lar si avventò, approfittando dell’occasione, mentre l’altro vacillava. Ma aveva sbagliato il calcolo; ricevette un calcio tremendo al fianco, mentre cercava di schivare un nuovo fendente. Rotolò freneticamente lontano, piegato in due per il dolore, per sfuggire all’avversario che lo stava caricando. Fax stava cercando di piombargli addosso, per inchiodarlo al suolo sotto il suo peso e per inferirgli il colpo decisivo. F’lar riuscì a rimettersi in piedi, tentando di raddrizzarsi per resistere alla carica un po’ incerta dell’altro. Fu la sua stessa posizione a salvarlo. Fax sbagliò la mira e barcollò, perdendo l’equilibrio. F’lar avventò la destra con tutte le sue forze, e la lama penetrò nella schiena indifesa del nemico, fino a che poté sentire la punta piantarsi nel pettorale.

Fax cadde piatto sul pavimento di pietra; la forza della caduta smosse il coltello piantato nello sterno, e qualche centimetro di lama insanguinata riemerse dal punto di entrata.

Un gemito sottile penetrò lo stordimento fatto di dolore e di sollievo. F’lar alzò gli occhi annebbiati dal sudore e vide le donne che si affollavano all’entrata della Fortezza. Una teneva tra le braccia una specie di involto. F’lar non riuscì ad afferrare immediatamente il significato di quella scena: sapeva solo che era molto importante, in quel momento, schiarirsi il cervello.

Abbassò lo sguardo sul morto. Non provava alcun piacere per averlo ucciso: soltanto il sollievo di essere ancora vivo. Si asciugò la fronte con la manica e si raddrizzò a fatica: il fianco era ancora dolorante per l’ultimo calcio, la spalla sinistra bruciava. Si accostò barcollando alla sguattera, che giaceva ancora dove era caduta.

La girò, delicatamente, e vide il terribile livido che si allargava sulla guancia, sotto la pelle sudicia. Sentì F’nor che prendeva in mano la situazione tumultuosa nella Sala.

Allora, tremando nonostante lo sforzo per controllarsi, posò una mano sul petto della donna, per accertarsi che il cuore battesse ancora. Batteva, lentamente ma con forza.

Un profondo sospiro gli sfuggì dalle labbra, perché il pugno o la caduta avrebbero potuto essere fatali… fatali, forse, anche per Pern.

Il suo sollievo era colorato di disgusto. Sotto quella crosta di sudiciume, non si poteva comprendere quale età avesse quella donna. La sollevò tra le braccia: era così leggera da non affaticare il suo corpo provato dal combattimento. Certo che F’nor avrebbe saputo tenere in pugno la situazione con la massima efficienza, F’lar trasportò la sguattera in camera sua.

Posò il corpo sull’alto letto, poi riattizzò il fuoco e aggiunse altro combustibile alla lampada appesa al capezzale. La gola gli si strinse per la nausea al pensiero di toccare quella massa sudicia e opoca di capelli; tuttavia, delicatamente, la scostò dal volto, girò la testa della donna da una parte e dall’altra. I lineamenti erano fini, regolari. Un braccio, lasciato scoperto dai cenci, era abbastanza pulito, al di sopra del gomito, ma segnato da lividure e da vecchie cicatrici. La pelle era salda, priva di grinze. Quando le prese le mani incrostate di sporcizia sentì che erano ben fatte, dalle ossa delicate.

F’lar incominciò a sorridere. Sì la donna aveva nascosto quella mano molto abilmente, tanto che lui aveva dubitato di ciò che aveva visto. Sì, sotto il sudiciume e il grasso, lei era giovane. Abbastanza giovane per il Weyr, e per nulla squallida. Fortunatamente, non era abbastanza giovane per essere figlia di Fax. Una bastarda del Signore precedente? No: non c’era traccia di contaminazione con il sangue comune. Era sangue puro, di qualunque Casata fosse; e F’lar pensava che fosse effettivamente sangue ruathano. Quella donna, grazie a qualche mezzo sconosciuto, era sfuggita al massacro, dieci Giri prima, e aveva aspettato il momento della vendetta. Per quale altra ragione avrebbe cercato di costringere Fax a rinunciare alla Fortezza?

Felice e affascinato per quella fortuna inattesa, F’lar allungò la mano per strappare gli indumenti dal corpo inerte, e subito si arrestò. La ragazza era rinvenuta. I grandi occhi famelici lo fissarono, senza paura e senza curiosità, semplicemente guardinghi.

Un sottile cambiamento si produsse su quel volto. Con un sorriso, F’lar restò a guardare, mentre lei trasformava i propri lineamenti regolari in un’illusione di bruttezza ripugnante.

«Stai cercando di confondere un dragoniere, ragazza?» rise lui. Non cercò più di toccarla; si appoggiò alla grande testata scolpita del letto. Incrociò le braccia e subito dovette cambiare posizione, per alleviare il dolore al braccio ferito.

«Il tuo nome, ragazza, e il tuo rango.»

Lei si raddirizzò lentamente: i lineamenti non erano più contorti. Decisamente si appoggiò alla testata: adesso si stavano squadrando attraverso l’intera ampiezza del letto.

«Fax?»

«Morto. Il tuo nome!»

Un’espressione di trionfo e di esultanza invase il volto di lei. Scese dal letto e rimase ritta, inaspettatamente alta.

«Allora rivendico ciò che è mio. Io sono del Sangue di Ruatha. Rivendico Ruatha.»

F’lar la scrutò per un attimo, felice di quel portamento orgoglioso. Poi rovesciò il capo all’indietro e rise.

«Questo mucchio di rovine?» Non poté trattenersi dall’irridere alla stridente contraddizione tra i modi della ragazza ed il suo aspetto. «Oh, no. E inoltre, mia bella signora, noi dragonieri abbiamo udito e testimoniato la promessa con cui Fax ha rinunciato alla Fortezza in favore del suo erede. Dovrò sfidare anche quel neonato per te? Dovrò soffocarlo con le sue fasce?»

La giovane donna ebbe un lampo negli occhi, mentre le sue labbra si schiudevano in un sorriso terribile.

«Non c’è nessun erede. Gemma è morta e il bambino non è nato. Io ho mentito.»

«Mentito?» domandò F’lar, avvampando di collera.

«Sì.» Lei lo sfidò, rialzando il mento. «Ho mentito. Il bambino non è nato. Volevo solo essere sicura che tu sfidassi Fax.»

F’lar le afferrò il polso, furioso per avere ceduto due volte alla sua influenza.

«Tu hai provocato un dragoniere per farlo combattere? Per farlo uccidere? Quando è impegnato nella Cerca

«La Cerca? E che vuoi che me ne importi della Cerca? Adesso Ruatha è di nuovo la mia Fortezza. Per dieci Giri ho lavorato e ho atteso, ho tramato e sofferto per questo. Che vuoi che significhi, per me, la tua Cerca?»

F’lar avrebbe voluto percuoterla, per cancellarle dal viso quell’aria di disprezzo altezzoso. Le torse rabbiosamente il braccio, costringendola a lasciarsi cadere ai suoi piedi, prima di allentare la stretta. Lei rise; era già sgattaiolata da un lato, e s’era già rialzata correndo fuori dalla stanza, prima che F’lar si rendesse conto che se n’era andata e si decidesse a inseguirla.

Imprecando contro se stesso, si lanciò a corsa per i corridoi scavati nella roccia; sapeva che, per uscire dalla Fortezza, la ragazza avrebbe dovuto passare attraverso la Sala. Ma quando vi giunse, non la scorse tra il gruppo dei presenti.

«Quella donna è passata di qui?» gridò a F’nor che, per caso, si trovava accanto alla porta che dava sul Cortile.

«No. Allora è proprio lei, la fonte del potere?»

«Sì, è lei,» rispose F’lar, ancora più invelenito per essersela lasciata sfuggire. Dove era andata? «E appartiene al Sangue di Ruatha, per giunta!»

«Oh, oh! Allora deporrà il bambino?» chiese F’nor, indicando la levatrice, seduta accanto al camino in cui, adesso, divampava un grande fuoco.

F’lar esitò, si accinse a riprendere la ricerca negli innumerevoli corridoi del Forte Poi spalancò gli occhi, confuso, e fissò il pilota marrone.

«Il bambino? Quale bambino?»

«Il figlio maschio di Dama Gemma,» rispose F’nor, sorpreso dell’incomprensione del fratellastro.

«È vivo?»

«Sì. Un bimbo molto forte, ha detto la levatrice, anche se è prematuro e se è stato estratto a forza dal grembo della madre morta.»

F’lar rovesciò indietro il capo e rise. Nonostante tutti i suoi piani, quella ragazza era stata sconfitta dalla Verità.

In quell’istante udì il ruggito di Mnementh, inconfondibilmente carico di esultanza, seguito da un curioso coro di tutti gli altri draghi.

«Mnementh l’ha presa,» gridò F’lar, sogghignando felice. Scese a grandi passi i gradini, scavalcò il cadavere del defunto Signore delle Terre Alte, uscì nel cortile principale.

