Per non parlare delle mitiche creature tra le macerie…
Mentre si lasciavano alle spalle l’Illinois, a tarda sera, Shadow rivolse a Wednesday la sua prima domanda. Quando vide il cartello con la scritta BENVENUTI IN WISCONSIN disse: «Allora, chi erano i tizi che mi sono saltati addosso nel parcheggio? Wood e Stone. Chi erano?».
I fari dell’automobile illuminavano il paesaggio invernale. Wednesday aveva annunciato che non avrebbero preso le freeway perché non sapeva da che parte si erano schierate e perciò Shadow stava guidando su strade secondarie. Non gli dava fastidio. Non era nemmeno sicuro che il suo datore di lavoro fosse matto.
Wednesday grugnì. «Spioni. Membri dell’opposizione. I cattivi.»
«Ho l’impressione che loro credano di essere i buoni.»
«Ovvio. Nessuna guerra degna di questo nome è mai stata combattuta da qualcuno che non si credesse dalla parte giusta. La gente davvero pericolosa crede di fare quello che fa, qualsiasi cosa sia, solo ed esclusivamente perché al di là di ogni dubbio è la cosa giusta da fare. È questo che li rende davvero pericolosi.»
«E tu?» chiese Shadow. «Perché stai facendo quello che fai?»
«Perché mi va» rispose Wednesday. E poi sorrise. «E tanto ti basti.»
«Come avete fatto a scappare?» domandò Shadow. «Sempre che siate scappati tutti.»
«Sì, ci siamo riusciti» rispose Wednesday. «Per un pelo, comunque. Se non si fossero fermati per prendere te forse ci avrebbero catturati tutti quanti. È servito a convincere parecchi tra gli incerti del fatto che non sono completamente pazzo.»
«Ma come avete fatto a scappare?»
Wednesday scosse la testa. «Non ti pago per fare domande. Mi pare di avertelo già detto.»
Shadow scrollò le spalle.
Passarono la notte in un motel della catena Super 8 a sud di La Crosse.
Il giorno di Natale lo trascorsero guidando, in direzione nordest. I campi coltivati lasciarono il posto ai boschi di conifere, le città erano separate l’una dall’altra da distanze sempre più grandi.
Nel pomeriggio si fermarono a fare il pranzo di Natale in un’enorme trattoria nel Nord del Wisconsin. Shadow sbocconcellò senza allegria la carne di tacchino secca, la salsa di mirtilli tutta grumi rossi e dolce come marmellata, le patate arrosto dure come legno e i piselli in scatola di un verde troppo acceso. Da come mangiava e schioccava le labbra con gusto Wednesday sembrava trovare il cibo di suo gradimento, e mangiando diventava più espansivo: chiacchierava, scherzava, e quando gli veniva a tiro la cameriera, una ragazza magra e bionda che non sembrava nemmeno maggiorenne, le faceva la corte.
«Scusami, cara, ti posso disturbare per un’altra tazza della tua squisita cioccolata calda? E mi auguro che non vorrai giudicarmi sfacciato se dico che il tuo vestito è molto attraente e ti dona moltissimo. È allegro, e al tempo stesso elegante.»
La cameriera, che indossava una gonna rossa e verde con delle paillette argentate sull’orlo, ridacchiò, arrossì e sorrise felice affrettandosi a prendere un’altra tazza di cioccolata.
«Attraente» ripeté Wednesday osservando pensieroso la ragazza. «Ha grazia.» Secondo Shadow non stava parlando del vestito. Wednesday si ficcò in bocca l’ultima fetta di tacchino, pulì la barba con il tovagliolo e allontanò il piatto. «Ah. Ottimo.» Poi si guardò intorno. In sottofondo suonava un nastro con le canzoni di Natale: jingle bell jingle bell trallallà la la.
«Alcune cose cambiano» esordì Wednesday di punto in bianco. «Le persone, invece… rimangono uguali. Ci sono imbrogli che funzionano sempre, altri che vengono inghiottiti anche troppo presto dal tempo e dal mondo. La mia truffa preferita non si può più fare, altre invece si adattano a ogni epoca: il Prigioniero spagnolo, L’allocco gabbato, il Trucco del leccapiedi (che sarebbe un Allocco gabbato ma con l’anello d’oro al posto del portafogli), il Violino…»
«Non conosco il Violino» disse Shadow. «Le altre mi pare di averle sentite nominare, il mio vecchio compagno di cella mi ha raccontato di aver fatto il Prigioniero spagnolo personalmente. Era un imbroglione anche lui.»
«Ah» esclamò Wednesday con un bagliore nell’occhio sinistro. «Quello del Violino è un trucco fantastico che nella sua versione più pura prevede la partecipazione di due persone. Il funzionamento è basato sull’avidità e sulla cupidigia, come in tutte le truffe di questo mondo. Si può sempre riuscire a ingannare un uomo onesto, ma è più difficile. Dunque. Siamo in un albergo o una locanda o in un bel ristorante e durante la cena incontriamo il nostro uomo, un tipo dimesso ma per bene, non troppo male in arnese però certo neanche in gran forma. Lo chiameremo Abraham. Quando arriva il momento di pagare il conto — non un conto enorme, bada bene, cinquanta, settanta dollari — che imbarazzo! Dov’è finito il portafogli? Buon Dio, deve averlo lasciato a casa di un amico che abita poco distante. Andrà immediatamente a riprenderselo! "Tenga, oste" dice Abraham, "le lascio in garanzia questo vecchio violino. È vecchio, come vede, ma è lo strumento con cui mi guadagno da vivere."»
Quando vide la cameriera avvicinarsi Wednesday le fece un sorriso da predatore. «Ah, la cioccolata calda! Ed è il mio Angelo di Natale a portarmela! Dimmi cara, potrei avere ancora un po’ di quel pane squisito, quando trovi un momento?»
La cameriera — quanti anni poteva avere: sedici, diciassette? si chiese Shadow — abbassò gli occhi e avvampò fino all’attaccatura dei capelli. Appoggiò la tazza di cioccolata con mani tremanti, andò a rifugiarsi dietro la vetrina frigorifero in cui ruotavano le torte e lì rimase a fissare Wednesday. Poi scivolò in cucina a procurare il pane.
«Dunque. Il violino — vecchio, indubbiamente, forse anche un pochino malconcio — viene riposto nella sua custodia e il nostro Abraham momentaneamente squattrinato parte alla ricerca del portafogli. Un signore elegante che ha appena terminato di cenare si avvicina all’oste: potrebbe per gentilezza fargli dare un’occhiata al violino che l’onesto Abraham ha lasciato in pegno?
