Sul Mare di Sangue imperversava una tempesta. Una tempesta strana, di fattura celeste, mulinava al di sopra di un castello che si innalzava in cima a un dirupo. Le nuvole ribollivano attorno alle mura del castello. I tuoni crepitavano, e i fulmini abbagliavano e accecavano gli spettatori mortali (un monaco, un kender e un cane) che camminavano a fatica tra le dune di sabbia lungo la costa, molto più in basso. I tre si facevano forza contro il vento sferzante che scagliava sabbia negli occhi. Tutti e tre erano inzuppati dagli spruzzi di acqua salata sollevata dalle onde che si frangevano sulla riva. Una volta lì, le onde afferravano la sabbia con dita tenaci, cercando di aggrapparsi, ma erano costrette a mollare la presa quando il moto del pianeta le trascinava all’indietro.
Ogni volta che balenava un fulmine, il monaco riusciva a vedere una torre in lontananza sul mare. La torre non c’era il giorno prima. Era comparsa durante la notte, strappata alle profondità del mare da qualche forza catastrofica, e ora se ne stava lì con l’acqua che colava dalle grondaie, e con l’aria smarrita, come domandandosi, al pari degli uomini e degli dei, come fosse arrivata in quel luogo.
Il monaco, Rhys, era quasi piegato in due, con la veste incollata addosso e il corpo snello e muscoloso impegnato a conquistarsi ogni passo contro il vento che lo investiva. Riusciva ad avanzare, ma a malapena. Nightshade, essendo un kender e pertanto di costituzione più esile e minuta rispetto al suo amico umano, aveva maggiore difficoltà. Due volte era stato rovesciato a terra e riusciva a rimanere in piedi solo aggrappandosi al braccio di Rhys. Atta, la cagna, era più bassa sul terreno e pertanto in parte riparata dalle dune, ma aveva difficoltà a sua volta. Quando la raffica successiva quasi strappò via Nightshade dalla stretta di Rhys e scaraventò Atta dentro un cumulo di legname portato dal mare, Rhys si risolse a ritornare alla grotta da cui erano appena usciti.
La caverna piuttosto piccola era tetra e ancora inondata di acqua marina, ma perlomeno lì sarebbero stati al riparo dal vento e da quei fulmini micidiali.
Nightshade si sedette accanto all’amico sulle pietre umide ed emise un sonoro sospiro di sollievo. Si strizzò via l’acqua dal ciuffo, quindi provò a fare lo stesso con la camicia, che era notevolmente logora, talmente sbiadita per i rigori dei suoi viaggi che lui non riusciva più a dire di quale colore fosse stata in origine. Atta non si stese a terra, ma passeggiò nervosamente avanti e indietro, e il suo corpo peloso bianco e nero trasaliva ogni volta che un cupo rombo di tuono scuoteva il terreno.
“Rhys”, disse Nightshade, asciugandosi gli occhi dall’acqua di mare, “era il castello di Chemosh quello che vedevamo in cima al dirupo?”.
Rhys annuì.
Un fulmine crepitò nelle vicinanze e dalla parete del dirupo rimbombò un tuono. Atta tremò e abbaiò. Nightshade si strinse più vicino a Rhys.
“Sento delle voci nel tuono”, disse il kender, “ma non capisco che cosa dicano le voci né distinguo chi stia parlando. E tu?”.
Rhys scrollò il capo. Accarezzò Atta, cercando di calmarla.
“Rhys”, disse Nightshade un attimo dopo, “penso che quelli lassù siano dei. Chemosh è un dio, dopo tutto, e forse sta dando una festa per i suoi colleghi dei. Però devo dire che non mi ha dato l’impressione di essere il tipo che ama il ballo, essendo il Dio della Morte e tutto il resto… Comunque, forse è un tipo ameno”.
Rhys osservò la luce abbagliante lampeggiare fuori della grotta e ascoltò le voci e pensò al vecchio detto: “Quando gli dei si infuriano, l’uomo trema”.
“Stanno succedendo tante cose… tante cose strane”, sottolineò Nightshade, “che io mi sento piuttosto confuso. Vorrei parlarne, giusto per essere certo che anche tu abbia avuto la mia impressione. E poi, sinceramente, se si parla, l’ululare del vento e i fulmini non sembrano poi tanto male. Non ti dispiace se parlo, vero?”.
A Rhys non dispiaceva.
“Credo che incomincerò da quando eravamo incatenati nella grotta”, disse Nightshade. “No, aspetta. Devo dire come siamo finiti lì incatenati nella grotta, per cui dovremmo incominciare dal minotauro. Però il minotauro è arrivato solo dopo che tu hai lottato col tuo fratello morto, il Prediletto, e che il bambino lo ha ucciso…”
“Incomincia dal minotauro”, suggerì Rhys. “A meno che tu non voglia risalire al momento in cui ti ho incontrato nel cimitero.”
Nightshade ci pensò su. “No, non penso di avere abbastanza fiato per risalire fin lì. Inizierò dal minotauro. Camminavamo per la strada, e tu eri davvero, ma davvero in collera con Majere e hai detto che avresti smesso di servire lui o qualunque altro dio, quando all’improvviso tutti questi minotauri sono spuntati fuori dal nulla e ci hanno catturati. Io ho lanciato un incantesimo contro uno di loro”, soggiunse con orgoglio Nightshade. “L’ho fatto cadere lasciandolo a dibattersi sulla strada come un pesce. Il capitano dei minotauri ha detto che io ero un “kender con le corna”. Te lo ricordi, Rhys?”
“Certo”, ribatté Rhys. “Il capitano aveva ragione. Sei stato molto coraggioso.”
“Poi il minotauro mi ha tirato su e mi ha messo in un sacco e ci ha portati tutti e due a bordo della sua nave, che però non era una nave normale. Era una nave che apparteneva alla Dea del Mare, e navigava in aria, non sull’acqua, e io allora ti ho detto che non puoi abbandonare un dio…”
“E avevi ragione”, disse Rhys.
A trent’anni di età, era stato un monaco devoto a Majere per quella che gli pareva la maggior parte della vita. E sebbene non molto tempo prima avesse perduto la fede in Majere, il dio aveva continuato a credere in lui. Essere venuto a conoscenza di questa cosa umiliava Rhys e al tempo stesso lo colmava di gratitudine e di gioia. Aveva incespicato e brancolato nel buio, aveva imboccato molte strade sbagliate, si era cacciato in qualche vicolo cieco, ma aveva trovato la via per tornare dal suo dio, e Majere l’aveva accolto affettuosamente fra le sue braccia.
“La nave dei minotauri ci ha portati qui dall’altra parte del continente dove Chemosh ha costruito il suo castello. E il minotauro ci ha incatenati nella caverna… ecco, arrivo a questo punto.”
Rhys annuì di nuovo, continuando ad accarezzare Atta, che ora pareva più calma e ascoltava il racconto del kender.
“Poi abbiamo avuto molte visite, molte più di quante ci si aspetterebbe per chi se ne sta incatenato in una grotta. Prima è arrivata Mina.” Nightshade rabbrividì. “È stato davvero terribile. E arrivata da te e ti ha chiesto di dirle chi fosse. A suo dire la prima volta che ti ha visto tu l’hai riconosciuta…”
Però non è vero, pensò Rhys, turbato. Ancora non capiva quella parte della storia.
“…e poiché tu non sapevi dirle chi fosse, Mina si è incollerita. Pensava che tu stessi mentendo, e ha detto che se tu non gliel’avessi detto sarebbe tornata alla grotta e avrebbe ucciso me e Atta. Saremmo morti fra i tormenti”, concluse Nightshade con gusto.
“Quando Mina se n’è andata, è passata di qui Zeboim. Capisci che cosa voglio dire, Rhys? Quando stavamo a Solace non avevamo tanta compagnia come quando eravamo incatenati in questa grotta. Zeboim ti ha ingiunto di dirle chi fosse Mina, perché tutti gli dei erano in tumulto per questo motivo, e tu hai affermato di non saperlo, e allora lei si è incollerita e ha replicato che avrebbe osservato con piacere Mina uccidere me e Atta, e farci morire fra i tormenti.” Nightshade fece una pausa per tirare il fiato e per sputare dell’acqua di mare. “E dopo tu hai mandato me e Atta a cercare aiuto dai monaci di Majere a Flotsam, però noi non siamo mai arrivati fin lì. Siamo riusciti soltanto a raggiungere la strada lassù, e la cosa si è rivelata molto difficile, per via delle dune di sabbia, e io ho avuto un colloquio col tuo dio. Sono stato piuttosto severo con lui, te lo posso dire. Ho detto a Majere che tu saresti morto perché rimanevi fedele a lui, e gli ho domandato come mai non rimaneva lui fedele a te una volta tanto. Gli ho chiesto di aiutare me e Atta a salvarti. E poi due Prediletti ci hanno visti e hanno pensato bene di uccidermi.”
Nightshade sospirò. “Era proprio la festa di quelli che volevano uccidermi. Comunque io e Atta siamo scappati, ma tutti e due abbiamo le gambe corte e i Prediletti avevano le gambe lunghe, e anche se Atta ha due zampe più di me stavamo perdendo terreno quando mi sono scontrato con Majere. Blam! Gli sono finito dritto addosso. Lui ha visto che eravamo in pericolo e ha mandato le cavallette contro i Prediletti, scacciandoli. Io gli ho ricordato che tu hai sacrificato la vita per lui, e lui ha detto che non poteva farci niente perché c’era questo strano bagliore ambrato nel cielo e lui doveva andare a fare cose divine da qualche altra parte…”
“Non penso che Majere abbia detto proprio così.” Rhys era contento che il buio gli celasse il sorriso.
“Bè, forse no”, ammise Nightshade. “Però voleva dire così. E poi mi ha dato la sua benedizione. A me. A un kender. Che gli aveva parlato così severamente. Allora io e Atta siamo tornati di corsa alla grotta dove tu eri ancora incatenato e abbiamo scoperto che c’era Chemosh. Voleva che tu gli dicessi chi fosse Mina, e lui ha detto che ti avrebbe ucciso, e probabilmente l’avrebbe fatto, però Atta l’ha morso alla caviglia. E poi il mondo ha tremato e ci ha fatti cadere tutti a terra… perfino il dio.”
Nightshade strizzò l’occhio a Rhys. “È giusto? Perché è a questo punto che le cose cominciano a farsi strane. O meglio, ancora più strane. Chemosh era arrabbiatissimo. Si è messo a urlare contro gli altri dei, voleva sapere che cosa stesse succedendo. È venuto fuori che il tremore era stato causato da quella torre che veniva strappata fuori dal Mare di Sangue, generando onde enormi che si frangevano sulla riva e hanno allagato la grotta. Tu eri privo di sensi e incatenato alla parete, e l’acqua saliva attorno a te, e toccava a me e ad Atta salvarti.”
Nightshade fece una pausa per riprendere fiato.
“E così avete fatto”, disse Rhys, abbracciando il kender.
“Ho scassinato il lucchetto dei ceppi che avevi ai polsi”, disse Nightshade. “La prima e unica serratura che io abbia mai forzato in vita mia! Mio padre ne sarebbe stato tanto orgoglioso. Majere mi ha aiutato a manomettere la serratura, lo sai.”
Nightshade fu colpito da un pensiero improvviso. “Dì, pensi che Majere mi aiuterà ancora se vorrò scassinare un’altra serratura? Perché a Solace c’è un fornaio che fa dei meravigliosi pasticci di carne, però chiude bottega subito dopo cena, e qualche volta io ho fame di notte e non vorrei svegliarlo e…”
“No”, disse Rhys.
“No che cosa?” domandò Nightshade.
“No, non credo proprio che Majere ti aiuterà a scassinare la serratura della porta di servizio del fornaio.”
“Nemmeno per evitare di svegliare il fornaio in piena notte?”
“No”, disse fermamente Rhys.
“Ah, va bene.” Nightshade emise un altro sospiro, molto profondo. “Immagino che tu abbia ragione. Però scommetto che se mai Majere assaggiasse quei pasticci di carne potrebbe ripensarci. Dov’ero rimasto?”
“Avevi appena scassinato il lucchetto dei miei ceppi”, disse Rhys.
“Ah, già! L’acqua si faceva più profonda e io temevo che tu annegassi. Ho cercato di trascinarti fuori dalla grotta, ma eri troppo pesante… non offenderti.”
“Non mi offendo”, disse Rhys.
“E poi sei monaci di Majere sono arrivati di corsa dentro la grotta, ti hanno sollevato e ti hanno portato fuori. E immagino che ti abbiano medicato il bernoccolo in testa perché tu sei qui, io sono qui, Atta è qui e stiamo tutti bene. Allora”, disse Nightshade in conclusione, “tuo fratello, il Prediletto, adesso è in pace. La storia è finita e noi possiamo tornare a casa nel tuo monastero; Atta può fare la guardia alle pecore, io andrò a trovare i miei amici al cimitero e vivremo felici e contenti”.
Rhys si rese conto che era vero. Il racconto era finito, l’ultimo capitolo era stato scritto.
La notte era buia e la tempesta infuriava con violenza; stavano accadendo cose strane, ma la tempesta e la notte presto sarebbero terminate, come fanno sempre le notti e le tempeste. Questa era la promessa degli dei. Allo spuntare del giorno, Rhys e Nightshade sarebbero partiti per tornare a casa, verso il monastero. Il viaggio sarebbe stato lungo, poiché il monastero era situato a nord della città di Staughton, che si trovava sulla costa occidentale, ma loro erano sulla costa orientale del vasto continente di Ansalon e avrebbero dovuto viaggiare a piedi. Rhys non si preoccupava della distanza. Ogni passo sarebbe stato dedicato al dio. Pensò al lavoro che avrebbe svolto per guadagnarsi il pane, alle persone che avrebbe incontrato, al bene che avrebbe cercato di fare lungo il cammino, e il viaggio non gli parve affatto lungo.
“Hai sentito?” chiese subito Nightshade. “Sembrava un urlo.”
Rhys non aveva udito nulla tranne il rimbombo dei tuoni, l’ululato del vento e il fragore delle onde. Il kender aveva però dei sensi acuti, e Rhys aveva imparato a non sottovalutarli. Si convinse ulteriormente constatando che anche Atta aveva udito qualcosa. La cagna aveva sollevato la testa e drizzato le orecchie, e guardava attentamente fuori verso la tempesta.
“Aspetta qui”, disse Rhys.
Uscì dalla grotta, e il vento lo investì con una forza tale che perfino rimanere dritto in piedi era difficile.
Il vento gli soffiava via dal volto i lunghi capelli scuri e gli sferzava la veste arancione intorno al corpo sottile. Gli spruzzi salati gli pungevano gli occhi, la sabbia gli lacerava la carne. Schermandosi gli occhi con la mano, Rhys si guardò attorno. I lampi erano quasi ininterrotti. Rhys vedeva le onde nere sovrastate dalla schiuma bianca e le alghe sospinte dal vento lungo la spiaggia deserta: tutto qui. Stava per ritornare al riparo dentro la grotta quando udì un grido, che questa volta risuonò alle sue spalle.
Una raffica di vento investì Nightshade, facendolo barcollare all’indietro di qualche passo e poi scaraventandolo a terra.
Rhys si fece forza contro il vento fortissimo e, abbassando la mano, afferrò il kender e lo rimise in piedi.
“Ti avevo detto di aspettare dentro!” gridò Rhys.
“Pensavo parlassi con Atta!” rispose Nightshade gridando a sua volta. Il kender si girò verso la cagna, che aveva gli orecchi schiacciati contro la testa per via della forza del vento. Agitò il dito verso di lei. “Atta, resta dentro!”
Rhys stava tenendo stretto Nightshade, che cercava di restare in piedi contro vento senza molta fortuna, quando udì il grido.
“Eccolo di nuovo!” urlò Nightshade.
“Sì, ma dove?” ribatté Rhys.
Guardò Atta. La cagna stava in allerta, con gli orecchi in avanti e la coda immobile. Guardava fisso verso il mare.
Il grido giunse di nuovo, acuto e nitido, sovrastando l’ululato del vento. Socchiudendo gli occhi per via degli spruzzi e della sabbia, Rhys scrutò di nuovo nella notte.
“Majere benedetto!” ansimò. “Aspetta qui!” ordinò a Nightshade, il quale non aveva molta scelta, poiché ogni volta che si rialzava veniva di nuovo scaraventato giù dal vento.
Con l’ultimo lampo Rhys aveva visto un bambino, anzi una bambina, a giudicare dalle due lunghe trecce che le ricadevano sul viso, dibattersi immersa fino alla cintola nel mare agitato dal vento. Rhys la perse momentaneamente di vista nell’oscurità e sperò in un altro fulmine. Una cortina di luce bianco-violetta sfolgorò in cielo, ed ecco la bambina che agitava le braccia e gridava per chiamare aiuto. Stava cercando disperatamente di giungere a riva, lottando contro la corrente e i flutti che la trascinavano di nuovo verso il mare aperto.
Rhys lottò contro il vento, asciugandosi gli occhi dagli spruzzi e tenendo lo sguardo fisso sulla bambina, che continuava a sforzarsi di raggiungere la riva. Ci era quasi riuscita, quando un’onda schiumante si schiantò sulla testa della bambina, e questa scomparve. Rhys guardò fisso la schiuma ribollente, sperando che la bambina riemergesse, ma non vide nulla.
Cercò di camminare più velocemente, ma il vento soffiava dal mare e Rhys veniva sospinto indietro di un passo ogni volta che avanzava di due. Rhys proseguì a fatica, continuando a cercare la bambina mentre si sforzava di raggiungere l’acqua. Non vedeva nessuno e cominciava a temere che il mare avesse reclamato la sua vittima, quando all’improvviso vide il corpo della bambina, nero sotto la luce argentea della luna, disteso a riva. La bambina stava a faccia in giù nell’acqua poco profonda, e le lunghe trecce le galleggiavano attorno.
Il vento smise di soffiare di colpo, tanto che Rhys, facendo forza in quella direzione, perse l’equilibrio e cadde in avanti sulla sabbia umida. Si guardò attorno meravigliato. I fulmini crepitando erano svaniti. I tuoni si erano zittiti. Le nubi temporalesche erano scomparse, come risucchiate da un gigantesco respiro. La luce rossa dell’aurora baluginava all’orizzonte. Nel cielo buio sopra la sua testa, le due lune, Lunitari e Solinari, continuavano a restare di guardia.
A Rhys non piacque questa calma improvvisa. Era come essere nell’occhio del ciclone. Anche se la burrasca si era placata e in alto si poteva vedere il cielo azzurro, era come se gli dei stessero aspettando che la coda della tempesta si abbattesse su di lui.
Riprendendosi dalla caduta, Rhys corse lungo la riva umida verso la bambina, che stava distesa immobile nella spuma.
La rigirò sul dorso. La bambina aveva gli occhi chiusi. Non respirava. Rhys rammentava con vivida chiarezza quella volta in cui era quasi annegato dopo essere saltato giù dai dirupi del Bastione della Tempesta. Zeboim allora l’aveva salvato, e lui adesso utilizzò la tecnica della dea per cercare di salvare la bambina. Tirò su e giù le braccia della bambina, continuando a pregare Majere. La bambina emise un colpo di tosse e un rantolo. Sputando acqua di mare, si tirò su a sedere, sempre tossendo.
Rhys le diede delle pacche sulla schiena. La bambina sputò dell’altra acqua di mare e riprese fiato.
“Grazie, signore”, ansimò, e poi svenne.
“Rhys!” Nightshade stava urlando, mentre correva sulla sabbia, con Atta che gli sfrecciava davanti. “L’hai salvata? È morta? Spero di no. Non è strano come è si è placata la tempesta?”
Nightshade arrivò di corsa accanto a Rhys, proprio mentre il sole spuntava all’orizzonte illuminando in pieno il viso della bambina. Il kender strozzò un rantolo in gola e si arrestò slittando. Si fermò lì in piedi con lo sguardo fisso.
“Rhys, tu lo sai chi…” esordì.
“Non è il momento di parlare, Nightshade!” disse bruscamente Rhys.
La bambina aveva le labbra blu e il respiro irregolare. Indossava soltanto un semplice vestitino di cotone, niente scarpe né calze. Rhys doveva trovare il modo di riscaldarla, altrimenti sarebbe morta assiderata. Si alzò in piedi, tenendo fra le braccia la bambina priva di forze.
“La riporto nella grotta. Devo accendere un fuoco per riscaldarla. Tu potresti trovare della legna asciutta dietro le dune…”
“Ma, Rhys, ascolta…”
“Fra un attimo”, disse Rhys, sforzandosi di essere paziente. “Adesso tu devi trovare della legna asciutta. Devo riscaldarla…”
“Rhys, ma guardala!” disse Nightshade, agitandosi accanto a lui. “Non la riconosci? È lei! Mina!”
“Non essere ridicolo…”
“Non lo sono”, disse solennemente Nightshade. “Credimi, magari lo fossi. Lo so che deve sembrare una follia, poiché l’ultima volta che abbiamo visto Mina era adulta e adesso è rimpicciolita, ma io sono piuttosto sicuro che sia lei. Lo so perché quando guardo questa bambina ho la stessa sensazione che avevo quando ho visto per la prima volta Mina. Mi sento triste.”
“Nightshade”, disse stancamente Rhys, “legna da ardere”.
“Se non mi credi”, soggiunse Nightshade, “guarda Atta. Anche lei la riconosce”.
Rhys dovette ammettere che Atta aveva un comportamento strano. Normalmente la cagna sarebbe arrivata da lui saltellando, desiderosa di essere d’aiuto, pronta a leccare la guancia fredda della bambina o a darle colpetti sulla mano priva di forze, rimedi curativi noti e fidati per tutti i cani. Ma Atta si teneva a distanza. Se ne stava ferma sulle zampe rigide, col pelo ritto intorno al collo e il labbro superiore ritratto a scoprire i denti. I suoi occhi marroni, fissi sulla bambina, non erano amichevoli. Atta emise un ringhio cupo, gutturale.
“Atta! Smettila!” la rimproverò Rhys.
Atta smise di ringhiare, ma non allentò il suo atteggiamento difensivo. Fissò Rhys con un’espressione offesa ed esasperata; offesa perché Rhys non si fidava di lei, ed esasperata come se volesse inculcargli un po‘“di buonsenso.
Rhys abbassò lo sguardo verso la bambina che teneva fra le braccia, e le rivolse un’occhiata lunga e attenta. Era una bambina di circa sei anni. Una bella bambina con lunghe trecce rosse che penzolavano sul braccio di Rhys. La bambina aveva il viso pallido, con un po‘“di lentiggini sul naso. Fino a quel momento Rhys non aveva motivo di credere che la cagna o il kender avessero ragione. E poi la bambina gemette agitandosi fra le sue braccia e socchiuse gli occhi; Rhys notò, sotto le palpebre semichiuse, un luccichio d’ambra.
Un gelido senso di nausea scosse Rhys, che si lasciò sfuggire un lieve rantolo.
“Te l’avevamo detto”, disse Nightshade. “Non è vero, Atta?”
La cagna ringhiò di nuovo.
“Se vuoi un consiglio, ributtala in mare”, disse Nightshade. “Solo la notte scorsa intendeva torturarti perché tu non volevi dirle chi fosse, quando le hai detto che non conoscevi la risposta, e voleva fare morire me e Atta fra i tormenti. Te lo ricordi?”
Rhys si riprese dallo choc iniziale. “Io non la ributto in mare. Molte persone hanno i capelli rossi.”
Proseguì verso la grotta.
Nightshade sospirò. “Non pensavo che mi ascoltasse. Vado a cercare la legna da ardere. Andiamo, Atta.”
Il kender si incamminò, senza molto entusiasmo. Atta diede un’occhiata preoccupata a Rhys, quindi trotterellò dietro al kender.
Rhys trasportò la bambina dentro la grotta, che non era molto confortevole e certamente non molto asciutta; il fondo disseminato di pietre era ancora umido, e qua e là vi erano pozzanghere. Ma perlomeno lì erano al riparo dal vento. Un fuoco ardente avrebbe presto riscaldato quella caverna fredda.
La bambina si agitò e gemette di nuovo. Rhys le sfregò le mani fredde per riscaldarle e le lisciò i capelli bagnati, di colore ramato.
“Bambina”, disse dolcemente. “Non avere paura. Sei al sicuro.”
La bambina aprì gli occhi, occhi d’ambra, ambra limpida, come il miele, dorata e pura. Gli stessi occhi di Mina senza però le anime imprigionate che Rhys aveva visto negli occhi della dea.
“Ho freddo”, si lamentò la bambina, tremando.
“Il mio amico è andato a raccogliere legna per il fuoco. Fra poco ti riscalderai.”
La bambina lo fissò, gli guardò la veste arancione. “Sei un monaco.” Aggrottò le sopracciglia, come se cercasse di ricordare qualcosa. “I monaci vanno in giro ad aiutare la gente, vero? Tu mi aiuterai?”
“Volentieri, bambina”, disse Rhys. “Che cosa vuoi che faccia?”
Il volto della bambina si contrasse. Adesso era completamente sveglia e tremava, al punto che le battevano i denti. La sua presa sulla mano di Rhys si intensificò.
“Mi sono persa”, disse. Il labbro inferiore le tremava. Gli occhi le si colmarono di lacrime. “Sono scappata di casa e adesso non so più tornare indietro.”
Rhys provò sollievo. Nightshade aveva torto. La bambina probabilmente era figlia di qualche pescatore ed era stata sorpresa dalla tempesta e sospinta in mare. Non poteva avere fatto molta strada, a piedi. Il suo villaggio doveva essere lì vicino. Rhys ebbe compassione dei genitori. Dovevano essere impazziti per la preoccupazione.
“Quando ti sarai riscaldata, ti ci porterò io, bambina”, promise Rhys. “Dove abiti?”
La bambina si raggomitolò tutta tremante. Chiuse gli occhi e sbadigliò. “Probabilmente non ne hai mai sentito parlare”, disse assonnata. “È un posto che si chiama…”
Rhys dovette chinarsi più vicino per udire quel sussurro sonnolento.
“Godshome.”
Gli dei avevano osservato con stupore e allarme una mortale, Mina, scendere fin sul fondo del Mare di Sangue, impadronirsi della Torre dell’Alta Magia da poco restaurata e trascinarla in alto da sotto le onde per offrirla in dono al suo amato, Chemosh.
Evidentemente Mina non era una mortale. I maghi più potenti mai vissuti non avrebbero potuto compiere una simile prodezza, e nemmeno i chierici più potenti. Soltanto un dio avrebbe potuto farlo, e ora tutti gli dei erano in preda all’agitazione e alla costernazione e cercavano di definire che cosa stesse succedendo.
“Chi è questa nuova divinità?” strepitavano gli altri dei. “Da dove viene?”
Il loro timore era naturalmente che Mina fosse qualche divinità forestiera, qualche intrusa che scavalcando i cieli fosse giunta nel loro mondo.
I loro timori furono acquietati. Mina era una di loro.
Majere era in possesso delle risposte.
“Da quando lo sai?” domandò Gilean al dio monaco.
Gilean era il Signore degli Dei della Neutralità, che agivano da moderatori fra la luce e le tenebre. Gli dei neutrali adesso erano i più forti, il loro numero era aumentato per via dell’esilio volontario di Paladine, signore degli Dei del Bene, e della cacciata della regina Takhisis, signora degli Dei del Male. Gilean assumeva l’aspetto di un saggio erudito, un uomo di mezza età dall’intelletto acuto e dagli occhi freddi e distaccati.
“Da molti, molti eoni, Dio del Libro”, rispose Majere.
Dio della Saggezza, Majere indossava una veste arancione e non portava armi. Il suo aspetto era generalmente mite e sereno, ma adesso era carico di dispiacere e di rammarico.