Si accorse che il drago bronzeo aveva lasciato la Torre e lo chiamò. Un movimento attirò il suo sguardo verso l’alto. Vide Mnementh che scendeva in una grande spirale nel cortile; stringeva qualcosa tra le zampe anteriori. Mnementh informò F’lar che aveva visto la donna mentre si calava da una delle finestre e l’aveva raccolta dal davanzale, poiché sapeva che il dragoniere la stava cercando. Il drago bronzeo si posò goffamente sulle zampe posteriori, agitando le ali per mantenersi in equilibrio. Mise delicatamente in piedi la ragazza, e con gli enormi artigli formò attorno a lei una specie di gabbia. Quella restò immobile entro l’inconsueto cerchio, tenendo il viso rivolto verso la grande testa a forma di cuneo che ondeggiava sopra di lei.

Il wher da guardia, urlando per il terrore, la collera e l’odio, stava tirando con tutte le sue forze la catena, per cercare di accorrere in aiuto di Lessa. Cercò di abbrancare F’lar quando questi gli passò accanto.

«Ne hai del coraggio, ragazza,» ammise il dragoniere, posando distrattamente una mano su un artiglio di Mnementh. Il drago era immensamente soddisfatto di sé; girò il capo e l’abbassò per farsi grattare l’arco sopraccigliare.

«Non avevi mentito, sai,» disse F’lar, incapace di resistere alla tentazione di farsi beffe della donna.

Lei si girò lentamente nella sua direzione, impassibile in volto. Non aveva paura dei draghi, pensò F’lar, con approvazione.

«Il bambino è vivo. Ed è un maschio.»

La ragazza non riuscì a nascondere lo sbigottimento; le sue spalle si piegarono per un attimo, prima che si riprendesse e ritornasse a raddrizzarsi.

«Ruatha è mia,» insistette con voce bassa e intensa.

«Sì, e lo sarebbe stata, se ti fossi rivolta direttamente a me, quando è arrivato qui lo squadrone.»

Lei spalancò gli occhi.

«Cosa vuoi dire?»

«Un dragoniere può farsi campione di chiunque abbia subito un torto. Quando siamo arrivati a Ruatha, mia signora, io ero dispostissimo a sfidare Fax, nonostante la Cerca, se appena ne avessi avuto un motivo plausibile.» Non era completamente vero, ma F’lar doveva insegnare a quella ragazza che era una pazzia cercare di controllare i dragonieri. «Se avessi ascoltato i canti del tuo arpista, conosceresti i tuoi diritti. E…» La voce di F’lar aveva una nota risentita che lo sorprese. «E Dama Gemma, forse, non sarebbe morta. Quella povera donna coraggiosa ha sofferto più di te, per colpa di Fax.»

Qualcosa, nel modo di fare della giovane, gli disse che era addolorata per la morte di Dama Gemma, che ne era rimasta colpita profondamente.

«A cosa ti può servire Ruatha, ormai?» chiese F’lar, indicando con un ampio gesto della mano il Cortile in rovina e la Fortezza desolata, e tutta la valle improduttiva di Ruatha. «Hai davvero realizzato il tuo scopo: una conquista inutile e la morte del suo conquistatore.»

F’lar sbuffò.

«Comunque, tutto bene. Le altre Fortezze ritorneranno ai loro legittimi signori: era tempo. Una Fortezza, un Signore. Qualunque altra soluzione è contraria alla tradizione. Certo, può darsi che tu debba combattere contro coloro che non credono a questo precetto e si sono lasciati contagiare dalla folle avidità di Fax. Saresti in grado di difendere Ruatha da un attacco… adesso… nelle condizioni in cui è ridotta?»

«Ruatha è mia!»

«Ruatha?» La risata di F’lar era irridente. «Quando potresti essere la Dama del Weyr?»

«La Dama del Weyr?» mormorò lei, fissandolo sbalordita e sconvolta.

«Sicuro, giovane sciocca. Ti ho detto che sono impegnato nella Cerca… È giunto il momento in cui tu ti occupi di qualcosa più importante di Ruatha. E l’oggetto della mia Cerca… sei tu!»

Lei fissò il dito che il dragoniere le puntava contro, come se fosse pericoloso.

«Per il primo Uovo, ragazza, tu hai potere da vendere, se sei capace di indurre un dragoniere ignaro a fare quello che vuoi. Ah, ma non succederà mai più, d’ora innanzi, perché adesso starò bene in guardia contro di te.»

Mnementh lanciò un mormorio rombante di approvazione, un suono che gli gorgogliava nella gola. Inarcò il collo, in modo da puntare sulla ragazza un occhio che scintillava nell’oscurità del Cortile.

F’lar osservò, con distaccato orgoglio, che lei non tremava e non impallidiva, vedendo così vicino quell’occhio più grande della sua testa.

«Gli piace farsi grattare l’arcata sopraccigliare,» osservò F’lar in tono amichevole, cambiando tattica.

«Lo so,» rispose lei, sommessamente, e protese una mano per accontentare il drago.

«Nemorth ha deposto un uovo d’oro,» continuò F’lar, suadente. «Ormai sta per morire. E questa volta, avremo bisogno di una Dama del Weyr molto forte.»

«La Stella Rossa?» mormorò ansimante la ragazza, volgendo su F’lar uno sguardo impaurito. La cosa lo sbalordì, perché lei non aveva mai mostrato paura.

«L’hai vista? Sai che cosa significa?» F’lar la vide deglutire nervosamente.

«C’è pericolo…», cominciò la giovane donna con un bisbiglio sommesso, volgendo verso oriente lo sguardo carico di apprensione.

F’lar non perse tempo a chiedersi per quale miracolo lei si fosse resa conto dell’imminenza del pericolo. Aveva tutte le intenzioni di portarla al Weyr; anche con la forza, se fosse stato necessario. Ma qualcosa, dentro di lui, desiderava che la giovane donna accettasse volontariamente la sfida. Una Dama del Weyr ribelle sarebbe stata ancora più pericolosa di una stupida. Quella ragazza aveva troppo potere, ed era troppo avvezza alle astuzie e alle strategie. Sarebbe stato disastroso provocarla con un comportamento avventato.

«C’è pericolo per tutto Pern. Non solo per Ruatha,» disse, insinuando nella propria voce una sfumatura di supplica. «E tu sei necessaria. Non a Ruatha.» Agitò la mano, come per indicare che Ruatha diventava qualcosa di trascurabile, in confronto alla situazione generale. «Siamo spacciati, senza una Dama del Weyr molto forte. Senza di te.»

«Gemma ha detto che c’era bisogno di tutti i cavalieri bronzei,» mormorò quella, stordita.

Che cosa aveva voluto dire? F’lar aggrottò la fronte. Aveva sentito qualcosa che lui aveva detto? Decise di insistere, ormai sicuro di avere colpito nel segno.

«Qui, ormai, hai vinto. Lascia che il bambino…» La vide trasalire irritata a quella proposta, e precisò, implacabile: «Il bambino di Gemma… cresca a Ruatha. Come Dama del Weyr, tu hai autorità su tutte le Fortezze, non solo su Ruatha. Hai ottenuto la morte di Fax. Puoi abbandonare i tuoi propositi di vendetta.»

La ragazza fissò F’lar con occhi carichi di stupore, assorbendo le sue parole. «Non ho mai pensato a nient’altro che alla morte di Fax,» ammise lentamente. «Non ho mai pensato a quello che sarebbe accaduto dopo.»

La sua confusione era quasi infantile, e questo colpì profondamente F’lar. Non aveva avuto né il tempo né la volontà di riflettere sul risultato prodigioso ottenuto da quella ragazza. Adesso, però, cominciava a valutare almeno in parte il suo carattere indomabile. Non poteva avere avuto più di dieci Giri, quando Fax aveva sterminato la sua famiglia. Eppure, sebbene fosse tanto giovane, si era prefissata uno scopo, era riuscita a non farsi scoprire ed a sopravvivere alla brutalità il tempo necessario per causare la morte dell’usurpatore. Che Dama del Weyr sarebbe stata! Degna della tradizione delle Dame di Sangue ruathano. Il chiaro di luna la faceva apparire così giovane e vulnerabile, e persino graziosa.

«Tu puoi essere la Dama del Weyr,» ripeté allora, con gentile insistenza.

«La Dama del Weyr,» mormorò lei, incredula; girò lo sguardo attorno a sé, nel Cortile inondato dalla dolce luce lunare. F’lar ebbe la sensazione che stesse per cedere.

«O forse ti piacciono gli stracci?» le disse, dando alla propria voce un tono duro e beffardo. «E i capelli opachi, i piedi sporchi, le mani screpolate? Ti piace dormire sulla paglia e mangiare gli scarti? Sei giovane… cioè, immagino che tu lo sia.» Il tono era apertamente scettico. Lei lo fissò freddamente, stringendo decisa le labbra. «È questo, il fine e il limite delle tue ambizioni? Che cosa sei, se questo piccolo angolo del mondo immenso è tutto ciò che vuoi?» S’interruppe, poi aggiunse, con assoluto disprezzo: «Il Sangue di Ruatha si è corrotto, mi accorgo. Tu hai paura!»

«Io sono Lessa, figlia del Signore di Ruatha,» replicò lei, spinta a rispondere all’insulto al suo Sangue. Si levò in tutta la sua statura, gli occhi lampeggianti, la testa alta. «E non ho paura di niente!»

F’lar si concesse un lieve sorriso.