"Ma certamente." Il nostro oste gli dà lo strumento e il signore ben vestito — lo chiameremo Barrington — rimane a bocca spalancata, poi si riprende e la chiude, esamina il violino con un atteggiamento rispettoso, come un uomo appena ammesso nel sacrario a esaminare le ossa del profeta. "Santo Gelo!" esclama, "Questo è… deve… non può… eppure è, sì, sì… Ossignore! Ma è incredibile!" e indica il marchio del liutaio sulla striscia di carta scura incollata alla cassa del violino… e comunque lo avrebbe capito anche senza vedere la firma, dal colore della vernice, dal ricciolo, dalla forma.
«A questo punto Barrington tira fuori dalla tasca un raffinato biglietto da visita dove si legge che lui è un importante antiquario specializzato in strumenti musicali. "Allora questo è un violino raro?" chiede l’oste. "Può ben dirlo" risponde Barrington che continua ad ammirare lo strumento in preda a grande meraviglia, "e vale più di centomila dollari, se non mi sbaglio. Essendo del mestiere pagherei cinquanta — no, fino a settantacinquemila dollari sull’unghia — per un pezzo di così squisita fattura. Ho un cliente sulla costa occidentale che sarebbe pronto ad acquistarlo subito, senza nemmeno vederlo, basterebbe un telegramma, per qualsiasi cifra gli chiedessi." A questo punto Barrington consulta l’orologio e assume un’espressione triste. "Il mio treno parte tra poco" dice. "Se voglio prenderlo devo affrettarmi! Brav’uomo, quando torna il proprietario di questo inestimabile strumento, avrebbe la cortesia di dargli il mio biglietto da visita? Purtroppo io devo partire." E ciò detto Barrington se ne va come un uomo che sa che il tempo e i treni non aspettano nessuno.
«Il bravo oste esamina il violino, mentre nelle sue vene scorrono insieme curiosità e cupidigia e a poco a poco va formulando un piano. Però il tempo passa, e Abraham non ritorna. Si sta facendo tardi quand’ecco sulla soglia, malandato ma dignitoso, il nostro violinista. Stringe tra le mani un portafogli che ha visto giorni migliori, un portafogli che nei suoi giorni migliori avrà contenuto al massimo un centinaio di dollari e ne estrae il denaro per pagare la cena o la camera e chiede di riavere il suo strumento.
«Il bravo oste ripone il violino nella custodia appoggiata sul bancone e Abraham la solleva come farebbe una madre per prendere tra le braccia il suo bambino. "Dimmi" lo apostrofa l’oste (mentre nel taschino gli brucia il biglietto da visita di un uomo disposto a pagare cinquantamila dollari), "quanto vale un violino come questo? Mia nipote si è messa in testa di imparare a suonarlo e tra una settimana è il suo compleanno."
«"Questo violino?" risponde Abraham. "Non potrei mai venderlo. Ce l’ho da vent’anni, l’ho suonato in tutti gli stati dell’Unione. E a dire la verità quando l’ho comprato mi era costato ben cinquecento dollari."
«Il bravo oste non smette di sorridere. "Cinquecento dollari? E se te ne offrissi subito mille?"
«In un primo momento il violinista si illumina, poi lo guarda con aria avvilita, e dice: "Ma signore, io sono un violinista, è il mio mestiere. Questo violino mi conosce, mi è affezionato, le mie dita lo conoscono talmente bene che potrei suonarlo anche al buio. Dove vado a trovarne uno così? Mille dollari sono una bella cifra, ma suonare il violino mi dà da campare. Né per mille né per cinquemila, lo venderei."
«Il bravo oste vede ridursi il margine di profitto, ma siccome gli affari sono affari e se si vuole guadagnare bisogna anche investire, "Ottomila dollari" dice. "Non li vale, ma mi sono messo in testa di averlo e voglio così bene a mia nipote, la vizio appena posso."
«Al pensiero di separarsi dall’amato strumento Abraham è quasi in lacrime, ma come si fa a rifiutare ottomila dollari? Soprattutto quando il bravo oste si avvicina alla cassaforte e non ne prende otto ma novemila ben legati dalle fascette, pronti a scivolare dentro la logora tasca del violinista. "Siete un brav’uomo" dice all’oste. "Un santo! Ma dovete giurare che lo tratterete bene!" e con riluttanza gli consegna il violino.»
«E se il bravo oste si fosse limitato a dargli il biglietto da visita di Barrington spiegandogli quale colpo di fortuna gli era capitato?» domandò Shadow.
«In quel caso avremmo investito male i soldi di due cene» rispose Wednesday. Con una fetta di pane pulì il piatto dalla salsa e dalle briciole rimaste e la mangiò con evidente piacere schioccando le labbra.
«Fammi vedere se ho capito» disse Shadow. «A quel punto Abraham se ne va, con novemila dollari in tasca, a incontrare Barrington nel parcheggio o alla stazione. Dividono i soldi, salgono sulla Ford Model A di Barrington e partono diretti verso la città più vicina. Nel baule devono avere uno scatolone pieno di violini da cento dollari.»
«Personalmente mi sono sempre imposto di non pagarli più di cinque» disse Wednesday. Poi si rivolse alla cameriera che stava gironzolando intorno al tavolo. «E adesso, mia cara, dilettaci con la descrizione dei sontuosi dolci disponibili nel giorno della nascita di Nostro Signore.» La fissava — quasi con lascivia — come se niente potesse essere più appetitoso di un morsetto alla sua carne. Shadow si sentiva profondamente a disagio: era come guardare un vecchio lupo che fa la posta a una cerbiatta troppo giovane per sapere che se non si metterà a correre, e subito, finirà sbranata dai corvi in fondo alla radura.
La ragazza arrossì un’altra volta e annunciò che i dolci erano l’apple pie à la mode — «Cioè, sarebbe con una pallina di gelato alla vaniglia» — la torta di Natale à la mode, o il pudding rosso-e-verde con gelatina. Wednesday la fissò negli occhi e le disse che avrebbe provato la torta di Natale à la mode. Shadow rinunciò al dolce.
«Dunque, tornando alle truffe» riprese Wednesday, «quella del violino risale a trecento anni fa o più. E se scegli bene il tuo pollo la puoi rifare anche domani, in questo paese.»
«Avevo capito che il tuo imbroglio preferito non si potesse più fare.»
«Infatti. Comunque quello del violino non è il mio preferito. No, a me piaceva la truffa detta il Gioco del Vescovo. C’era tutto: eccitazione, sotterfugio, effetto sorpresa, e poteva essere fatto ovunque. Forse, mi viene da pensare ogni tanto, con qualche piccola modifica si potrebbe…» rifletté un istante, poi scosse la testa. «No… Il suo momento è finito. Finito diciamo nel 1920, in una città medio-grande tipo Chicago, magari, oppure New York o Philadelphia. Siamo in una gioielleria. Un uomo vestito da prete — non un prete qualsiasi ma un vescovo imporporato — entra e sceglie una collana: uno stupendo gingillo di perle e diamanti che paga con una dozzina di fragranti banconote da cento dollari.