“Perché tenerlo segreto?” domandò Gilean.
“Non stava a me svelarlo”, rispose Majere. “Ho dato il mio giuramento solenne.”
“A chi?”
“A qualcuno che non è più tra noi.”
Gli dei rimasero in silenzio.
“Presumo che tu intenda Paladine”, affermò Gilean. “Ma c’è n’è un’altra che non è più tra noi. Questo ha qualcosa a che vedere con lei?”
“Takhisis?” Majere parlò aspramente. La sua voce si indurì. “Sì, è lei la responsabile di tutto questo.”
Parlò Chemosh. “Le ultime parole di Takhisis, prima che il Dio Supremo venisse a prenderla, sono state queste: “State commettendo un errore! Ciò che io ho fatto non può essere disfatto. La maledizione è su di voi. Se distruggete me distruggerete voi stessi”.
“Perché non ce l’hai detto?” domandò Gilean, guardando torvo il Signore delle Ossa.
Chemosh era un dio vanitoso e di bell’aspetto, con i capelli neri lunghi e morbidi e gli occhi scuri, vuoti e freddi come le tombe dei morti maledetti su cui presiedeva.
“La Regina delle Tenebre lanciava sempre maledizioni.” Chemosh alzò le spalle. “Perché questa doveva essere diversa?”
Gilean non aveva risposte. Tacque, e pure gli altri dei tacquero, in attesa.
“La colpa è mia”, disse alla fine Majere. “Io ho agito per il meglio. O almeno così credevo.”
Mina era distesa fredda e immobile sul parapetto merlato. Chemosh voleva andare da lei, confortarla, ma non osava. Non certo con tutti loro a osservarlo. Domandò a Majere: “È morta?”.
“Non è morta, perché non può morire.” Majere guardò ognuno di loro, l’uno dopo l’altro. “Siamo stati ciechi. Ma adesso voi vedete la verità.”
“Vediamo, ma non capiamo.”
“Invece sì”, disse Majere. Congiunse le mani e guardò verso il firmamento. “Ma non volete capire.”
Non vedeva le stelle. Vedeva la prima luce delle stelle.
“Tutto è cominciato all’inizio del tempo”, disse. “Ed è cominciato con gioia.” Sospirò profondamente. “E adesso, poiché io non ho parlato, potrebbe finire con aspro dolore.”
“Spiegati, Majere!” ringhiò Reorx, lisciandosi la lunga barba. Il Dio Forgiatore, che aveva l’aspetto di un nano in onore della sua razza preferita, non era noto per la sua pazienza. “Non abbiamo tempo per le tue ciance!”
Majere spostò lo sguardo dall’inizio del tempo al presente. Guardò giù verso Mina.
“È una dea che non sa di essere una dea. È una dea convinta con l’inganno a ritenersi umana.”
Majere fece una pausa, come per riacquistare il controllo di sé. Quando parlò, la sua voce era sommessa a causa dell’ira. “È una dea del Bene, ingannata da Takhisis e indotta a servire il Male.”
Majere tacque. Gli altri dei gridarono domande, pretesero risposte. Per tutto il tempo Mina rimase priva di sensi sul parapetto merlato del castello di Chemosh, mentre attorno a lei infuriava quella tempesta fatta di collera e disorientamento, accuse e recriminazioni. Il trambusto era tale che quando Mina si svegliò nessuno se ne accorse. Mina osservò quegli esseri bellissimi, radiosi, tenebrosi e terribili che a lunghi passi percorrevano i cieli, scagliando fulmini e facendo tremare la terra con la loro furia. Mina li udiva urlare il suo nome, ma comprendeva soltanto che tutto questo era colpa sua.
Un ricordo, un ricordo indistinto, di un’epoca trascorsa da un tempo lunghissimo, si destò in Mina e le fece capire una cosa terribile.
Non era previsto che io mi svegliassi.
Mina balzò in piedi e prima che qualcuno potesse fermarla saltò giù dal parapetto e precipitò in silenzio, senza un grido, nel mare in tumulto.
Zeboim strillò e corse al margine del muro per guardare in mezzo alle onde. I venti di tempesta scompigliavano i capelli di spuma marina della Dea del Mare e le facevano ondeggiare la lunga veste verde. Zeboim osservò l’acqua schiumante, ma non vide traccia di Mina. Voltandosi, lanciò un’occhiata arcigna e puntò un dito accusatore contro Chemosh.
“È morta ed è colpa tua!” Con un gesto indicò l’acqua sferzata dalla tempesta. “Tu hai respinto il suo amore. Gli uomini sono così stupidi!”
“Risparmiaci la commedia, Strega del Mare”, mormorò Chemosh. “Mina non è morta. Non può morire. È una dea.”
“Forse non può morire. Ma può comunque ferirsi”, disse a bassa voce Mishakal.
I venti di tempesta cessarono. I fulmini crepitarono e si dissolsero. I tuoni si ripercossero sulle onde e tacquero.
Mishakal, Dea della Guarigione, la Signora Bianca, come era nota adesso su Krynn, per via della sua veste di un bianco puro e dei lunghi capelli candidi, si avvicinò a Majere. Gli tese le mani. Majere le prese le mani e la guardò dispiaciuto negli occhi.
“Lo so che tu tieni fede al voto di proteggere qualcuno che ora non c’è più”, disse Mishakal. “Io ti do il permesso di parlare.”
“Lo sapevo!” ringhiò Sargonnas. Il Dio della Vendetta e Signore delle Tenebre avanzò a lunghi passi. Aveva la testa di un toro e il corpo di un uomo, come tutti i minotauri, la sua razza eletta. “Questo è un complotto ordito dai Benevolenti! Noi vogliamo la verità e subito anche!”
“Sargonnas ha ragione. Il tempo del silenzio è finito”, disse Gilean.
“Parlerò”, disse Majere, “poiché Mishakal me ne ha dato il permesso”.
Eppure non disse nulla, perlomeno non subito. Rimase a guardare giù verso l’acqua che si era richiusa sopra la testa di Mina. Sargonnas ringhiava impaziente, ma Gilean lo zittì.
“Tu hai detto: “E una dea che non sa di essere una dea. E una dea convinta con l’inganno a ritenersi umana”.
“Questo è vero”, rispose Majere.
“E hai detto pure: “È una dea del Bene, ingannata da Takhisis e indotta a servire il Male”.
“E anche questo è vero.” Majere guardò Mishakal, e le rivolse uno dei suoi rari sorrisi.
“La storia di Mina comincia nell’Era della Nascita delle Stelle con la creazione del mondo. A quell’epoca (la prima e l’ultima e l’unica volta nella storia del mondo) tutti noi ci unimmo per usare la nostra potenza allo scopo di creare un miracolo e una meraviglia: questo mondo.”
Gli altri dei rimasero in silenzio, in preda ai ricordi.
“In quell’unico istante di creazione osservammo Reorx impadronirsi del Caos e da questo forgiare un grande globo, separando la luce dalle tenebre, la terra dal mare, i cieli dalla terra, e in quell’istante eravamo una cosa sola. Tutti noi conoscemmo la gioia. Quell’istante di creazione fece nascere un essere: una figlia della luce.”
“Noi non sapevamo nulla di tutto questo!” ringhiò Sargonnas, stupito e incollerito.
“Soltanto tre di noi lo sapevano”, disse Majere. “Paladine, la sua consorte Mishakal e io. La bambina comparve in mezzo a noi, un essere radioso, più bello delle stelle.”
“Avresti dovuto informare me, perlomeno”, disse Gilean, accigliandosi, a Mishakal.
La dea sorrise con tristezza. “Non c’era bisogno di dirlo a nessuno. Sapevamo quello che dovevamo fare. Gli Dei del Male non avrebbero mai permesso a questa nuova, giovane dea della luce di esistere, perché avrebbe sovvertito l’equilibrio. La sola notizia della sua nascita avrebbe causato un tumulto, avrebbe minacciato di distruggere ciò che avevamo creato con tanto amore.”
“Vero”, disse freddamente Zeboim. “Verissimo. Io avrei strangolato quella mocciosa.”
“Paladine e Mishakal mi misero in braccio la dea bambina”, proseguì Majere. “Mi ordinarono di immergerla in un sonno profondo e poi nasconderla in modo che non venisse mai trovata.”
“Come avete potuto sopportare di perderla?” domandò la dolce Chislev, Dea della Natura, rabbrividendo. Il suo aspetto era quello di una giovane donna, graziosa e delicata, con gli occhi dolci da cerbiatta e gli artigli aguzzi da tigre.
“Il nostro dolore era profondo quanto la vastità del tempo”, ammise Mishakal, “ma non avevamo scelta”.
“Io presi la bambina”, disse Majere riprendendo il racconto, “e la condussi nel mare. La trasportai nelle profondità dell’oceano, verso quelle parti che non hanno mai conosciuto la luce solare, e lì la baciai e la cullai dolcemente per farla addormentare. E la lasciai lì, a sonnecchiare dolcemente, senza mai un sogno a turbarne il riposo. E lì sarebbe rimasta in pace fino alla fine dei tempi, ma Takhisis, Regina di Tutti i Colori e di Nessun Colore, trafugò il mondo e insieme con questo anche la bambina”.
“E Takhisis la trovò”, disse Reorx. “Ma come, se era nascosta come affermi tu, Majere?”
“Quando Takhisis trafugò il mondo, pensò compiaciuta di essere l’unica forza divina in questa parte dell’universo. Io non so per certo come venne a sapere dell’esistenza della bambina, ma penso di poter azzardare un’ipotesi basata sulla mia conoscenza della Regina delle Tenebre. Quando trafugò il mondo, rimase pericolosamente indebolita. Si nascose, attendendo il momento opportuno ed escogitando i suoi piani. E quando fu ben riposata e di nuovo forte, uscì dal suo nascondiglio. Ne uscì guardinga, cauta, tastandosi attorno per accertarsi di essere sola in questa parte dell’universo.”
“E scoprì di non esserlo”, disse Morgion, Dio delle Pestilenze, con un sorriso sgradevole.
Majere annuì. “Percepì la forza di un’altra divinità. Posso solo immaginare la sua violenta emozione, la sua furia. Non avrebbe avuto pace finché non avesse trovato questa divinità e stabilito quale genere di minaccia rappresentasse per lei. Poiché la forza divina dentro la bambina brillava come un faro, dubito che Takhisis abbia avuto molte difficoltà nella sua ricerca. Trovò la divinità, e dovette rimanere sbalordita. Infatti non trovò un altro dio in grado di sfidarla. Trovò una dea bambina, innocente, ignara, una dea della luce. E così le venne un’idea…”
“Stupida strega!” imprecò aspramente Chemosh. “Stupida, stupida di una donna! Avrebbe dovuto prevedere quello che sarebbe successo!”
“Bah!” disse Sargonnas. “La Regina delle Tenebre non è mai stata una in grado di guardare più in là del suo muso. Avrà visto soltanto che questa dea bambina poteva esserle utile. Avrebbe tenuto in pugno Mina e l’avrebbe usata per i suoi scopi.”
“E si sarebbe vendicata un’ultima volta degli dei che aveva sempre odiato”, disse Kiri-Jolith, Dio della Guerra Giusta. Il suo aspetto era quello di un cavaliere abbigliato con un’armatura d’argento luccicante.
“Takhisis fu sul punto di riuscirci”, ammise Majere. “Commise un unico errore che derivava dal suo crudele desiderio di vendetta. Decise di consegnare questa dea bambina alla sua nemica, alla donna mortale a cui Takhisis aveva sempre dato la colpa della propria sconfitta durante la Guerra delle Lance: Goldmoon. La Regina delle Tenebre fece sì che la dea bambina venisse gettata sulle rive della Cittadella della Luce. In precedenza sacerdotessa di Mishakal, Goldmoon aveva portato su Krynn la potenza guaritrice del misticismo. Ormai vecchia, prese a benvolere la dea, che aveva l’aspetto di una bambina di nove anni. Goldmoon la chiamò Mina. E Takhisis rise. Come Takhisis aveva previsto, Goldmoon parlò a Mina degli dei antichi, poiché Goldmoon era addolorata per la perdita degli dei. Takhisis andò da Mina, che amava teneramente Goldmoon, e le disse che le avrebbe dato il potere di andare a cercare gli dei per riportarli nel mondo. Sappiamo tutti che cosa è successo dopo. Mina scappò da Goldmoon e “trovò” Takhisis, che la aspettava. Quali terribili torture e tormenti abbia sofferto Mina per mano della Regina delle Tenebre (tutto allo scopo di “metterne alla prova la fedeltà”) non oso ipotizzarlo. Quando Mina finalmente fu restituita al mondo, era stata plasmata e modellata a immagine della Regina delle Tenebre. Takhisis si aspettava che Mina conseguisse vittorie in suo nome. Tutti i miracoli da lei operati, Mina pensava provenissero da Takhisis. Quest’ultima si rese conto del suo errore troppo tardi. Comprese la propria follia. Come altri che hanno cercato di fare la stessa cosa.”
Gli altri dei guardarono Chemosh con aria accusatoria.
“Io non sapevo che fosse una dea!” gridò ferocemente il Signore delle Ossa. “Takhisis lo sapeva. Lo testimoniano le sue ultime parole: “La maledizione è su di voi. Se distruggete me, distruggerete voi stessi”.”
“Distruggere noi!” La risata di Sargonnas rimbombò roca nei cieli. “Come fa una marmocchia di dea a costituire una minaccia per noi?”
“E come fa a non costituirla?” domandò aspramente Mishakal. La Signora Bianca avvampò, intimorendo con la sua bellezza e la sua potenza. “Perfino in questo momento state tramando per attirare Mina dalla vostra parte, per sovvertire l’equilibrio in vostro favore.”
“E tu, Signora Santarellina?” sbottò Zeboim. “Tu stai pensando la stessa cosa.”
Kiri-Jolith disse freddamente: “Questa dea è perduta per noi. Adesso è una creatura delle tenebre”.
Mishakal gli rivolse un’occhiata afflitta. “Esiste una cosa chiamata perdono… redenzione.”
Kiri-Jolith aveva l’aria severa e implacabile. Non disse nulla, ma scrollò il capo con decisione.
“Se è tanto pericolosa, che cosa bisogna fare di lei?” domandò Chislev.
Gli dei guardarono verso Gilean in attesa di un giudizio.
“È dotata di libero arbitrio”, stabilì lui alla fine. “Il suo fato è nelle sue mani. Deve decidere da sola riguardo al suo destino. Le verrà dato il tempo per pensare e valutare. E durante questo tempo”, soggiunse con fredda enfasi, “non potrà essere influenzata né dal Male né dal Bene.”
E questo giudizio saggio, naturalmente, non piacque a nessuno.
Gli dei si misero a parlare tutti contemporaneamente. Kiri-Jolith insistette perché Mina venisse scacciata come era stata scacciata Takhisis. Zeboim protestò perché non era giusto verso la povera bambina. Si offrì di portarla con sé nella sua casa sotto il mare, un’offerta di cui nessuno si fidò. Sollecitò Chemosh ad appoggiarla, ma lui si rifiutò.
Chemosh non voleva più avere a che fare con Mina. Rimpiangeva di averla incontrata, era dispiaciuto di essersi innamorato di lei e di averne fatto la propria amante; era dispiaciuto di averla usata per farsi aiutare a creare nuovi seguaci, i Prediletti morti viventi, i quali erano stati un’amara delusione, finendo con l’essere fedeli a Mina, anziché a lui. Chemosh si teneva sdegnosamente al di sopra della discussione che infuriava nel pantheon. Pertanto fu l’unico a notare che i tre dei della magia, finora rimasti silenziosi, confabulavano tra loro a bassa voce.
Solinari, figlio di Paladine e Mishakal, era il Dio della Luna d’Argento, della magia della luce. Lunitari, figlia di Gilean, era la Dea della Luna Rossa, della magia e della neutralità, e il loro cugino Nuitari, figlio di Takhisis e di Sargonnas, era il Dio della Luna Nera, della magia delle tenebre. Malgrado le loro ideologie differenti, i cugini erano legati fra loro, uniti dall’amore per la magia. Insieme sfidavano spesso i loro genitori e operavano per i propri fini, come indubbiamente stavano facendo adesso. Chemosh si avvicinò, sperando di cogliere di sfuggita ciò che stavano dicendo.
“Allora è stata Mina a sollevare la torre dal fondo del Mare di Sangue!” stava dicendo Lunitari. “Ma perché?”
Lunitari indossava la veste rossa di quanti erano dediti al suo servizio. Il suo aspetto era quello di una donna umana dagli occhi indagatori, sempre alla ricerca di qualcosa.
“Progettava di donarla al Signore delle Ossa”, disse Nuitari. “Un pegno d’amore.”
Lui indossava una veste nera; il suo volto era quello di una luna piena. Gli occhi custodivano i suoi segreti.
“E tutti i preziosi oggetti sacri al suo interno?” domandò Solinari a bassa voce. “Che ne è stato del Solio Febalas,
Abbigliato con una veste bianca, Solinari era vigile e attento, camminava e parlava con calma, con gli occhi grigi come il fumo per via del fuoco che bruciava senza fiamma nel suo essere.
“Come faccio a sapere che cosa ne sia stato?” domandò stizzito Nuitari. “Sono stato convocato qui. La mia assenza sarebbe stata notata. Ma non appena finisce questa riunione…”
Chemosh non udì il resto. Allora era per questo che Mina gli aveva donato la torre! A lui non interessava per nulla quell’antico monumento dedicato alla magia. Lui desiderava ciò che stava al di sotto della torre: il Solio Febalas.
Molto tempo prima, precedentemente al Cataclisma, il Re-Sacerdote di Istar aveva saccheggiato i templi sacri e i santuari dedicati agli dei di Krynn, asportandone oggetti sacri da lui ritenuti pericolosi. Inizialmente portò via soltanto quelli degli Dei del Male, ma poi, quando la sua paranoia crebbe, ordinò alle sue truppe di penetrare anche nei templi degli Dei della Neutralità. Infine, avendo deciso di sfidare gli dei per diventare dio a sua volta, inviò i suoi soldati a saccheggiare tutti i templi degli Dei del Bene.
Gli oggetti sacri rubati furono portati all’antica Torre dell’Alta Magia di Istar, ora sotto il suo dominio. Il Re-Sacerdote collocò gli oggetti sacri in quella che definì la “Sala del Sacrilegio”.
Incolleriti per la sfida del Re-Sacerdote, gli dei scagliarono sul mondo una montagna infuocata, lacerandolo. Istar precipitò sul fondo del mare. Se qualcuno rammentava la Sala del Sacrilegio, i sopravvissuti ritenevano fosse andata distrutta.
Col passare dei secoli, i mortali dimenticarono la Sala del Sacrilegio. Chemosh però non la dimenticò. Si era sempre irritato per la perdita dei suoi oggetti sacri. Percepiva la potenza emanata dalle reliquie e sapeva che non erano andate perdute. Le rivoleva. Fu tentato di andare a cercarle durante la Quarta Era, ma all’epoca era coinvolto in un complotto segreto con la Regina Takhisis, un complotto per rovesciare gli Dei del Bene, e non osò fare nulla per non attirare l’attenzione su di sé.
Non ebbe mai la possibilità di andare a cercarli. Prima fu impegnato nella Guerra delle Lance, e poi Chaos si era infuriato, e infine Takhisis aveva trafugato il mondo. Gli oggetti sacri degli dei rimasero perduti finché Nuitari non decise di ricostruire segretamente la Torre dell’Alta Magia ormai in rovina, situata sul fondo del mare. Aveva trovato il Solio Febalas, con grande ira e gelosia di Chemosh.
Chemosh aveva chiesto a Mina di entrare nella Sala del Sacrilegio e portarne fuori i suoi oggetti sacri. Ma lei l’aveva tradito causando la prima rottura fra di loro.
Non essere in collera con me, mio amato signore… Il Solio Febalas è sacro. Santificato. In quella sala dimorano la potenza e la maestà degli dei, di tutti gli dei. Io non potevo toccare nulla. Non avrei mai osato! Non potevo fare altro che cadere in ginocchio in adorazione…
Chemosh si era infuriato con lei. L’aveva accusata di avere rubato per sé gli oggetti sacri. Adesso aveva capito. La potenza degli dei aveva agito da specchio, riflettendo verso di lei la potenza divina che Mina sentiva ardere dentro di sé. Come doveva sentirsi confusa, confusa e terrorizzata, e sopraffatta. Aveva sollevato la torre dal fondo del Mare di Sangue per donarla a lui. Era un dono.
Così, di diritto, la torre era sua. E in questo momento non vi era nessuno di guardia. Tutti blateravano su che cosa fare di Mina. Chemosh si allontanò dalla discussione che infuriava e sfrecciò lungo il Mare di Sangue fino all’isola circondata da scogli su cui sorgeva la torre appena emersa.
La Sala del Sacrilegio si trovava proprio in fondo alla torre. Era ancora lì, oppure era stata abbandonata sul fondo marino?
Chemosh si immerse completamente del mare. Un baratro enorme contrassegnava il punto in cui in precedenza vi era stata la torre. Il fondo marino era stato trascinato su con la torre e aveva formato l’isola su cui adesso sorgeva l’edificio. L’acqua era tanto buia che perfino quegli occhi immortali non potevano sondarne le profondità. Chemosh non percepiva nessuna sensazione della propria potenza emanare dal baratro.
Gli oggetti sacri erano ancora dentro la torre. Lui ne era più che certo.
La Torre dell’Alta Magia che prima era stata sotto il Mare di Sangue, ma che ora ne emergeva, assomigliava alla torre originaria. Nuitari l’aveva ricostruita con cura amorevole. Le pareti erano fatte di cristallo liscio, luccicante di umidità. L’acqua defluiva da una cupola di marmo nero e scorreva giù per le pareti scivolose mentre le onde si frangevano pigre e stizzose sulla riva dell’isola appena creata. In cima alla cupola un anello fatto di oro rosso lucidato e intrecciato ad argento brillava alla luce delle lune gemelle che rappresentava. Il centro dell’anello era nero come l’ebano, in onore di Nuitari. Attraverso il foro non si vedeva la luce solare.
Chemosh scrutò la torre minuziosamente. Dentro vivevano due Vesti Nere di Nuitari. Chemosh si domandò che cosa ne fosse stato. Se erano ancora vivi, dovevano avere affrontato un’avventura sconvolgente e terrificante. Chemosh girò attorno alla torre finché giunse alla porta: l’ingresso apparente.
Quando la torre si trovava a Istar e poi sul fondo del mare, soltanto i maghi e Nuitari possedevano il segreto per accedervi. Poteva entrare soltanto chi era stato invitato, e questo valeva anche per gli dei. Ma adesso la torre era stata strappata alle grinfie di Nuitari, gli era stata sottratta quando voltava le spalle. Forse la sua magia era stata infranta.
Chemosh si disinteressò della porta. Poteva scivolare attraverso le pareti di cristallo come fossero state acqua. Fece per oltrepassare quelle mura di un nero luccicante ma, sorprendentemente, trovò la strada sbarrata.
Frustrato, Chemosh cercò di aprire le massicce porte d’ingresso. Non si mossero. Chemosh perse la pazienza e scalciò la porta col piede e la percosse con la mano. Il dio avrebbe potuto abbattere le mura di un castello con uno schiocco delle dita, ma non riusciva ad avere alcun effetto sulla torre. La porta tremò per i colpi, ma rimase intatta.
“Non serve a niente. Non entrerai. Le chiavi le ha lei.”
Chemosh si girò e vide arrivare Nuitari che stava girando l’angolo dell’edificio.
“Chi ha le chiavi?” domandò Chemosh. “Tua sorella? Zeboim?”
“Mina, testa di legno”, gli disse Nuitari. “E sta mandando i suoi Prediletti a sorvegliarla.”
Il dio della magia nera indicò dall’altra parte del mare verso la città di Flotsam. Chemosh con la sua vista immortale scorse orde di persone che saltavano giù dai moli, si tuffavano in mare e scendevano sul fondo oppure nuotavano fra le onde che sinistramente brillavano di una fioca luce ambrata. Questi erano i Prediletti. Per l’aspetto e il modo di agire, di camminare e di parlare, di mangiare e di bere, erano come le persone normali, con un’unica piccola differenza.
Erano morti.
Essendo morti, non provavano paura, non si stancavano mai, non avevano bisogno di dormire, avevano un’energia illimitata. Se venivano abbattuti si rialzavano. Se veniva loro tagliata la testa la raccoglievano e se la rimettevano a posto. Chemosh stravedeva per loro, finché non aveva scoperto che erano in realtà creature di Mina, non sue. Adesso provava ribrezzo al solo vederli.
“L’esercito di Mina”, affermò Nuitari con tono aspro. “Viene a occupare la sua fortezza. E tu pensavi che te la regalasse!”
“Non entreranno”, disse Chemosh.
Nuitari ridacchiò. “Come ama dire il nostro amico Reorx, “vuoi scommettere?”.” Fece un gesto. “Non appena arriverà lei ad aprire le porte per far entrare i suoi Prediletti, le mie povere Vesti Nere saranno assediate nel loro laboratorio. La torre brulicherà di questi suoi demoni.”
Sotto gli occhi di Chemosh, diverse creature morte viventi si trascinarono su dall’acqua e si diressero verso la massiccia porta a due battenti.
“Sei proprio uno sciocco!” disse Nuitari con un sorriso beffardo a labbra serrate. “Avevi Mina nel tuo letto e l’hai mandata via a calci. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per te.”
Chemosh non ebbe alcuna reazione. Nuitari in fondo aveva ragione, maledizione a lui. Mina lo amava, lo adorava, e lui l’aveva scacciata, l’aveva respinta sdegnosamente solo perché era geloso di lei.
Non geloso di un altro amante. Geloso di lei, della sua potenza.
I Prediletti servivano Mina, mentre erano stati creati per servire lui. Mina aveva fatto a Chemosh quello che aveva fatto a Takhisis. I miracoli che aveva operato in nome di Chemosh erano stati miracoli suoi. Gli uomini adoravano Mina, non lui. I Prediletti erano soggetti alla volontà di Mina, non di Chemosh.
E poi, se si doveva credere a Majere, Mina aveva fatto tutto questo innocentemente. Non aveva idea di essere la divinità che aveva donato ai Prediletti questa vita terribile.
Che sciocco sono stato! si rimproverò Chemosh, che però ebbe un’idea. Rammentò lo sguardo straziato dal dolore che Mina gli aveva rivolto prima di saltare in mare.
Mi ama ancora. Posso riconquistarla. Con lei al mio fianco, posso soppiantare quel bovino dal cranio grosso, Sargonnas. Posso umiliare Kiri-Jolith e contrastare Mishakal e farmi beffe di quel saputello di Gilean. Mina mi darà accesso alla Sala del Sacrilegio. Mi impadronirò di tutti gli oggetti sacri. Potrò dominare il cielo…
Non gli restava che trovare Mina.
Chemosh spaziò col suo sguardo immortale su tutto il mondo. Vide ovunque tutti gli esseri: elfi e umani, orchi e kender, gnomi e nani, pesci e cani, gatti e goblin. La sua vista li abbracciò, li circondò, li studiò tutti contemporaneamente. Tutti nel giro di una frazione di secondo. Reperì ogni essere vivente di questo pianeta più quanti non fossero vivi nel senso consueto della parola.
Nessuno era lei.
Chemosh era sconcertato. Dove poteva essere Mina? Come poteva nascondersi a lui?