Mnementh, invece, levò la testa e protese in tutta la lunghezza il collo sinuoso. Il suo grido a piena gola riecheggiò nella valle. Poi il drago comunicò a F’lar che Lessa aveva accettato la sfida. Gli altri draghi risposero, con un grido più stridulo del boato mascolino di Mnementh. Il wher da guardia, che si era accucciato all’estremità della catena, levò la voce in uno strido sottile, snervante, fino a quando la Fortezza si svuotò dei suoi occupanti sbalorditi.

«F’nor!» chiamò il cavaliere bronzeo, facendogli segno di avvicinarsi. «Lascia metà dello squadrone a guardia della Fortezza. Qualcuno dei Signori vicini potrebbe decidere di seguire l’esempio di Fax. Vai immediatamente all’Opificio dei tessitori e parla con L’to… con Lytol.» F’lar ebbe un sorriso trionfante. «Credo che sarà un esemplare Connestabile e Reggente di questa Fortezza, in nome del Weyr e del piccolo Signore.»

Il volto di F’nor tradì immediatamente l’entusiasmo per quella missione; cominciava a comprendere le intenzioni del comandante. Ora che Fax era morto e che Ruatha veniva posta sotto la protezione dei dragonieri, soprattutto di colui che aveva ucciso Fax, la Fortezza sarebbe stata sicura, e avrebbe prosperato sotto una saggia amministrazione.

«È stata lei a causare la decadenza di Ruatha?» domandò al suo comandante.

«E ha quasi causato anche la nostra rovina, con le sue macchinazioni,» rispose F’lar: ma adesso che aveva trovato l’ammirevole oggetto della sua Cerca, poteva permettersi di essere magnanimo. «Reprimi la tua esultanza, fratello,» si affrettò ad ingiungere, non appena scorse l’espressione di F’nor. «La nuova regina deve ancora ricevere lo Schema di Apprendimento.»

«Penserò io a tutto, qui. Lytol è un’ottima scelta,» disse F’nor, benché sapesse che F’lar non aveva bisogno dell’approvazione di nessuno.

«Chi è questo Lytol?» domandò piccata Lessa. Aveva attorto la massa opaca dei capelli e l’aveva gettata all’indietro. Nel chiaro di luna, il sudiciume si notava meno. F’lar si accorse che F’nor la stava guardando con un’espressione anche troppo facile da interpretare. Con un gesto perentorio, gli segnalò di eseguire i suoi ordini senza ulteriori indugi.

«Lytol è un dragoniere senza drago,» disse poi, rivolgendosi alla ragazza. «Non certo un amico di Fax. Governerà bene la Fortezza e la farà prosperare.» Poi aggiunse, in tono suadente, rivolgendole uno sguardo interrogativo: «Non è così?»

Lessa lo fissò cupa, senza rispondere, fino a quando lui rise sommessamente del suo disagio.

«Ritorneremo al Weyr,» annunciò, offrendole la mano per guidarla a fianco di Mnementh.

Il drago bronzeo aveva proteso la testa verso il wher da guardia, che adesso giaceva ansimando al suolo, la catena allentata nella polvere.

«Oh,» sospirò Lessa, e si lasciò cadere in ginocchio accanto all’animale grottesco che alzò lentamente la testa, lanciando gemiti pietosi.

«Mnementh dice che è molto vecchio, e che presto si addormenterà per morire.»

Lessa strinse tra le braccia quella testa ripugnante, accarezzando le arcate sopraccigliari, grattandola dietro le orecchie.

«Vieni, Lessa di Pern,» disse F’lar, impaziente di ripartire.

Lei si alzò, lentamente ma docile.

«Mi ha salvato. Lui mi conosceva.»

«E sa di aver fatto bene,» le assicurò F’lar in tono brusco, un po’ stupito di quella dimostrazione di sentimentalismo tanto strana in lei.

Le prese di nuovo la mano, per aiutarla a rialzarsi e per ricondurla verso Mnementh.

In un attimo, si trovò scagliato via, riverso sulle pietre, e cercò di rotolare per rialzarsi e per fronteggiare il suo avversario. Ma la violenza di quel primo colpo l’aveva stordito: rimase disteso sul dorso, agghiacciato, e vide il wher da guardia scagliargli addosso con il corpo scaglioso.

Nello stesso istante udì l’esclamazione sbalordita di Lessa e il ruggito di Mnementh. La grande testa del drago bronzeo si stava avventando per scaraventare il wher da guardia lontano dal dragoniere. Ma nell’attimo stesso in cui il corpo del wher era pienamente proteso nel balzo, Lessa gridò.

«Non ucciderlo! Non ucciderlo!»

Il ringhio dell’animale si trasformò in un grido angosciato di allarme, il suo corpo eseguì una manovra incredibile a mezz’aria, deviando dalla traiettoria. Quando ricadde ai suoi piedi sul pavimento di pietra del cortile, F’lar udì il tonfo sordo del corpo che piombava riverso sul dorso.

Prima che avesse il tempo di rimettersi in piedi, Lessa stava già stringendo tra le braccia quella testa orribile.

Mnementh abbassò il capo per toccare delicatamente il corpo del wher morente. Informò F’lar che l’animale aveva intuito che Lessa stava per lasciare Ruatha: e questo una del suo Sangue non doveva farlo. Nel suo cervello annebbiato dalla vecchiaia, aveva pensato che la ragazza fosse in pericolo. Quando aveva udito il suo comando frenetico, aveva rimediato all’errore a costo della propria vita.

«Voleva soltanto difendermi,» aggiunse Lessa, con voce spezzata. Si schiarì la gola. «Era l’unico di cui potevo fidarmi. Era il mio solo amico.»

Impacciato, F’lar le batté una mano sulla spalla, sconvolto al pensiero che un essere umano avesse potuto ridursi al punto di rifugiarsi nell’amicizia di un wher da guardia. Rabbrividì, perché la caduta aveva fatto riaprire la ferita alla spalla.

«Era veramente un amico fedele,» disse. Rimase in attesa, paziente, fino a quando la luce degli occhi verde-oro del wher si affievolì e si spense.

Tutti i draghi lanciarono la strana nota agghiacciante, appena udibile, che salutava il trapasso di un individuo della loro specie.

«Era soltanto un wher da guardia,» mormorò Lessa spalancando gli occhi, sorpresa da quell’omaggio.

«I draghi conferiscono onore a chi vogliono loro,» replicò asciutto F’lar, rifiutando la responsabilità.

Lessa abbassò lo sguardo ancora per un lungo attimo su quella testa ripugnante. La depose sulle pietre, accarezzò le ali tarpate. Poi, con gesti rapidi, slacciò la pesante fibbia che gli assicurava attorno al collo il pesante collare, e lo gettò via, violentemente.

Si alzò con un movimento fluido e si diresse risoluta verso Mnementh senza voltarsi. Salì con calma sulla zampa protesa del drago e si sedette sull’ampio collo, come F’lar le aveva indicato.

F’lar si volse a guardare il resto del suo squadrone, che si era disposto nel grande cortile. La gente della Fortezza s’era messa al sicuro nella Sala. Quando tutti i dragonieri furono pronti, balzò sul collo di Mnementh, dietro alla ragazza.

«Afferrati forte alle mie braccia,» le ordinò, mentre si aggrappava alla cresta del collo e impartiva l’ordine di levarsi in volo.

Lessa strinse spasmodicamente le dita attorno all’avambraccio di lui, mentre il grande drago bronzeo si alzava da terra, agitando le ali enormi per prendere quota in quel decollo verticale. Mnementh preferiva lanciarsi da un picco o da una torre. I draghi erano piuttosto pigri. F’lar si voltò indietro, vide gli altri dragonieri disporsi in formazione, distanziandosi per coprire i varchi lasciati da quelli che erano rimasti di guardia a Ruatha.

Appena furono giunti ad un’altezza sufficiente, disse a Mnementh di operate il trasferimento, di passare in mezzo per giungere al "Weyr.

Soltanto una breve esclamazione tradì lo sbigottimento della ragazza, quando furono sospesi in mezzo. Per quanto fosse abituato ai morsi del freddo intensissimo, alla paurosa assenza di luce e di suono, F’lar trovava ancora snervante quelle sensazioni. Eppure il trasferimento non richiedeva più tempo di quanto fosse necessario per tossire tre volte.

Mnementh fece udire un rombo di approvazione per la calma con cui aveva reagito la candidata, mentre uscivano fulmineamente da quella strana stasi. Non aveva avuto paura, non aveva strillato per il panico, come avevano fatto tante altre donne. F’lar sentì il cuore di lei battere forte contro il suo braccio, che le stringeva le costole: niente altro.

Poi furono sul Weyr. Mnementh inclinò le ali per planare nel fulgore del sole, nell’emisfero opposto a quello di Ruatha, dove regnava la notte.

Le mani di Lessa si strinsero sulle braccia di F’lar, questa volta in un gesto di sorpresa, mentre sorvolavano in cerchio la grande infossatura rocciosa del Weyr. F’lar la scrutò in volto, e fu lieto di scorgervi un’espressione di gioia; lei non dava segno di avere paura, sebbene fossero librati a grande altezza al di sopra della maestosa catena di Benden. Poi, mentre i sette draghi ruggivano per annunciare il loro arrivo, un sorriso incredulo illuminò il viso della giovane donna.