«Sulla prima banconota c’è una macchietta di inchiostro verde e il proprietario della gioielleria si scusa ma insiste con fermezza per mandare a controllare tutte le banconote nella banca all’angolo. Poco dopo il suo dipendente torna dicendo che le banconote sono tutte buone, secondo la banca. Il gioielliere offre di nuovo le sue scuse e il vescovo risponde con cortesia; capisce bene il problema, oggigiorno ci sono tante persone senza legge e senza Dio, tanta immoralità e dissolutezza nel mondo… per non parlare delle donne svergognate, e adesso che anche la malavita esce dalle fogne per finire sugli schermi dei cinematografi che altro ci toccherà sopportare? La collana viene riposta nell’astuccio, e il gioielliere si sforza di non chiedersi perché mai un vescovo voglia acquistare una collana di diamanti da milleduecento dollari, né tantomeno perché voglia pagarla in contanti.
«Il vescovo lo saluta calorosamente ed esce, ma appena fuori della porta una mano gli si inchioda pesante sulla spalla. "Allora, Soapy, vecchia canaglia, ci riproviamo, eh?" e il poliziotto di ronda, un omone grande e grosso con un’onesta faccia irlandese, costringe il vescovo a rientrare nel negozio.
«"Chiedo scusa" dice, "quest’uomo ha forse comperato qualcosa da voi?" "Certo che no" ribatte il vescovo. "Ditegli che non ho comperato niente." "Invece sì" dice il gioielliere. "Gli ho venduto una collana di perle e diamanti… l’ha pagata in contanti." "Avete ancora il denaro?" domanda il poliziotto.
«Il padrone del negozio prende i milleduecento dollari dalla cassa e li dà al poliziotto che li guarda controluce scuotendo meravigliato la testa. "Oh Soapy, Soapy" dice, "sono le più belle che tu abbia mai fatto! Sei veramente un artista!"
«Il vescovo sorride soddisfatto. "Non puoi dimostrare niente. E poi alla banca hanno detto che erano buone. Non sono false." "Certo che non se ne sono accorti" dice il poliziotto di ronda, "probabilmente non sanno che Soapy Sylvester è in città e non sono stati informati sulla qualità delle banconote false da cento dollari che ha spacciato a Denver e St Louis." E ciò detto infila una mano nella tasca del vescovo e prende la collana. "Milleduecento dollari di perle e diamanti in cambio di cinquanta centesimi di carta e inchiostro" dice il poliziotto che è evidentemente un filosofo. "E spacciarti per un uomo di Chiesa, poi! Vergogna." E così dicendo ammanetta il vescovo, che ovviamente vescovo non è, e lo porta via con sé, ma non prima d’aver dato al gioielliere una ricevuta per la collana e i milleduecento dollari falsi. Sono prove a carico, dopotutto.»
«Erano davvero falsi?» chiese Shadow.
«No, naturalmente! Si trattava di banconote nuove appena uscite dalla banca, con un’impronta più scura e una macchietta di inchiostro verde su un paio tanto per renderle più interessanti.»
Shadow sorseggiò il suo caffè. Era più cattivo di quello che facevano in prigione. «Quindi il poliziotto non è un poliziotto. E la collana?»
«Prova a carico» disse Wednesday. Svitò il tappo della saliera e versò un mucchietto di sale sul tavolo. «Comunque il gioielliere prende la ricevuta, garanzia del fatto che appena la causa sarà discussa in tribunale gli verrà restituita. Riceve anche le congratulazioni per essersi comportato da cittadino modello e rimane a guardare — già pensando tutto soddisfatto alla storia che racconterà l’indomani sera alla riunione dell’Oddfellows — il poliziotto che trascina il finto vescovo con sé, milleduecento dollari in una tasca e la collana in un’altra, verso un comando di polizia che di loro non vedrà nemmeno l’ombra.»
La cameriera era tornata a sparecchiare. «Dimmi, cara» la apostrofò Wednesday, «sei sposata?»
Lei scosse la testa.
«È incredibile che si siano lasciati sfuggire una giovane di così grande bellezza.» Wednesday muoveva in tondo un polpastrello nel mucchietto di sale tracciando segni tozzi che somigliavano a rune. La cameriera, in piedi accanto a lui, aveva un atteggiamento passivo; adesso più che una cerbiatta sembrava un coniglietta paralizzato dalle luci di un Tir, raggelato dalla paura.
Wednesday abbassò la voce al punto che Shadow, a pochi centimetri da lui, riuscì a sentirlo a stento. «A che ora finisci?»
«Alle nove» disse lei, e deglutì. «Nove e mezzo al massimo.»
«E qual è il motel migliore della zona?»
«C’è un Motel 6» rispose lei. «Non è niente di che.»
Wednesday le sfiorò il dorso della mano con la punta delle dita lasciandovi qualche granello di sale. Lei non cercò nemmeno di ripulirsi. «Per noi» disse lui, la sua voce un rombo così basso da risultare quasi impercettibile, «sarà il palazzo del piacere.»
La cameriera lo guardò. Si morse le labbra, e dopo un attimo di esitazione annuì e scappò in cucina.
«Ma dai, Wednesday» disse Shadow. «Non è neanche maggiorenne, è illegale.»
«La legalità non mi ha mai interessato molto. E ho bisogno di lei, non come fine in sé ma per svegliarmi un po’. Anche il re David sapeva qual è il modo più semplice per far scorrere di nuovo il sangue in un vecchio: datemi una vergine e lasciatemi in pace fino a domani.»
Shadow si ritrovò a chiedersi se la ragazza del turno di notte all’albergo di Eagle Point fosse stata vergine. «Ma non ti preoccupi di prendere delle malattie? E se la mettessi incinta? Se avesse un fratello?»
«No» rispose Wednesday. «Delle malattie non mi preoccupo perché non le prendo. Sfortunatamente quelli come me — quasi sempre — sparano a salve, perciò non succede quasi mai che si producano incroci. Ai vecchi tempi succedeva. Adesso è possibile ma talmente improbabile da essere inimmaginabile. Quindi nessuna preoccupazione sotto questo aspetto. E poi molte ragazze hanno fratelli, e padri. È un problema che non mi riguarda. Novantanove volte su cento io sono già da un’altra parte.»
«Allora passiamo la notte qui?»
Wednesday si accarezzò il mento. «Io sarò al Motel 6» disse. Poi infilò una mano nella tasca della giacca e prese una chiave color bronzo con un’etichetta su cui era scritto un indirizzo: 502 Northridge Road, interno 3. «Tu, invece, hai un appartamento che ti aspetta in una città lontana.» Wednesday chiuse gli occhi per un momento. Poi li riaprì, occhi grigi e scintillanti e leggermente male assortiti, e disse: «Il Greyhound arriverà tra venti minuti. Si ferma davanti al benzinaio. Questo è il biglietto.» Tirò fuori un biglietto piegato e lo allungò sul tavolo. Shadow lo prese e lo guardò.