Non ne aveva idea e, mentre al riguardo si lambiccava il cervello, si rese conto che nel suo castello Gilean chiedeva agli dei di pronunciare un giuramento in base al quale non si sarebbero intromessi nella vita di Mina. Qualunque scelta lei intendesse compiere riguardo alla propria collocazione nel pantheon, da qualunque parte si schierasse, o nell’eventualità che volesse abbandonare del tutto il mondo, la decisione doveva essere sua.
Se pronuncio questo giuramento, Gilean farà sì che lo rispetti. Mi sarà proibito cercare di sedurla.
Chemosh era sicuro del proprio potere su di lei. Gli bastava soltanto vederla, parlarle, prenderla fra le braccia…
Non poteva andare a cercarla, non certo in questo momento, non certo mentre Nuitari lo osservava come un serpente osserva un ratto; non certo mentre Sargonnas lo scrutava con cupo sospetto e Gilean chiedeva a ogni dio di giurare. Chemosh non poteva andare a cercare Mina, ma aveva ai propri ordini qualcuno in grado di farlo. Fortunatamente aveva un po‘“di tempo. Gli Dei della Magia esigevano di sapere perché mai dovessero pronunciare quel giuramento.
Chemosh biascicò un’invocazione, i suoi pensieri sfrecciarono rapidamente attraverso il castello fino a raggiungere Ausric Krell, l’ex Cavaliere della Morte, maledetto da Mina e ridiventato umano. Chemosh doveva affrettarsi. Doveva dare l’ordine di trovare Mina prima di pronunciare il giuramento. Nessuno avrebbe potuto incolparlo se Mina fosse venuta da lui di propria spontanea volontà.
Una spinta impercettibile in quella direzione non sarebbe stata rilevante.
“Noi non dovremmo essere obbligati a pronunciare questo giuramento”, stava sostenendo Nuitari. “Noi non eravamo neanche nati quando questa dea bambina venne alla luce.”
“A noi non importa niente di Mina”, affermò Lunitari.
“Lei non ha nulla a che vedere con la magia. Lasciaci fuori da questa cosa”, soggiunse Solinari.
“Oh, ma lei possiede qualcosa che voi desiderate”, disse Morgion, Dio delle Pestilenze, parlando con la sua voce bassa e malsana. “Mina ha in proprio possesso una Torre dell’Alta Magia. E vi ha chiusi fuori!”
“È vero?” domandò Gilean, accigliandosi.
“È vero”, ammise Solinari. “Eppure, anche se noi siamo costretti a pronunciare questo giuramento, riteniamo giusto che ci sia consentito cercare di farci restituire la torre, che di diritto è nostra e che Mina ci ha rubato vigliaccamente.”
“Incapaci piagnucoloni”, disse Hiddukel con un sogghigno.
“Io ho altrettanto diritto a quella torre quanto loro”, sostenne Zeboim. “Dopo tutto, si trova nel mio mare.”
“L’ho costruita io”, gridò Nuitari, fremente. “L’ho innalzata io dalle rovine carbonizzate! E tutti voi dovreste sapere”, soggiunse con un’occhiata malevola a Chemosh, “che dentro quella torre, nelle sue profondità, si trova il Solio Febalas, la Sala del Sacrilegio. All’interno di quella Sala vi sono molti oggetti sacri e reliquie considerati perduti durante il Cataclisma. I vostri oggetti sacri e reliquie”.
Gli dei non sorridevano più. Fissavano con stupore Nuitari.
“Avresti dovuto dirci che la Sala era stata ritrovata”, disse Mishakal, ardente di fiamma bianca.
“E tu avresti dovuto dirci di Mina”, ribatté Nuitari stringendosi con le mani la veste nera. “Direi che così siamo pari.”
“I nostri oggetti benedetti sono al sicuro?” domandò Kiri-Jolith.
“Non saprei dirlo”, ribatté Nuitari alzando le spalle. “Lo erano, fintanto che la torre era sotto il mio dominio. Adesso non lo garantisco. Specialmente perché la torre attualmente è infestata dai Prediletti.”
Gli dei volsero lo sguardo verso Chemosh.
“Non è stata colpa mia!” esclamò quest’ultimo. “Quei demoni spettrali sono creature di Mina!”
“Basta!” disse Gilean. “L’unica cosa che questo dimostra è che adesso è ancora più importante pronunciare tutti questo giuramento. Oppure volete rischiare che un altro abbia successo dove voi fallite?”
Gli dei brontolarono ma alla fine si dissero d’accordo. Non avevano scelta. Ciascuno fu costretto a pronunciare il giuramento se non altro per accertarsi che lo pronunciassero gli altri, anche se ognuno forse pensava tra sé come fare per aggirarlo, o per svuotarlo almeno un po‘“del suo significato.
“Mettete la mano sul Libro”, disse Gilean, facendo materializzare il volume sacro, “e giurate sul vostro amore per il Dio Supremo, che ci creò, e sul vostro timore di Chaos, che ci distruggerebbe, di non minacciare, circuire, sedurre, scongiurare o contrattare con la dea chiamata Mina per cercare di influire sulla sua decisione”.
Gli Dei del Bene posero una mano sul Libro, così come gli Dei della Neutralità. Quando venne il turno degli Dei del Male, Sargonnas abbassò la mano con un tonfo, così come fece Morgion. Zeboim esitò.
“Sono sicura che la mia unica preoccupazione”, disse, asciugandosi una lacrima salata, “è per quella povera ragazza infelice. È come una figlia per me”. “Giura e basta, maledizione”, ringhiò Sargonnas. Zeboim tirò su col naso e pose la mano sul Libro. Dopo di lei, ultimo fra tutti, arrivò Chemosh. “Lo giuro”, disse.
La morte era stata bella per Ausric Krell, e lui la rivoleva.
Krell un tempo era stato un potente cavaliere della morte. Maledetto dalla Dea del Mare, Zeboim, aveva conosciuto l’immortalità. Poteva uccidere con un’unica parola. Era così spaventoso e orribile a vedersi, con la sua armatura nera e l’elmo a cranio di ariete, che alcuni poveri disgraziati erano morti di terrore alla semplice vista del suo aspetto terribile.
Ora non più. Quando si guardava allo specchio, non vedeva i suoi occhi riflettere il bagliore rosso dei morti viventi. Vedeva gli occhi strabici e porcini di un uomo di mezza età dalle guance cascanti e dal volto accigliato e animalesco, arti lunghi ed esili, carne floscia, e un pancione. Krell, il Cavaliere della Morte, un tempo regnava supremo sul Bastione della Tempesta, una poderosa fortezza nel nord di Ansalon (perlomeno era così che se lo ricordava. In verità era stato prigioniero, laggiù, e l’aveva detestato, ma non tanto quanto detestasse ciò che era adesso).
Fra tutti i morti viventi che percorrono Krynn, un cavaliere della morte è uno dei più temibili. Maledetto dagli dei, un cavaliere della morte è costretto a esistere in un mondo di vivi, odiandoli, pur invidiandoli ferocemente. Un cavaliere della morte è incapace di dormire o di trovare requie. È prigioniero della propria immortalità, costretto a riflettere continuamente sui propri crimini e sulle passioni volubili che lo hanno condotto in questo stato infelice, finché non giunge a pentirsi e la sua anima può passare alla fase successiva del suo viaggio.
Questo, perlomeno, era il progetto degli dei.
Purtroppo con Krell il progetto non aveva funzionato. In vita, Krell era stato un traditore, un assassino, un ladro. Aveva ingannato, raggirato, distrutto e tradito tutti coloro che si fossero mai fidati di lui. Non possedendo un grande intelletto, Krell si era affidato a una meschina astuzia, a grette imposture, a una completa mancanza di coscienza e alla forza bruta, per aprirsi a forza la strada nella vita. Krell era un bravaccio e, come tutti i bravacci, aveva vissuto ogni giorno in preda a un segreto terrore ed era morto da vigliacco, urlante e pusillanime, per mano della Dea del Mare, Zeboim, la quale non gli avrebbe mai perdonato di averle ucciso l’amato figlio.
Ritenendo che il suo tormento fosse stato troppo breve, Zeboim aveva maledetto Krell, trasformandolo in un cavaliere della morte, con l’intenzione di farlo soffrire per l’eternità. Invece, con ira della dea, Krell in realtà si divertiva a essere un morto vivente. Brandiva con crudele delizia la sua potenza letale. Divenne il bravaccio supremo, provando piacere nel tormentare, terrorizzare e infine uccidere quei mortali che erano abbastanza stupidi o coraggiosi da affrontarlo. E sapeva infliggere le sue punizioni senza la paura continua che qualcuno più grosso e più forte facesse lo stesso con lui.
Certo, Zeboim aveva continuato a essere una spina nel suo fianco scheletrico, ma Krell alla fine aveva risolto questo problema. Aveva giurato di servire Chemosh, il Signore della Morte, e in cambio Chemosh gli aveva offerto protezione contro la Dea del Mare.
E adesso tutto questo era finito. La morte gli era stata strappata da quella strega maledetta, Mina. Ancora non riusciva a capire che cosa fosse successo. Lui stava per spezzarle il collo. Sembrava tutto così facile. Mina gli si era opposta con furia bestiale e in qualche modo (non gli era chiaro come fosse successo) lo aveva maledetto restituendogli la vita.
Krell non soltanto era vivo, ma era anche prigioniero nella sua stanza nel castello di Chemosh, timoroso di uscirne per via dei Prediletti che vagavano nel castello e che bramavano di ucciderlo in una maniera particolarmente sgradevole. Krell udiva al di fuori della finestra le voci tonanti degli dei, ma era troppo assorto nel compiangere il proprio destino per prestare attenzione al loro strepitare.
Krell era abbastanza forte e brutale da tenere testa alla maggior parte degli esseri umani, ma non poteva combattere contro i Prediletti, quei morti viventi scellerati che ora vagavano per il castello piagnucolando e invocando Mina. Nessuna arma poteva uccidere i Prediletti, perlomeno nessuna arma che Krell avesse mai reperito. Aveva provato a spaccarli in due con la spada. Li aveva tempestati di pugni e aveva perfino usato su di loro i suoi formidabili poteri magici, invano. Spaccati in due, si rimettevano insieme, e si scrollavano di dosso la magia come un’anatra si scrolla di dosso l’acqua. E adesso i Prediletti erano capaci di ucciderlo. In effetti sembravano serbare verso di lui una qualche sorta di rancore personale. Krell era stato costretto a strangolarne un paio arrivando qui, riuscendo a malapena a fuggire salvandosi la vita. Adesso stavano appostati fuori della sua porta, tenendolo prigioniero nella camera da letto. Tutto questo mentre, fuori dalla finestra, gli dei infuriavano.
Qualcosa riguardo al fatto che Mina fosse una divinità… Krell sbuffò, ci pensò su. Era vero che Mina gli aveva portato via i poteri, ma lui era sicuro che dietro a tutto ciò vi fosse Zeboim. Le due femmine erano implicate insieme in questa faccenda. Era un complotto contro di lui. Krell si sarebbe vendicato della Dea del Mare, e anche di quella strega di Mina.
Questi erano i pensieri su cui rimuginava Krell, seduto in camera sua, avvolto in una coperta per scaldarsi, poiché la sua meravigliosa e lucente armatura magica era scomparsa. Stava pensando con piacere crudele a ciò che avrebbe fatto a Mina quando finalmente fosse riuscito a metterle le mani addosso, allorché una voce interruppe le sue fantasticherie intrise di sangue.
“Chi è?” ringhiò Krell.
“Il tuo padrone, testa di legno”, disse Chemosh.
“Mio signore”, disse Krell sogghignando. Un tempo si sarebbe prostrato, ma non era di umore adatto a fare il leccapiedi. Che Chemosh si pulisse da solo gli stivali. Che aveva fatto per lui, il dio? Nulla. Forse il Signore della Morte aveva perfino fatto parte del complotto per distruggerlo.
“Smettila di startene lì seduto a compiangerti”, disse freddamente Chemosh. “Devi trovare Mina.”
Nessuno voleva trovare Mina più di Ausric Krell. Fu sul punto di valersi dell’occasione, ma poi si trattenne. Il Krell dall’astuzia meschina era tornato. Nella voce del suo padrone coglieva una sfumatura di ansietà, forse perfino di disperazione. Krell poteva approfittare della situazione per mercanteggiare un po’. Era in una posizione di forza, dopo tutto. Non gli rimaneva più nulla da perdere.
“Dicono che questa Mina adesso sia una divinità, mio signore”, fece notare Krell. “E io sono un povero e debole mortale”, disse digrignando i denti.
“Se farai questo per me ti nominerò mio chierico, Krell. Ti conferirò poteri sacri…”
“Chierico!” Krell sbuffò di disgusto. “Non voglio essere uno dei vostri chierici piagnucolosi, che vanno in giro con l’abito nero e una maschera da spavento.”
“Non fare il gradasso con me, Krell…”
“Altrimenti che cosa mi fate?” Krell ruggì di collera. “Siete venuto voi da me a cercare aiuto, mio signore. Se volete il mio aiuto, trasformatemi di nuovo in un cavaliere della morte.”
“Non posso “trasformarti” in un cavaliere della morte e basta”, disse stizzito Chemosh. “Non è come cambiarsi d’abito. E una cosa molto più complicata, comporta una maledizione…”
“Allora andate a cercare Mina per conto vostro”, disse Krell imbronciato.
Curvo nella sua coperta, andò a passi pesanti verso il letto e si sedette.
“Non posso trasformarti in un cavaliere della morte, ma ti concederò i poteri di un Accolito delle Ossa”, propose Chemosh.
“Un che cosa delle ossa?” domandò Krell sospettoso.
“Non ho tempo per spiegartelo! Al momento sono piuttosto occupato. Mi costringono a pronunciare un giuramento divino. Ma tu sarai potente. Te lo prometto.”
Krell ci pensò su. Chemosh doveva tener fede alla sua parola se voleva che Krell avesse successo.
“Molto bene”, disse Krell con riluttanza. “Trasformatemi in questo Accolito delle Ossa. Dove trovo Mina?”
“Non ne ho idea. È saltata giù in mare dal parapetto.”
“Allora volete che ne recuperi il corpo, mio signore?” Krell era deluso.
“È una divinità, idiota! Non può morire! Per il Cranio, tanto varrebbe dare ordini alla colonna di un baldacchino! Ora devo andare…”
“Allora dove devo cominciare le mie ricerche, mio signore?” domandò Krell, ma non ricevette risposta.
Krell aveva un’idea, però. Il monaco di Mina, quello che lui aveva trovato dentro la grotta. Krell inizialmente aveva pensato che il monaco fosse l’amante di Mina. Adesso non ne era più tanto sicuro. Comunque Mina sembrava dimostrare un insolito interesse per il monaco. Era uscita di soppiatto dal castello di Chemosh per incontrarsi con lui in segreto nella grotta. Forse era tornata a trovarlo. L’ultima volta che Krell aveva visto il monaco, questi era incatenato a una parete della grotta. Era improbabile che se ne fosse andato da qualche altra parte.
Krell si alzò, poi si rese conto che non avrebbe potuto affrontare degnamente Mina avvolto in una coperta.
“Mio signore!” urlò Krell. “Un Accolito delle Ossa! Ve lo ricordate?”
Chemosh se lo ricordava. Concesse a Krell i poteri di un Accolito delle Ossa e, sebbene non fosse temibile come lo era stato quando era un cavaliere della morte, Krell fu soddisfatto del risultato.
Nightshade entrò nella grotta barcollando sotto un carico di legna da ardere. Lo posò a terra e poi rimase a fissare la bambina, che era distesa immobile sulle fredde pietre mentre Rhys le strofinava le mani gelide, cercando di riscaldargliele. Atta trotterellò dentro, annusò la bambina, ringhiò e si ritirò in un angolo lontano.
“Abbiamo bisogno di esca per accendere il fuoco”, disse Rhys. “Forse qualche alga. Se tu potessi fare in fretta…”
Mormorando, Nightshade richiamò Atta e i due uscirono. Rhys sperò che il kender si sbrigasse. La bambina aveva la pelle fredda e viscida al tatto, il battito cardiaco rallentato, le labbra e le unghie blu. Rhys avrebbe voluto avvolgerla nella propria veste, ma era umida quanto il vestitino di cotone della bambina.
Si guardò attorno nella grotta che un tempo era stata un luogo sacro a Zeboim. All’estremità opposta si innalzava l’altare della dea. Rhys vi aveva prestato scarsa attenzione quando il minotauro lo aveva condotto qui. Aveva avuto questioni molto più urgenti a cui pensare, come il fatto di essere incatenato alla parete e minacciato di torture e di morte. Adesso, sperando di trovare qualcosa di utile, si staccò dalla bambina e andò a guardare più da vicino.
L’altare era scolpito grossolanamente da un unico pezzo di granito a venature rosse e nere. Una conchiglia era stata collocata con rispetto sull’altare che era ornato da una logora tovaglia di seta verde mare. Mormorando una preghiera di ringraziamento a Majere e un’altra preghiera con cui chiedeva perdono a Zeboim per la profanazione del suo altare, Rhys sollevò la conchiglia, rimosse la tovaglia, quindi rimise a posto la conchiglia con cura.
Rhys tolse alla bambina il vestitino fradicio, la asciugò strofinandola col panno di seta e la avvolse in quest’ultimo, passandoglielo attorno più o meno come il bozzolo da cui era stato filato il tessuto. La bambina smise di tremare. Le ritornò un po‘“di colore sulle guance pallide, dalle labbra le svanì il blu.
“Grazie, Zeboim”, disse sottovoce Rhys.
“Ma figuriamoci”, disse aspramente la Dea del Mare. “Stai solo attento a ripulire la mia tovaglia e a rimetterla a posto quando hai finito.”
Zeboim entrò nella grotta con calma, padrona di sé (rispetto al solito), con appena una brezza moderata ad agitarle l’abito verdeazzurro che le schiumava attorno ai piedi nudi. Rivolse un’occhiata annoiata alla bambina stesa a terra.
“Dove hai raccolto la bambina?”
“L’ho trovata sospinta a riva durante la tempesta”, rispose Rhys, osservando attentamente la dea.
“Chi è?” chiese Zeboim, anche se non pareva le interessasse molto.
“Non ne ho idea”, rispose Rhys. Fece una pausa, poi disse con calma: “La conoscete, maestà?”.
“Io? No, perché dovrei?”
“Non c’è motivo, maestà”, disse Rhys, ed emise un sospiro di sollievo. Nightshade doveva essersi sbagliato.
Scavalcando la bambina, Zeboim giunse da Rhys e si inginocchiò davanti a lui. Allungò la mano e gli accarezzò la guancia.
“Il mio caro monaco!” disse con un tono soave. “Sono così contenta di vederti finalmente sano e salvo! Ero terribilmente angustiata per te.” “Vi ringrazio per l’interesse, maestà”, disse cauto Rhys. “In che cosa posso servirvi?”
“Servirmi?” Zeboim era sgomenta. “No, no. Sono venuta soltanto per informarmi sulla tua salute. Dov’è il tuo amico, il… ehm… caro piccolo kender. E quel bastardo. Cane, voglio dire, cane. Dolce cagnolino. Oh, mio caro monaco, sei tutto infreddolito e bagnato. Lascia che ti riscaldi.”
Zeboim si diede da fare asciugandogli la veste con un tocco della mano; poi, con uno schiocco delle dita, accese la catasta di legna da ardere. Per tutto il tempo Rhys attese in silenzio, senza lasciarsi ingannare da quelle lusinghe. L’ultima volta che aveva visto la Dea del Mare, lei gli aveva detto che avrebbe osservato con gioia Mina mentre lo metteva a morte.
“Ecco, non va meglio così?” domandò premurosa Zeboim.
“Grazie, maestà”, disse Rhys.
“C’è qualcos’altro che posso fare per te?”
“Forse dirmi perché siete venuta qui”, suggerì Rhys.
Zeboim parve infastidita, poi disse bruscamente: “Oh, benissimo. Se vuoi proprio saperlo, sto cercando Mina. Mi è venuto in mente che potrebbe essere venuta da te, visto che ti trovava interessante. Sono certa di non comprenderne il motivo. Sei così noioso che piuttosto che avere a che fare con te preferirei lavare i piatti. Ma Mina non smetteva mai di parlare di te, e io ho pensato che potesse essere qui”.
Si guardò attorno nella grotta e alzò le spalle. “A quanto pare mi sono sbagliata. Se la vedi, fammelo sapere. Per tutti i bei momenti che abbiamo vissuto assieme…”
Quando fece per andarsene, il suo sguardo cadde di nuovo sulla bambina avvolta nella tovaglia d’altare. Zeboim si fermò, con lo sguardo fisso.
La bambina era distesa su un fianco, raggomitolata. Il volto era nascosto dal panno, ma le trecce rosse aggrovigliate erano chiaramente visibili alla luce del fuoco. La dea guardò la bambina, poi guardò Rhys.
Zeboim rimase senza fiato. Piombando sulla bambina, la Dea del Mare afferrò la tovaglia d’altare e le scoprì il volto. Zeboim afferrò il mento della bambina facendole volgere il viso in direzione della luce del fuoco. Quest’ultima si svegliò con un urlo.
“Smettetela!” disse aspramente Rhys, intervenendo. “Le fate male.”
Zeboim rise ferocemente. “Farle male? Non potrei mai farle male neanche se le conficcassi una picca nel cuore! È opera di Majere? Pensa di poterla nascondere a me con questo stupido travestimento?”
“Maestà…” cominciò a dire Rhys.
“Ahi!” gridò Zeboim, ritraendo di colpo la mano. Sconvolta, guardò giù con aria torva verso la bambina. “Mi ha morso!”
“Se ti avvicini ti mordo ancora!” gridò la bambina. “Non mi piaci! Vai via.”
Si avvolse più comodamente nella tovaglia d’altare, si rannicchiò e chiuse gli occhi.
Zeboim si succhiò la mano sanguinante e squadrò attentamente la bambina.
“Non mi riconosci, bambina?” domandò. “Sono Zeboim. Siamo amiche, io e te.”
“Non ti ho mai vista prima”, disse la bambina.
“Maestà”, disse Rhys con apprensione, “chi è questa bambina? Sembrate conoscerla”.
“Non fare giochetti con me, monaco”, disse Zeboim.
“Non sto facendo giochetti, maestà”, disse Rhys seriamente.
Zeboim spostò lo sguardo verso di lui. “Stai dicendo la verità. Davvero non lo sai.” Fece un gesto verso la bambina che sonnecchiava. “Lei è Mina. O meglio, era Mina. Non ho idea di chi sia adesso.”
“Non capisco, maestà”, disse Rhys.
“Non sei il solo”, disse arcigna la dea. “Dove l’hai trovata?”
“Era in mare durante la tempesta. Stava per annegare…”
“In mare?” ripeté Zeboim, e soggiunse con un sussurro: “Ma certo! E saltata giù dalle mura nel mare. Ed è venuta da te, il monaco che la conosceva…”
“Maestà”, disse Rhys, “dovreste dirmi che diamine sta succedendo”.
Zeboim lo scrutò. “Mio povero monaco. Sarebbe un divertimento immenso andarmene e lasciarti annaspare nell’ignoranza, ma nemmeno io sono crudele fino a questo punto. Non ho tempo per entrare nei dettagli, ma ti dirò una cosa. Questa bambina, questa Mina è una dea. E una dea che non sa di essere una dea, una dea convinta con l’inganno da Takhisis a ritenersi umana. Per di più, è una dea del Bene che è stata indotta col raggiro a servire il Male. Mi segui, fin qui?”
Rhys la fissava ammutolito.
“Vedo che non mi segui.” Zeboim alzò le spalle. “Bè, non ha molta importanza. Tu ce l’hai sempre tra i piedi. Per proseguire il mio racconto, la povera Mina ha avuto la disgrazia di innamorarsi di Chemosh, e lui – da vero uomo – le ha spezzato il cuore. Mina ha cercato di riconquistarlo offrendogli un dono. Ha trascinato su dal mio mare la Torre dell’Alta Magia e l’ha piantata su quell’isola là fuori. Siamo tutti rimasti assai impressionati. Questo è stato il primo indizio che abbiamo avuto sul fatto che fosse una dea. Majere, naturalmente, lo sapeva già.”
“Non ci credo… non posso crederci…” Rhys fece una pausa, rammentando il nome del luogo che Mina aveva indicato come casa sua. “Se quello che voi dite è vero, maestà, come ha fatto Mina a diventare così? Una bambina?”
“Lo sanno soltanto gli dei”, disse Zeboim. “No, aspetta. Ritiro quello che ho detto. Noi dei non ne abbiamo idea. Pensi che io stia mentendo, vero?”
Rhys era imbarazzato. “Maestà…”
Zeboim gli afferrò il braccio, affondandogli le unghie nella carne attraverso il tessuto della veste. Fissandolo negli occhi, al di là degli occhi, proprio dentro l’anima, gli sibilò: “Credimi oppure no, come preferisci. Come ho detto, non ha importanza. Mina è venuta da te. Quello che io voglio sapere è… per quale motivo? L’ha mandata da te Majere? Abbiamo prestato un giuramento, tutti noi. Non dobbiamo intrometterci. Majere ha forse violato questo giuramento?”.
Rhys in quell’istante si rese conto che Zeboim stava dicendo la verità, e fu percorso da un brivido. Guardò al di là della dea verso la bambina derelitta, avvolta in una logora tovaglia d’altare, addormentata sul suolo freddo e umido di una grotta, e la rammentò mentre si agitava fra le onde della tempesta provocata dagli dei. Rhys non capiva molto di questioni celesti, ma sapeva certo qualcosa della sofferenza dei mortali.
“Forse è venuta qui perché è sola e ha paura”, disse Rhys, “e aveva bisogno di un amico”.
Zeboim trapassò con lo sguardo Rhys, ne esaminò le varie parti e poi lo scagliò lontano da sé, facendolo finire barcollante contro la parete di pietra.
“Ti auguro buona fortuna con la tua nuova piccola amica, allora, monaco.”
La Dea del Mare scomparve in un turbinio di vento e pioggia.
Scosso, Rhys abbassò lo sguardo verso la bambina.
“Majere”, pregò, turbato, “è la tua volontà che io intraprenda questo compito?”.
“Rhys!” urlò una voce, e Rhys sul momento trasalì. Quindi si rese conto che la voce apparteneva a Nightshade.
“Rhys! Ci si può fidare a entrare?” gridò il kender dall’esterno della grotta. “Zeboim se n’è andata?”
“Se n’è andata.” Per il momento, soggiunse Rhys fra sé, sicuro che questa non sarebbe stata l’ultima visita della dea.
Nightshade entrò con cautela, fissando attentamente le ombre come fosse stato sicuro di vedersela balzare addosso. Poi vide il fuoco e schioccò le dita.
“Ops, sapevo di essermi dimenticato qualcosa, dovevo andare a prendere dell’esca…”
“Non serve più”, disse Rhys, sorridendo.
“Già, lo vedo. Immagino di essermi dimenticato dell’esca perché ero tanto emozionato per avere trovato qualcos’altro. Non volevo portarlo dentro se c’era ancora tu sai chi. Ma, visto che se n’è andata, vado a prenderlo.”
Balzò fuori dalla grotta e ritornò portando un pezzo di legno lungo e sottile. Lo porse con orgoglio a Rhys.
“L’ho trovato portato a riva dall’acqua. Non ti ricorda il tuo vecchio bastone? L’emetico o come lo chiamavi? Comunque io e Atta abbiamo pensato che saresti stato capace di usarlo.”
“Emmide”, disse sottovoce Rhys. Prese in mano il bastone, lo strinse con le dita. Un calore piacevole gli si insinuò nel braccio e gli si diffuse in tutto il corpo. E fu in questo calore che udì la voce del dio, conobbe la risposta di Majere.