Gli altri scesero in un’ampia spirale, mentre Mnementh preferì calarsi in cerchi più pigri. I dragonieri si tolsero in fretta le tuniche e balzarono al suolo, dirigendosi verso i rispettivi piani delle grotte del Weyr. Mnementh completò finalmente il suo tranquillo atterraggio, fischiando stridulo fra sé mentre frenava la velocità con una sterzata delle ali; e finalmente si posò con leggerezza sul costone. Si accovacciò: F’lar calò la ragazza sulla roccia scabra, segnata da migliaia di atterraggi unghiuti.

«Questo porta soltanto al nostro alloggio,» le disse, quando entrarono nel corridoio a volta, abbastanza ampio per consentire il passaggio ai grandi draghi bronzei.

Entrarono nell’immensa grotta naturale che era sua da quando Mnementh aveva raggiunto la maturità; F’lar si guardò intorno. Quella era stata la sua prima lunga assenza dal Weyr. L’enorme caverna era indiscutibilmente più ampia delle Sale che aveva visitato in compagnia di Fax. Quelle Sale, infatti, erano state create per accogliere esseri umani, non per offrire alloggio ai draghi. Ma di colpo si rese conto che la sua dimora era squallida quasi quanto Ruatha. Certamente, Benden era uno dei più antichi Weyr dei draghi, così come Ruatha era una delle Fortezze più antiche: ma non era una buona giustificazione. Quanti draghi avevano dormito in quella cavità, per rendere la roccia solida adatta alle loro proporzioni? Quanti piedi avevano logorato il pavimento che portava dalla tana del drago alla camera da letto, al bagno dove una sorgente calda naturale forniva l’acqua! Ma gli arazzi appesi alle pareti erano sbiaditi e sciupati, e c’erano chiazze di grasso, sul pavimento, che sarebbe stato facile togliere con la sabbia detergente.

Notò l’espressione guardinga del viso di Lessa, mentre si fermava nella camera da letto.

«Devo portare immediatamente Mnementh a mangiare. Quindi puoi fare il bagno per prima,» le disse. Frugò in un cassettone e prese degli indumenti puliti. Erano stati scartati dalle precedenti inquiline del suo alloggio, ma erano comunque più presentabili degli stracci che Lessa aveva addosso. Ripose nel cassettone, ripiegandola con cura, la bianca veste di lana che era l’abito tradizionale per lo Schema di Apprendimento. Lei l’avrebbe indossata più tardi. Gettò ai suoi piedi una bracciata di vestiti e un sacchetto di sabbia detergente, indicandole la tenda che nascondeva l’ingresso del bagno.

Poi se ne andò, lasciando le vesti ammucchiate ai piedi di Lessa, che non aveva neppure fatto il gesto di afferrarle al volo.

Mnementh l’informò che F’nor stava dando da mangiare a Canth e che anche lui aveva fame. E che lei non si fidava di F’lar, ma di lui, Mnementh, non aveva affatto paura.

«E perché dovrebbe avere paura di te?» chiese F’lar, «Sei cugino del wher da guardia che era il suo unico amico.»

Mnementh ribatté che lui, un drago bronzeo adulto, non aveva nessuna parentela con un wher da guardia rattrappito, strisciante, incatenato e con le ali tarpate.

«E allora perché gli hai reso un omaggio che spetta ai draghi?» domandò F’lar.

Mnementh rispose, altezzoso, che era giusto piangere la morte di una personalità così fedele e piena di abnegazione. Neppure un drago azzurro poteva negare che quel wher da guardia ruathano non aveva divulgato le informazioni confidategli, sebbene lui stesso, Mnementh, avesse cercato di costringerlo a parlare. Inoltre, riuscendo a interrompere lo slancio che l’avrebbe portato addosso a F’lar, a costo della propria vita, il wher si era innalzato al livello di un coraggio degno di un drago. Era logico che i draghi avessero reso omaggio al suo trapasso.

Soddisfatto di avere punzecchiato il suo bronzeo, F’lar ridacchiò tra sé. Con grande dignità, Mnementh discese verso il suo pasto.

F’lar si lasciò cadere a terra, mentre il drago restava librato a poca distanza da F’nor. L’urto contro il suolo gli ricordò che avrebbe fatto meglio a farsi medicare la ferita dalla ragazza. Rimase a guardare, mentre il drago bronzeo piombava sul maschio più grasso del terrorizzato branco di capre.

«La Schiusa è attesa da un momento all’altro,» disse F’nor al fratello; sogghignò, accosciandosi al suolo. I suoi occhi brillavano per l’eccitazione.

F’lar annuì, pensieroso.

«Ci sarà una scelta molto ampia, per i maschi,» riconobbe; sapeva che F’nor stava tenendo per sé una notizia più interessante.

Guardarono entrambi Canth, il drago marrone di F’nor, che adocchiava una giumenta. Canth afferrò di precisione con una zampa la bestia che si dibatteva e si levò in volo, appollaiandosi su di un cornicione libero per banchettare.

Mnementh divorò la prima carcassa e poi planò di nuovo sul branco, verso i recinti più lontani. Scelse un pesante uccello corridore e lo sollevò tra gli artigli. F’lar osservò la sua ascesa, e come sempre si inorgoglì nel vedere il battito agile delle grandi ali, il gioco dei raggi del sole sulla pelle bronzea, il lampeggiare degli artigli argentei, sguainati per l’atterraggio. Non si stancava mai di guardare Mnementh in volo, di ammirarne l’eleganza e la forza.

«Lytol è rimasto sconvolto per l’onore,» osservò F’nor. «E ti manda i suoi omaggi. Se la caverà bene, a Ruatha.»

«È stato scelto per questo,» brontolò F’lar; ma era soddisfatto della reazione di Lytol. La reggenza di una Fortezza non poteva compensare la perdita del drago: ma era comunque un ’incarico molto onorevole.

«C’è stato molto entusiasmo, nelle Terre Alte,» continuò F’nor, con un largo sorriso. «E un dolore sincero per la morte di Dama Gemma. Sarà interessante vedere quale degli aspiranti si assicurerà il titolo.»

«A Ruatha?» chiese F’lar, aggrottando la fronte per fissare il fratellastro.

«No. Nelle Terre Alte e nelle altre Fortezze conquistate da Fax. Lytol porterà la sua gente per proteggere Ruatha e per dissuadere qualsiasi esercito che progettasse di attaccarla. Sapeva che molti, nelle Terre Alte, preferivano cambiare Fortezza, anche se Fax non regna più su quelle zone. Aveva intenzione di convocarli tutti a Ruatha, in modo che i nostri uomini possano raggiungerci al più presto.»

F’lar fece un cenno di approvazione, poi si volse a salutare altri due uomini del suo squadrone, due piloti azzurri, che scendevano con i loro draghi verso il campo del pasto. Mnementh ridiscese per andare a catturare un altro uccello.

«Mangia leggero,» osservò F’nor. «Canth si sta ancora ingozzando.»

«I draghi marrone crescono più lentamente,» mormorò F’lar, e notò soddisfatto che negli occhi dell’altro era balenato un lampo di rabbia. Così avrebbe imparato a non dargli subito le notizie.

«R’gul e S’lel sono ritornati,» annunciò finalmente il cavaliere marrone.

I due draghi azzurri avevano scatenato il terrore nel branco; le bestie correvano di qua e di là, tra versi assordanti.

«Gli altri sono stati richiamati,» continuò F’nor. «Nemorth, ormai, è quasi irrigidita.» Poi non riuscì più a trattenersi. «S’lel ne ha portate due. R’gul cinque. Volitive, dicono, e graziose.»

F’lar non disse nulla. Aveva previsto che quei due avrebbero portato più di una candidata. Potevano portarne anche centinaia, se volevano. Lui, F’lar, il cavaliere bronzeo, ne aveva portata una sola: ma quella sarebbe stata la vincitrice.

Esasperato nel vedere che le sue notizie avevano fatto così scarso effetto, F’nor si alzò.

«Avremmo dovuto tornare indietro a prendere quella a Crom, e quella graziosa…»

«Graziosa?» ribatté F’lar, inarcando sdegnosamente un sopracciglio. «Anche Jora era graziosa,» sibilò, cinico.

«K’net e T’bor portano delle aspiranti dall’occidente,» aggiunse in fretta F’nor, preoccupato.

Il grido, lacerato dal vento, che annunciava il ritorno dei draghi passò nell’aria. I due uomini levarono la testa verso il cielo, e videro le doppie spirali di due squadroni che rientravano, forti di venti animali.

Mnementh alzò la testa, ululando. F’lar lo chiamò, e fu lieto che il bronzeo non contestasse il suo richiamo, benché si fosse nutrito in modo molto leggero. Salutò amabilmente il fratello, salì sulla zampa protesa di Mnementh, gli si issò sul collo e ritornò alla sua caverna.

Il drago continuava a singultare distrattamente, mentre percorrevano la corta galleria che portava alla grotta interna. Si diresse a passi pesanti verso il giaciglio incavato e si sistemò sulla pietra. Non appena Mnementh si fu disteso ed ebbe posato comodamente la testa appuntita, F’lar gli si avvicinò. Il drago lo guardò con l’occhio più vicino; le sfaccettature scintillarono, cangianti, le palpebre interne si chiusero gradualmente mentre l’uomo grattava delicatamente l’arcata sopraccigliale del colosso.