«Chi è Mike Ainsel?» chiese. Era il nome scritto sul biglietto.
«Sei tu. Buon Natale.»
«E Lakeside?»
«Sarà la tua felice dimora per i prossimi mesi. E adesso, siccome le buone notizie arrivano tre a tre…» Estrasse dalla tasca anche un pacchettino avvolto in una carta natalizia e lo spinse verso Shadow. Si fermò accanto alla bottiglia di ketchup con l’incrostazione di salsa secca e nera intorno al tappo. Shadow non si mosse.
«Dunque?»
Shadow lo prese con riluttanza e quando lo scartò vide che conteneva un portafogli di pelle chiara, lucida per l’uso. Era ovviamente di qualcun altro. Dentro c’era una patente con la sua fotografia intestata a Michael Ainsel, un indirizzo del Milwaukee, una MasterCard, sempre di M. Ainsel, e venti banconote nuove da cinquanta dollari. Shadow lo chiuse e lo infilò nella tasca interna.
«Grazie» disse.
«Consideralo una gratifica natalizia. Allora, lascia che ti accompagni alla fermata del Greyhound. Resterò a fare ciao con la manina mentre il vecchio levriero ti porta a settentrione.»
Uscirono dal ristorante. Era incredibile quanto fosse scesa la temperatura in quelle poche ore. Sembrava troppo freddo per nevicare. Un gelo aggressivo. Era proprio un inverno duro.
«Ehi, Wednesday. I due trucchi di cui mi hai parlato — quello del violino e l’altro, del vescovo con il poliziotto…». Esitò, cercando di dare una forma ai pensieri, di metterli a fuoco.
«Cosa vuoi sapere?»
Ecco, l’aveva capito. «Sono tutti e due trucchi per i quali servono due uomini. Avevi un socio?» Il respiro gli usciva dalla bocca a nuvolette. Si ripromise che appena arrivato a Lakeside avrebbe speso una parte della gratifica natalizia per comperare la giacca più calda e pesante esistente sul mercato.
«Sì» rispose Wednesday. «Avevo un socio. Un socio più giovane. Quei tempi sono passati, ahimè. Ecco la pompa di benzina ed ecco lì, se l’occhio non mi inganna, l’autobus.» Il Greyhound aveva già messo la freccia per svoltare. «L’indirizzo è attaccato alla chiave» disse Wednesday. «Se qualcuno dovesse farti delle domande io sono tuo zio e rispondo all’improbabile nome di Emerson Borson. Ti troverai bene a Lakeside, nipote Ainsel. Verrò da te entro una settimana e viaggeremo insieme. Andremo dalle persone che devo incontrare. Nel frattempo comportati bene e sta’ alla larga dai guai.»
«E la mia macchina…?»
«Me ne occuperò io. Buon soggiorno a Lakeside.» Wednesday tese la mano e Shadow gliela strinse. Era fredda come la mano di un cadavere.
«Sei gelato» gli disse Shadow.
«Prima vado in una camera tranquilla del Motel 6 a fare la bestia a due teste con l’eccellente ragazzina del ristorante e meglio sarà.» Allungò l’altra mano e diede una stretta sulla spalla di Shadow.
Per un istante Shadow provò un senso di vertigine e vide doppio: davanti a lui c’era l’uomo con i capelli e la barba grigi, che gli stringeva una spalla, ma c’era anche qualcos’altro: un’infinità di inverni, centinaia e centinaia di inverni, e un uomo grigio con un cappello dalla tesa larga che peregrinava a piedi da un insediamento all’altro, appoggiandosi al bastone, che fissava da dietro le finestre stanze illuminate dal fuoco, la gioia e la vita splendente che non avrebbe mai potuto avere, che non avrebbe mai potuto condividere…
«Vai» disse Wednesday con una voce che risuonò come un ringhio rassicurante. «Tutto va bene, tutto va bene e tutto andrà bene.»
Shadow mostrò il biglietto all’autista. «Brutta giornata per viaggiare» disse la donna. E poi, con un sorriso quasi soddisfatto aggiunse: «Buon Natale».
Il Greyhound era semivuoto. «Quando arriviamo a Lakeside?»
«Tra due ore. Forse un pochino di più. Dicono che stia arrivando un’ondata di gelo.» Premette un pulsante e le porte si chiusero con un sibilo e un tonfo.
Shadow scelse un posto a metà corridoio, abbassò più che poté lo schienale del sedile e cominciò a riflettere. Il movimento dell’autobus e il calore lo cullavano, e prima di rendersi conto di avere sonno si assopì.
Nella terra, e sottoterra. I segni sui muri erano di rossa argilla ancora umida: impronte di mani, di dita e, qui e là, rozze raffigurazioni di animali, uomini e uccelli.
Il fuoco era sempre acceso e l’uomo-bufalo sedeva ancora dall’altra parte. Fissava Shadow con occhi enormi, due pozzanghere di fango nero. Le sue labbra, contornate da un’arruffata peluria marrone, non si mossero mentre diceva: «Ebbene, Shadow? Ci credi, ora?».
«Non so» rispose. Nemmeno lui, notò, aveva mosso la bocca. Le parole che passavano tra loro non venivano pronunciate, non nel senso in cui Shadow intendeva la comunicazione verbale. «Ma tu esisti?»
«Credi» rispose l’uomo-bufalo.
«Ma tu…» Dopo un attimo di esitazione Shadow chiese: «Sei un dio anche tu?».
L’uomo-bufalo infilò una mano tra le fiamme e afferrò un tizzone ardente stringendolo proprio nel mezzo. Fiamme azzurre e gialle gli accarezzavano la mano rossa senza bruciarla.
«Questa non è una terra adatta agli dèi» disse l’uomo-bufalo. Ma non era più lui che parlava. Shadow lo sapeva, nel sogno: era il fuoco a parlare, era il crepitio della fiamma che gli parlava in quel luogo buio sotto la terra.
«Questo paese è stato fatto emergere dalle profondità dell’oceano da un palombaro» disse il fuoco. «E stato tessuto da un ragno con la sua bava. È stato cagato da un corvo. È il corpo di un padre caduto le cui ossa sono diventate montagne, i cui occhi sono laghi.»
«Questa è una terra di sogni e di fuoco» disse la fiamma.
L’uomo-bufalo ripose il tizzone tra le fiamme.
«Perché mi dici queste cose?» chiese Shadow. «Io non sono importante. Non sono nessuno. Ero un allenatore discreto, un ladro a tempo perso davvero fetente e forse un marito non così bravo come credevo…» Non riuscì a concludere.
«Come faccio ad aiutare Laura?» chiese all’uomo-bufalo. «Vuole tornare viva. Le ho detto che l’avrei aiutata. Glielo devo.»