Rhys appoggiò il bastone alla parete e stese il vestitino bagnato della bambina accanto al fuoco ad asciugare. Lei dormiva profondamente, il suo respiro era regolare e tranquillo. Rhys si accasciò a terra e si appoggiò alla parete. Era esausto, mentalmente e fisicamente. Non si ricordava quando avesse dormito l’ultima volta.
“Ho sentito Zeboim urlare contro di te. Che cosa voleva?” domandò Nightshade.
“Tu e Atta avevate ragione. Questa bambina è Mina”, disse Rhys. Chiuse gli occhi.
“Oooh, ragazzi!” sospirò Nightshade.
Si staccò di dosso i borsellini, quindi si tolse gli stivali e li svuotò dell’acqua, disponendoli poi vicino alla fiamma per asciugarli.
“I miei stivali odorano ancora di maiale salato”, disse. “E questo mi fa venire in mente che è passato tanto tempo dalla cena. Chissà se è rimasto un po‘“di quel maiale.”
Andò al barile di carne di maiale salata che il minotauro aveva lasciato loro per cibarsene, e vi scrutò dentro. Atta lo osservava speranzoso. Il kender scrollò il capo, e gli orecchi della cagna si abbassarono.
“Oh, bè. Immagino che possiamo aspettare l’ora del pranzo, vero, ragazza?” disse Nightshade, dandole una pacca. “Dì un po’, Rhys, Zeboim ti ha detto come ha fatto Mina a trasformarsi in una bambina? Ho sentito dire di persone invecchiate di dieci anni da un giorno all’altro, ma mai del contrario. La dea c’entrava qualcosa in questo? Eh? Rhys?”
Il kender gli diede un colpetto. “Rhys, stai dormendo?”
“Come?” Rhys si svegliò di soprassalto.
“Scusa”, disse Nightshade con rimorso. “Non volevo svegliarti.”
“Non importa. Non avevo intenzione di addormentarmi. Qual era la tua domanda?” chiese con pazienza Rhys.
“Domandavo se questa è opera di Zeboim. Sembra che le piaccia rimpicciolire la gente.” Il kender era ancora risentito per quella volta che la dea lo aveva ridotto alle dimensioni di un pezzo del khas e l’aveva ficcato dentro la sacca di Rhys e poi li aveva spediti entrambi a combattere contro un cavaliere della morte.
Rhys scrollò il capo. “La Dea del Mare è rimasta sconvolta vedendo Mina bambina.”
“E allora che cosa ha detto che è successo?”
“Secondo Zeboim, Mina è una dea che non sa di essere una dea. Una dea convinta con l’inganno da Takhisis a ritenersi umana. Mina è una dea del Bene, indotta col raggiro a servire il Male.”
Nightshade scrutò Rhys stringendo gli occhi. “Hai preso di nuovo un colpo in testa?”
“Sto benissimo”, lo rassicurò Rhys.
“Mina è una dea.” Nightshade sbuffò. “Se lo chiedi a me, è tutto un ammasso di sciocchezze. Questa è opera di Zeboim. Ha trasformato Mina in una bambina e l’ha mandata da noi giusto per infastidirci.”
“Non credo”, disse con calma Rhys. “Mina si è svegliata quando tu non c’eri. Mi ha detto di essere scappata di casa e mi ha chiesto di riportarla indietro.”
Nightshade trovò incoraggiante questa notizia. “Ecco, vedi? Dove vuole andare la bambina? A Flotsam? Non è lontana, giusto più in su lungo la costa. Probabilmente è stata portata via dal mare…”
“Godshome”, disse Rhys.
Nightshade aggrottò la fronte. “Godshome? La Casa degli Dei? Non è una località. Nessuno vive a Godshome tranne gli…”
Deglutì, strabuzzò gli occhi ed emise un lieve fischio che fece contrarre gli orecchi ad Atta.
“Non credo che Zeboim le abbia suggerito di dire così”, soggiunse Rhys con un sospiro.
Nightshade guardò Mina e si morse il labbro inferiore. All’improvviso si illuminò.
“Scommetto che hai sentito male. Scommetto che ha detto “Goat’s Home, Casa della Capra”.”
“Goat’s Home?” ripeté Rhys, sorridendo. “Non ho mai sentito nominare un posto simile, amico mio.”
“Tu non sai tutto”, affermò Nightshade, “anche se sei un monaco. Ci sono tanti e tanti posti di cui non hai mai sentito parlare”.
“Io ho sentito davvero parlare di Godshome”, disse Rhys.
“Smettila di dire questa cosa!” ordinò Nightshade. “Lo sai che non ci andremo. Non è possibile.”
“E perché?” Rhys sbadigliò ancora.
“Bè, innanzitutto perché nessuno sa dove sia Godshome o se esista. In secondo luogo, se Godshome è da qualche parte, è vicino a Neraka, e questo è un posto brutto, un posto bruttissimo. In terzo luogo: se Godshome è vicino a Neraka, questo vuol dire che è lontano da qui, dall’altra parte del continente, e ci vorrebbero mesi, forse anni, per arrivarci…”
Nightshade si interruppe. “Rhys? Rhys! Stai ascoltando i miei motivi?”
Rhys non ascoltava. Stava seduto con la schiena contro la parete, la testa china in avanti, il mento appoggiato al petto. Era addormentato profondamente, tanto profondamente che la voce del kender e perfino un paio di colpetti sul braccio non riuscirono a svegliarlo.
Nightshade sospirò, poi si alzò e andò dalla bambina, accovacciandosi per fissarla attentamente. Di certo non aveva l’aspetto di una dea. Pareva un topolino annegato. Il kender percepì di nuovo quella tristezza opprimente che aveva provato quando aveva visto Mina, la Mina adulta. Non gli piacque, cosicché si asciugò gli occhi e il naso sulla manica e quindi tornò a dare un’occhiata furtiva a Rhys.
Il suo amico era ancora addormentato e probabilmente avrebbe dormito a lungo. Abbastanza a lungo perché Nightshade potesse fare una chiacchierata con questa bambina (chiunque fosse) e dirle che il posto dove realmente voleva andare era la fiorente metropoli di Goat’s Home e che ci sarebbe dovuta andare da sola, e che sarebbe dovuta partire subito in silenzio, per non disturbare Rhys.
“Ehi, bambina”, sibilò Nightshade, allungando la mano per scuoterla in modo da svegliarla.
La mano rimase ferma, sospesa a mezz’aria. Le dita presero a tremargli leggermente al pensiero di toccarla davvero, e il kender ritrasse la mano con uno strattone. Continuò a restare lì accovacciato, scrutando Mina e mordendosi il labbro.
Che cosa vedeva quando la guardava? Che cosa la rendeva diversa ai suoi occhi dagli altri mortali? Che cosa la rendeva diversa dai morti che lui vedeva e con cui parlava? Che cosa la rendeva diversa dai morti viventi? Nightshade guardò attentamente la bambina, e di nuovo le lacrime gli sgorgarono agli occhi. Vedeva bellezza, una bellezza inimmaginabile. Una bellezza che eclissava il tramonto più radioso e splendido e al confronto faceva sembrare pallide e banali le stelle. La sua bellezza gli faceva ammutolire per lo sgomento l’anima, per timore che il sussurro più lieve potesse fargli svanire quella visione meravigliosa. Ma non era la bellezza a stringergli il cuore e a rigargli le guance di lacrime.
La sua bellezza era rivestita di bruttezza. Mina era macchiata di sangue, avvolta nel sudario della morte e della distruzione. Malefico, terrificante e orribile, vi era su di lei un drappo funebre.
“È davvero una dea”, disse con un sussurro. “Una dea della luce che ha fatto cose veramente orribili. Io l’ho sempre saputo. Solo che non sapevo di saperlo. Per questo mi sentivo tutto piagnucoloso dentro.”
Nightshade non pensava di poterlo spiegare a Rhys, perché non era sicuro di poterlo spiegare a se stesso. Decise di discuterne con Atta. Aveva scoperto che dire le cose a un cane era molto più facile che parlare con gli esseri umani, principalmente perché Atta non faceva mai domande.
Ma quando si girò per parlare di Mina con Atta, vide che la cagna si era girata sul fianco ed era profondamente addormentata.
Nightshade si accasciò contro la parete accanto a Rhys. Il kender se ne stava lì seduto, meditando su pensieri strabilianti, e ascoltando il respiro sommesso di Rhys, della bambina, di Atta, e del vento, che fischiava sulle dune di sabbia, mentre le onde si frangevano a riva per poi ritrarsi incessantemente…
Nightshade si svegliò di colpo, sobbalzando per via dell’abbaiare di Atta.
Atta era in piedi. Aveva le zampe rigide, il pelo ritto attorno al collo, e fissava attentamente l’ingresso della grotta. Nightshade udiva uno scricchiolio, come di passi pesanti che si avvicinassero nella loro direzione.
Erano vicini e si avvicinavano ulteriormente.
Atta abbaiò di nuovo, aspramente, per avvertimento. Mina si scosse a quel rumore e si tirò il panno sopra la testa, rimettendosi a dormire. Il pesante scricchiolio si interruppe. Sull’ingresso si stagliò un’ombra, che oscurò il sole.
“Monaco! Lo so che sei lì dentro.”
La voce era attutita, eppure Nightshade non ebbe difficoltà a riconoscerla.
“Krell!” guaì. “Rhys, è Krell!”
Nightshade era immune dalla paura come qualsiasi kender, ma era anche dotato di parecchio buonsenso più di quasi tutte quelle creature; un fatto che attribuiva all’avere trascorso molto tempo a conversare con i morti. E così, anziché correre fuori a salutare il cavaliere della morte, come avrebbe fatto qualunque altro kender, Nightshade indietreggiò freneticamente a quattro zampe e urlò di nuovo per chiamare Rhys.
“Sono sveglio”, disse con calma Rhys.
Era in piedi, con l’emmide fra le mani.
“Atta, silenzio. Qui.”
La cagna trotterellò per mettersi accanto a lui. Non abbaiava più, ma continuava a ringhiare.
Krell entrò baldanzoso nella grotta. Non indossava più la maledetta armatura di cavaliere della morte. La sua armatura era quella della morte. L’elmo era un cranio di ariete. Le corna si incurvavano all’indietro dalla testa, e gli occhi di Krell erano visibili dentro le orbite del cranio. La corazza era fatta di osso: la parte superiore del cranio di qualche bestia gigantesca. Le braccia e le gambe erano rivestite di osso, come se lui portasse lo scheletro all’esterno del corpo. Dalle mani e dai gomiti e dalle spalle spuntavano protuberanze ossee, e Krell portava una spada con impugnatura d’osso.
Era uno spettacolo temibile, eppure gli occhi che brillavano da dietro il cranio d’ariete non ardevano del fuoco terrificante dei morti viventi. Quegli occhi erano opachi e inespressivi. Krell non puzzava di morte. Puzzava e basta: sudava sotto il peso dell’armatura. Aveva il respiro affannoso, poiché l’armatura era pesante e lui era stato costretto a percorrere a piedi tutta la strada dal castello a qui.
Nightshade smise di strisciare e si risedette sui talloni.
“Krell, sei vivo!” disse Nightshade, anche se non era sicuro che questo fosse un miglioramento. “Non sei più un cavaliere della morte!”
“Zitto!” ringhiò Krell. Si guardò attorno nella grotta con aria indagatrice, diede un’occhiata priva di interesse alla bambina addormentata, guardò torvo il kender, quindi si volse nuovamente verso Rhys. “Sono venuto a cercare Mina. In nome del mio signore Chemosh, esigo di sapere dove si trovi.”
“Non qui”, disse prontamente Nightshade. “Noi non sappiamo dove sia. Non l’abbiamo vista, vero, Rhys?”
Rhys taceva.
Krell strinse gli occhi. Seppure fiocamente illuminata, la grotta non era molto grande e non vi erano angoli o anfratti dove potesse nascondersi qualcuno.
“Dov’è Mina?” domandò di nuovo Krell.
“Puoi vedere tu stesso”, disse ad alta voce Nightshade. “Non è qui.”
“E allora dov’è?” domandò Krell. Teneva lo sguardo fisso su Rhys. “Ti ricordi l’ultima volta che ci siamo incontrati, monaco? Ti ricordi quello che ti ho fatto? Ti ho spezzato quasi ogni osso della mano. Adesso non sprecherò tempo a spezzare ossa. Ti stacco semplicemente la mano dal polso…”
Krell sguainò la spada e fece un passo verso Rhys.
“Atta, ferma…” cominciò a dire Rhys, ma era troppo tardi.
Atta si scagliò contro Krell e gli affondò i denti nel polpaccio, una parte della gamba lasciata priva di protezione dagli schinieri d’osso.
Krell ululò di dolore e, girandosi sui tacchi, si esaminò la gamba. Stillava sangue da due file di impronte di denti. Krell ringhiò per la collera e cercò di colpire di taglio la cagna con la spada. Mentre Atta abilmente si toglieva di mezzo con un balzo, Rhys bloccò il colpo di Krell col proprio bastone.
Krell sbuffò di derisione e colpì di taglio il bastone con la lama, pensando di spezzarlo. Rhys rapidamente sollevò il bastone e percosse la mano di Krell, facendogli mollare la presa sulla spada. Krell strinse le dita e guardò furioso Rhys, che era indietreggiato di un passo.
Krell si chinò per recuperare la spada.
“Atta, guardia”, disse Rhys.
Atta si accovacciò sopra la spada. Contrasse il labbro all’indietro scoprendo i denti e morse ferocemente la mano di Krell. Questi la ritrasse di scatto, con le dita insanguinate.
“Credo che tu debba andartene, adesso”, disse Rhys. “Riferisci al tuo padrone che la Mina che cerchi non è con me.”
“Sei un bugiardo disgustoso, monaco!” disse Krell. L’alito che fuoriusciva dall’elmo a forma di cranio era putrido. “Tu lo sai dov’è e me lo dirai. Mi scongiurerai di dirmelo! Non mi serve la spada per ucciderti in un’infinità di modi crudeli.”
Rhys non provava paura, come l’aveva provata precedentemente in presenza del cavaliere della morte. Provava disgusto, repulsione.
Krell non era spinto a uccidere da una sacra maledizione. Krell adesso uccideva per motivi futili, meschini. Uccideva perché provava diletto nel dolore e nella paura della sua vittima, e perché gli piaceva reggere fra le mani sudice il potere sulla vita e sulla morte.
“Atta”, disse calmo Rhys, “vai da Nightshade”.
Il kender afferrò la cagna ringhiante e le strinse il muso con la mano.
“Lascia che ci pensi Rhys”, le sussurrò.
“Mi basta dire una parola a Chemosh, monaco”, disse Krell, “e lui ti scorticherà vivo, tanto per cominciare…”.
Rhys afferrò saldamente il bastone con le mani, per poi tenerlo dritto davanti a sé. Non aveva idea se questo bastone fosse benedetto come l’altro. Forse sì. Forse no. Sapeva che Majere era dalla sua parte. Percepiva il dio sotto la forma di un coacervo di pace e calma e tranquillità.
Il bagliore negli occhi di Krell si fece maligno.
“Me lo dirai.”
Andò verso la bambina, che in tutto quel trambusto aveva continuato a dormire, e abbassando la mano la afferrò per i capelli e la strappò dal sonno.
Mina rimase senza fiato e poi gridò. Dimenandosi nella stretta di Krell, cercò di liberarsi.
Krell la strinse forte e le mise la mano enorme attorno alla gola.
Mina si lasciò sfuggire un lieve gemito e si irrigidì sotto le grinfie dell’uomo.
“Mi sono sempre piaciute giovani”, ridacchiò Krell. “Eccoti un accenno a quello che accadrà alla bambina se tu non parli, monaco.”
Krell affondò le unghie lunghe, gialle, scheletriche nella gola di Mina. Sottili strie di sangue colarono dai tagli nella carne. Mina trasalì per il dolore, ma non emise alcun suono. I suoi occhi d’ambra si indurirono con ferrea determinazione.
“Oh-oh”, disse Nightshade, e trascinò Atta all’indietro contro la parete.
“La prossima volta faccio un taglio più profondo. Dov’è Mina?” domandò Krell, guardando furioso Rhys.
Ma fu Mina a rispondere.
“Proprio qui”, disse.
Afferrò il bracciale d’osso dell’armatura di Krell e vi affondò le dita. Il bracciale si spezzò e cadde a terra. Mina continuò ad affondare le dita in profondità e da sotto le dita cominciò a sgorgare del sangue.
Krell grugnì per il dolore e cercò di liberare il braccio strattonandolo.
Mina gli torse il braccio. Le ossa si spezzarono, Krell urlò di dolore e, gemendo, cadde in ginocchio. Dalla carne insanguinata, colorata di blu, si vedevano spuntare i margini frastagliati di un osso ricoperto di sangue.
Mina lo fissò con lo sguardo furioso.
“Mi hai fatto male. Sei un uomo cattivo.” Arricciò il naso. “E poi puzzi. Non mi piaci. Io mi chiamo Mina. Che cosa vuoi da me?”
“Che razza di trucco è mai questo?” ringhiò lui.
“Rispondimi!” Mina gli sferrò un calcio sulla coscia rivestita dall’armatura. L’armatura d’osso si spezzò in due.
Krell gemette. “Mi ha mandato Chemosh…”
“Chemosh. Non conosco nessun Chemosh”, disse Mina. “E se è un tuo amico, non voglio conoscerlo. Vattene e non tornare più.”
“Non so che cosa stia succedendo”, disse ferocemente Krell. “Ma non importa. Che cerchi di capirlo il padrone.”
Col braccio buono, afferrò la mano di Mina e ruggì: “Chemosh! L’ho presa…”.
Rhys balzò in avanti, facendo oscillare il bastone verso la testa di Krell. L’emmide sibilò nell’aria vuota. Rhys abbassò il bastone, guardandosi attorno sbalordito. Krell era scomparso.
“Rhys”, gridò Nightshade con voce strozzata. “Guarda su.”
Il kender puntò il dito verso l’alto.
Krell era appeso a testa in giù, sospeso alla volta della grotta con un tratto di corda legato attorno allo stivale. L’elmo a cranio di ariete gli era caduto e adesso era posato a terra ai piedi di Mina.
Krell aveva gli occhi fuori dalle orbite. La bocca gli si spalancava e gli si richiudeva. Il braccio spezzato gli penzolava inerme. Krell si agitava, scalciando col piede, ma riusciva soltanto a dimenarsi ruotando a mezz’aria.
Mina alzò lo sguardo verso Rhys.
“Non ho più sonno. È ora di andare.”
Rhys guardò su verso Krell, che si dimenava e ruotava sul suo filo intessuto da una divinità, e chiedeva, implorava Chemosh di venire a salvarlo. Rhys guardò Nightshade, che fissava Mina con occhi atterriti… e non è facile spaventare un kender.
Mina allungò la mano e prese quella di Rhys.
“Devi portarmi a casa, signor monaco”, gli rammentò. “Me l’hai promesso.”
Rhys non riusciva a rispondere. Una sensazione di soffocamento al petto gli rendeva difficile respirare. Stava cominciando a capire l’enormità del compito che aveva intrapreso.
“Avanti, signor monaco!” Mina lo strattonava con impazienza.
“Mi chiamo Rhys Mason”, disse Rhys, cercando di scandire le parole con un tono disinvolto. “E questo è il mio amico Nightshade.”
“P-piacere di conoscerti”, disse Nightshade con un filo di voce.
“Come si chiama il cane?” domandò Mina. Abbassò la mano per accarezzare Atta, la quale si rannicchiò sotto il tocco della dea bambina e avrebbe voluto allontanarsi strisciando, ma Nightshade la tratteneva. “E una bella cagnetta, mi piace. Ha morso quell’uomo cattivo.” “Si chiama Atta.” Rhys inspirò profondamente. Si inginocchiò, mettendosi al livello degli occhi di lei. “Mina, perché vuoi andare a Godshome?”
“Perché è lì che sta mia mamma”, rispose Mina. “Mi aspetta lì.”
“Come si chiama tua mamma?” domandò Rhys.
“Goldmoon”, disse Mina.
Nightshade emise un suono strozzato.
“Mia mamma si chiama Goldmoon”, stava dicendo Mina, “e mi aspetta a Godshome, e tu mi accompagnerai lì da lei”.
“Rhys”, disse Nightshade, “posso parlarti un momento? In privato?”.
“Non stiamo andando?” domandò con impazienza Mina.
“Fra un attimo”, disse Rhys.
“Oh, va bene. Vado a giocare fuori”, dichiarò Mina. “La cagna può venire con me?” Corse verso l’ingresso della grotta e si girò per chiamare: “Atta! Vieni, Atta!”.
Rhys fece un gesto con la mano. Atta gli lanciò un’occhiata di rimprovero, poi, con gli orecchi bassi, sgattaiolò fuori della grotta.
“Rhys”, disse Nightshade apostrofandolo, “in nome di Chemosh, Mishakal, Chislev, Sargonnas, Gilean, Hiddukel, Morgion e… e tutti gli altri dei che in questo momento non mi vengono in mente, che cosa pensi di fare?”.
Rhys raccolse gli stivali di Nightshade e glieli porse.
Nightshade scagliò via gli stivali.
“Rhys, quella bambina è una dea! Non solo, è una dea che è andata fuori di testa!” Nightshade agitò le braccia per sottolineare le sue parole. “Vuole che la portiamo a Godshome, un posto che forse non esiste nemmeno, per incontrare Goldmoon, una donna che è morta da anni! Quella bambina è suonata, Rhys! Rimbambita! Pazza! Svitata!”
“Chemosh”, ululava Krell. “Figlio di cagna! Vieni a tirarmi fuori di qui!”
Nightshade agitò il pollice verso l’alto.
“Che succederà quando Mina si arrabbierà con noi? Forse ci spedisce su una luna e ci abbandona lì. Oppure solleva una montagna e ce la sbatte in testa. Oppure ci dà in pasto a un drago.”
“Ho fatto una promessa”, disse Rhys.
Nightshade sospirò e, sedendosi, si infilò uno stivale e lo strattonò.
“Hai fatto quella promessa prima di conoscere tutti i fatti”, affermò Nightshade, infilandosi l’altro stivale. “Sai almeno dov’è Godshome, ossia se esiste?”
“Secondo la leggenda, Godshome è sui monti Khalkist, da qualche parte vicino a Neraka”, rispose Rhys.
“Oh, bè, va benissimo”, brontolò Nightshade. “Neraka è il luogo più orribile e malvagio del continente. Senza parlare che si trova dall’altra parte del mondo.”
“Non proprio così lontano”, disse Rhys, sorridendo.
Uscirono dalla grotta, dove Krell era ancora appeso alla volta, si contorceva e imprecava. Chemosh sembrava non avere fretta di soccorrere il suo paladino.
“A mio parere, ti sei fatto infinocchiare”, proseguì Nightshade. Si fermò all’ingresso, alzando lo sguardo verso l’amico. “Rhys, voglio che tu tenga presente una cosa.”
“Che cosa, amico mio?”
“La nostra storia è finita, Rhys”, disse seriamente Nightshade. “Abbiamo avuto un lieto fine, tu, Atta ed io. Chiudiamo il libro e andiamo a casa.”
Il kender fece un gesto verso Mina, che correva fra le dune di sabbia, ridendo freneticamente. “Questo è affare di dei, Rhys. Non dovremmo immischiarci.”
“Una persona saggia una volta mi ha detto: “Non puoi abbandonare un dio””, disse Rhys.
“La persona che te l’ha detto era un kender”, ribatté scontroso Nightshade. “E lo sai che di loro non ci si può fidare.”
“Io ho affidato la mia vita a uno di loro”, disse Rhys, posando la mano sulla testa di Nightshade. “E non mi ha tradito.”
“Bè, allora sei stato fortunato”, mormorò Nightshade. Si ficcò le mani in tasca e scalciò una pietra.
“La mia storia non è finita. Non finisce realmente mai la storia di nessuno. La morte è soltanto un ulteriore atto di voltare pagina. Ma tu hai ragione, amico mio”, disse Rhys con un sospiro involontario. “Viaggiare con lei sarà pericoloso e difficile. La tua storia non sarà finita, ma forse adesso tu dovresti voltare pagina, imboccare un percorso diverso.”
Nightshade ci pensò su. “Sei sicuro che Majere non mi aiuterà a scassinare le serrature?”
“Non so dirlo con certezza”, rispose Rhys, “ma veramente ne dubito”.
Nightshade alzò le spalle. “Allora penso che resterò con te. Altrimenti morirei di fame.”
Sorrise e ammiccò. “Sto scherzando, Rhys! Lo sai che non lascerei mai te e Atta. Che cosa fareste voi due senza di me? Vi fareste uccidere da qualche dio impazzito!”
Questa potrebbe comunque essere la fine della nostra storia, pensò Rhys. Chemosh non sarà l’unico dio a cercare Mina.
Tenne però per sé il pensiero e, fischiando ad Atta, porse la mano a Mina, che arrivò da lui saltellando.
Mina si incamminò, ma non si diresse verso la strada. Prese a camminare verso il mare.
“Pensavo volessi andare a Godshome”, disse Nightshade, che non era di buon umore. “Che cosa vorresti fare? Andarci a nuoto?”
“Oh, andremo a Godshome”, disse Mina. “Ma prima voglio che veniate con me alla torre.”
“Quale torre?” domandò Nightshade. “Ci sono tante torri nel mondo. C’è una torre molto famosa nel Nightlund. Io ho sempre desiderato visitare il Nightlund, perché è pieno di spiriti vaganti dei morti. Io so parlare agli spiriti vaganti, se mai tu…”
“Quella torre lì.” Mina soggiunse con orgoglio: “La mia torre”.
Indicò la torre che si ergeva in mezzo al Mare di Sangue.
“Perché vuoi andare lì?” domandò Rhys.
“Perché è pazza”, disse sottovoce Nightshade.
Rhys gli lanciò un’occhiata, e il kender si immerse in un silenzio malinconico.
Mina rimase lì a guardare verso il mare.
“Mia mamma sarà furiosa con me perché sono scappata”, disse Mina. “Voglio portare a Goldmoon un regalo, così mi perdonerà.”
Rhys rammentò il Riverito Figlio Patrick, chierico di Mishakal, raccontare la storia di Goldmoon e di Mina. Quando Mina scappò, Goldmoon piangeva la figlia perduta e sperava che un giorno o l’altro ritornasse. Poi venne Takhisis, l’Unico Dio, ed ebbe inizio la Guerra delle Anime con Mina che guidava gli eserciti delle tenebre. Sperando di portare Goldmoon, ormai anziana e fragile, dalla parte delle tenebre, Takhisis le conferì giovinezza e bellezza. Goldmoon non rivoleva la giovinezza. Era pronta a morire, per passare alla fase successiva del viaggio della vita dove la attendeva il suo amato Riverwind. Anche se Mina cercò di persuadere Goldmoon a cambiare idea, Goldmoon sfidò Takhisis e morì fra le braccia di Mina.
Goldmoon doveva essere morta in preda al dispiacere, si rese conto Rhys, ritenendo che la figlia da lei amata fosse perduta per sempre, votata al male. Non si meravigliava che Mina avesse cancellato questo ricordo.
Rhys decise di dovere perlomeno compiere un tentativo per aiutarla a capire la verità.
“Mina”, disse Rhys, prendendo per mano la bambina, “Goldmoon è morta. È morta molti, ma molti anni fa…”.
“Ti sbagli”, disse Mina serenamente, parlando con certezza incrollabile. “Goldmoon mi aspetta a Godshome. Ecco perché sto andando lì. Per pregarla di non essere più furiosa con me. Le porterò un dono, così mi vorrà bene di nuovo.”
“Goldmoon non ha mai smesso di volerti bene, Mina”, disse Rhys. “Le madri non smettono mai di voler bene ai loro figli.”