Gli inesperti avrebbero giudicato assurdo quel modo di fare. Ma dal momento in cui, venti Giri prima, il grande Mnementh aveva rotto il guscio e si era trascinato, barcollando, sul Terreno della Schiusa fino a fermarsi, ondeggiando sulle zampe ancora deboli, davanti al giovanissimo F’lar, il dragoniere aveva imparato ad apprezzare quei momenti sereni come i più lieti della lunga giornata. Per un uomo non esisteva dono più grande della fiducia e della compagnia delle bestie alate di Pern; la fedeltà dei draghi nei confronti degli uomini era incrollabile e totale, fin dall’istante dello Schema di Apprendimento.

Mnementh era così contento che quasi subito il suo grande occhio si chiuse. Il drago dormiva, ma la punta della coda era eretta: segno certo che si sarebbe svegliato immediatamente, se se ne fosse presentata la necessità.

Per l’Uovo d’Oro di Faranth,

per la Dama del Weyr, saggia e leale,

genera uno stormo d’ali

bronzee e marroni, verdi ed azzurre.

Genera piloti forti ed arditi,

che amino i draghi, e volino nel cielo

a centinaia: e siano uomini e draghi

perfettamente uniti.

Lessa attese che i passi del dragoniere si allontanassero. Attraversò svelta la grande caverna, udì il graffiare degli artigli, il rombo delle ali possenti. Percorse correndo la corta galleria, arrestandosi sull’orlo dell’ampia cavità che costituiva l’ingresso. Il drago bronzeo scendeva in cerchio verso l’estremità più ampia della distesa ovale, lunga oltre un chilometro, che era il Weyr di Benden. Aveva sentito parlare dei Weyr, come tutti gli abitanti di Pern: ma essere lì era tutta un’altra cosa.

Guardò in alto e in basso e attorno a sé, scrutando le lisce pareti di roccia. Era impossibile andarsene, se non facendosi portare da un drago. Le imboccature delle caverne più vicine erano sopra di lei, da una parte, e dall’altra sotto di lei a distanze impossibili. Era praticamente prigioniera.

Dama del Weyr, le aveva detto F’lar. La sua dama? Nel suo Weyr? Era questo che aveva voluto dire? No, l’impressione che aveva ricevuto dal drago era diversa. All’improvviso, si rese conto di quanto fosse strano il fatto che lei riuscisse a capire il drago. Chissà se la gente comune era in grado di farlo? O forse era merito del Sangue dei dragonieri della sua casata? Comunque, Mnementh aveva alluso a qualcosa di più grandioso, ad un rango specialissimo. Quindi, dovevano avere intenzione di fare di lei la Dama del Weyr della regina non ancora uscita dall’uovo. Ma come vi sarebbero riusciti? Ricordava vagamente che, quando i dragonieri partivano per la Cerca, sceglievano certe donne. Ah, certe donne. Dunque lei era una delle tante possibili aspiranti. Eppure il pilota bronzeo le aveva offerto il titolo di Dama del Weyr come se fosse l’unica qualificata. Era abbastanza presuntuoso quell’uomo, pensò Lessa. Arrogante, anche se in modo diverso da Fax.

Vide il drago bronzeo piombare sul branco in fuga, vide la cattura, lo seguì con lo sguardo mentre si dirigeva in volo su un costone lontano per mangiare. Si ritrasse istintivamente dall’apertura, ritornò nell’oscura, relativa sicurezza della galleria.

Il pasto del drago evocava ricordi di dozzine e dozzine di orride storie. Lei ne aveva sempre riso, ma… Era vero, dunque, che i draghi si nutrivano di carne umana? Era vero… Lessa interruppe il corso dei suoi pensieri. I draghi erano meno crudeli degli uomini. Agivano per necessità bestiale, non per bestiale avidità.

Certa che il dragoniere sarebbe rimasto occupato per qualche tempo, attraversò la grande caverna e rientrò nella camera da letto. Raccolse gli indumenti e il sacchetto di sabbia detergente e passò nel bagno. Era piccolo, ma non troppo. Un ampio cornicione orlava il cerchio irregolare della vasca. C’era una panca, e alcuni ripiani per mettere ad asciugare i panni. Nel chiarore che irradiava dal lume vide che sul fondo della vasca era stata aggiunta molta sabbia, in modo che vi si potesse stare comodamente in piedi. Una specie di rampa portava al punto più profondo, dove l’acqua lambiva dolcemente la roccia, dalla parte opposta.

Potersi pulire! Potersi pulire completamente! Con un disgusto non meno vivo di quello che aveva dimostrato il dragoniere, Lessa si strappò di dosso gli stracci, gettandoli da parte con un calcio, senza sapere dove avrebbe dovuto buttarli. Versò dal sacchetto un’abbondante manciata di sabbia detergente, si curvò sulla vasca e la inumidì.

Ne fece una poltiglia morbida, se ne cosparse le mani e il volto segnato dalla lividura. Inumidì altra sabbia e cominciò a strofinarsi le braccia e le gambe, poi il corpo e i piedi. Strofinò con forza, fino a quando i tagli non ancora cicatrizzati del tutto si riaprirono, sanguinando. Poi scese, o meglio si buttò, dentro alla vasca, ansimando un po’ quando l’acqua tiepida fece schiumare la sabbia sulle graffiature. Si immerse completamente, scuotendo il capo per bagnarsi a fondo i capelli. Poi si massaggiò ancora con la sabbia detergente, si sciacquò e si massaggiò di nuovo, sino a quando sentì che i capelli erano finalmente puliti. Erano passati tanti anni… Molte lunghe ciocche galleggiavano aggrovigliate, come insetti dalle zampe esilissime, venivano trascinate verso l’orlo più lontano della vasca, scomparivano. L’acqua, notò con piacere, circolava ininterrottamente, e quella sporca e insaponata veniva sostituita da altra limpida. Riprese a strofinarsi tutto il corpo per rimuovere il sudiciume che le aderiva addosso, fino a quando sentì la pelle pizzicare. Era una purificazione rituale, che la liberava di qualcosa di più della sporcizia accumulata. Provava un piacere simile all’estasi, per il godimento di sentirsi pulita.

Finalmente si convinse di essersi lavata a fondo, per quanto poteva consentirlo quell’unica abluzione, e si insaponò i capelli per la terza volta. Uscì dalla vasca quasi con riluttanza, torcendosi la chioma e avvolgendola attorno al capo, mentre si asciugava. Spiegò gli abiti e se ne drappeggiò uno addosso, per provare. Il tessuto, verde e morbido, sembrava liscio sotto le dita umide, ma la lanuggine si impigliava alle sue mani ruvide. Infilò la veste, facendosela passare sopra la testa: era ampia, ma la sopravveste d’un verde più scuro aveva una fascia, che lei si annodò stretta alla vita. Il contatto insolito della stoffa morbida contro la pelle nuda la fece fremere di piacere. La gonna le ondeggiava pesantemente attorno alle caviglie, facendola sorridere di gioia femminea. Prese un asciugamani pulito e cominciò a strofinarsi i capelli.

Un suono smorzato le arrivò all’orecchio; si fermò, con le mani levate, la testa piegata da un lato. Rimase in ascolto. Sì, c’era un rumore che proveniva dall’esterno. Dovevano essere rientrati, il dragoniere e il suo animale. Ebbe una smorfia di irritazione per quel ritorno intempestivo e si massaggiò più forte i capelli. Si passò le dita tra i nodi aggrovigliati, per metà asciutti, faticando a districarli. Cercò di sistemarsi la chioma a piccoli colpi, spingendola dietro le orecchie. Poi, irritata, frugò sui ripiani fino a quando trovò, come sperava, un pettine metallico dai denti rozzi. Attaccò i capelli disordinati e a furia di tirare e di spingere, riuscì finalmente a domarli.

Una volta asciutti, i capelli sembrarono acquistare una vita propria; crepitavano attorno alle dita e aderivano al volto, al pettine, al vestito. Era difficile tenere in ordine quella massa serica. Ed erano più lunghi di quanto lei avesse pensato: puliti, non più aggrovigliati, le arrivavano alla cintura… quando non le si attaccavano alle dita.

Si fermò, in ascolto, e non sentì alcun rumore. Un po’ allarmata, si accostò alla tenda e guardò cautamente nella stanza da letto. Era vuota. Ascoltò ancora, e percepì i pensieri del drago assonnato. Bene, preferiva incontrare quell’uomo alla presenza del drago, piuttosto che in camera da letto. Si avviò; e con la coda dell’occhio, mentre passava davanti a una lastra di metallo lucida appesa a una delle pareti, scorse una sconosciuta.

Si fermò di colpo, sbalordita e incredula, a fissare il volto riflesso nel metallo. Solo quando si portò le mani agli zigomi in un gesto involontario di stupore e l’immagine imitò quel movimento, Lessa si rese conto di guardare se stessa.

Ma quella ragazza era più graziosa di Dama Tela, più della figlia del tessitore! Però era così magra! In un gesto automatico, le sue mani scesero sul collo, sulle clavicole sporgenti, sui seni che non tradivano la magrezza del resto della sua persona. L’abito era troppo ampio per lei, notò con una preoccupazione sorta in quell’istante di soddisfatta analisi. E i capelli… le stavano attorno al capo come un’aureola, non volevano saperne di rimanere a posto. Li lisciò impaziente con le dita, spostando in avanti le ciocche affinché coprissero il viso. Poi ricordò; le spinse di nuovo indietro irritata, perché non aveva più bisogno di nascondersi; e i capelli si gonfiarono di nuovo.