L’uomo-bufalo non parlò. Indicò il soffitto della caverna. Shadow lo seguì con gli occhi. C’era una sottile lama di luce fredda che entrava da un’apertura nella sommità lontana.
«Lassù?» chiese rimpiangendo che le sue domande non trovassero mai risposta. «Dovrei andare lassù?»
Allora il sogno lo sollevò, poiché l’idea era diventata azione, e Shadow si ritrovò schiacciato contro la roccia e la terra. Era una specie di talpa che cercava di aprirsi un varco, un tasso che scavava, una marmotta che sollevava la terra con le zampe, un orso, ma era terra troppo dura, troppo compatta; respirava con affanno e ben presto non riuscì più ad avanzare, né a scavare o arrampicarsi, e capì che sarebbe morto, lì nelle profondità sotto il mondo.
Da solo non avrebbe potuto farcela. Ogni sforzo era vano. Sapeva che, anche se il suo corpo stava viaggiando in un autobus riscaldato attraverso le foreste invernali, se avesse smesso di respirare lì, sotto il mondo, avrebbe smesso di respirare anche sull’autobus, stava già ansimando con brevi respiri mozzi.
Lottò cercando di spingere, sempre più debole, consumando, a ogni movimento, aria preziosa. Era in trappola: non poteva avanzare e non poteva tornare da dove era venuto.
«Adesso scendi a patti» gli disse una voce nella mente.
«Che cosa ho da offrire?» domandò. «Non ho niente.» Sentiva in bocca il sapore dell’argilla, denso e polveroso sotto i denti.
Poi disse: «Eccetto me stesso. Ho me stesso, non è forse vero?».
Fu come se ogni cosa trattenesse il respiro.
«Offro me stesso» disse.
La reazione fu immediata. Le rocce e la terra che lo avevano avvolto cedettero schiacciandolo sotto il loro peso fino a svuotargli i polmoni dell’ultimo soffio. La pressione divenne dolore, un peso che lo comprimeva da ogni parte. Raggiunse l’apogeo della sofferenza e lì rimase, sospeso, sapendo che di più non avrebbe potuto sopportare. In quel momento la contrazione si allentò e Shadow ricominciò a respirare. La luce sopra di lui era diventata più forte.
Qualcosa lo spingeva verso la superficie.
Quando lo spasmo successivo arrivò, Shadow cercò di assecondarlo. Questa volta si sentì spinto in alto.
Il dolore era incredibile, durante quell’ultima terribile contrazione, e si sentì schiacciato, stritolato e spinto attraverso una rigida fessura rocciosa che gli faceva scricchiolare le ossa e gli spappolava i muscoli. Quando la bocca e la testa martoriata emersero dalla soglia cominciò a gridare di paura e dolore.
Mentre gridava si chiese se non stesse per caso gridando anche nel mondo della veglia, se non stesse gridando anche nel sonno su quell’autobus immerso nell’oscurità.
E quando l’ultima contrazione finì, Shadow si ritrovò per terra, le mani che stringevano la rossa argilla.
Si mise seduto, ripulì la faccia e guardò in cielo. Era il tramonto, un lungo tramonto purpureo, già le stelle spuntavano a una a una, stelle più luminose di qualsiasi stella mai vista o immaginata.
«Presto cadranno» disse alle sue spalle la voce crepitante della fiamma. «Presto cadranno e il popolo delle stelle incontrerà il popolo della terra. Tra loro vi saranno eroi, uomini che sconfiggeranno mostri e porteranno la luce della conoscenza, ma nessuno diventerà un dio. Questo è un posto sbagliato per gli dèi.»
Una ventata d’aria, fredda in maniera scioccante, lo investì in pieno. Era come una doccia ghiacciata. Sentì la voce dell’autista che annunciava l’arrivo a Pinewood: «Chi ha bisogno di fumare una sigaretta o di sgranchirsi le gambe può scendere. Sosta di dieci minuti, poi si riparte».
Shadow barcollò giù dall’autobus. Erano davanti a un’altra pompa di benzina, un piccolo spiazzo praticamente identico a quello da cui era partito. L’autista stava aiutando due adolescenti a sistemare i borsoni nel bagagliaio.
«Ehi» chiamò rivolgendosi a Shadow. «Lei scende a Lakeside, giusto?»
Semiaddormentato, Shadow rispose di sì.
«Accidenti, quella sì che è una bella città» disse la donna. «Qualche volta penso che se mi dovessi trasferire armi e bagagli da qualche parte, andrei proprio a Lakeside. La città più carina che abbia mai visto in vita mia. Ci abita da molto?»
«È la prima volta che ci vado.»
«Mangi una pasty per me da Mabel’s, mi raccomando.»
Shadow decise di non chiedere spiegazioni. «Senta» le domandò invece, «ho forse parlato nel sonno?»
«Io non ho sentito niente.» La donna guardò l’ora. «A bordo. Quando arriviamo a Lakeside la chiamo.»
Le due ragazze salite a Pinewood — Shadow dubitò che avessero più di quattordici anni — si erano sedute nei due sedili davanti al suo. Erano amiche, dedusse Shadow origliando senza volere la conversazione, non sorelle. Una delle due non sapeva niente del sesso però sapeva un sacco di cose sugli animali perché lavorava o passava molto tempo in una specie di rifugio per animali abbandonati, mentre l’altra non era interessata agli animali ma, armata di centinaia di brandelli di informazione carpiti su Internet o dai programmi televisivi pomeridiani, era convinta di saperla lunga sul comportamento sessuale dei bipedi. Shadow ascoltò con orrore e divertimento la ragazza che si credeva esperta delle faccende del mondo raccontare nei dettagli il meccanismo dell’uso di Alka-Seltzer per migliorare il sesso orale.
Shadow si sforzò di non ascoltarle, respingendo ogni suono eccetto il rumore del Greyhound sull’asfalto, e adesso gli giungevano soltanto saltuari frammenti di conversazione.
Goldie è, come dire, un bravo cane, un retriever purissimo, se soltanto mio padre dicesse di sì, scondinzola tutte le volte che mi vede.
È Natale, deve lasciarmi usare il gatto delle nevi.
Puoi scrivere il tuo nome con la lingua.
Sandy mi manca.
Sì, manca anche a me.
Hanno detto che ne scenderanno due metri entro sera, ma secondo me si inventano tutto, si inventano le previsioni e nessuno protesta…
Poi i freni sibilarono, l’autista gridò: «Lakeside!», e le porte si spalancarono. Shadow seguì le ragazze nel parcheggio illuminato di un negozio di video e di un centro abbronzatura ancora aperti, che svolgevano anche la funzione di stazione del Greyhound. L’aria era terribilmente fredda, un freddo piacevole che lo svegliò. Rimase a fissare le luci della città da sud fino a ovest e, a oriente, la grande distesa chiara del lago ghiacciato.