Mina rispose al suo sguardo, con gli occhi spalancati. “Nemmeno se fanno cose brutte? Cose davvero, ma davvero brutte?”
Rhys fu colto di sorpresa dalla domanda. Se questa era davvero pazzia, racchiudeva una saggezza strana e terribile.
Le posò la mano sulla spalla sottile. “Nemmeno allora.”
“Può darsi”, disse Mina, ma il tono sembrava dubbioso. “Ma non si può esserne certi, e allora io voglio portare un dono a Goldmoon. E il dono che voglio portarle è dentro quella torre.” “Che genere di torre è?” domandò Nightshade, sopraffatto dalla curiosità. “Da dove è venuta fuori?”
“Non è venuta da nessuna parte, stupido”, lo schernì Mina. “È sempre stata lì.”
“No, non è vero”, ribatté Nightshade.
“Invece sì.”
“No…” Nightshade colse lo sguardo di Rhys e cambiò argomento. “Allora chi l’ha costruita, se è stata lì per tutto questo tempo?”
“L’hanno costruita i maghi. Era una Torre dell’Alta Magia. Ma adesso è la mia torre.” Mina lanciò a Nightshade un’occhiata provocatoria, sfidandolo a dissentire. “E il dono per Goldmoon è lì dentro.”
“Una Torre dell’Alta Magia!” Nightshade rimase senza fiato e a bocca aperta. “Ci sono maghi lì dentro?”
Mina alzò le spalle. “Immagino di sì. Non lo so. I maghi sono comunque stupidi, per cui non importa. Che aspettiamo? Andiamo.”
“La torre è in mezzo al mare, Mina”, disse Rhys. “Noi non abbiamo una barca…”
“Giusto!” intervenne allegramente Nightshade. “Ci piacerebbe tanto visitare la tua torre, Mina, ma non possiamo. Niente barca! Dite un po’, qualcun altro ha fame? Ho sentito dire che a Flotsam c’è una taverna che fa un pasticcio di carne davvero buono…”
“Ecco una barca”, lo interruppe Mina. “Dietro di te.”
Nightshade si guardò dietro le spalle. Come previsto, una piccola barca a vela era lì tirata in secco, a neanche quindici passi da dove si trovavano loro.
“Rhys, fai qualcosa”, disse Nightshade a mezza bocca. “Io e te sappiamo che un attimo fa lì non c’era nessuna barca. Io non voglio navigare su una barca che prima non c’era…”
Mina, emozionata, prese a tirare Rhys verso la barca a vela. Nightshade, sospirando profondamente, li seguì, strascicando i piedi. “Tu sai almeno come si naviga con questo coso?” domandò: “Scommetto di no.”
“Io scommetto di sì”, rispose Mina soddisfatta. “L’ho imparato alla Cittadella.”
Nightshade sospirò di nuovo. Mina si arrampicò sulla barca e prese a rovistare qua e là, selezionando un groviglio di cime e istruendo Rhys su come issare la vela. Nightshade se ne stava in piedi accanto alla barca, col labbro inferiore sporgente.
Mina lo osservò pensosamente per un attimo. “Hai detto di avere fame. Qualcuno potrebbe avere lasciato del cibo sulla barca. Adesso guardo.” Tastò qua e là sotto una delle tavole che facevano da sedili e si rialzò tenendo in mano un grosso sacco.
“Avevo ragione!” annunciò soddisfatta. “Guarda che cosa ho trovato.”
Infilò una mano nel sacco e ne estrasse un pasticcio di carne, che porse a Nightshade.
Questi non lo toccò. Aveva l’aspetto di un pasticcio di carne e certamente ne aveva l’odore. Tanto la sua bocca quanto il suo stomaco concordavano sul fatto che fosse decisamente un pasticcio di carne, e Atta aggiunse pure il suo voto a favore. La cagna scrutò il pasticcio e si leccò i baffi.
“Hai detto di avere davvero fame”, gli rammentò Mina.
Comunque Nightshade esitava. “Non so…”
Atta prese la situazione in mano, o meglio in bocca. Un balzo, un morso, un paio di bocconi, e del pasticcio di carne rimase una macchia di grasso sul suo naso.
“Ehi!” gridò indignato Nightshade. “Era mio.”
Atta si passò la lingua sul naso e prese a dare colpetti con la zampa al sacco, con aria affamata. Rhys recuperò il resto dei pasticci e li distribuì. Mina sbocconcellò il suo e finì col darlo da mangiare quasi tutto ad Atta. Nightshade si mangiò il suo avidamente e, notando che Rhys non riusciva a finire il suo, il kender se lo mangiò. Aiutò Rhys a issare la vela e, agendo sotto la guida di Mina, spinse la barca verso le onde. Mina afferrò la barra del timone e guidò la barca verso il vento. Le onde si erano calmate. Una leggera brezza gonfiò la vela e la barca scivolò sulle onde, puntando verso il mare. Atta si accovacciò sul fondo, annusando speranzosa il sacco.
“Per essere un pasticcio di produzione divina, non era male”, osservò Nightshade, accasciandosi sul sedile accanto a Rhys quando la barca a vela sbandò inaspettatamente. “Forse un po‘“meno cipolla e un po‘“più di aglio. La prossima volta credo che le chiederò di cucinare una bistecca di manzo con patatine croccanti…”
“Dovremmo stare molto attenti a non chiedere nulla”, suggerì Rhys.
Nightshade ci rimuginò su.
“Sì, credo che tu abbia ragione. Potremmo ottenerlo.” Il kender spostò lo sguardo verso la torre. “Che cosa sai delle Torri dell’Alta Magia?”
Rhys scrollò il capo. “Non molto, temo.”
“Neanch’io. E devo dire che non sto proprio pregustando l’esperienza. Ai maghi non piacciono i kender, per qualche motivo. Potrebbero trasformarmi in rana.”
“A Sua Signoria Jenna piacevi”, gli rammentò Rhys.
“E vero. Mi ha dato solo uno schiaffo sulla mano.”
Nightshade afferrò il capodibanda quando la barca fece un’altra sbandata improvvisa. Adesso navigavano piuttosto rapidi, rimbalzando sulle onde, e la torre si avvicinava. Appariva estremamente scura. Nemmeno la vivida luce solare che brillava sulle pareti di cristallo sembrava in grado di rischiararla.
“Suppongo che molti kender darebbero il loro ciuffo per visitare una Torre dell’Alta Magia, ma d’altronde immagino di non essere come molti kender”, osservò Nightshade. “Mio padre diceva di no. Diceva che era dovuto al fatto che io trascorrevo il mio tempo nei cimiteri a parlare con i morti. Hanno avuto un influsso negativo su di me.” Al che Nightshade parve un po‘“abbattuto.
“Penso che molti kender darebbero il loro ciuffo per essere capaci di fare queste cose”, gli disse Rhys.
Nightshade si grattò la testa. Non ci aveva mai pensato. “Lo sai, potresti avere ragione. Ehi, mi ricordo che una volta ho incontrato un altro kender a Solace, e quando gli ho detto che io ero un nightstalker lui mi ha detto…”
Nightshade si interruppe. Guardò fisso verso il mare. Sbatté gli occhi, se li strofinò, guardò di nuovo, quindi strattonò la manica di Rhys.
“C’è gente là fuori in acqua…” gridò Nightshade. “Forse stanno annegando! Dobbiamo aiutarli, salvarli!”
Allarmato, Rhys si arrischiò ad alzarsi in piedi nella barca che rollava, per vedere meglio. Inizialmente non riuscì a distinguere altro che uccelli marini e di quando in quando uno spruzzo di schiuma bianca. Quindi vide in acqua una persona, poi un’altra, e un’altra ancora.
“Mina!” gridò Nightshade. “Guida la barca verso quelle persone…”
“No, non farlo”, disse all’improvviso Rhys.
Le persone si trovavano lontano dalla riva, eppure nuotavano con vigore, non si agitavano né si sbracciavano. Erano centinaia, e nuotavano, lontano da riva, diretti verso la torre…
“Rhys!” gridò Nightshade. “Rhys, sono Prediletti e nuotano verso la torre. Mina, ferma! Fai virare la barca!”
Mina scrollò il capo. Aveva gli occhi d’ambra che brillavano di piacere, le labbra aperte in un sorriso, e rideva per il semplice motivo di provare una gioia pura. La barca a vela navigava più veloce, sembrava saltare sopra le onde.
“Mina!” gridò Rhys con frenesia. “Fai virare la barca!”
Lei lo guardò, sorrise e agitò una mano.
“Quelle persone sono pericolose!” gridò Rhys, puntando il dito in direzione dei morti viventi, alcuni dei quali avevano raggiunto la torre e si arrampicavano a riva. Rhys ne vedeva molti altri ammassati attorno all’ingresso. “Dobbiamo tornare indietro!”
Mina fissò i Prediletti con stupore, che rapidamente si tramutò in sgomento e poi in collera.
“Non è affar loro andare nella mia torre”, disse puntando la barca direttamente verso di loro.
“Rhys!” ululò Nightshade.
“Non posso farci niente”, disse Rhys, e per la prima volta capì veramente l’estremo pericolo di quella situazione.
Come poteva tenere sotto controllo una bambina di sei anni che poteva appendere per le caviglie al soffitto uno scagnozzo di Chemosh, evocare una barca a vela e produrre pasticci di carne a piacimento?
All’improvviso si sentì in collera. Perché con lei non se la sbrigavano gli dei stessi? Perché la affibbiavano a lui?
La barca ebbe uno scarto improvviso. L’emmide, che era posato sul sedile accanto a Rhys, gli rotolò contro la mano. Rhys lo afferrò e, sebbene il bastone fosse umido e viscido per la schiuma salata, di nuovo percepì un calore confortevole. Un dio, perlomeno, aveva le sue ragioni…
“Rhys! Ci stiamo avvicinando!” avvertì Nightshade.
Ormai erano vicinissimi alla torre. I Prediletti avevano già invaso l’isola, che non era molto grande, e altri continuavano ad arrivare. Alcuni nuotavano. Alcuni strisciavano fuori dal mare come se avessero camminato sul fondo marino. Si arrampicavano sugli scogli, qualche volta scivolavano e ricadevano in acqua, ma ritornavano sempre. Erano perlopiù umani, giovani e forti, e tutti erano morti, eppure orribilmente vivi, incatenati a un mondo di dolore insopportabile, vittime del bacio terribile di Mina. A Rhys doleva il cuore nel vederli.
“Che cosa ci fate lì?” gridò rabbiosamente Mina. “Questa è la mia torre.”
Diede uno strattone al timone, per togliere vento alla barca. La vela si afflosciò e sbatté, e la barca per inerzia scivolò verso la riva disseminata di scogli. Rhys per un attimo temette che si sarebbero schiantati, ma Mina si dimostrò una marinaia abile e li guidò a un approdo sicuro fra gli scogli, i coralli e le alghe grondanti.
“Passami quella cima”, disse Mina, balzando agilmente a riva, “così posso ormeggiare la barca”.
“Rhys! Che stai facendo?” gridò Nightshade, atterrito. “Molla gli ormeggi! Andiamo via! Non possiamo restare qui! Ci uccideranno!”
L’emmide era ancora caldo nella mano di Rhys. Il monaco rammentò la propria riflessione: la pazzia di Mina racchiudeva una saggezza terribile. Questa era una cosa che lei doveva fare, apparentemente. E lui aveva promesso. Mina non era in pericolo. Non poteva morire. Rhys si domandò se Mina capisse che lui e Nightshade invece sì.
Dal suo punto di osservazione, Rhys poteva vedere il proprio riflesso sulle pareti di cristallo nere e luccicanti della torre. L’ingresso della torre distava appena un centinaio di passi e la porta era aperta. Molti dei Prediletti dovevano essere già dentro. Sull’isola rimanevano diverse centinaia di Prediletti che vagavano qua e là senza meta. Alcuni di questi, avvistando la barca, si girarono a guardare con i loro occhi vuoti.
“Troppo tardi!” gemette Nightshade. “Ci hanno visti.”
Rhys ormeggiò la barca in tutta fretta e, prendendo il bastone, andò a mettersi accanto a Mina. Nightshade aiutò Atta a scendere dalla barca, quindi afferrò un gancio d’accosto e lentamente e con riluttanza seguì Rhys.
“Adesso potrei essere in qualche bel cimitero”, disse il kender malinconicamente, “a trovare un sacco di defunti simpatici…”.
“Mina!” Uno dei Prediletti urlò il suo nome, e un altro ripeté: “Mina!”.
Il nome si diffuse tra loro. I Prediletti presero a correre verso la barca.
“Come fanno a conoscermi?” Mina rabbrividì. Indietreggiò timorosa, premendosi contro Rhys. “Perché mi fissano con quegli occhi orribili?”
I Prediletti le si ammassarono attorno, allungando le mani verso di lei, chiamandola per nome.
“Li odio! Fateli andare via!” supplicò Mina, girandosi e nascondendo la testa nella veste di Rhys. “Fateli andare via!”
“Mina! Mina, toccami”, la imploravano i Prediletti, allungando le mani verso di lei. “Mi hai reso tu quello che sono!”
Uno dei Prediletti afferrò il braccio di Mina, e lei strillò in preda al panico. Rhys non poteva stringere Mina e allo stesso tempo scacciare i Prediletti. Faceva già fatica a trattenere la bambina che urlava e si contorceva. Gettò l’emmide a Nightshade.
“È benedetto dal dio!” gridò Rhys.
Il kender capì. Lasciò cadere il gancio d’accosto e afferrò il bastone. Facendolo roteare come una mazza, colpì con tutte le sue forze il polso del Prediletto.
Al contatto col bastone, la carne del Prediletto si annerì e si staccò dall’osso, lasciando una mano scheletrica che purtroppo mantenne la presa. Le dita ossute continuavano ad artigliare il braccio di Mina.
“Gran bell’aiuto!” gridò Nightshade, lanciando un’occhiata irosa ai cieli. “Mi sembrava che un dio potesse fare di meglio!”
Altri Prediletti presero ad affollarsi lì attorno. Nightshade li colpì col bastone, cercando di scacciarli ma senza molta fortuna. Il fatto che dei grumi di carne si annerissero e si staccassero dalle ossa non sembrava infastidirli minimamente. Continuavano ad arrivare, e Nightshade continuava ad assestare colpi. Le braccia cominciavano a dolergli, le palme delle mani gli sudavano, e lui aveva la nausea per quella vista raccapricciante di mani e braccia senza carne che gli si agitavano intorno.
Atta faceva scattare le mascelle, abbaiava e compiva sortite rapide contro i Prediletti, affondando i denti in ogni loro parte che le arrivasse a tiro, ma i morsi della cagna avevano su di loro meno effetto del bastone.
“Torniamo alla barca!” ansimò Rhys, sforzandosi di trattenere Mina e scacciare i Prediletti. Questi non prestavano alcuna attenzione né a lui né al kender né al cane. Cercavano disperatamente di afferrare Mina.
Il suo strillo penetrante, giusto nell’orecchio, fece sobbalzare Nightshade al punto che lasciò cadere l’emmide.
Dita scheletriche afferrarono il polso di Mina. Rhys colpì in faccia il Prediletto con una manata, spezzandogli il naso e frantumandogli gli zigomi. Mina fissò con orrore quelle dita ossute penetrarle nella carne e, urlando con voce stridula, colpì il Prediletto col pugno.
Fiamme (color ambra, incandescenti) distrussero completamente il Prediletto, senza lasciare nulla, nemmeno cenere. Il calore della vampata investì Rhys e Nightshade e poi si dissolse.
“Rhys”, disse con voce tremula Nightshade dopo un momento, “mi restano ancora le sopracciglia?”.
Rhys riuscì a lanciargli un’occhiata rassicurante, ma non ebbe il tempo di fare altro. Mina, tenendo stretta la mano di Rhys, si voltò verso i Prediletti.
Il calore della sacra furia di Mina li aveva respinti. Non cercavano più di afferrarla. Continuavano a circondarla, osservandola con lo sguardo inespressivo e ripetendo più volte il suo nome. Alcuni pronunciavano “Mina” con voce bassa, triste e supplichevole. Altri ringhiavano “Mina” disperati, incolleriti.
“Smettetela di dire così!” strillò Mina.
I Prediletti tacquero.
“Vado alla mia torre”, disse Mina con occhio torvo. “Fuori dai piedi.”
“Dovremmo tornare alla barca”, sollecitò Nightshade. “Proviamo a correre?”
“Non la raggiungeremmo mai”, disse Rhys.
I Prediletti non avrebbero lasciato allontanare Mina. La stavano aspettando qui. Forse era stato un suo ordine a spingerli su questa isola.
“La nostra vita è nelle sue mani”, disse Rhys. Muovendosi lentamente, si chinò e raccolse il bastone.
Nightshade gemette e mormorò: “Nessun pasticcio di carne può ripagare tutto questo”.
Mina, tirandosi dietro Rhys, avanzò. I Prediletti si ritrassero, lasciandole spazio per passare. Mina attraversò la folla di morti, osservandoli guardinga e con occhi spaventati, stringendo tanto forte la mano di Rhys da lasciargli segni rossi con la punta delle dita. Nightshade li tallonava, incespicando nelle caviglie di Rhys. Atta si teneva di fianco a Rhys; aveva il corpo che tremava, il labbro ritratto a scoprire i denti, ed emetteva un ringhio continuo.
“Dimmi di nuovo perché lo stiamo facendo”, disse Nightshade.
“Ssssh!” ammonì Rhys. Aveva visto quegli occhi vuoti spostarsi da Mina al kender, e un lampo di luce solare riflettersi sull’acciaio. I Prediletti però non attaccarono. Rhys immaginò che non l’avrebbero fatto finché loro fossero rimasti con Mina.
“Rhys”, sussurrò Nightshade, “lei non se li ricorda! E li ha creati lei!”.
Rhys annuì e continuò a camminare. I Prediletti avevano vagato senza meta sull’isola finché non avevano avvistato Mina. Dopo di che non avevano visto più nulla. Si radunavano attorno a lei, pronunciando il suo nome con tono riverente. Alcuni allungavano le mani verso di lei, ma Mina si ritraeva davanti a loro. “Andatevene!” diceva con tono aspro. “Non toccatemi.”
Uno dopo l’altro indietreggiarono.
Mina continuò a camminare verso la torre, stringendo la mano di Rhys. Quando raggiunsero l’ingresso, trovarono la porta a due battenti sbarrata.
“Tutta questa strada e ha dimenticato la chiave”, mormorò Nightshade.
“Non mi serve la chiave”, disse Mina. “Questa è la mia torre.”
Lasciando la mano di Rhys, si avvicinò alla grande porta e, premendo con tutte le sue forze, diede una spinta. Al suo tocco, i battenti massicci si aprirono lentamente.
Mina balzò dentro, guardandosi attorno con la meraviglia e la curiosità di una bambina. Rhys la seguì più lentamente. Sebbene la torre fosse fatta di cristallo, qualche magia nelle pareti escludeva la luce. Il sole mattutino non riusciva a entrare nemmeno dalla porta, ma veniva inghiottito sulla soglia. Dentro era tutto buio. Rhys si fermò subito all’ingresso.
Lentamente, a mano a mano che gli occhi si abituavano a quell’oscurità umida e fredda, Rhys si rese conto che l’interno della torre non era poi così buio come era parso inizialmente. Le pareti di cristallo diffondevano la luce solare, cosicché l’interno era illuminato da una luce pallida e fioca, che ricordava il bagliore lunare.
L’atrio era cavernoso. Una scala a chiocciola intagliata nelle pareti di cristallo serpeggiava attorno allo spazio interno, conducendo in alto, a perdita d’occhio. Globi di luce magica erano collocati a intervalli regolari lungo la scalinata, per guidare il cammino di chi la percorreva. Quasi tutti i globi tremolavano come candele gocciolanti, come se la loro magia cominciasse a svanire. Alcuni si erano spenti del tutto.
Molto tempo prima, l’atrio della Torre dell’Alta Magia di Istar doveva essere stato magnifico. Qui i maghi di Istar accoglievano i colleghi maghi e altri ospiti e dignitari. Qui dovevano avere atteso il Re-Sacerdote, per consegnargli le chiavi della loro amata torre, acconsentendo con dolore ad arrendersi piuttosto che rischiare la vita di innocenti in battaglia.
Forse il Re-Sacerdote era stato l’ultimo mortale a percorrere questo atrio, pensò Rhys. Si immaginò il Re-Sacerdote, splendido nella sua gloria mal indirizzata, mentre girava attorno vittorioso e trionfante, congratulandosi con se stesso per avere scacciato i suoi nemici, prima di chiudere e sbarrare dietro di sé la grande porta. Segnando così anche il destino di Istar.
Non rimaneva più nulla di quella gloria e di quella magnificenza. Le pareti erano umide e sudice, chiazzate di sabbia e limo. Il pavimento era ricoperto fino all’altezza delle caviglie di fanghiglia, pesci morti e alghe.
“Uh! La tua torre puzza, Mina!” gridò Nightshade. Afferrando la manica di Rhys, il kender soggiunse con voce bassa e concitata: “Stai attento! Mi sembra di avere udito dei sussurri. Lassù”. Agitò il pollice.
Rhys guardò attentamente verso le ombre nella direzione indicata da Nightshade. Non vide nulla, ma percepiva degli occhi che lo osservavano e udiva qualcuno ansimare ripetutamente, come dopo aver corso per una lunga distanza.
I Prediletti non si curavano della fatica. Chiunque stesse in agguato nell’ombra doveva essere vivo. Rhys aveva ipotizzato che la torre fosse deserta; dopo tutto, era stata trascinata su dal fondo del mare. Cominciò a pensare che la sua ipotesi fosse sbagliata. Nuitari aveva costruito la torre con la sua magia; quasi certamente avrebbe trovato un modo per renderla abitabile ai suoi maghi, anche se era adagiata sul fondo del mare.
Rhys guardò Atta, che di solito lo avvertiva dei pericoli. La cagna aveva notato qualcosa nell’ombra, perché di quando in quando girava la testa per guardare con occhio torvo in quella direzione. I Prediletti rappresentavano però per lei il pericolo maggiore, e la sua attenzione era fissa su di loro. Abbaiò emettendo un aspro avvertimento.
Rhys si girò e vide i Prediletti affollarsi attorno alla porta aperta. Non entravano, esitavano osservando Mina con quegli occhi morti. “Tienili fuori!” disse Mina a Rhys. “Non li voglio qui dentro.”
“La monella ha ragione”, ringhiò qualcuno con voce acuta e nasale proveniente dalle ombre. “Non lasciare entrare quei demoni! Ci uccideranno tutti. Chiudi la porta!”
A Rhys nulla sarebbe piaciuto di più che obbedire a quel comando, ma non aveva idea di come funzionasse quella porta. Costruita con blocchi di ossidiana, granito rosso e marmo bianco, la porta a due battenti era alta quattro volte un uomo e ciascun battente doveva pesare quanto una piccola casa.
“Ditemi come si chiudono”, urlò.
“Come facciamo per l’Abisso a saperlo?” tuonò una voce più profonda dal tono irascibile. “Hai aperto tu quella maledetta porta? Chiudila!”
Ma Rhys non aveva aperto la porta. Era stata Mina, e lei era troppo terrorizzata dai Prediletti per tornare indietro. I Prediletti continuavano ad ammassarsi attorno all’ingresso, ma non riuscivano a trovare un modo per entrare, e questo sembrava frustrarli.
“Sembra che qualche forza li stia bloccando”, gridò Rhys verso gli sconosciuti nell’ombra. “Presumo che voi due siate maghi. Avete idea di che cosa sia questa forza o di quanto a lungo possa durare?”
Colse i frammenti di un sommesso conciliabolo, poi dalle ombre emersero due maghi che indossavano delle vesti nere. Uno era alto e magro, con gli orecchi appuntiti di un elfo e il volto di un mezzosangue selvaggio. Aveva i capelli ispidi e arruffati, la veste sbrindellata e sudicia. I suoi occhi a mandorla guizzavano qua e là come la testa di un serpente in attesa di colpire. Una volta, come per caso, quegli occhi incrociarono lo sguardo di Rhys, ma subito si volsero altrove.
L’altro mago, un nano dalle spalle larghe e dalla lunga barba, era più pulito del suo compagno. I suoi occhi, a malapena distinguibili sotto le sopracciglia lunghe e ispide, erano astuti e freddi.
Entrambi i maghi sembravano reduci da una qualche brutta avventura, poiché il mezzelfo aveva il viso pieno di lividi. Aveva un occhio nero e si era legato uno straccio sporco attorno al polso sinistro. Il nano aveva la testa avvolta in bende insanguinate e zoppicava.
“Io sono Rhys Mason”, annunciò Rhys. “Questo è Nightshade.”
“Io sono Mina”, disse la bambina, al che il nano ebbe un sobbalzo percepibile e la fissò attentamente.
Il mezzelfo sogghignò.
“Non ce ne importa un culo di topo di chi sei, sciocca”, disse con disprezzo.
Il nano gli lanciò un’occhiata minacciosa, poi disse: “Io mi chiamo Basalt. Questo è Caele”. Parlava a Rhys, ma continuava a fissare Mina. “Come siete arrivati nella nostra torre?”
“Qual è la forza che blocca la porta?” insistette Rhys.
Basalt e Caele si scambiarono occhiate.
“Pensiamo che possa essere il padrone”, disse riluttante Basalt. “E questo significa che ha consentito a voi di entrare e sta tenendo fuori i demoni. Quello che noi vogliamo sapere è perché vi ha fatti entrare qui.”
Mina stava ancora fissando i maghi. Aggrottò la fronte, come se cercasse di rammentare dove li avesse visti in precedenza.
“Io ti conosco”, disse all’improvviso. “Hai cercato di uccidermi.” Indicò il mezzelfo.
“Sta mentendo!” guaì Caele. “Io non ho mai visto prima in vita mia questa monella! Avete cinque secondi per dirmi perché siete qui altrimenti vi lancerò un incantesimo che vi ridurrà in…”
Basalt conficcò un gomito tra le costole del compagno e gli disse qualcosa a bassa voce.
“Sei matto!” lo schernì Caele.
“Guardala!” insistette Basalt. “Potrebbe essere per questo che il padrone…” Il resto si perse nei sussurri.
“Una volta tanto sono d’accordo con Mina”, disse Nightshade. “Non mi fido di questi due così come non sopporto la loro puzza. Chi è questo padrone di cui parlano?”
“Nuitari, Dio della Luna Nera”, rispose Rhys. Nightshade emise un gemito lugubre. “Altri dei. Proprio quello che ci serviva.”
“Devo scoprire come si arriva di sotto”, disse Mina a Rhys. “Voi due restate qui, teneteli d’occhio.”
Indicò i maghi e poi, lanciando loro un’ultima occhiata minacciosa, prese a camminare qua e là nel grande atrio, dando dei colpi e scrutando nelle ombre.
“Se è Nuitari, vorrei che chiudesse soltanto la porta”, affermò Nightshade mentre osservava i Prediletti, che rispondevano al suo sguardo.
“Se lo facesse, potremmo non essere in grado di uscire”, disse Rhys.
Caele e Basalt continuavano a confabulare per tutto quanto il tempo.
“Vai avanti”, disse Caele dando una spinta a Basalt. “Chiediglielo.”
“Chiediglielo tu”, ringhiò Basalt, ma alla fine con un’andatura dinoccolata arrivò da Rhys.
“Che cosa sono quei demoni?” domandò. “Sappiamo che sono qualche sorta di morti viventi. Niente di quello che abbiamo provato sembra arrestarli. Né la magia né l’acciaio. Caele ne ha pugnalato al cuore uno e questo è caduto, ma poi si è rialzato e ha cercato di strangolarlo!”