Un suono lieve, lo strisciare di uno stivale contro la pietra, la fece trasalire. Rimase immobile, in attesa che F’lar comparisse. All’improvviso si sentì intimidita. Con il viso scoperto, i capelli gettati dietro le orecchie, il corpo disegnato dalla stoffa aderente, adesso era spogliata dell’abituale anonimato e quindi si sentiva vulnerabile.

Dominò energicamente l’impulso di correre via, la scossa irrazionale della paura. Scrutando la propria immagine nello specchio, spinse indietro le spalle, rialzò la testa; e in quel movimento, i capelli crepitarono, ondeggiando. Era Lessa di Ruatha, di un nobile Sangue antico. Non aveva più bisogno di ricorrere agli artifici per difendersi: poteva affrontare a volto scoperto il mondo intero… e quel dragoniere.

Attraversò risolutamente la stanza e scostò il tendaggio che celava l’ingresso della grande caverna.

Lui era là, accanto alla testa del drago, e gli grattava le arcate sopraccigliari, con un’espressione stranamente tenera sul viso. Era uno spettacolo che contrastava in modo stridente con quanto lei aveva sentito raccontare sul conto dei dragonieri.

Aveva udito parlare, naturalmente, della strana affinità tra cavalieri e draghi: ma adesso, per la prima volta, si rendeva conto che il legame era costituito anche d’affetto. E che quell’uomo freddo e riservato era capace d’un sentimento tanto profondo. Si era comportato con lei in modo abbastanza brusco, di fronte al vecchio wher da guardia. Non c’era da stupirsi se la povera bestia) aveva pensato che intendesse farle del male. I draghi si erano mostrati più tolleranti, ricordò con una smorfia involontaria.

F’lar si girò lentamente, come se gli dispiacesse lasciare il drago. Poi la scorse e si volse di scatto, scrutandola con un’espressione intensa negli occhi. A passi rapidi e leggeri superò la distanza che li separava e la ricondusse nella stanza da letto stringendole il gomito con mano salda.

«Mnementh ha mangiato leggero, e ha bisogno di silenzio per riposare,» le disse a bassa voce, come se quella fosse la cosa più importante. Tirò con cura il pesante tendaggio dell’ingresso.

Poi scostò da sé Lessa, facendola girare da questa parte e dall’altra, osservandola attento: un’espressione curiosa e un po’ sorpresa gli aleggiava sul volto.

«Ti sei lavata… Graziosa, sì, quasi graziosa.» Nella voce di lui c’era una tale condiscendenza divertita che la giovane donna si divincolò e si scostò, irritata. F’lar ebbe una risata sommessa, beffarda. «Chi poteva immaginare, del resto, quello che c’era sotto la sporcizia di… dieci interi Giri, no? Sì: senza dubbio sei abbastanza graziosa per placare F’nor.»

Esasperata da quell’atteggiamento, Lessa domandò, in tono gelido: «E F’nor deve essere placato ad ogni costo?»

F’lar continuò a squadrarla sogghignando fino a quando lei dovette stringere i pugni contro i fianchi per non cedere alla tentazione di percuoterlo.

Finalmente, lui disse: «Non importa. Dobbiamo mangiare, e ho bisogno di te.» Si voltò udendo l’esclamazione sorpresa di Lessa; sorrise maliziosamente e indicò la chiazza di sangue secco sulla manica sinistra. «Il minimo che puoi fare è medicare le ferite che ho ricevuto combattendo onorevolmente per te.»

Scostò un tratto degli arazzi che coprivano la parete interna. «Pranzo per due!» gridò nel varco buio che si apriva nella pietra.

Lessa sentì la voce riecheggiare lontana, in basso, alla base di quello che doveva essere un pozzo molto profondo.

«Nemorth è ormai quasi rigida,» disse F’lar, mentre prendeva alcuni oggetti da un altro ripiano nascosto dagli arazzi. «Comunque, la Schiusa comincerà molto presto.»

Lessa avvertì una stretta gelida allo stomaco, solo al sentir parlare della Schiusa. Aveva sentito raccontare cose agghiaccianti, a proposito di quel particolare momento dell’esistenza dei draghi. Prese, stordita, gli oggetti che F’lar le porgeva.

«Come? Hai paura?» la punzecchiò lui, mentre si toglieva la camicia lacera e insanguinata.

Lessa scrollò la testa e concentrò l’attenzione sul dorso ampio e muscoloso dell’uomo. La pelle era segnata da striature irregolari del sangue che sgorgava dalla spalla, adesso che, togliendo la camicia, aveva staccato la crosta appena formata.

«Mi serve dell’acqua,» disse lei. Vide che tra gli oggetti consegnatile c’era anche un recipiente piatto. Andò a prendere l’acqua alla vasca, chiedendosi cosa mai l’avesse indotta ad avventurarsi tanto lontano da Ruatha. Nel momento in cui quell’idea le era stata proposta e confermata insidiosamente dal dragoniere, lei si era sentita capace di tutto, poiché era riuscita a ottenere la morte di Fax. Ma adesso, riusciva appena ad evitare che l’acqua traboccasse dal recipiente stretto tra le sue mani tremanti.

Si costrinse a pensare soltanto alla ferita. Era un brutto squarcio, profondo dove era penetrata la punta, via via sempre meno profondo verso il basso. La pelle di F’lar era liscia, sotto le sue dita, mentre puliva la ferita. Non poté fare a meno di notare l’odore mascolino di lui, un miscuglio non sgradevole di sudore, di cuoio, e dell’insolito sentore di muschio che doveva derivare dalla continua vicinanza dei draghi.

Benché gli avesse certamente fatto male nel togliere il sangue raggrumato, F’lar non diede segno di soffrire, come se non prestasse attenzione a quell’operazione. Lessa s’infuriò ancora di più quando si avvide di non poter cedere alla tentazione di trattarlo bruscamente, per ricambiarlo della scarsa considerazione che lui aveva mostrato nei suoi confronti.

Strinse i denti, esasperata, mentre spargeva in abbondanza l’unguento medicamentoso. Fece un piccolo tampone con le bende, e fissò la medicazione con una fasciatura. Quando ebbe finito si tirò indietro; F’lar provò a flettere il braccio fasciato, e quel movimento fece contrarre i muscoli del fianco e del dorso.

Poi F’lar si girò verso Lessa: il suo sguardo era buio e pensieroso.

«Ben fatto, mia signora. Ti ringrazio.» Il suo sorriso era ironico.

Lessa arretrò mentre lui si alzava: ma F’lar si diresse semplicemente al cassettone, per prendere una camicia bianca pulita.

In quell’istante risuonò un rombo sommesso, che subito si fece più forte.

Erano i draghi che ruggivano? si chiese Lessa, cercando di vincere la ridicola paura che cresceva dentro di lei. Era cominciata la Schiusa? Lì non c’era il covile di un wher da guardia, in cui trovare rifugio.

Come se intuisse la sua confusione, il dragoniere rise gaiamente e, guardandola negli occhi, scostò la tappezzeria, proprio nell’istante in cui un meccanismo rumoroso, all’interno del pozzo, portava in piena vista il vassoio del pranzo.

Piena di vergogna per la propria paura e infuriata con F’lar perché ne era stato testimone, Lessa sedette sulla panca coperta di pelli, augurandogli una serie di ferite gravi e dolorose per potergliele curare con mani prive d’ogni riguardo. Non si sarebbe lasciata sfuggire le future occasioni, si disse.

F’lar posò sul basso tavolo davanti a lei il vassoio, ammucchiando per terra alcune pelli per sedervisi. C’era della carne, del pane, una caraffa di klah, un appetitoso formaggio giallo, e persino alcuni frutti invernali. F’lar non accennò a mangiare, e neppure Lessa, benché il pensiero di un frutto maturo e non marcio bastasse a farle venire l’acquolina in bocca. L’uomo levò lo sguardo verso di lei, aggrottando la fronte.

«Anche nel Weyr, è la dama che spezza il pane per prima,» disse, rivolgendole un cortese cenno del capo.

Lessa arrossì. Non era abituata alle cortesie, e soprattutto non era abituata a mangiare per prima. Staccò un pezzetto di pane. Non ricordava di avere mai assaggiato una cosa simile. Innanzi tutto, era appena sfornato. La farina era stata passata ad un setaccio fine, e non c’era traccia di crusca o di sabbia. Prese il pezzo di formaggio che F’lar le offriva; anche quello era deliziosamente saporito. Imbaldanzita da quella conferma della sua nuova posizione sociale, Lessa tese la mano verso il frutto più carnoso.

«Ascolta,» incominciò il dragoniere, sfiorandole la mano per attirare la sua attenzione.

Lessa lasciò cadere il frutto con aria colpevole, pensando di avere sbagliato. Lo fissò, chiedendosi quale errore poteva aver commesso. F’lar prese il frutto e glielo rimise in mano, continuando a parlare. Lei mangiucchiò, disarmata, spalancando gli occhi, prestandogli tutta la sua attenzione.