Le due ragazze battevano i piedi e si soffiavano vistosamente sulle mani. La più giovane gettò un’occhiata di soppiatto a Shadow e rendendosi conto che lui l’aveva vista gli sorrise imbarazzata.
«Buon Natale» disse Shadow.
«Già» rispose l’altra, che forse aveva un anno di più, «Buon Natale anche a lei.» Aveva i capelli color carota e il naso, camuso, coperto di lentiggini.
«Bella città» disse lui.
«Noi ci stiamo bene» rispose la più giovane. Era quella a cui piacevano gli animali. Sorrise timida mettendo in mostra gli elastici azzurri dell’apparecchio per i denti. «Assomiglia a qualcuno» gli domandò seria: «lei non è fratello, o figlio di qualcuno, o qualcosa del genere?»
«Sei fuori, Alison» le disse l’amica. «Tutti hanno un padre o un fratello o qualche altro parente.»
«Non era quello che volevo dire» ribatté Alison. Per un luminoso istante si trovarono dentro il cono di luce di due fanali. Era una station wagon con una madre al volante che dopo aver preso a bordo le ragazze e i bagagli scomparve rapida lasciando Shadow solo nel parcheggio.
«Giovanotto? Posso esserti utile?» Il vecchietto stava chiudendo il negozio di video. Infilò in tasca le chiavi. «A Natale il negozio è chiuso» disse in tono allegro. «Però sono venuto a vedere l’arrivo dell’autobus per accertarmi che fosse tutto a posto. Non sopporterei l’idea che qualche povera anima si trovasse a piedi il giorno di Natale.» Gli era venuto così vicino che Shadow riusciva a vederlo in faccia: vecchio ma soddisfatto, aveva l’aria di un uomo che ha bevuto fino in fondo il calice dell’esistenza e nel complesso lo ha trovato colmo di whiskey, di quello buono.
«Be’, potrebbe darmi il numero dei taxi» disse Shadow.
«Potrei» rispose il vecchio con aria dubbiosa, «ma temo che a quest’ora Tom sia già a letto; l’ho visto poco fa, giù al Buck Stops Here, ed era molto allegro. Allegrissimo, in effetti. Dove sei diretto, giovanotto?»
Shadow gli mostrò la targhetta con l’indirizzo attaccata al portachiavi.
«Bene, è una camminata di dieci o forse venti minuti dall’altra parte del ponte. Con questo freddo non è una bella passeggiata, e se poi non si conosce la strada sembra ancora più lunga, l’hai mai notato? La prima volta il percorso dura un’eternità e poi lo si fa in un attimo.»
«Sì» rispose Shadow. «Non ci avevo mai riflettuto ma credo sia vero.»
Il vecchio annuì e la faccia si aprì in un sorriso. «Che diavolo, è Natale. Ti accompagno io con la mia Tessie.»
Shadow lo seguì fino alla strada dov’era parcheggiata un’enorme automobile scoperta, il tipo di vettura che ostentavano i gangster negli anni Venti, completa di predellino e tutto. La carrozzeria era verniciata di un colore scuro che alle luci a vapori di sodio sembrava a volte rosso e a volte verde. «Questa è Tessie. Non è una meraviglia?» Il vecchio accarezzò con aria di possesso una curva del cofano.
«Che marca è?»
«È una Wendt Phoenix. La Wendt ha chiuso nel ’31, il marchio è stato comprato dalla Chrysler però poi non le hanno prodotte più. Harvey Wendt, il fondatore, era di queste parti. Poi è andato ad ammazzarsi in California nel… vediamo, 1941 o ’42. Una terribile tragedia.»
L’auto odorava di cuoio e fumo stantio, come se nel corso degli anni la gente avesse fumato una quantità tale di sigarette da far diventare la puzza di tabacco bruciato tutt’uno con il tessuto dei rivestimenti. Il vecchio girò la chiave dell’accensione e Tessie partì immediatamente.
«Domani se ne va in garage. La copro per proteggerla dalla polvere e la lascio al riparo fino a primavera. In effetti oggi non dovrei guidarla, con la neve.»
«Non tiene la strada, con la neve?»
«La tiene benissimo, il problema è il sale che spargono dappertutto. Fa arrugginire queste bellezze in quattro e quattr’otto. Vuoi che facciamo la strada più veloce o preferisci il grand tour della città al chiaro di luna?»
«Non vorrei approfittare…»
«Nessun disturbo. Quando si arriva alla mia età dormire diventa difficile. Mi considero già fortunato se riesco a chiudere occhio per cinque ore a notte, ormai, altrimenti sto sveglio con i pensieri che mi frullano nella testa. Che maleducato! Mi chiamo Hinzelmann. Il mio nome è Richie, ma la gente qui mi chiama Hinzelmann e basta. Ti stringerei la mano, però ho bisogno di tutt’e due per guidare Tessie. Se ne accorge quando non le presto tutta l’attenzione.»
«Mike Ainsel» disse Shadow. «Piacere di conoscerla, Hinzelmann.»
«Allora facciamo il giro del lago. Il grand tour.»
La Main Street che stavano percorrendo era una strada graziosa anche di sera, con un’aria antiquata nel senso migliore del termine, come se per cent’anni gli abitanti se ne fossero presi gran cura e non avessero nessuna fretta di perdere ciò che amavano.
Hinzelmann indicò a Shadow i due ristoranti della città (uno tedesco che descrisse come: «in parte greco, in parte norvegese, e ogni piatto viene servito con un panino dolce»); poi gli indicò la panetteria e la libreria («Secondo me una città non è una città senza una libreria. Magari pretende di chiamarsi città lo stesso, ma se non ha una libreria sa bene di non poter ingannare nessuno»). Rallentò quando passarono davanti alla biblioteca, affinché Shadow potesse ammirarla. Davanti al portone tremolava la luce di antichi lampioni a gas… Hinzelmann li fece notare a Shadow con un certo orgoglio. «Costruita negli anni Settanta del 1800 da John Henning, locale magnate del legname. Avrebbe voluto che si chiamasse Henning Memorial Library, ma alla sua morte la gente cominciò a chiamarla Lakeside Library e credo che così continuerà a chiamarsi fino alla fine dei tempi. Non è fantastica?» Se l’avesse costruita con le sue mani il vecchio non avrebbe potuto sembrare più fiero. A Shadow faceva pensare a un castello. Quando glielo disse l’altro rispose: «Esatto. Con le torri e tutto. Henning voleva che sembrasse proprio un castello. Dentro hanno conservato le scaffalature originali di abete. Miriam Shultz vorrebbe ristrutturare e rimodernare, ma siccome è un monumento cittadino non si può toccare niente».
Aggirarono l’argine meridionale del lago. La cittadina si sviluppava intorno al lago, che era una decina di metri più in basso del livello stradale. A Shadow sembrò di distinguere le lastre opache di ghiaccio e qualche macchia scintillante d’acqua che rifletteva le luci della città.