“Vengono chiamati Prediletti. Sono morti viventi discepoli di Chemosh”, spiegò Nightshade.
“Te l’avevo detto”, ringhiò Basalt a Caele. “È lei!”
“Stai vaneggiando”, mormorò Caele per tutta risposta.
“Come ha fatto la vostra torre ad arrivare qui nel Mare di Sangue?” domandò curioso Nightshade. “Ieri non c’era.”
“E lo dici a noi!” grugnì Basalt. “Ieri eravamo nella nostra torre al sicuro sul fondo del mare, badando ai nostri affari. Poi c’è stato un terremoto. Le pareti si sono messe a tremare, il pavimento è diventato il soffitto e il soffitto è diventato il pavimento. Non sapevamo se poggiavamo sulla testa o sui piedi. Si è rotto tutto, le nostre fiale e i nostri recipienti. I libri volavano via dagli scaffali. Pensavamo di essere morti. Quando tutto ha smesso di tremare, abbiamo guardato fuori e ci siamo ritrovati piantati su questa roccia. Quando abbiamo cercato di sgattaiolare fuori da una porta laterale, questi demoni hanno cercato di assassinarci.”
Rhys pensò alla potenza che aveva strappato la torre dal fondo del mare e guardò la bambina che vagava qua e là, cercava dietro i pilastri e picchiettava sulle pareti.
“Che sta facendo? Gioca a nascondino?” Nightshade lanciò un’occhiata nervosa ai Prediletti e un’altra ai due maghi. “Usciamo di qui. Non mi piace sentir parlare di pugnalare al cuore qualcuno… anche se si tratta di un Prediletto.”
“Mina…” esordì Rhys.
“Trovato!” annunciò lei trionfante.
Era arrivata sotto un ingresso ad arco, nascosto in mezzo alle ombre, che conduceva a un’altra scala a chiocciola, più piccola.
“Venite con me”, ordinò Mina. “Dite a quegli uomini cattivi che devono restare qui.”
“Questa è la nostra torre!” ringhiò Caele.
“Non è vero!” ribatté Mina.
“Invece…”
Intervenne Basalt, afferrando con la mano il braccio di Caele.
“Non andrete da nessuna parte senza di noi”, disse freddamente Basalt.
Caele ringhiò per dirsi d’accordo e divincolò il braccio dalla stretta del compagno.
“Io e Atta li terremo d’occhio”, promise Rhys, pensando che fosse meglio avere i maghi sotto controllo anziché saperli alle loro spalle intenti a seguirli furtivamente.
Mina annuì. “Possono venire con noi, ma se cercano di farci del male dirò ad Atta di morderli.”
“Andate avanti. A me piacciono i cani”, sogghignò Caele. Arricciò il labbro. “Arrosto.”
Mina entrò sotto l’arco e prese a scendere la scala. Nightshade la seguì, con Atta alle calcagna. Rhys venne per ultimo, osservando con la coda dell’occhio i due maghi. Il mezzelfo stava parlando rapidamente all’orecchio del suo socio, dandogli dei colpetti e sottolineando l’argomento della conversazione tendendo il dito sudicio. Al nano apparentemente non piaceva quello che proponeva il mezzelfo, poiché si ritrasse, accigliato, e scrollò il capo. Il mezzelfo sussurrò qualcos’altro e il nano parve rifletterci su. Alla fine annuì e gridò.
“Aspetta, monaco! Alt! Lei ti sta conducendo alla morte”, avvertì Basalt. “C’è un drago laggiù!”
Nightshade perse l’appoggio, scivolò su un gradino e cadde pesantemente sul sedere.
“Drago? Quale drago?” Il kender si strofinò l’osso sacro dolorante. “Non so nulla di draghi!”
“Il drago è il guardiano del Solio Febalas”, disse Basalt.
“Solo Favola?” ripeté Nightshade. “Che cos’è?”
Rhys non riusciva a credere ai suoi orecchi.
“Il Solio Febalas”, disse Rhys con un’esitazione nella voce. “La Sala del Sacrilegio. Ma… non può essere. La Sala andò distrutta durante il Cataclisma.”
“Il nostro padrone l’ha ritrovata”, disse con orgoglio Basalt. “È una raccolta di tesori, piena di oggetti sacri rari e preziosi.”
“Valgono una cifra iperbolica. È per questo che il drago fa la guardia”, soggiunse Caele. “Se cercate di entrare, il drago vi ucciderà e vi mangerà.”
“Le cose vanno sempre meglio”, disse malinconicamente Nightshade.
“Bah, il drago non mangerà nessuno”, disse calma Mina. “Non ha mangiato me e io sono stata lì sotto. Il drago si chiama Midori. È una femmina di drago marino ed è vecchia. Molto vecchia.”
“Rhys”, disse Nightshade, “sono sicuro che vi siano molti kender a cui piacerebbe tanto farsi mangiare da un drago marino. Però io non sono fra questi”.
“Ecco una persona sensata! Tu e il monaco dovreste ritornare di sopra”, sollecitò Caele. “Io e Basalt andremo con la… ehm… bambina.”
“Che bell’idea!” esclamò Nightshade, iniziando a risalire le scale.
Rhys lo afferrò e lo fece voltare.
“Noi resteremo con Mina”, disse e continuò a scendere, trascinandosi dietro Nightshade.
Alle sue spalle vi furono altri sussurri.
Rhys sentì dire Basalt: “Il padrone non sarà contento se noi andiamo giù”.
“Non sarà contento nemmeno se ci rubano tutto”, ribatté Caele.
Basalt abbassò la mano per stringere il polso di Caele.
“Non essere sciocco”, disse il nano, soggiungendo qualcosa in una lingua che Rhys non capì.
Caele grugnì e strattonò la manica per rimetterla a posto, ma non prima che Rhys cogliesse il luccichio dell’acciaio.
Rhys si voltò. I due chiaramente avevano cattive intenzioni, e lui immaginava che tutto questo avesse a che fare col Solio Febalas, la Sala del Sacrilegio. Se dicevano la verità e Nuitari aveva davvero ritrovato la sala perduta, allora quello che aveva detto il mezzelfo sul fatto che valesse una cifra iperbolica era vero. Una cifra cento volte iperbolica! Si diceva che i soldati del Re-Sacerdote avessero confiscato oggetti sacri, reliquie, pozioni benedette a tutti gli dei. Davvero una miniera di tesori per chiunque, perfino per due seguaci di Nuitari.
Questi oggetti sacri erano stati forgiati nell’Era del Potere, quando la forza dei chierici era insuperata. Sacerdoti di tutti gli dei avrebbero pagato profumatamente per acquisire reliquie sacre e potenti da tempo ritenute perdute. I più preziosi, i più desiderati sarebbero stati gli oggetti sacri benedetti da Takhisis e da Paladine. Anche se queste due divinità erano scomparse dal pantheon, i loro antichi oggetti sacri potevano ancora conservare il loro potere. La ricchezza delle nazioni sarebbe stata un piccolo prezzo da pagare per un simile tesoro.
Voglio portare un dono a Goldmoon…
Rhys si fermò all’improvviso. Ecco perché Mina era venuta nella torre. Stava andando verso la Sala del Sacrilegio.
Nightshade, sentendolo fermarsi, voltò la testa all’indietro.
“Le scale sono viscide”, disse il kender. “Devi stare attento. Non che importi molto se cadiamo e ci rompiamo l’osso del collo, poiché verremo tutti mangiati da un malvagio drago marino!” soggiunse ad alta voce.
“No, non verremo mangiati!” gridò Mina. Risalì le scale saltellando. “Il drago se n’è andato.”
“Andato!” Caele rimase senza fiato.
“È nostra!” ansimò Basalt.
I due maghi spinsero via Rhys oltrepassandolo, si diedero gomitate l’un l’altro e strepitarono nella fretta di raggiungere il fondo.
I maghi oltrepassarono una curva della scala a chiocciola e scomparvero. Rhys li rincorse, lasciando Nightshade ad affannarsi per raggiungerlo. Il monaco trovò Basalt e Caele che barcollavano pericolosamente sull’ultimo gradino, con lo sguardo fisso per lo sgomento.
Per tenere lontani i ladri dai preziosi conservati all’interno della Sala del Sacrilegio, Nuitari aveva racchiuso il Solio Febalas dentro un globo enorme pieno di acqua di mare. La Sala era custodita da squali, pastinache e varie altre forme di vita marine micidiali, fra cui un antico drago.
Ma ora dell’ingegnosa cassaforte acquatica di Nuitari restavano solo cumuli di sabbia umida sui quali luccicavano frammenti di vetro.
Il sollevamento della torre aveva mandato in frantumi il globo. L’acqua di mare si era riversata fuori, portando con sé i mostri marini. A quanto pareva Midori, destata rudemente dal colpo, aveva deciso che ne aveva abbastanza e se n’era andata a cercare una sistemazione più stabile. La devastazione si estendeva a perdita d’occhio. “No! Atta, ferma!” gridò Nightshade, afferrando la cagna per la collottola perché stava per avventurarsi sulla sabbia. “Ti ridurrai a brandelli le zampe! Dov’è la Fievole Soglia?” domandò a Mina.
La bambina, in silenzio e con aria infelice, puntò il dito verso le macerie.
“Oh, bene. Immagino che non possiamo andarci”, disse allegramente Nightshade. “Ehi, ho un’idea. Andiamo in barca fino a Flotsam. Conosco una taverna che serve bistecche e patatine croccanti con contorno di piselli e…”
“Nightshade”, lo ammonì Rhys.
“Non gliel’ho chiesto!” sussurrò il kender sulla difensiva. “Mi è capitato di menzionare la bistecca casomai lei avesse fame.”
“Era tutto così bello”, disse Mina, e si mise a piangere.
Basalt rimase lì a fissare malinconicamente quel caos.
“Non mi importa che cosa dice il padrone”, affermò il nano. “Io non mi metto a ripulire questa roba.” Udì Caele ridacchiare e lo guardò torvo. “Perché diavolo hai quest’aria tanto maledettamente compiaciuta? Questo è un disastro!”
“Non per noi”, disse Caele, con un sorriso scaltro.
Vedendo il monaco occupato con la monella che tirava su col naso, Caele furtivamente risalì le scale, facendo un gesto a Basalt per dirgli di andare con lui. Quando furono fuori portata di udito dagli altri, Caele sussurrò: “Non ti rendi conto di che cosa vuol dire questo? Il drago non c’è più! La Sala del Sacrilegio non è più sorvegliata! Questo fa la nostra fortuna!”.
“Ammesso che la Sala sia ancora lì”, ribatté Basalt. “E ammesso che sia ancora intatta, cosa di cui dubito.” Con un gesto indicò le macerie. “E come intendi raggiungerla? Il drago potrebbe anche essere qui. Quei frammenti di vetro sono più aguzzi dei suoi denti e altrettanto micidiali.”
“Se la Sala è sopravvissuta al Cataclisma, certamente è sopravvissuta a questo. Vedrai. Quanto a raggiungerla, ho un’idea al riguardo.” “E Mina e i suoi amici?” domandò Basalt.
Caele sorrise. Rivoltando la manica, svelò un coltello allacciato al polso.
Basalt sbuffò. “Ti ricordi che cosa è successo l’ultima volta che hai cercato di sventrarla? Sei finito prigioniero nella tua stessa tomba!”
“Aveva con sé quel bastardo di Chemosh”, disse Caele, accigliandosi. “Questa volta, tutto ciò che ha sono un monaco e un kender. Tu uccidi quei due e io…”
“Lasciami fuori da tutto questo!” ringhiò Basalt. “Ne ho abbastanza dei tuoi complotti e delle tue trame. Non fanno che mettermi nei guai!”
Caele impallidì per la collera. Uno scatto del polso ed ebbe il coltello in mano. Basalt però era preparato. Aveva sempre supposto che un giorno o l’altro avrebbe finito con l’uccidere il mezzelfo, e quel giorno andava bene come qualunque altro. Prese a cantilenare un incantesimo. Caele cantilenò un controincantesimo. I due si fissavano reciprocamente con occhio furioso e malvagio.
Mina fissava con cupo stupore le rovine del globo di cristallo. “Volevo tornare a nuotare nell’acqua marina. Volevo parlare col drago…”
“Mi dispiace, Mina”, disse Rhys, senza sapere che altro dirle.
Aveva anche lui le sue preoccupazioni. Se il Solio Febalas era davvero in mezzo alle rovine, lui doveva trovarlo, accertarsi che fosse al sicuro, con il contenuto ben custodito. Udiva le due Vesti Nere che tramavano e sebbene non riuscisse a distinguere le loro parole non aveva dubbi sul fatto che progettassero di rubare gli oggetti sacri.
Se fosse stato da solo, Rhys avrebbe volentieri rischiato la vita per cercare di superare quei vetri rotti, ma non poteva avventurarsi oltre lasciando lì gli amici e la cagna, non certo con i Prediletti che si ammassavano fuori della torre, tenuti a bada da chissà quale forza nota solo agli dei. E nemmeno si fidava delle due Vesti Nere.
La preoccupazione principale di Rhys era Mina. In quanto divinità, avrebbe potuto percorrere distese di lame di rasoio senza farsi del male. Ma era una divinità che non sapeva di essere una divinità. Rabbrividiva per il freddo, piangeva quando era delusa e sanguinava quando le unghie le graffiavano la carne. Rhys non osava portarla con sé e non osava nemmeno lasciarla lì. “Mina”, disse Rhys, “penso che Nightshade abbia ragione. Dovremmo avviarci verso casa. Non puoi attraversare questa sabbia senza farti male. Goldmoon capirà…”.
“Io non me ne vado!” affermò stizzita Mina. Aveva smesso di piangere e adesso teneva il broncio, col labbro inferiore sporto in fuori. Rimase lì a scalciare la sabbia umida con la punta della scarpa. “Non certo senza il mio regalo.”
“Mina…”
“Non è giusto!” gridò, passandosi il dorso della mano sul naso. “Perché doveva andare così? Sono venuta fin qui…”
Si interruppe. Abbassandosi e ignorando l’avvertimento di Rhys di stare attenta, raccolse un piccolo frammento di vetro rotto. “Non doveva finire così.”
Mina scagliò in aria il frammento di vetro, che fu raggiunto da un milione di altri frammenti, scintillanti come gocce di pioggia al sole. I pezzi di vetro si fusero assieme. L’acqua marina, anziché colare via, si riversò di nuovo all’interno del globo.
Rhys all’improvviso si trovò dentro un globo di cristallo, sommerso da acqua marina verdeazzurra di varie braccia di profondità, e stava annegando.
Trattenendo il respiro, Rhys si guardò attorno freneticamente, cercando una via d’uscita. Nightshade gli era vicino, agitava le braccia e scalciava coi piedi, con le guance gonfie. Atta muoveva le zampe furiosamente, con gli occhi spalancati per il terrore. Mina, inconsapevole della loro situazione spiacevole, si stava allontanando a nuoto.
A Rhys restavano pochi attimi di vita. Atta stava già precipitando sul fondo. Rhys fendette l’acqua con le braccia, scalciando coi piedi e cercando di raggiungere Mina.
Riuscì ad afferrarle la caviglia. Mina si girò. Aveva il volto raggiante di piacere. Si stava divertendo. Il piacere svanì quando vide che i suoi amici erano nei guai. Li fissò sconcertata, apparentemente senza avere idea di che fare. A Rhys stavano scoppiando i polmoni. Vedeva stelle abbaglianti e macchie blu e gialle, e non riusciva più a sopportare il dolore. Aprì la bocca, preparato ad attendere la morte.
Inghiottì acqua salata e, sebbene la sensazione non fosse piacevole, non morì. Si dibatté, scosso nello scoprire che stava respirando acqua con altrettanta facilità di quando respirava aria. Nightshade, con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite, era stremato. Galleggiava floscio nell’acqua.
Mina afferrò Atta, che aveva smesso di lottare. Accarezzò la cagna, la baciò e la abbracciò, e gli occhi di Atta si aprirono di scatto. La cagna si guardò attorno freneticamente, in preda al panico, finché trovò Rhys. Lui le si avvicinò a nuoto e fu raggiunto da Nightshade, che gli afferrò il braccio e cercò di parlare. Tutto ciò che uscì dalla sua bocca furono bolle ma, anche se non poté udirlo, Rhys capì che cosa volesse dire il kender, ossia: “Devi fare qualcosa! Ci farà uccidere tutti!”.
Rhys riteneva che fosse piuttosto probabile, ma non aveva idea di come fare a prevenirlo. Una bambina normale di sei anni che si comportasse male poteva essere sculacciata e mandata a letto senza cena. L’idea di sculacciare Mina, che come aveva detto Nightshade poteva far cadere loro in testa una montagna, era ridicola. E a essere sinceri Mina non si era comportata male. Non aveva cercato intenzionalmente di annegarli. Aveva commesso un piccolo errore. Poiché lei era in grado di respirare l’acqua come l’aria, aveva ritenuto che anche loro ne fossero capaci.
Mina nuotava sott’acqua quasi fosse nel suo elemento naturale, sfrecciando attorno a loro come una carpa, e li sollecitava ad affrettarsi. Rhys aveva imparato a nuotare al monastero, ma era impacciato dalla veste e dal bastone, che non voleva abbandonare, e ostacolato dalla sua preoccupazione per Nightshade.
Il kender non aveva mai imparato a nuotare. Non aveva mai voluto. A quel punto, non avendo altra scelta, agitava scompostamente e rapidamente le braccia, senza avanzare in nessuna direzione. Stava per rinunciare al nuoto, non avendo speranze, quando Atta lo superò, agitando l’acqua con le zampe anteriori. Nightshade osservò la cagna e decise di imitarla. Non avendo zampe, utilizzò le mani e le braccia per sguazzare, e presto fu in grado di tenere l’andatura degli altri.
Mina avanzava a nuoto emozionata, facendo loro segno di affrettarsi. Quando la raggiunsero, si stava librando nell’acqua, compiendo piccoli movimenti a mulinello con le mani, volteggiando sopra quello che sembrava un castello di sabbia da bambini.
Di struttura semplice, il castello era composto da quattro mura di un metro e venti centimetri di altezza e altrettanti di lunghezza, con un’alta torre su ciascun angolo. Non vi erano finestre e vi era un’unica porta, ma quella porta era una meraviglia.
Alta meno di un metro e non molto larga, la porta era fatta di miriadi di perle che luccicavano con una luminosità purpurea. Al centro brillava una singola runa intagliata in un grosso smeraldo.
Mina fece un gesto a Rhys e, quando lui le si avvicinò goffamente a nuoto, spingendo il bastone davanti a sé, Mina indicò il castello di sabbia e annuì con forza.
“La Sala del Sacrilegio”, disse col solo movimento delle labbra.
Rhys guardò fisso per lo stupore.
La famigerata Sala del Sacrilegio: un castello di sabbia da bambini. Rhys scrollò il capo. Mina lo guardò accigliata e, allungando la mano, afferrò il bastone e trascinò Rhys nell’acqua. Indicò la runa di smeraldo incastonata nella porta. Rhys si avvicinò e inspirò acqua per lo sgomento. Intagliato nella runa vi era il numero 8 disposto orizzontalmente, un simbolo senza fine e senza principio, il simbolo dell’eternità.
Rhys si spinse all’indietro. Mina lo osservò perplessa. Indicò la porta.
“Aprila!” ordinò in un turbinio di bolle.
Rhys scrollò il capo. Questo era il Solio Febalas, ricettacolo di alcuni fra i più sacri oggetti mai creati da dei e uomini, e la porta era chiusa e sbarrata. Non era previsto che lui entrasse. Non era previsto che nessun mortale entrasse. Forse non era previsto nemmeno che gli dei entrassero in questo luogo sacro.
Mina lo strattonò, sollecitandolo. Rhys scrollò il capo energicamente e si ritrasse. Avrebbe voluto spiegarsi con lei, ma non poteva. Si girò e fece per allontanarsi a nuoto.
Mina lo rincorse e lo afferrò di nuovo. Con aria infantile, era decisa a fare a modo suo. Rhys aveva la sensazione che se si fossero trovati sulla terraferma Mina avrebbe pestato i piedi.
Rhys avrebbe continuato a rifiutare, ma in quel momento la decisione gli fu strappata di mano.
Perfino in profondità sotto il mare poté udire quell’unica parola temuta su tutto Krynn da chiunque viaggiasse con un kender.
“Ops!”
“Ehi!” gridò Caele, allarmato. “Dove sono andati?”
I due maghi delle Vesti Nere, intenti a uccidersi a vicenda, stavano mormorando parole arcane e frugavano nei borsellini alla ricerca di componenti di incantesimi, quando si resero conto di essere rimasti soli. Kender, bambina, cane e monaco erano scomparsi.
“Maledetti i loro bulbi oculari!” imprecò Caele, fremendo. “Hanno trovato un modo per entrare!”
Il mezzelfo si precipitò giù per le scale, fermandosi con una scivolata quando raggiunse il fondo. I frammenti di vetro rotto erano ancora lì che spuntavano dalla sabbia. “Se tu non fossi stato tanto ansioso di tagliarmi la gola, saremmo lì dentro a fare incetta di ricchezze.” Basalt agitò il pugno in direzione del mezzelfo.
“Hai ragione, naturalmente, Basalt”, disse Caele con improvvisa docilità. “Tu hai sempre ragione. Porgi i miei ossequi al padrone.”
Il mezzelfo sollevò la mano a mulinello e scomparve.
“Eh?” Basalt sbatté gli occhi. “Che…”
Il nano all’improvviso capì. Inspirò profondamente ed emise un ruggito. “È andato dietro di loro!”
Basalt effettuò una rapida rassegna mentale del suo catalogo di incantesimi e prese a frugare febbrilmente nei suoi borsellini di componenti di incantesimi per vedere che cosa avesse a disposizione. Era venuto lì preparato a dare battaglia, non a viaggiare verso una destinazione ignota su un fondo marino ricoperto di vetri rotti. Si domandò quale magia avesse usato Caele, dedusse che molto probabilmente il mezzelfo aveva creato un incantesimo chiamato Porta Dimensionale, prediletto da Caele poiché richiedeva soltanto di pronunciare parole, non di usare componenti di incantesimi. A Caele non piaceva creare incantesimi che utilizzavano componenti, soprattutto perché era troppo pigro per farne incetta.
Basalt conosceva bene a sua volta l’incantesimo della Porta Dimensionale, che però presentava un unico svantaggio. Per creare l’incantesimo, il mago doveva sapere dove stesse andando, poiché doveva visualizzare il luogo. Basalt non aveva idea di dove si trovasse la Sala del Sacrilegio né di quale aspetto avesse. Non era mai stato dentro il globo pieno d’acqua che la proteggeva.
Caele, invece, era stato dentro il globo. Vi era stato spedito (a forza) dal drago Midori per raccogliere un piccolo campione del suo sangue che Nuitari aveva usato nella bacinella dell’occhio di drago, che gli consentiva di spiare i suoi nemici. Caele non aveva mai accennato al fatto di avere visto la Sala, ma il mezzelfo era un bastardo ignobile, astuto e mentitore, e Basalt immaginava che avesse curiosato qua e là mentre si trovava laggiù e semplicemente non ne avesse fatto cenno.
Immaginandosi Caele nella Sala, a raccattare tesori a destra e a manca, Basalt digrignò i denti per la collera. Guardò con occhio furioso i vetri spezzati che gli bloccavano la strada e pensò malinconicamente a come sarebbe stato meraviglioso svolazzarci sopra, e questo gli fece venire in mente un incantesimo.
Basalt non aveva a disposizione i componenti puri necessari, ma poteva arrangiarsi. L’incantesimo richiedeva una garza; Basalt si strappò la fasciatura dalla fronte e, usando il coltello, ne ritagliò un pezzo. In genere si portava dietro un pezzetto di candela, poiché una fiamma o un po‘“di cera tornavano sempre utili. La candela era di cera d’api, se l’era costruita lui stesso e ne era orgoglioso, poiché era magica.
Tenendo la garza in una mano e la candela nell’altra, pronunciò la parola di comando e la candela si accese. Basalt tenne la garza sulla fiamma finché prese fuoco, la lasciò bruciare un attimo, quindi la spense soffiando. Dal tessuto annerito si levò un sottile filo di fumo. Basalt pronunciò una parola magica e con un attimo di tensione attese di vedere funzionare l’incantesimo.
Provò una sensazione strana e spiacevole, come se la carne e le ossa, la pelle e i muscoli gli si liquefacessero per magia, e poi si dissolse, lasciandosi dietro una forma gassosa e incorporea. Basalt non utilizzava questo incantesimo da un po‘“di tempo e gli venne in mente (in ritardo) che non sapeva bene come riacquisire il proprio corpo. Di questo si sarebbe preoccupato più tardi, però. In questo momento doveva raggiungere Caele.
Lasciandosi trasportare dalle correnti d’aria, la forma gassosa di Basalt (simile a una nube pelosa di fumo nero) si propagò sopra i vetri rotti ed entrò in ciò che rimaneva del globo di cristallo.
Nightshade si era comprensibilmente irritato con Mina perché lo aveva tuffato nell’acqua di mare e poi quasi annegato, ma dopo un po‘“la perdonò. Gli piaceva la novità di essere capace di respirare sott’acqua e nuotare come un pesce, o meglio, come Atta. Avanzava sguazzando nel mare, godendosi il panorama, domandandosi se avesse le branchie sul collo e se queste palpitassero in dentro e in fuori, e si tastava il collo per vedere se fosse davvero così, rimanendo deluso nello scoprire che non le aveva, quando giunse al castello di sabbia.
Rhys e Mina stavano litigando. Mina a quanto pareva voleva che Rhys entrasse, e Rhys non voleva saperne, cosa che Nightshade, da bravo kender di buon senso, approvava, poiché indovinò subito che questo edificio doveva essere il “Solo Fievole di Mente” o la “Sala dei Sacri Ligi” o come diavolo si chiamava.
Nightshade sguazzava qua e là, aspettando che il litigio finisse, e presto sentì di annoiarsi. Lì sotto non c’era niente da fare, a parte nuotare. Si domandò come i pesci potessero sopportare una cosa simile. Non essendoci niente da guardare a parte il castello di sabbia, decise di darvi un’occhiata e notò che aveva una porta estremamente interessante fatta di perle e dello smeraldo più grosso e più bello che avesse mai visto. Si portò lì a nuoto per vedere più da vicino.
Nightshade non seppe mai con certezza che cosa accadde poi. O il suo buon senso decise di prendere armi e bagagli e andare in vacanza, oppure il suo lato kender emerse, assestò al buon senso un colpo in testa e lo lasciò lì stordito.
Non che questo facesse qualche differenza.
Il fatto era che lo smeraldo era il più grosso e più bello che Nightshade avesse mai visto, e più lui vi si avvicinava a nuoto più diventava grosso e bello, cosicché alla fine il suo lato kender, che c’era davvero, malgrado suo padre avesse sempre pensato il contrario, non doveva far altro che allungare la mano, afferrarlo e cercare di staccarlo.
Accaddero due cose, una delle quali fu spiacevole e l’altra ancora più spiacevole.
La cosa spiacevole fu che lo smeraldo non si mosse.
La cosa ancora più spiacevole fu che si mosse la porta.
La porta si spalancò. Tutto ciò che il kender ebbe il tempo di fare fu urlare un “ops!” di stupore e poi l’acqua marina precipitò dentro il castello di sabbia portandosi dietro Nightshade.
La porta si richiuse di scatto.