«Ascoltami bene. Non devi mostrare mai paura, neppure per un momento, qualunque cosa succeda sul Terreno della Schiusa. E non devi lasciare che lei mangi troppo.» Un’espressione disgustata gli passò sul viso. «Uno dei nostri compiti più importanti consiste proprio nell’impedire ai draghi di mangiare troppo.»

Lessa non s’interessò più al sapore del frutto. Lo posò con cura nella ciotola e cercò di intuire quello che F’lar non le aveva detto, e che pure era sottinteso nel tono della sua voce. Lo guardò in faccia, e per la prima volta lo vide come un essere umano, non come un simbolo.

La sua freddezza era prudenza, pensò: non mancanza di sensibilità. Quella austerità doveva essere voluta per mascherare la sua giovane età, perché non poteva avere molti Giri più di lei. Attorno a lui c’era una tenebrosità che non aveva nulla di malevolo, era piuttosto una specie di cupa pazienza. I capelli neri e ondulati, gettati all’indietro dalla fronte alta, scendevano a sfiorare il collo della camicia. Le folte sopracciglia nere erano troppo spesso aggrottate in un cipiglio, o altezzosamente inarcate, quando lui guardava dall’alto in basso la sua vittima; gli occhi color ambra, così chiari da sembrare dorati, esprimevano fin troppo chiaramente il cinismo e l’alterigia. Le labbra, sottili ma ben disegnate, avevano una piega quasi dolce, talvolta. Perché doveva sempre inarcare la bocca in una smorfia di disapprovazione o in un sorriso sardonico? Nel complesso, si poteva definire un bell’uomo, pensò candidamente Lessa: c’era in lui qualcosa di magnetico. E in quel momento aveva abbandonato completamente ogni affettazione.

Stava parlando sul serio. Non voleva che lei avesse paura. Lei non aveva nulla da temere.

Desiderava davvero che lei riuscisse… ad impedire a chi di mangiare troppo… che cosa? Gli animali dei branchi? Sicuramente, un drago appena uscito dall’uovo non era in grado di divorare una bestia intera. A Lessa pareva un compito molto semplice. Il wher da guardia, a Ruatha, aveva obbedito a lei e a nessun altro. Lei aveva capito il grande drago bronzeo, ed era persino riuscita a zittirlo, quando era passata correndo sotto la Torre dove stava appollaiato, per andare in cerca della levatrice. Il compito più importante? Il nostro compito più importante?

Il dragoniere la fissava con aria d’attesa.

«Il nostro compito più importante?» ripeté Lessa; nel suo tono era implicita la richiesta di altre informazioni.

«Ne parleremo più tardi. Prima, le cose più importanti,» rispose lui, con un gesto impaziente.

«Ma cosa succede?» insistette Lessa.

«Ti sto dicendo quello che è stato detto a me. Né più, né meno. Ricorda queste due cose. Non avere paura e non lasciarla mangiare troppo.»

«Ma…»

«Tu, comunque, hai bisogno di mangiare. Ecco.» F’lar infilò sulla punta del coltello un pezzo di carne e glielo porse: l’osservò a fronte aggrottata fino a quando lei riuscì a inghiottirlo. Stava per costringerla a mangiare un altro boccone, ma Lessa riprese il frutto già addentato e diede un morso a quella polpa dolce e soda. Aveva già mangiato, in quel pasto, molto più di quanto fosse abituata a mangiare in un giorno intero a Ruatha.

«Presto mangeremo meglio, al Weyr,» osservò F’lar, fissando con aria critica il vassoio.

Lessa rimase sorpresa; secondo lei, quello era stato un vero festino.

«Non ci eri abituata, eh? Già. Dimenticavo che a Ruatha tu hai lasciato solo le ossa.»

La giovane donna s’irrigidì.

«Hai agito benissimo, a Ruatha. Non intendevo criticarti,» aggiunse pronto F’lar, sorridendo della sua reazione. «Ma guardati.» La indicò con un gesto, fissandola con un’espressione che era insieme divertita e contemplativa. «No, non avrei mai pensato che pulita fossi graziosa,» continuò. «Né che avessi questi capelli.» Stavolta la sua espressione era di aperta ammirazione.

Lessa si portò involontariamente una mano alla testa, e i capelli le si arricciarono attorno alle dita. Ma qualunque fosse la risposta che, indignatissima, si accingeva a dargli, le si smorzò sulle labbra. Un sibilo acuto, incredibile riempì la stanza.

I suoni crearono una vibrazione che le corse lungo le ossa, dalle orecchie alla spina dorsale. Si coprì le orecchie con le mani; il rumore continuò a echeggiarle nella testa, nonostante quel gesto di difesa; poi cessò, improvvisamente come era incominciato.

Prima che lei avesse il tempo di capire cosa intendesse fare il dragoniere, questi l’aveva afferrata per il polso e la stava trascinando verso il cassettone.

«Toglitele di dosso,» ordinò, indicando la veste e la tunica. Mentre Lessa lo fissava senza capire, F’lar prese un’ampia veste bianca, senza maniche e senza cintura, due semplici teli di tessuto finissimo uniti alle spalle e ai lati. «Spogliati… o vuoi che lo faccia io?» chiese, spazientito.

Il suono selvaggio si ripeté, con una tonalità snervante che rese più rapidi i gesti di Lessa. Aveva appena slacciato gli indumenti che portava, facendoseli scivolare ai piedi, e già F’lar le aveva infilato sulla testa l’altra veste. Lei riuscì a liberarsi le braccia appena in tempo, che già F’lar l’aveva riafferrata per il polso e la trascinava fuori dalla stanza, con i capelli che sventolavano, resi vivi dall’elettricità.

Giunsero nella grande caverna: al centro stava ritto il grande drago, con la testa volta a sorvegliare l’ingresso della camera da letto. A Lessa sembrò impaziente: i grandi occhi che tanto l’affascinavano brillavano iridescenti. Il suo atteggiamento lasciava trasparire un’eccitazione di proporzioni grandiose: dalla gola gli usciva una cantilena acuta, parecchie ottave al di sotto del grido snervante che li aveva scossi.

Per quanto fossero agitati e impazienti, drago e dragoniere si soffermarono. All’improvviso, Lessa si rese conto che stavano parlando di lei. Aveva proprio di fronte la grande testa dell’animale, che le nascondeva ogni altra cosa, e sentiva l’esalazione calda del suo respiro, lievemente carico di fosfina. Lo sentì comunicare a F’lar che era sempre più soddisfatto della donna di Ruatha.

Con uno strattone violento, il dragoniere la trascinò lungo la galleria. Il drago trotterellava al loro fianco, a tale velocità che Lessa si aspettava di vederlo catapultarsi dal cornicione. Senza rendersi conto di come fosse avvenuto, Lessa si trovò rannicchiata sul collo bronzeo; il braccio di F’lar la stringeva saldamente alla vita. In un unico movimento fluido si trovarono a planare sopra l’immensa conca del Weyr, verso l’alta parete di fronte. L’aria era piena di ali e di code di draghi in volo, lacerata da un coro di suoni che echeggiavano nella valle pietrosa.

Mnementh si lanciò, in quella che a Lessa pareva una rotta di collisione con gli altri draghi, in direzione di un varco nero che si apriva nel precipizio, piuttosto in alto. Come per magia, gli animali vi entrarono; le ali enormi di Mnementh sfioravano quasi i lati dell’entrata.

La galleria vibrava, riverberando i battiti delle ali: l’aria l’avvolgeva. Poi sboccarono in una caverna gigantesca.

L’intera montagna doveva essere cava, pensò Lessa, incredula. Attorno alla grotta immane c’erano innumerevoli draghi, appollaiati in file serrate, azzurri, verdi e marroni; e c’erano soltanto due bronzei come Mnementh. Ma i cornicioni erano abbastanza ampi per ospitare centinaia di animali. Lessa si afferrò alle scaglie bronzee, istintivamente conscia dell’imminenza di un grande evento.

Mnementh si calò in basso, a grandi cerchi, ignorando il cornicione sul quale erano posati gli altri bronzei. Poi Lessa vide quello che si trovava sul fondo sabbioso della grotta: uova di drago. Una covata di dieci mostruose uova chiazzate, con i gusci che si muovevano spasmodicamente, mentre i piccoli erano impegnati ad aprirsi un varco. Da un lato, su di un rialzo, c’era un uovo dorato, grande una volta e mezzo quelli chiazzati. Accanto a quell’uovo, giaceva la mole immobile, color ocra, della vecchia regina.

Nell’attimo stesso in cui si avvide che Mnementh stava librato a poca distanza dal pavimento nei pressi dell’uovo dorato, Lessa si sentì sollevare dalle mani del dragoniere.

Si afferrò a lui, preoccupata, ma F’lar la depose al suolo, inesorabile, la guardò fissamente con gli occhi ambrati.

«Ricorda, Lessa!»

Mnementh aggiunse un monito incoraggiante, girando su di lei uno dei grandi occhi compositi, poi si sollevò in volo. Lessa alzò una mano in atto di supplica, sentendosi priva di ogni appoggio, persino dell’incrollabile forza interiore che l’aveva sostenuta nella lunga lotta per vendicarsi di Fax. Vide il drago bronzeo posarsi sul primo costone, ad una certa distanza dagli altri due compagni. Il dragoniere smontò, e Mnementh piegò il collo sinuoso, abbassò la testa portandola al fianco della sua guida. L’uomo tese la mano e distrattamente, o almeno così parve a Lessa, prese ad accarezzarlo.