«Sta gelando completamente» disse.
«È gelato da un mese, ormai» spiegò Hinzelmann. «Dove vede opaco sono cumuli di neve ammucchiata dal vento e il lucido è ghiaccio. È gelato in una sola notte subito dopo il Ringraziamento, un bello strato di ghiaccio liscio come vetro. Hai mai pescato nel ghiaccio?»
«Non l’ho mai fatto.»
«È la cosa più bella che esista. Non per il pesce che prendi ma per la pace mentale che ti riporti a casa.»
«Lo terrò presente.» Shadow guardava il lago dal finestrino di Tessie. «Ci si può davvero camminare sopra?»
«Si può. Ci si può andare perfino in macchina, ma forse è un po’ prematuro. Qui è freddo già da sei settimane ma bisogna riconoscere che nel Wisconsin settentrionale il ghiaccio si forma più in fretta ed è più duro che da qualsiasi altra parte. Una volta ero a caccia, caccia al cervo, quand’è stato… trenta o quarant’anni fa, e sparo a questo maschio, lo manco e lo vedo correre nel bosco -stiamo parlando della parte più settentrionale del lago, vicino a dove vivrai tu, Mike. Dunque, era il più bel cervo che avessi mai visto, con le corna molto ramificate, alto come un cavallino, parola. Dunque, io ero molto più giovane e avventato di quanto sia ora e benché avesse cominciato a nevicare già prima di Halloween, quell’anno, era il Ringraziamento e per terra c’era neve fresca, perciò potevo vedere le impronte. Il grosso cervo mi dava l’impressione di essere diretto al lago in preda al panico.
«Be’, solo un matto cercherebbe di correre dietro a un cervo, e invece eccomi lì, matto come un cavallo, che gli corro dietro e te lo vedo fermo in mezzo al lago, in dieci o quindici centimetri d’acqua, che mi fissa. In quel preciso momento una nuvola nasconde il sole e arriva la gelata, la temperatura dev’essere scesa di dieci gradi di colpo, è la pura verità. E quando il vecchio maschio cerca di scappare non riesce a muoversi. È intrappolato nel ghiaccio.
«Io mi avvicino piano piano. Si capisce che vorrebbe scappare ma è bloccato e quindi non ce la farà mai. D’altra parte niente al mondo mi farebbe sparare a una creatura indifesa: che razza di uomo sarei se facessi una cosa simile, eh? Così alzo la canna del fucile e sparo un colpo in aria.
«Be’, il rumore dello sparo e lo shock sono sufficienti a far scappare il cervo fuori dalla sua pelle ed è proprio quello che fa, lasciando la pelle e le corna nel ghiaccio mentre corre a nascondersi nel bosco, rosa come un neonato e tutto un tremito.
«Sicome mi dispiaceva per lui sono andato a chiedere alle signore del Circolo di Lavori Femminili di confezionargli una cosetta calda per l’inverno e loro gli hanno fatto una specie di tuta di lana in modo che non congelasse. Ovviamente si erano prese gioco di noi perché preparandogli una tuta di un bell’arancione acceso nessun cacciatore avrebbe potuto sparargli per sbaglio. Dalle nostre parti i cacciatori si vestono di arancione» aggiunse per chiarire. «E se pensi che ci sia anche una piccola parte di menzogna in quello che ti ho detto posso dimostrarti che è tutto vero. Ho ancora le corna appese al muro del mio studiolo.»
Shadow rise e il vecchio si concesse il sorriso soddisfatto dell’artigiano fiero del proprio capolavoro. Si fermarono davanti a un edificio di mattoni con un porticato di legno a cui erano appese le decorazioni natalizie che si accendevano a intermittenza.
«Il cinquecentodue è questo» disse Hinzelmann. «L’appartamento numero tre è all’ultimo piano, dall’altra parte, affacciato sul lago. Ben arrivato, Mike.»
«Grazie, signor Hinzelmann. Posso pagarle la benzina?»
«Chiamami solo Hinzelmann. No, non mi devi niente. Buon Natale da parte mia e di Tessie.»
«È sicuro di non poter accettare niente?»
Il vecchio si grattò il mento. «Sta’ a sentire, la settimana prossima verrò a venderti un biglietto della nostra lotteria di beneficenza. Per il momento, giovanotto, pensa solo a metterti sotto le coperte.»
Shadow sorrise. «Buon Natale, Hinzelmann.»
Il vecchio gli strinse la mano; aveva le nocche arrossate, una mano dura e callosa come il ramo di una quercia. «Sta’ bene attento a dove metti i piedi perché si scivola, sul sentiero. Da qui vedo la tua porta, la vedi? Aspetto in macchina fino a quando non sei dentro. Fammi un cenno quando sei arrivato e io me ne vado.»
Rimase con il motore acceso fino a quando Shadow non fu al sicuro sul portico di legno e non ebbe aperto la porta dell’appartamento. La porta si spalancò. Shadow si voltò a fare un cenno con i pollici alzati e il vecchio sulla Wendt — Tessie, pensò, e il pensiero che un’automobile avesse un nome di donna gli strappò un altro sorriso — Hinzelmann e Tessie, fecero inversione e tornarono in direzione del ponte.
Shadow chiuse la porta. La stanza era gelida. Odorava di gente che se n’era andata a vivere altrove, e di tutto ciò che avevano mangiato e sognato. Trovò il termostato e lo alzò a venti gradi; entrò nella minuscola cucina, aprì i cassetti e il frigorifero color avocado, vuoto. Nessuna sorpresa. Perlomeno l’interno del frigorifero aveva un odore di pulito, non puzzava di muffa.
C’era una piccola camera da letto, accanto alla cucina, con un nudo materasso e un bagno ancora più angusto occupato in gran parte dalla doccia. Nella tazza del water galleggiava un vecchio mozzicone di sigaretta che aveva tinto l’acqua di marrone. Shadow tirò lo sciacquone.
Nell’armadio trovò lenzuola e coperte e preparò il letto. Poi si sfilò gli stivali, la giacca e l’orologio e si sdraiò tutto vestito, chiedendosi quanto tempo avrebbe impiegato a riscaldarsi.
Le luci erano spente e regnava un silenzio pressoché totale, fatta eccezione per il ronzio del frigorifero e, in lontananza, una radio accesa in un altro appartamento. Rimase sdraiato al buio domandandosi se sul Greyhound non avesse per caso già soddisfatto tutto il suo bisogno di sonno, se la fame e il freddo e il letto nuovo e la follia delle ultime settimane lo avrebbero tenuto sveglio tutta la notte.
Nell’immobilità generale sentì risuonare un colpo secco, come uno sparo. Un ramo, pensò, o il ghiaccio. Fuori il mondo stava gelando.