Nightshade fu scagliato rovinosamente nell’acqua in tumulto e per diversi attimi, teso com’era, non ebbe idea se si trovasse a testa in giù o in su, poi l’acqua lo depositò su una superficie solida e proseguì senza di lui. Il kender rimase lì fermo per un attimo, senza fiato per la rapidità con cui si era svolto il tutto. Quando superò lo choc, notò che respirava aria, non acqua, cosa di cui fu grato. Aveva rimuginato su ciò che sapeva dell’alimentazione di un pesce e aveva pensato con tristezza che sarebbe dovuto vivere di vermi.
Dopo avere inspirato qualche boccata profonda e rassicurante, decise di alzarsi e dare un’occhiata in giro.
Si guardò attorno diverse volte, con una strana sensazione di tremito nelle viscere, e più guardava e più era sicuro che questo fosse un luogo in cui lui non doveva restare, e c’era un’unica cosa che potesse fare un kender di buon senso, perfino un kender con le corna. “Rhys”, piagnucolò Nightshade, “aiuto!”.
Rhys si girò appena in tempo per vedere Nightshade venire risucchiato dentro la Sala del Sacrilegio e la porta chiudersi di scatto alle sue spalle. Mina stava ridendo e battendo le mani. “E adesso, signor monaco, dovrai proprio entrare. Vinco io.”
Sorrise e gli mostrò la lingua.
Rhys non era mai stato un genitore, e spesso si era domandato come un adulto potesse tollerare di sculacciare un bambino. Adesso cominciava a capire.
Mina nuotò fino alla porta e con la mano sfiorò lo smeraldo con la runa intagliata. Mentre la porta si apriva lentamente, l’acqua marina trasportò dentro Mina e Rhys e fece ruzzolare Nightshade, che stava picchiando sulla porta con i pugni.
Rhys si tirò su. Guardò dietro di sé attraverso la porta aperta verso il paesaggio desertico di sabbia umida increspata.
Atta si trovava fuori della porta sulla sabbia umida e si scrollava di dosso l’acqua, partendo dal didietro e procedendo in avanti. Quando Rhys la chiamò, Atta sgattaiolò con prudenza attraverso la porta. Chiaramente non voleva restare lì. Premendo il corpo contro quello di Rhys, si fermò tremante.
Nemmeno Nightshade voleva restare lì.
“Rhys”, disse con voce incerta, “è questa. Questa è quella Sala. È… è piuttosto spaventosa, Rhys. Non credo che dovremmo trovarci qui”.
Il Solio Febalas, la Sala del Sacrilegio: il ricettacolo della determinazione arrogante del Re-Sacerdote a sfidare gli dei. L’istinto di Nightshade (e di Atta) era giusto. Non era previsto che i mortali entrassero in questo luogo. La sala era sacra agli dei, alla loro ira. “Non sei arrabbiato con me perché ti ho fatto entrare, vero, signor monaco?” domandò malinconicamente Mina, facendo scivolare la mano in quella di Rhys.
Guardandola, Rhys non vedeva una dea. Vedeva una bambina con l’intelletto di una bambina: non ancora formato, con una conoscenza imperfetta del mondo; e si domandò all’improvviso se fosse ciò che gli dei vedevano quando guardavano l’umanità.
Rhys non percepiva più l’ira degli dei, tuttavia ne captava il dispiacere.
“No, Mina”, disse, “non sono arrabbiato con te”.
La Sala era immensa, di forma perfettamente rotonda, con un soffitto alto a cupola. Le pareti erano disseminate di nicchie intagliate nella pietra, ciascuna sacra a uno degli dei. Una singola runa ornava la parete di ciascuna nicchia. In certi casi le rune brillavano di luce. Vi erano la luce uniforme di Majere, la fiamma biancoazzurra di Mishakal, il bagliore argenteo quasi accecante di Kiri-Jolith.
Le nicchie sul lato opposto della sala erano buie e sembravano assorbire la luce. Il simbolo terrificante di Sargonnas, Dio della Vendetta, aggiungeva oscurità all’oscurità. La nicchia di Morgion era di un nero-verde ripugnante, quella di Chemosh di un bianco osseo agghiacciante.
Le nicchie intermedie, che separavano le tenebre dalla luce, sforzandosi di tenere a freno entrambe, appartenevano agli dei neutrali. Al centro vi era la nicchia sacra a Gilean. Sull’altare era posato un libro aperto. Una luce rossa illuminava una bilancia, in perfetto equilibrio, che si trovava al centro.
Sui due lati dell’altare di Gilean, una a sinistra e una a destra, vi erano due nicchie che non erano né buie né luminose, ma erano entrambe avvolte nell’ombra, come se su di loro fosse stato sospeso un velo. Un tempo, una era stata di un’oscurità impenetrabile, l’altra di una luminosità insopportabile. Entrambe ora erano vuote: gli altari di Takhisis, scacciata, e di Paladine, in esilio volontario.
La Sala era colma di oggetti sacri, accatastati sopra gli altari, ammucchiati in pile o gettati alla rinfusa sul pavimento. Portati qui dai soldati del Re-Sacerdote, erano stati gettati senza troppe cerimonie in questo magazzino della vergogna.
Rhys non riusciva a parlare. Non riusciva a vedere per via delle lacrime. Cadde in ginocchio e, deponendo con cura il bastone al suo fianco, congiunse le mani in preghiera.
“Signor monaco, vieni con me…” esordì Mina.
“Non credo che ti senta”, disse Nightshade.
Mina emise un breve sospiro. “Lo so come si sente. Io ho provato la stessa sensazione quando sono venuta qui… come se tutti gli dei si fossero riuniti attorno a me e mi stessero guardando. E io ero tanto piccola e sola.”
Fece una pausa, poi diede un’occhiata trepidante alle nicchie. “Ma devo comunque prendere il mio dono per Goldmoon e non voglio andarci da sola.” Si rivolse al kender. “Vieni tu con me.”
Nightshade lanciò un’occhiata bramosa agli altari, al vasto assortimento di oggetti strani e bellissimi, orribili e meravigliosi.
“Meglio di no”, disse alla fine, con rammarico. “Io sono un mistico, sai, e non sarebbe giusto.”
“Che cos’è un mistico?” domandò Mina.
“E un… ecco…” Nightshade era confuso. Prima di allora non gli era mai stato chiesto di definirsi. “Vuol dire che io non credo negli dei. Cioè, io credo negli dei: per forza, ho conosciuto Majere”, soggiunse con orgoglio. “Majere mi ha perfino aiutato a scassinare un lucchetto, anche se Rhys ha detto che un dio che scassina una serratura è un evento unico e io non devo aspettarmi che lo faccia ancora. Essere un mistico vuol dire che io non prego gli dei come fa Rhys. Come sta facendo adesso. Bè, immagino di avere effettivamente pregato Majere, ma quella preghiera non era per me. Era per Rhys, che non poteva pregare perché era quasi morto.”
Mina pareva confusa, e Nightshade decise di riassumere la sua spiegazione.
“Essere un mistico vuol dire che a me piace starmene per conto mio senza infastidire nessuno.”
“Ottimo”, disse Mina. “Puoi startene per conto tuo con me. Io non voglio tornare lì da sola. È un luogo buio e spettrale. E potrebbero esserci dei ragni.”
Nightshade scrollò il capo.
“Per favore!” implorò Mina.
Nightshade dovette ammettere di essere tentato. Peccato che Mina avesse menzionato i ragni…
“Non hai coraggio!” lo canzonò Mina.
Nightshade tentennò.
“Non hai coraggio, sei un fifone!” disse Mina.
Questo fu decisivo. Era in gioco l’onore di Nightshade. Nessun kender nella lunga e gloriosa storia dei kender si era mai tirato indietro in una sfida del genere.
“Arrivo prima io!” gridò, e sfrecciò via.
Caele non aveva mai visto effettivamente la Sala del Sacrilegio, ma era stato capace di visualizzarla con il suo incantesimo. Il drago, Midori, una volta gliel’aveva descritta. Caele all’epoca non aveva prestato grande attenzione alla descrizione; il drago aveva blaterato un po‘“in proposito semplicemente per tormentarlo. Midori sapeva che il mago era terrorizzato e lei trovava divertente tenerlo a distanza di spuntino.
Caele era stato male per la paura il giorno in cui il drago aveva trascorso un’orribile mezz’ora a blaterare del castello di sabbia e di come Nuitari fosse stato astuto nel costruirlo per ospitare gli oggetti sacri e di come fosse un peccato che lui (Caele) non potesse vederlo mai in vita sua. Caele non rammentava quasi nulla di quella conversazione, ma riuscì a recuperare dalla memoria le parole “castello di sabbia” e con questa immagine in mente fu trasportato dalla sua magia in quel luogo.
Comparve sulla soglia e subito si immobilizzò, non osando muoversi finché non avesse valutato la situazione. Il monaco era in ginocchio e piagnucolava. Il cane era accovacciato al suo fianco. Il kender e la monella erano andati a saccheggiare un altare. Nessuna traccia di Basalt.
Caele aveva progettato di uccidere subito il monaco, ma l’incantesimo micidiale che voleva lanciare gli uscì di mente mentre il suo sguardo sbalordito passava da un altare all’altro. Neanche nei suoi sogni più avidi aveva mai immaginato quelle ricchezze insondabili. Ed erano lì esposte, incustodite, imploravano semplicemente di essere portate via e vendute al miglior offerente. Caele era tanto commosso che si sarebbe messo a piagnucolare come il monaco.
Di scatto tornò alla realtà. Prima di tutto doveva sbarazzarsi della concorrenza. Caele conosceva un’infinità di incantesimi che uccidevano le persone in vari modi sgradevoli. Stava mettendo mano alla calamita magica che avrebbe disintegrato il monaco riducendolo in masse di carne grumose e grondanti quando colse un movimento vicino a uno degli altari.
Caele guardò fisso in quella direzione. Non sapeva bene a quale dio appartenesse quell’altare, e nemmeno gli importava. Uno degli oggetti che luccicavano sull’altare era un calice incastonato di gioielli. Caele aveva già notato che era particolarmente prezioso, e si rese conto che anche qualcun altro ne aveva intuito il valore. Una forma indistinta vi si avvicinò furtivamente: una forma indistinta e pelosa che allungava la mano.
“Basalt!” ringhiò Caele.
La cagna balzò in piedi abbaiando.
Nightshade se ne stava con le mani in tasca, concentrandosi intensamente per tenerle ferme lì. Mai prima d’allora aveva visto tanti oggetti interessanti, curiosi e meravigliosi, tutti raccolti insieme nello stesso posto. Tutto ciò che guardava pareva gridargli di voler essere toccato, raccolto, picchiettato, scosso, annusato, slegato, aperto, sganciato, stappato, srotolato o come minimo infilato in una sacca per un esame più approfondito.
Diverse volte le mani di Nightshade cercarono di balzare fuori dalle tasche e fare tutte le cose summenzionate. Con un grande sforzo di volontà il kender riuscì a tenerle sotto controllo, ma aveva la sensazione che la sua volontà si facesse sempre più debole e le mani si facessero sempre più forti.
Sperava che Mina si sbrigasse.
Inconsapevole della lotta in atto nelle tasche del kender, Mina vagava avanti e indietro fra i due altari, entrambi nell’ombra più fitta, guardando gli oggetti accatastati lì attorno. Aveva le labbra increspate, la fronte aggrottata. A quanto pareva stava cercando di decidersi, poiché talvolta allungava la mano su un oggetto, poi la ritirava e si spostava su qualcos’altro. Nightshade soffriva. Una mano era già scivolata fuori di tasca e lui aveva usato l’altra per afferrare la prima e ricacciarla dentro. Era sul punto di gridare a Mina di decidersi quando l’abbaiare di Atta (che risuonò innaturalmente forte nel silenzio assoluto della Sala) fece quasi sobbalzare il kender da sotto il ciuffo.
“Mina!” gridò Nightshade. “E uno di quei maghi cattivi! E qui!”
“Lo so”, disse Mina alzando le spalle. “Sono qui tutti e due. L’altro si aggira furtivamente attorno all’altare di Sargonnas.” Fece un sorriso scaltro. “Il nano pensa di essere furbo. Non sa che noi possiamo vederlo.”
Inizialmente Nightshade non vide nulla, ma poi, come previsto, scorse un nano che si muoveva di soppiatto attorno a uno degli altari. Aveva messo gli occhi su un calice tempestato di gemme che aveva un basamento a forma di testa di minotauro appoggiata sulle corna.
Atta abbaiava all’altro mago che stava in agguato sulla soglia. Rhys era in ginocchio, il suo intero essere era rivolto al suo dio. Caele aveva la mano in un borsellino, e Nightshade sapeva abbastanza dei maghi per ritenere improbabile che stesse cercando una mentina.
“Mina, credo che cercherà di uccidere Rhys!” disse con sollecitudine Nightshade.
“Sì, è probabile”, concordò Mina. Stava ancora rimuginando sulle sue scelte.
“Dobbiamo fare qualcosa!” disse stizzito Nightshade. “Fermarlo!”
Mina sospirò. “Non riesco a decidere quale possa piacere alla mamma. Non voglio commettere un errore. Tu che ne pensi?”
Nightshade non pensava niente. Caele stava puntando qualcosa contro Rhys e cantilenava.
Nightshade fece per urlare un avvertimento, ma l’urlo si trasformò in un gorgoglio di stupore. Una fune fatta di canapa e intrecciata di foglie di agrifoglio, che era attorcigliata sull’altare di Chislev, sfrecciò come un serpente nell’atto di colpire e si avvolse attorno alle braccia di Caele, inchiodandogliele sui fianchi. Le parole dell’incantesimo del mezzelfo si conclusero con uno strillo. Il mago cadde a terra, rotolando e cercando di liberarsi della fune che lo stringeva.
In quel momento Basalt afferrò il calice e (con stupore di Nightshade) lo usò per colpirsi sulla testa. Basalt ululò di dolore e cercò di sbarazzarsi del calice, ma finì col colpirsi di nuovo. Continuò a picchiarsi col calice, incapace di fermarsi. Il sangue gli colava sul viso. Il nano barcollò qua e là malfermo sulle gambe, gemendo per il dolore, quindi cadde a terra privo di sensi. Soltanto allora smise di picchiarsi.
Nightshade deglutì. Le sue mani, ancora nelle tasche, se ne stavano adesso lì comode, senza esprimere alcun desiderio di toccare alcunché.
“Penso che dovremmo andarcene da questo luogo”, disse Nightshade con voce bassa e ferma.
“Prenderò questo”, disse Mina, decidendosi finalmente.
“Non toccare niente!” avvertì Nightshade, ma Mina non gli prestò attenzione. Raccolse dall’altare di Paladine un piccolo cristallo intagliato a forma di piramide e rimase lì ad ammirarlo. Non avvenne nulla.
Tenendo in mano il piccolo cristallo, Mina andò all’altare di Takhisis e, dopo un attimo di indecisione, scelse una collana dall’aspetto indefinibile, fatta di perline luccicanti.
“Credo che alla mamma piaceranno queste cose”, annunciò.
“Che cosa sono?” domandò Nightshade. “Che cosa fanno? Lo sai, almeno?”
“Certo che lo so!” disse Mina, offesa. “Non sono mica scema. Io so tutto di tutto.”
Nightshade dimenticò per un attimo che Mina era una dea e probabilmente sapeva davvero tutto di tutto. Emise un sbuffo sgarbato, che esprimeva incredulità, e la sfidò: “Che cos’è la collana, allora?”.
“Si chiama “Sedizione””, disse Mina, soddisfatta della propria conoscenza. “L’ha fabbricata Takhisis. Chi la indossa ha il potere di far diventare malvagie le persone buone.” Nightshade stava per ribattere: “Vuoi dire come te?” ma ci ripensò. Anche se Mina l’aveva quasi fatto annegare, lui non voleva urtarne i sentimenti.
“E la piccola piramide?” domandò. “Questa era sacra a Paladine.” Mina la sollevò per vedere il cristallo scintillare alla luce azzurra proveniente dall’altare di Mishakal. “Questo gioiello fa brillare la luce della verità sulle persone. È per questo che il Re-Sacerdote dovette nasconderlo. Temeva che la gente vedesse lui per quello che era realmente.”
Nightshade ebbe un’idea. “Bah, non ti credo. Lo stai inventando.”
“È la verità!” ribatté stizzita Mina.
“Allora fammelo vedere”, disse Nightshade allungando la mano per avere il cristallo.
Mina esitò. “Prometti che me lo restituisci?”
“Mi faccio la croce sul cuore e spero di morire se non mantengo la promessa”, affermò solennemente Nightshade.
Poiché lui aveva pronunciato questo terribile giuramento, sacro all’infanzia di tutto il mondo, Mina accettò. Mise il cristallo a forma di piramide in mano al kender.
“Che devo fare?” domandò, osservandolo con curiosità e con un po‘“di circospezione. Si stava chiedendo all’improvviso se l’oggetto sacro potesse offendersi per essere usato da un mistico.
“Tienilo vicino all’occhio e guarda qualcosa attraverso”, disse Mina.
“Che cosa vedrò?”
“Come faccio a saperlo?” domandò lei. “Dipende da quello che guardi, tonto.”
Nightshade sollevò il cristallo e guardò il mago nano steso a terra. Vide un mago nano steso a terra. Guardò Caele e vide Caele. Guardò Rhys e vide Rhys. Guardò Atta e vide una cagna. Pensando che fosse un oggetto sacro piuttosto scadente, Nightshade puntò il cristallo verso Mina.
Una luce bianca la illuminava e si rifletteva tutto attorno a lei, rischiarandola di dentro e di fuori. Nightshade sbatté gli occhi, poiché era mezzo accecato. Cercò di abituarsi alla luce, di fissarla per vedere più chiaramente, ma la luce si fece ancora più brillante, ancora più radiosa. Vivida e accecante, la luce aumentò, costringendo il kender a chiudere gli occhi. La luce si espanse e si intensificò; la luce di una miriade di soli, la prima luce, la luce della creazione. Nightshade urlò di dolore e lasciò cadere il cristallo e rimase lì a strofinarsi gli occhi ardenti.
Una volta, quando era un piccolo kender, aveva guardato dritto verso il sole solo perché sua madre gli aveva detto di non farlo. Per lunghi minuti non aveva visto altro che macchie scure come piccoli soli neri, ed era tutto ciò che adesso riusciva a vedere. Per un attimo breve e terrificante si domandò se in futuro non avrebbe visto altro. E dopo quello che aveva visto si domandò se forse non avrebbe voluto vedere altro.
Mina afferrò il cristallo caduto.
“Ebbene”, disse, “che cosa hai visto?”.
“Macchie”, disse Nightshade, strofinandosi gli occhi.
Mina era delusa. “Macchie? Devi avere visto qualcos’altro.”
“No!” ribatté irritato Nightshade. “Forse non funziona.”
“Forse non sapevi che cosa stavi guardando!” lo canzonò Mina.
“Oh, lo sapevo”, disse Nightshade. Per fortuna le macchie cominciavano a svanire. Il kender si deterse il sudore dalla fronte. Gli sembrava strano sudare mentre aveva ancora la pelle d’oca sulle braccia.
Mina si infilò in tasca gli oggetti sacri e poi gli sorrise.
“Tocca a te”, disse. “Per che cosa?”
Mina agitò la mano. “Sei venuto con me. Puoi prendere un oggetto sacro. Quello che preferisci.”
Nightshade vedeva Basalt steso insanguinato a terra e udiva gli strilli di terrore di Caele. Si infilò le mani in tasca.
“No. Grazie, comunque.” “Gatto fifone”, lo schernì Mina.
Andando all’altare di Majere, raccolse qualcosa di lucente e lo porse a Nightshade.
“Ecco”, disse. “Dovresti prendere questo.”
In mano teneva uno spillone d’oro da mantello a forma di cavalletta. Nightshade si rammentò di quella volta che lui e Atta erano stati aggrediti da due Prediletti ed erano stati salvati da un esercito di cavallette. Lo spillone, sul quale dei rubini fungevano da occhi, era fabbricato con una tale perizia che sembrava potesse saltare da un momento all’altro. Nightshade ne era affascinato e lo desiderava più di ogni altra cosa in vita sua. La mano gli tremava nella tasca.
“Sei sicura che a Majere non dispiacerà se lo prendo?” domandò. “Non vorrei fare qualcosa che lo faccia arrabbiare.”
“Sono sicura”, disse Mina, e prima che Nightshade potesse protestare gli appuntò lo spillone sulla camicia.
Nightshade si irrigidì per la paura, quasi aspettandosi che lo spillone gli volasse su per il naso o lo picchiasse sulla testa. La cavalletta se ne stava docile sulla camicia. A Nightshade, che la osservava meravigliato, parve che gli occhi rossi ammiccassero verso di lui.
“Che cosa fa?” domandò.
“È una cavalletta, tonto”, disse Mina. “Che cosa pensi che faccia?”
“Salta?” Nightshade azzardò questa ipotesi.
“Sì”, disse Mina, “e farà saltare anche te. Tanto in alto e lontano quanto tu vorrai andare”.
“Oooh, ragazzi”, sospirò Nightshade.
Rhys non aveva né udito né visto nulla. Il nano ululava, Caele imprecava, Atta abbaiava e Rhys ne era ignaro. L’unico suono che udisse era la voce del dio. E poi Rhys sentì una mano che gli picchiava sulla spalla, e alzò la testa. La voce del dio cessò. “Signor monaco, ho i miei doni per Goldmoon”, disse Mina, mostrandogli i due oggetti. “Adesso possiamo andare.”
Rhys si alzò. Era rimasto in ginocchio per terra a lungo, a quanto pareva, poiché aveva le ginocchia doloranti e le gambe rigide. Guardandosi attorno, rimase sbalordito nel vedere le due Vesti Nere stese a terra: un mago legato e strillante, l’altro insanguinato e privo di sensi.
Guardò Nightshade per avere una spiegazione.
“Hanno fatto arrabbiare gli dei”, rispose il kender.
Rhys rimase notevolmente sconcertato da questa affermazione, ma prima che potesse porre domande Mina urlò impaziente che era pronta per partire.
“Che ne facciamo di faccia di donnola e palla di pelo?” domandò Nightshade.
“Lasciamoli qui”, disse Mina, con occhio torvo. “Chiudiamoli dentro e lasciamoli morire. Così imparano.”
“Ma non possiamo!” disse Rhys, sconvolto.
“Perché no? Stavano per ucciderci”, ribatté Mina.
Rhys abbassò lo sguardo verso Caele, legato con la fune benedetta, che si contorceva sul pavimento. Il mezzelfo lottava tra la furia e la paura. Un momento digrignava i denti e ringhiava minacce e un momento dopo piagnucolava per essere salvato. L’altro mago, Basalt, aveva ripreso conoscenza e si lamentava che gli doleva la testa.
“So come si sente Rhys”, disse Nightshade dando un’occhiata a Mina. “Lei però ha ragione, Rhys. Faccia di donnola stava per ucciderti con un incantesimo magico, se non fosse stato fermato da chissà quale dio con quella corda. Non dovremmo lasciarli liberi.”
“Io non lascerò morire nessuno”, disse Rhys severamente, con un tono che non accettava discussioni. “Possiamo perlomeno portarli fuori di qui. Tu prendilo da quella parte.”
“Puah!” disse Nightshade, arricciando il naso mentre sollevava i piedi nudi di Caele. “Non avrei mai pensato di dirlo, ma mi dispiace che qui dentro non ci sia più acqua.”
Mentre Mina osservava con disapprovazione, Rhys e Nightshade trasportarono prima Caele e poi Basalt fuori della Sala del Sacrilegio e deposero i due maghi sulla sabbia umida.
“Atta, guardia!” disse Rhys, indicando i maghi.
“Non penso che sarà necessario”, disse Nightshade a bassa voce. “Penso che stia arrivando qualcuno a prenderli.”
Un uomo che indossava una sontuosa veste nera attraversò la sabbia umida. Il volto di luna rotonda dell’uomo era pallido per la furia, gli occhi erano freddi e scintillanti. Mina afferrò la mano di Rhys. Atta si infilò dietro a Rhys, e Nightshade ritenne prudente ritornare nella Sala. Lo sguardo irato dell’uomo si posò di sfuggita su tutti loro, si soffermò brevemente su Mina, poi investì con piena forza i maghi.
Caele vide chi stava arrivando e prese a farfugliare.
“Padrone Nuitari, non è stata colpa mia! Basalt mi ha costretto a venire…”
“Ti ho costretto io?” sbottò Basalt, ma il suo grido gli fece dolere la testa e gli provocò un gemito. “Non credetegli, padrone. È stato questo bastardo di elfo…”
Il volto di luna si contorse per la furia. Nuitari tese la mano, e i due maghi scomparvero.
Il Dio della Luna Nera si rivolse a Rhys. “Le mie scuse, monaco di Majere. Questi due non ti infastidiranno più.”
Rhys si inchinò.
“Scusatemi, Nuitari”, intervenne Nightshade al sicuro sulla soglia, “per compensare il fatto che i vostri maghi hanno cercato di ucciderci, non potreste sbarazzarci dei Prediletti? Non intendo lamentarmi, ma hanno invaso la vostra torre e non ci lasceranno partire”.
“Questa non è più la mia torre”, rispose Nuitari e con una fredda occhiata a Mina scomparve.
“E allora chi li teneva a bada?” domandò Nightshade, perplesso.
“Probabilmente Mina”, disse Rhys. “Solo che non lo sapeva.”
Nightshade brontolò qualcosa di inintelligibile, quindi disse: “Allora che facciamo riguardo ai Prediletti?”.
“Fintanto che Mina è con noi, non penso che i Prediletti ci facciano del male”, rispose Rhys.
“E che succede se Mina cerca di andarsene?”
“Non lo so, amico mio”, disse Rhys. “Dobbiamo avere fede che…” Si interruppe, stringendo gli occhi. “Nightshade, dove hai preso quello spillone d’oro?”
“Non l’ho preso”, disse prontamente il kender.
“Sono sicuro che tu non intendessi prenderlo”, suggerì Rhys. “Immagino che tu l’abbia trovato per terra…”
“…dove l’ha lasciato cadere un dio?” Nightshade gli sorrise. “Non l’ho rubato, Rhys. Sinceramente. Me l’ha dato Mina.”
Abbassò lo sguardo con orgoglio verso la cavalletta. “Ti ricordi quando Majere ha mandato le cavallette a salvarmi? Penso che sia il suo modo per dire grazie.”
“Sta dicendo la verità”, intervenne Mina. “Il dio voleva che lo tenesse lui. Così come gli dei volevano che io prendessi i miei doni per Goldmoon. Adesso che ci penso, non potresti portarmeli tu?” Mina porse i due oggetti sacri a Rhys. “Ho paura di perderli.”
“Qualunque cosa tu faccia”, lo avvertì Nightshade, “non metterti la collana!”.
“Penso che a Goldmoon piaceranno”, proseguì Mina, consegnando a Rhys prima la piramide di cristallo e poi la collana. “Quando gli dei se n’erano andati, Goldmoon mi diceva di essere molto triste. Anche se erano trascorsi anni e anni, sentiva ancora la loro mancanza. Io le ho promesso di ritrovare gli dei e di riportarglieli. E così ho fatto.”
Mina sorrise, compiaciuta di se stessa.
Rhys rabbrividì. Mina non aveva trovato una dea. La dea, Takhisis, aveva trovato lei. Takhisis aveva mentito a Mina e l’aveva corrotta rendendola schiava delle tenebre, quando avrebbe dovuto gioire della luce. Mina era stata una vittima inconsapevole oppure sapeva distinguere il Bene dal Male e aveva scelto volontariamente le tenebre? E ora stava cancellando i ricordi, cercando di dimenticare i crimini terribili che aveva commesso? Oppure aveva davvero dimenticato? Stava recitando? Oppure si trattava di follia?