Poi la sua attenzione fu distratta da grida e gemiti; vide altri draghi che scendevano, fino a librarsi a poca distanza dal pavimento della caverna. Ogni pilota depose a terra una giovane donna: in breve le ragazze furono dodici, compresa Lessa. Lei si tenne un po’ in disparte, mentre quelle restavano in crocchio. Le fissò con curiosità, disprezzandole per le loro lacrime, anche se il suo cuore, probabilmente, non batteva meno rapido dei loro. Non pensò che il pianto poteva essere uno sfogo. Nessuna delle ragazze era ferita, a quanto poteva vedere: e allora, perché piangere? Il disprezzo per quel loro belare la rese consapevole della propria temerarietà: respirò a fondo, per vincere il freddo che sentiva dentro. Quelle potevano avere paura. Ma lei era Lessa di Ruatha e non aveva motivo di temere.

In quel preciso istante, l’uovo dorato si agitò convulsamente. Con un gemito all’unisono, le ragazze arretrarono, fino alla parete di roccia. Una bionda incantevole, con una pesante treccia che sfiorava il pavimento, fece per scendere dal rialzo, poi si arrestò, urlando, e tornò indietro atterrita, a cercare un conforto nella compagnia delle altre.

Lessa si girò di scatto, per vedere cosa avesse suscitato quell’espressione inorridita sul viso della ragazza. E anche lei indietreggiò, involontariamente.

Nella parte più spaziosa dell’arena coperta di sabbia, parecchie uova si erano già aperte. I neonati, gracchiando con voce fievole, stavano avanzando — e Lessa sbigottì nel vedere quella scena — verso i ragazzi che stavano ritti, immobili, disposti a semicerchio. Alcuni di loro potevano avere l’età che lei aveva quando l’esercito di Fax era piombato sulla Fortezza di Ruatha.

Gli strilli delle donne si smorzarono in singhiozzi soffocati, quando uno dei neonati protese becco e artigli per afferrare un ragazzo.

Lessa si costrinse a guardare, mentre il giovane drago scagliava da parte il giovanetto, bruscamente, come insoddisfatto. Il ragazzo non si mosse, e Lessa vide la sabbia arrossarsi del sangue che sgorgava dalle ferite.

Un altro drago balzò contro un secondo ragazzo e poi si arrestò, sbattendo impotente le ali bagnate; levò il collo scarno e gracchiò una parodia della cantilena incoraggiante che usciva così spesso dalla gola di Mnementh. Il ragazzo alzò una mano, incerto, e incominciò a grattargli l’arcata sopraccigliare. Lessa rimase a guardare, incredula: il piccolo drago, con un lagno sempre più dolce, prese a urtare delicatamente la testa contro il corpo del ragazzo: sul volto di questi sbocciò un sorriso di estatico sollievo.

Distolse gli occhi da quello spettacolo sorprendente e vide che un altro piccolo drago stava incominciando lo stesso rituale con un altro ragazzo. Nel frattempo, altri due erano usciti dalle uova. Uno aveva travolto un giovinetto e lo stava calpestando, senza accorgersi che gli stava inferendo ampi sguarci con i suoi artigli. Quello che lo seguiva si fermò accanto al ferito, piegò la testa accanto al volto del ragazzo, cantilenando ansiosamente. Il ragazzo riuscì a rialzarsi in piedi, le guance inondate di lacrime. Lessa lo sentì dire al drago di non preoccuparsi, perché si trattava solo di qualche graffio.

Tutto finì molto presto. I giovani draghi si appaiarono ai ragazzi. I cavalieri verdi scesero per condurre via quelli che non erano stati accettati. I cavalieri azzurri si posarono al suolo con le loro bestie, e condussero le coppie fuori dalla caverna: i giovani draghi squittivano, cantilenavano, sbattevano le ali ancora umide, mentre si allontanavano barcollando, incoraggiati dai Compagni del Weyr appena acquisiti.

Lessa si girò risolutamente verso l’uovo dorato che ondeggiava: sapeva cosa doveva aspettarsi e cercava di indovinare cosa avessero fatto i ragazzi prescelti per indurre i draghi neonati ad eleggerli.

Nel guscio dorato si aprì una crepa: le ragazze urlarono terrorizzate. Alcune erano crollate al suolo, come mucchietti di stoffa bianca, le altre si tenevano strette l’una all’altra per la paura. La fenditura si allargò, e ne uscì la testa aguzza, subito seguita dal collo d’oro lucente. Con inatteso distacco, Lessa si chiese quanto tempo avrebbe impiegato quella bestia per giungere alla maturità, considerando che appena nata era tutt’altro che piccola. Aveva la testa più grande di quelle dei draghi maschi, già abbastanza massicci per travolgere dei ragazzi robusti di dieci Giri.

Notò un mormorio sonoro che riempiva la caverna. Alzò gli occhi, e si accorse che ad emetterlo erano i draghi bronzei: quella era la nascita della loro compagna, della loro regina. Il mormorio crebbe di volume quando il guscio si sgretolò in molti frammenti e ne uscì il corpo dorato e scintillante della nuova femmina. Uscì barcollando, piantando il becco aguzzo nella sabbia soffice, momentaneamente intrappolata. Si raddrizzò sbattendo le ali umide, ridicola nella sua goffa debolezza. Poi, con una velocità inaspettata, sfrecciò verso le ragazze in preda al panico. Lessa non ebbe neppure il tempo di battere le palpebre, e già il drago femmina aveva scrollato via la prima ragazza, con violenza. Si sentì lo scatto secco delle vertebre, e il corpo piombò inerte sulla sabbia. Senza badarle, il drago balzò verso la seconda ragazza, ma calcolò male le distanze e cadde; tese una zampa per sostenersi, e lacerò il corpo della giovane donna dalla spalla alla coscia. Urlando, mortalmente ferita, quella distrasse per un attimo il drago, e strappò le altre dalla paralisi dell’orrore. Si dispersero tutte, in preda al panico, correndo, inciampando, vacillando, cadendo sulla sabbia, cercando di raggiungere l’apertura dalla quale erano usciti i ragazzi.

Mentre l’animale dorato, gridando penosamente, scendeva a balzi pesanti dal rialzo per inseguire le giovani donne, Lessa si mosse. Ma perché quella stupida non si era scostata, pensò mentre cercava di afferrare la testa aguzza, non molto più grossa del suo corpo. Il drago era così goffo e così debole…

Girò la testa dell’animale, in modo che gli occhi sfaccettati fissassero i suoi… e si perdette in quello sguardo d’arcobaleno.

Un senso di gioia la invase: una sensazione di calore, di tenerezza, di affetto incontaminato, di rispetto e di ammirazione dilagarono in lei, mente, cuore e anima. Mai più, mai più le sarebbe mancato un sostegno, un difensore, un amico intimo, immediatamente conscio dei suoi umori e dei suoi desideri. Com’era meravigliosa Lessa! Quel pensiero s’insinuò tra le sue riflessioni: com’era bella, com’era buona, e premurosa, e coraggiosa e intelligente!

Meccanicamente, Lessa tese la mano per grattare il punto esatto, sopra la morbida arcata sopraccigliare.

Il drago femmina la fissò battendo le palpebre, malinconicamente, infinitamente triste per averle causato preoccupazioni. Lessa accarezzò, con un gesto rassicurante, il collo morbido e leggermente umido che si incurvava fiduciosamente verso di lei. Il drago perse l’equilibrio, pencolò da un lato: un’ala s’impigliò nella zampa posteriore, dolorosamente. Lessa sollevò con cura la zampa, liberò l’ala, la ripiegò con una carezza sulla cresta dorsale.

Il drago cominciò a cantilenare, dal fondo della gola, seguendo con gli occhi ogni sua mossa. Cozzò dolcemente con la testa contro di lei: obbediente, Lessa incominciò a grattare l’altra arcata sopraccigliare.

Il drago le fece sapere che aveva fame.

«Ti troveremo subito da mangiare,» le promise decisa Lessa, e si voltò a guardarla, sbalordita. Come poteva essere tanto insensibile? Quel piccolo mostro aveva ferito gravemente due donne, se pure non le aveva uccise.

Non riusciva a credere che tutta la sua simpatia si fosse orientata con tale rapidità verso quella bestia. Eppure per lei era la cosa più naturale del mondo desiderare di proteggere quella piccola.

Il drago inarcò il collo per fissarla negli occhi. Ramoth ripeté malinconicamente di avere una fame terribile, dopo essere stata chiusa per tanto tempo nell’uovo, senza nutrimento.

Lessa si chiese come poteva sapere il nome del drago dorato, e Ramoth le rispose: perché non doveva conoscere il suo nome, dato che era suo e di nessun’altra? Poi Lessa si perse nel prodigio di quegli occhi meravigliosamente espressivi.

Dimentica della discesa dei draghi bronzei, dimentica della presenza dei loro cavalieri, Lessa continuò ad accarezzare la testa della creatura più straordinaria di tutta Pern, in una precognizione piena di sofferenze e di trionfi, ma consapevole soprattutto che Lessa di Pern era la Dama del Weyr, compagna di Ramoth l’Aurea, ora e per sempre.

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