Forse nemmeno Mina conosceva la risposta. Forse era per questo che andava a Godshome. E Rhys avrebbe compiuto questo strano viaggio con lei, l’avrebbe difesa, guidata, protetta.
Rhys ripose nella bisaccia gli oggetti sacri, la piramide di cristallo e la collana. Se qualcuno avesse scoperto che trasportava simili tesori preziosi, lui e i suoi accompagnatori si sarebbero trovati in pericolo mortale. Pensò di dire qualcosa a Mina e a Nightshade, avvertendoli che dovevano tenere segreti gli oggetti sacri. Scartò questa idea, decidendo che meno raccomandazioni avesse fatto in proposito e meglio sarebbe stato. Si poteva sperare che tanto il kender quanto la bambina se ne dimenticassero.
Era proprio quello che Mina sembrò fare. Adesso che era libera da quel fardello, prese a stuzzicare Nightshade, chiedendogli con un risolino se gli sarebbe piaciuto andare di nuovo a nuotare. Quando lui disse ad alta voce “no!”, Mina gli rifilò un pugno sul braccio dandogli del poppante, e lui le restituì un pugno sul braccio chiamandola monella, poi corsero via, prendendosi reciprocamente a calci nelle caviglie per farsi lo sgambetto. Atta, a un gesto di Rhys, li rincorse per tenerli d’occhio.
I frammenti di vetro erano scomparsi, così come l’acqua marina, presumibilmente a un comando di Mina.
Rhys si attardò nei pressi della Sala, riluttante ad andarsene. Majere gli aveva parlato dentro il Solio Febalas, gli aveva parlato non alla testa ma al cuore. Rhys vedeva chiaramente la strada che doveva percorrere, ed era lunga. Mina aveva scelto lui come guida, come maestro. Lui non capiva perché, dato che nemmeno gli dei lo capivano. La sua posizione era difficile e pericolosa poiché lui era un tutore ma la sua pupilla era molto più forte e potente di lui. Era una guida che poteva solamente seguire, poiché Mina soltanto doveva trovare la strada da percorrere. Rhys aveva accettato la fiducia riposta in lui e sperava di esserne all’altezza.
“Signor monaco, sbrigati!” gridò impaziente Mina. “Adesso sono pronta per andare a Godshome!”
La porta del Solio Febalas si richiuse lentamente. Lo smeraldo verde brillava di una radiosità tenue. Rhys si inchinò con profonda riverenza, si girò e si affrettò per raggiungere Mina.
Nuitari stava in agguato attorno alla Sala del Sacrilegio. Il Dio della Luna Nera puntava un occhio dalla palpebra pesante verso la porta che adesso era sbarrata e sigillata e l’altro occhio verso il collega dio Chemosh, Signore delle Ossa, che pure si aggirava attorno alla Sala.
Entrambi gli dei erano stati costretti ad aspettare che Mina aprisse la porta per entrare nella torre, cosa che Nuitari aveva trovato particolarmente irritante, poiché questa torre di diritto era sua. I suoi cugini avevano accettato che la tenesse lui. Nuitari aveva rinunciato alla Torre di Wayreth e alla Torre di Nightlund per ottenere questa. E poiché il Solio Febalas era ubicato all’interno della torre, lui riteneva che anche la Sala appartenesse a lui. Dopo tutto, i tesori sommersi appartenevano a chiunque li trovasse.
Certo, la Sala del Sacrilegio non era una nave inabissatasi durante una tempesta, ma a suo parere la legge del mare si applicava anche a questo caso. Chemosh non si lasciava indurre ad accettare questa visione perfettamente logica, il che si stava rivelando una maledetta seccatura. Gli oggetti sacri erano suoi, affermava Chemosh, e li rivoleva.
Nessuno dei due dei era potuto entrare quando Mina si trovava dentro con la sua compagnia eterogenea formata dal monaco e dal kender. Quest’ultimo destava apprensione in entrambi gli dei, che si immaginavano i preziosi oggetti sacri, capaci di produrre miracoli infiniti, sparire dentro i borsellini e le tasche del kender, andare perduti lungo la strada o venire barattati con sei pigne e un grillo ammaestrato. Ognuno di loro aveva provato un profondo senso di sollievo nel vedere Mina e compagni allontanarsi a quanto pareva con soltanto due oggetti sacri, più un insetto d’oro di scarso valore.
Quando il monaco se n’era andato, la porta si era richiusa. Chemosh sospettava che l’avesse chiusa Nuitari e quest’ultimo sospettava di Chemosh. Entrambi gli dei attesero che l’altro facesse la prima mossa. Alla fine Nuitari non ce la fece più.
“Vado a dare un’occhiata dentro per accertarmi che il kender non abbia sgraffignato tutto.”
“Vengo con te”, disse subito Chemosh.
“Non serve”, disse Nuitari con tono mellifluo.
“Ma io insisto”, rispose Chemosh.
Entrambi gli dei esitarono, scrutandosi a vicenda minacciosi, poi si diressero verso la porta. Entrambi allungarono la mano per aprire con uno strattone la porta del castello fatto di sabbia.
Una voce immortale, severa e incollerita, parlò a ciascuno di loro.
“Un tempo ciascun granello di sabbia era una montagna. Così tutte le cose di apparente potenza e importanza diventano insignificanti. Tutte le cose.”
Un’onda che avanzava dall’inizio del tempo si schiantò sul Solio Febalas, lo inondò e, ritirandosi, lo trasportò nel vasto oceano dell’eternità.
Scossi fin nel profondo del loro essere immortale, gli dei crollarono sulla sabbia umida; nessuno dei due osava muoversi né guardare, per timore di attirare su di sé l’ira del Dio Supremo. Alla fine Chemosh alzò la testa e Nuitari aprì gli occhi.
La Sala del Sacrilegio non c’era più, portata via dall’onda.
Chemosh si alzò e si spazzò via la sabbia dalle maniche di pizzo, allontanandosi a lunghi passi con quel poco di dignità che gli rimaneva. Nuitari si alzò in piedi e si scrollò la veste nera. Non se ne andò, ma indugiò lì, fissando la sabbia liscia nel punto in cui prima si trovava la Sala. Aveva trascorso anni a studiare la storia degli oggetti sacri e a catalogarli uno per uno. Li conosceva tutti, era al corrente delle loro intenzioni, sapeva quanto gli altri dei avrebbero pagato caro per ottenerli. Non con oro, acciaio o gioielli, naturalmente; a Nuitari interessavano poco. Ma in altri modi. Zeboim sarebbe stata convinta a non molestare la torre. I maledetti paladini di Kiri-Jolith avrebbero smesso di infastidire le Vesti Nere. Sargonnas sarebbe stato costretto a consentire ai suoi minotauri di praticare liberamente la magia, e così via.
Ma il Dio Supremo, che non parlava mai, aveva parlato. Forse andava bene così. Gli oggetti sacri e la Sala stessa appartenevano a un’epoca e a un luogo che ormai non esistevano più da tempo. Il mondo era andato avanti. Meglio lasciarli nella polvere del passato. Comunque Nuitari non poteva fare a meno di domandarsi imbronciato perché Mina avesse avuto dal Dio Supremo il permesso di entrare nella Sala mentre a lui e agli altri era stato impedito.
Il Dio della Magia Nera si allontanò dal luogo su cui in precedenza sorgeva la Sala, ma non se ne andò. Concesse il Solio Febalas al Dio Supremo.
In cambio, Nuitari rivoleva la sua torre.
Mina faceva strada, poiché Rhys e Nightshade avevano perso il senso dell’orientamento. La bambina era felice e rideva, saltellando davanti a loro e voltandosi per rimproverarli della loro lentezza. La distanza dalla Sala alla torre non era lunga, e una breve camminata li ricondusse alle scale.
Mina avrebbe voluto affrettarsi immediatamente, ma Rhys le pose una mano sulla spalla per trattenerla.
“Che c’è?” domandò Mina alzando lo sguardo su di lui. Puntò il dito verso l’alto lungo le scale. “Si esce di qui.”
“È meglio essere prudenti”, disse Rhys. “Lasciami andare avanti per primo. Tu seguimi con Nightshade.”
“Ma tu sei troppo lento”, si lamentò Mina mentre cominciavano a salire la scala a chiocciola. “Ho prelevato i miei doni. Devo andare subito a Godshome.”
“Godshome è molto lontana”, brontolò Nightshade. Quella scala non era stata costruita per le gambe corte di un kender, e lui doveva fare fatica per arrampicarsi su ogni gradino, col risultato che varie parti del corpo cominciavano a dolergli. “Molto, ma molto lontana.” “Lontana quanto?” domandò Mina.
“Chilometri”, disse Nightshade. “Chilometri e chilometri e chilometri.”
“Quanto tempo ci vorrà?”
“Mesi”, disse Nightshade con tono scontroso. “Mesi e mesi.”
Mina lo fissò sgomenta, quindi rise. “Non essere sciocco!” disse, soggiungendo con impazienza: “Voi due siete troppo lenti. Io vado avanti”.
“Mina, aspetta! I Prediletti…” urlò Rhys cercando di afferrarla, ma Mina si divincolò e corse su per le scale.
“Vi aspetto in cima!” promise.
“Atta, vai con lei!” ordinò Rhys e, mentre la cagna correva via, si girò per aiutare Nightshade, che a ogni passo gemeva e si strofinava le cosce doloranti.
“Ipotizzando di superare vivi i Prediletti (ed è un’ipotesi davvero azzardata), dove andiamo adesso?” domandò il kender.
“Dobbiamo trovare Godshome”, rispose Rhys.
Nightshade contrasse il volto e scrutò attentamente Rhys. “Tu hai intrattenuto una lunga conversazione con Majere laggiù nel “Solo Flaccido”. Non ti ha detto dove trovare Godshome?”
Rhys scrollò il capo e lanciò un’occhiata preoccupata su per le scale.
“Majere avrebbe dovuto darti una mappa. O indicarti dei punti di riferimento”, insistette Nightshade. “Capisci: “Vai a sinistra alla biforcazione poi avanza di venti passi e gira a destra all’albero colpito dal fulmine”. Qualcosa del genere.”
“Non l’ha fatto”, disse Rhys. “Godshome non è un luogo che si possa trovare su una carta geografica.”
“Oh, capisco”, disse malinconicamente Nightshade. “Questo è uno di quei cosiddetti viaggi… Lo sai, quel genere che dovrebbe insegnarti qualcosa.”
“Viaggio spirituale”, disse Rhys.
“Giusto. Gli dei tengono molto ai viaggi spirituali. Ecco un altro motivo per cui io sono diventato un mistico. Quando viaggio, mi piace che ci sia un inizio, un centro e una fine. E mi piace che alla fine vi sia una taverna con qualcosa di buono da mangiare. I viaggi spirituali sono celebri per la mancanza di cose buone da mangiare.”
Rhys afferrò l’amico per il braccio e lo sollevò di un altro scalino. “Sei saggio, come sempre, Nightshade. E hai ragione. Il viaggio sarà lungo e potrebbe essere pericoloso. Io e te ne abbiamo già parlato, ma adesso riesci a comprendere quanto possa essere pericoloso. Se vuoi andartene per la tua strada e lasciare che noi procediamo per la nostra, ti capisco.”
“Me ne andrei in un batter d’occhio”, affermò Nightshade, “se non fosse per il cibo gratis”.
Rhys sospirò. “Nightshade…”
“Rhys, Mina può evocare per magia i pasticci di carne! Così!” Il kender fece schioccare le dita. “Sarei pazzo ad allontanarmi da una persona capace di questo, anche se è una dea e suonata come un tamburo. E a proposito di pasticci di carne, mi viene in mente che l’ora di cena deve essere passata da un pezzo.”
Superarono una curva della scalinata e videro il pianerottolo, ma nessuna traccia di Mina né della cagna. Rhys si fermò, zittì Nightshade che stava per parlare. Rimasero entrambi in ascolto.
“I Prediletti”, disse Nightshade.
“Temo di sì.” Rhys afferrò il kender e lo trascinò con sé.
“Forse Majere ci aiuterà a sfuggire a quelli lì.”
“Non sono sicuro che ne sia in grado”, rispose Rhys.
“E Zeboim? Sarei perfino contento di vederla in questo momento, e non avrei mai pensato di dire una cosa simile!” disse Nightshade, ansimando.
“Non credo che qualche dio possa aiutarci. Siamo stati testimoni del loro fallimento a Solace. Ti ricordi? Il paladino di Kiri-Jolith non era riuscito a uccidere i Prediletti, e nemmeno ci era riuscita la magia di Sua Signoria Jenna. I Prediletti sono legati a Mina.”
“Ma lei non se li ricorda!” Nightshade agitò freneticamente le braccia e quasi ruzzolò giù per le scale. “Ne è terrorizzata!”
“Sì”, concordò Rhys, rimettendolo in piedi. “È vero.”
Nightshade lo guardò furioso.
“Mi dispiace, amico mio”, disse sconcertato Rhys. “Non so che dirti. Se non che dobbiamo avere fede…”
“In che cosa?” domandò Nightshade. “In Mina?”
Rhys diede una pacca sulle spalle al kender. “In noi due.”
““Non andare a raccogliere guai”, mi diceva mio padre”, mormorò Nightshade, “anche se il caro vecchio babbo raccoglieva ogni altra cosa che non fosse inchiodata…”.
Furono interrotti da uno strillo acuto e da voci imploranti.
Mina ridiscese le scale ruzzolando. “Signor monaco! Quei morti orribili sono lì sopra! Qualcuno ha aperto la porta…”
“Qualcuno?” ringhiò Nightshade.
“Immagino di averla aperta io”, ammise Mina. Aveva il volto pallido, gli occhi d’ambra spalancati. Guardò Rhys con aria lamentosa. “Lo so che mi avevi detto di restare con te. Mi dispiace di non avere obbedito.” Gli prese la mano, stringendola con fermezza. “Adesso resto con te. Lo prometto. Ma non penso che i morti ci lasceranno uscire”, soggiunse con un fremito nella voce. “Credo che vogliano farmi del male.”
“Avresti dovuto pensarci prima di farli diventare morti!” gridò Nightshade.
Mina lo fissò meravigliata. “Perché mi sgridi? Io non so niente di loro. Io li odio!” Scoppiò in lacrime e cingendo con le braccia Rhys nascose la testa poggiandola sul ventre del monaco.
“Mina, Mina…” invocavano i Prediletti.
Si stavano radunando sul pianerottolo, ammassandosi sotto l’ingresso ad arco. Rhys non riusciva a contare quanti fossero. Nessuno di loro lo guardava. Nessuno guardava Nightshade né Atta. Gli occhi morti dei Prediletti erano fissi su Mina. Quelle bocche morte pronunciavano il suo nome.
Mina sbirciò fuori dalle pieghe della veste di Rhys e, vedendo i Prediletti che la fissavano, si fece piccola per la paura e gemette. “Non permettere che mi prendano!” “Non glielo permetterò. Non avere paura. Dobbiamo proseguire”, disse Rhys, cercando di parlare con calma.
“No, non voglio!” Mina si aggrappò a Rhys, trascinandolo indietro. “Non farmi andare lassù!”
“Nightshade, prendi il mio bastone”, disse Rhys. Si chinò e tirò su la bambina. “Reggiti forte.”
Mina gli mise le braccia al collo e gli cinse la vita con le gambe, nascondendo il viso contro la spalla di Rhys. “Non voglio guardare!”
“Anche a me piacerebbe non guardare”, mormorò Nightshade. “Non vorresti portare anche me, forse?”
“Avanti, cammina”, disse Rhys.
Salirono le scale, muovendosi con andatura lenta ma costante. Uno dei Prediletti fece un passo verso di loro. Nightshade si arrestò, riparandosi dietro a Rhys. Atta abbaiò e scattò in avanti, con le mascelle spalancate e i denti che brillavano. Mina urlò e si aggrappò a Rhys così fermamente che quasi lo soffocava.
“Atta! Smettila!” ordinò seccamente Rhys, e la cagna si ritrasse. Atta procedette al suo fianco, ringhiando per avvertimento, col labbro ritratto a mostrare i denti.
“Vai sempre avanti”, disse Rhys al kender.
Nightshade andò avanti, tallonando Rhys. I Prediletti non prestavano attenzione al monaco, al kender o alla cagna.
“Mina!” esclamavano i Prediletti, allungando le mani verso di lei. “Mina!”
La bambina scrollava il capo nascondendo il viso. Rhys pose il piede sull’ultimo gradino. Si sollevò su se stesso, lentamente. Salendo sull’ultimo gradino arrivò sul pianerottolo sotto l’arco.
I Prediletti gli bloccavano la strada.
Nightshade chiuse gli occhi e strinse con una mano la veste di Rhys e con l’altra l’emmide.
“Siamo morti”, disse Nightshade. “Non posso guardare. Siamo morti. Non posso guardare.”
Rhys, tenendo fra le braccia Mina, avanzò di un passo in mezzo alla folla di Prediletti. I Prediletti esitarono, poi, con gli occhi fissi su Mina, indietreggiarono per lasciare passare il monaco. Rhys li udì avvicinarsi alle sue spalle. Continuò a camminare a un’andatura lenta e regolare, e superarono l’arco entrando nell’atrio. Rhys si fermò, sopraffatto dallo sgomento. Nightshade emise un suono strozzato.
I Prediletti avevano invaso la torre. La scala a chiocciola proseguiva in alto fino in cima alla torre e c’erano morti viventi su ogni scalino. I Prediletti si ammassavano nell’atrio, accalcandosi l’uno contro l’altro, sgomitando e spintonandosi, mentre ognuno cercava di intravedere Mina; e altri ancora si spingevano attraverso l’ingresso, aprendosi la strada per entrare.
“Ce ne sono migliaia!” disse Nightshade deglutendo. “Devono essere qui tutti i Prediletti di Ansalon.”
Rhys non aveva idea di che fare. I morti viventi avrebbero potuto ucciderlo anche senza volerlo. Se si fossero spinti in avanti per afferrare Mina, la calca dei corpi li avrebbe schiacciati.
“Mina”, disse Rhys, “devo metterti giù”.
“No!” gemette la bambina, aggrappandosi a lui.
“Devo”, ripeté lui con fermezza, e la fece scendere a terra.
Nightshade porse a Rhys l’emmide. Rhys prese il bastone e lo tenne dritto orizzontalmente davanti a loro.
“Mina, stai dietro a me. Nightshade, prendi Atta.”
Nightshade afferrò la cagna per la collottola e la trascinò vicino a sé. Atta ringhiava, faceva scattare le mascelle ogni volta che i Prediletti si avvicinavano troppo; ne azzannò più di uno, ma quelli non ci badarono troppo. Mina si premeva contro Rhys, aggrappata alla sua veste. Rhys stava davanti a loro, reggendo il bastone con entrambe le mani, per tenere a bada i Prediletti. Si incamminò verso la porta a due battenti.
I Prediletti gli si ammassarono attorno, gareggiando fra loro per cercare di toccare Mina. Il suo nome risuonava per tutta la torre. Alcuni lo sussurravano come se fosse stato troppo sacro per pronunciarlo ad alta voce. Altri ripetevano “Mina” più volte ritmicamente in maniera ossessiva. Altri ancora piagnucolavano pronunciando il suo nome con tono implorante. Che venisse sussurrato o gridato con forza, le voci parevano cariche di dolore, intente a lamentare il loro destino.
“Mina, Mina, Mina.” Il nome della bambina era un vento mesto che sospirava nel buio.
“Falli smettere!” urlò Mina, coprendosi gli orecchi con le mani. “Perché mi chiamano per nome? Io non li conosco! Perché fanno così?”
I Prediletti gemevano e si accalcavano attorno a lei. Rhys li colpiva col bastone, ma era come cercare di ricacciare indietro le onde infinite. Il lamento mesto aveva assunto un tono differente. Adesso aveva una sfumatura di collera. Gli occhi dei Prediletti finalmente si erano rivolti verso Rhys, che udì lo stridio dell’acciaio.
Atta guaì di dolore. Nightshade si aprì un varco a forza tra i corpi ammassati e trascinò via la cagna da sotto i piedi che la calpestavano, tirandosela su fra le braccia. Atta aveva gli occhi spalancati per il terrore, la bocca aperta, ansimante. Con le zampe gli raspava contro il petto, cercando di reggersi.
L’aria era fetida, puzzava di marcio. A Rhys mancavano le forze. Non avrebbe potuto respingere i Prediletti ancora per molto, e una volta che avesse lasciato cadere il bastone sarebbe stato sopraffatto.
La luce scintillò sulla lama di un coltello. Rhys colpì la lama con l’estremità del bastone e riuscì a deviare il colpo assassino, però il coltello graffiò il braccio di Nightshade, causandogli un taglio profondo. Nightshade urlò e lasciò cadere Atta, che si rannicchiò tremante ai suoi piedi.
Mina guardò fisso il sangue, e il volto le si fece terreo. “Non voglio restare qui”, disse con voce tremante. “Non voglio che succeda questa cosa… Io non li conosco… Ce ne andremo via, lontano…”
“Sì!” gridò Nightshade, stringendosi con la mano il braccio sanguinante.
“No”, disse Rhys.
Nightshade lo guardò a bocca aperta.
“Mina, tu li conosci”, le disse Rhys con tono severo. “Non puoi scappare. Tu li hai baciati e loro sono morti.”
Mina rimase inizialmente meravigliata, poi gli occhi d’ambra si illuminarono perché lei aveva capito.
“È stato Chemosh!” gridò. “Non io! Non è stata colpa mia.”
Guardò furiosa i Prediletti, strinse il pugno e urlò verso di loro. “Vi ho dato quello che volevate! Non potete ferirvi. Non potete mai provare dolore né malattia né paura! Sarete sempre giovani e belli…”
“…e morti!” esclamò Nightshade. Si picchiò sul petto. “Guarda me, Mina. Questa è vita! Il dolore è vita! La paura è vita! Tu a loro hai portato via tutto questo! E peggio ancora: li hai rinchiusi dentro la morte e hai gettato via la chiave. Non sanno dove andare. Sono bloccati, intrappolati.”
Mina fissò perplessa il kender, e Rhys immaginava che cosa lei stesse vedendo: lui e Nightshade, scarmigliati, insanguinati, sudati, ansimanti, intenti a respingere i Prediletti col bastone, a tenere stretta la cagna tremante. Mina udiva la voce del kender tremare di terrore e di esasperazione, la voce di Rhys colma di disperazione e udiva in contrasto le voci inespressive e cupe dei Prediletti.
La bambina si dissolse davanti agli occhi sbalorditi di Rhys e davanti a lui comparve la donna Mina, come l’aveva vista nella grotta. Era alta e snella. I capelli ramati le arrivavano alle spalle e le incorniciavano il viso con onde morbide. Gli occhi d’ambra erano grandi e luccicanti di collera, popolati di anime. Indossava una lunga veste nera diafana che le fasciava il corpo flessuoso come l’ombra della notte. Mina si girò verso i Prediletti, fissando il mare inquieto e terribile delle sue vittime.
“Mina…” cantilenavano. “Mina!”
“Smettetela!” gridò lei.
Il mare di morti gemeva, piagnucolava e sussurrava.
“Mina…” I Prediletti si accalcarono attorno a Rhys. Lui li colpì col bastone, ma ce n’erano troppi, e Rhys venne sospinto indietro contro la parete. Nightshade era a quattro zampe, cercando di evitare i piedi che lo calpestavano, ma aveva le mani insanguinate e gli colava sangue dal naso. Rhys non vedeva Atta, ma la sentiva gemere di dolore. Quella massa ondosa si sollevò nuovamente, e Rhys fu schiacciato fra la parete e i corpi e non poté più muoversi; non riusciva a respirare.
“Mina! Mina!” Rhys udiva vagamente quel nome, mentre tutto prese a svanire.
Mina strinse i pugni, sollevò la testa e urlò nell’eco del suo nome.
“Io vi ho resi divini!” strillò. “Perché non siete felici?”
I Prediletti smisero di pronunciare il suo nome e all’improvviso si azzittirono.
Mina aprì le mani e dalle palme si sprigionarono fiamme ambrate. Aprì gli occhi e dalle pupille sprizzarono fiamme dello stesso colore. Aprì la bocca e si riversarono fuori spruzzi fiammeggianti. Mina aumentò di dimensioni, divenne sempre più alta, e urlò ai cieli la propria frustrazione e il proprio dolore mentre il fuoco della sua ira si propagava incontrollato.
Un momento prima Rhys era schiacciato sotto i corpi e un momento dopo fu inondato da un calore incandescente e i corpi vennero inceneriti, lasciandolo ricoperto di cenere oleosa.
Accecato dalla luce splendente, Rhys tossì quando il fumo e la cenere gli penetrarono nella trachea. Brancolò qua e là alla ricerca dei suoi amici e afferrò Nightshade nello stesso momento in cui il kender afferrò lui.
“Non ci vedo!” disse con voce strozzata Nightshade, aggrappandosi in preda al panico a Rhys. “Non ci vedo!”
Rhys trovò Atta. Trascinò lei e Nightshade all’indietro attraverso l’arco e giù lungo le scale, lontano dal calore e dalle fiamme e dalla nera cenere oleosa che mulinava nella torre formando una tempesta orripilante.
Il kender si strofinò gli occhi, mentre le lacrime gli colavano sulle guance, rigando la cenere che gli insudiciava il viso.
Rhys osservava l’ira di una dea infelice che distruggeva il proprio fallimento.
L’incendio proseguì a lungo.
Alla fine la luce ambrata si affievolì fino a spegnersi, all’esaurirsi della furia di Mina. La cenere continuò a svolazzare sotto forma di una nube grigia che poi si depositò. Rhys aiutò Nightshade a rimettersi in piedi. Emersero dalla scalinata e si aprirono la strada scavando tra i detriti neri e orribili che quasi seppellivano la cagna. Nightshade aveva conati di vomito e si copriva la bocca con la mano. Rhys si teneva la manica sopra il naso e la bocca. Cercò Mina, ma non ve n’era traccia, ed era troppo scosso per domandarsi che fine avesse fatto. Voleva soltanto sfuggire a quell’orrore.
Fuggirono attraverso la porta e uscirono barcollando alla luce solare e all’aria fresca e benedetta che soffiava dal mare.
“Dove siete stati?” disse Mina con tono accusatorio. “È un bel po‘“che vi aspetto!”
Davanti a loro vi era la bambina, che li fissava. “Come avete fatto a sporcarvi così?” Si turò il naso. “Puzzate!”
Nightshade guardò Rhys.
“Non se lo ricorda”, disse con calma Rhys.
Il mare era insolitamente calmo, notò Rhys, le onde si erano acquietate, come in seguito a una violenta emozione. Rhys si lavò il viso e le mani. Nightshade si sciacquò come meglio poté, mentre Atta si tuffò in acqua.
Mina issò la vela sulla barchetta. Il vento soffiava forte ed era loro favorevole, come ansioso di aiutarli ad andarsene, e la barca procedette a balzi sulle onde.
Si avvicinavano a riva e Rhys era pronto a calare la vela, quando Nightshade urlò: “Guarda, Rhys! Guarda là!”.
Rhys si voltò e vide la torre venire risucchiata lentamente sotto le onde. La torre sprofondò sempre più finché non ne rimase altro che le piccole dita di cristallo in cima, come una mano allungata verso il cielo. Poi anche queste svanirono.
“I Prediletti non ci sono più, Rhys”, disse Nightshade con voce sgomenta. “Mina li ha liberati.”
Mina non si era voltata al grido del kender. Non si guardò dietro le spalle. Si stava concentrando sulla navigazione, guidando la barca con sicurezza verso riva.
Io vi ho resi divini.
Io vi ho resi divini. Perché non siete felici?