Chissà quanto avrebbe dovuto aspettare l’arrivo di Wednesday. Un giorno? Una settimana? Sapeva di doversi concentrare su qualcosa, perché l’attesa poteva essere lunga. Decise che avrebbe ripreso a fare ginnastica e a esercitarsi con giochetti e palmaggi fino a ottenere una grande scioltezza (esercitati con tutti i giochi, mormorò qualcuno dentro la sua testa in una voce che non gli apparteneva, con tutti meno uno, quello che ti ha mostrato il povero Mad Sweeney ucciso dal freddo e dagli stenti, dall’oblio e dall’eccesso di zelo. Oh no, quello no).
Però Lakeside era una bella cittadina. Lo sentiva.
Ripensò al sogno, se di un sogno s’era trattato, della prima notte a Cairo. Ripensò a Zarja… come diavolo si chiamava? La sorella di mezzanotte.
E poi pensò a Laura…
Pensare a lei fu come spalancare una finestra della mente. Gli sembrava di vederla. In qualche modo riusciva a vederla.
Era a Eagle Point, nel cortile della grande casa di sua madre.
In piedi al freddo, un freddo che non sentiva più o che sentiva fin troppo, in piedi davanti alla casa che sua madre aveva comperato nel 1989 con i soldi dell’assicurazione sulla vita del marito, Harvey McCabe, morto d’infarto seduto sulla tazza del cesso, e guardava dentro la casa, le mani fredde premute contro la finestra non appannata dal suo fiato, guardava la madre, la sorella con i figli e il marito arrivati dal Texas per Natale. Fuori al buio, ecco dov’era Laura, incapace di non guardare il quadretto familiare.
Shadow sentì salire le lacrime agli occhi e si girò su un fianco.
Gli sembrava di essere un guardone e cercò di respingere quei pensieri, di riportarli a sé: vedeva la grande distesa ghiacciata del lago mentre il vento soffiava dall’Artico facendo diventare le dita di chiunque cento volte più fredde di quelle di un cadavere.
Adesso Shadow respirava a fatica. Sentiva il vento ululare intorno alla casa e per un momento gli sembrò di riconoscere alcune parole.
Se proprio doveva essere da qualche parte, pensò, tanto valeva essere lì, poi si addormentò.
Nel frattempo. Una conversazione
Din don.
«Signorina Crow?»
«Sì?»
«La signorina Samantha Black Crow?»
«Sì.»
«Le dispiace se le facciamo qualche domanda?»
«Siete poliziotti? Chi siete?»
«Io sono Town. Il mio collega si chiama Road. Stiamo investigando sulla scomparsa di due colleghi.»
«E come si chiamano?»
«Prego?»
«Ditemi come si chiamano. Voglio sapere i loro nomi. Il nome dei colleghi. Ditemi come si chiamano e forse potrò aiutarvi.»
«… Okay. Si chiamavano Stone e Wood. Allora, possiamo farle qualche domanda sì o no?»
«Ma cosa fate, prendete i nomi dal primo oggetto che vi capita a tiro? "Oh, ecco il signor Marciapiede e il signor Tappeto, dite ciao al signor Aeroplano"?»
«Molto spiritosa, signorina. Prima domanda: dobbiamo sapere se ha mai visto quest’uomo. Tenga. Guardi la fotografia.»
«Accidenti. Di fronte e di profilo, con una fila di numeri sotto… E grande e grosso. Bello, però. Cos’ha fatto?»
«Ha partecipato a una rapina alla banca di una cittadina, guidava la macchina, qualche anno fa. I due soci hanno deciso di tenersi il malloppo e l’hanno piantato in asso. Lui si è arrabbiato. Li ha trovati. Li ha quasi uccisi a mani nude. L’accusa ha patteggiato con le vittime: hanno testimoniato contro di lui. Shadow si è beccato sei anni. Ne ha scontati tre. Se vuole sapere la mia opinione, tipi così dovrebbero chiuderli in cella e buttare via la chiave.»
«Non l’avevo mai sentito dire nella vita vera. Non a voce alta.»
«Che cosa, signorina Crow?»
«"Malloppo". Non è una parola che si usa spesso. Forse nei film. Non nella vita.»
«Questo non è un film, signorina Crow.»
«Black Crow. Mi chiamo Black Crow. Sam, per gli amici.»
«Abbiamo capito, Sam. Allora, a proposito di quest’uomo…»
«Voi non siete miei amici. Chiamatemi signorina Black Crow.»
«Senti, mocciosetta…»
«Tranquillo, Road. Sam — mi scusi, signora — volevo dire… la signorina Black Crow vuole aiutarci. E una cittadina timorata della legge.»
«Signorina, noi sappiamo che lei ha aiutato Shadow. E stata vista con lui a bordo di una Chevy Nova bianca. Le ha dato un passaggio. Le ha offerto la cena. Ha detto niente che potrebbe risultare utile alle indagini? Due dei nostri uomini migliori sono stati uccisi.»
«Non l’ho mai visto.»
«L’ha visto eccome. La prego di non commettere l’errore di giudicarci stupidi. Non lo siamo.»
«Mmm. Incontro un sacco di gente. Magari l’ho conosciuto e dimenticato subito dopo.»
«Signorina, le conviene cooperare.»
«Altrimenti mi presenterete il signor Tenaglia e il signor Pentothal?»
«Signorina, lei sta peggiorando la sua posizione.»
«Cavoli. Mi dispiace. Abbiamo finito? Perché adesso vorrei salutarvi e chiudere la porta e immagino che una volta saliti sul signor Furgone ve ne andrete.»
«Abbiamo preso nota della sua volontà di non cooperare, signorina.»
«Ciao ciao.»
Clic.
Ti dirò tutto di me
ma tacerò il passato
perciò mandami a letto per sempre.
Un’esistenza intera nelle tenebre e nel sudiciume, sognò Shadow quella prima notte a Lakeside. Un bambino, la sua vita, lontana nel tempo e nello spazio, in una terra di là dell’oceano, dove sorge il sole. Una vita senz’alba, dove regnano incontrastate penombra diurna e notturna cecità.
Nessuno parlava con lui. Sentiva voci umane, fuori, ma non capiva il loro linguaggio più di quanto capisse il grido della civetta e i guaiti dei cani.
Ricordava, o gli sembrava di ricordare, che una notte, tanto tanto tempo prima, un essere grande era entrato piano, ma non per ammanettarlo né per nutrirlo; lo aveva preso e se l’era stretto al petto in un abbraccio. Aveva un buon odore. Calde gocce d’acqua erano cadute dalla faccia di lei sulla sua. Allora si era spaventato e aveva pianto di paura con tutto il fiato che aveva in gola.
Lei lo aveva rimesso in gran fretta sul pagliericcio ed era uscita dalla capanna chiudendosi la porta alle spalle.
Conservava il ricordo di quel momento come se fosse un tesoro, prezioso al pari della dolcezza del cuore del cavolo, del sapore aspro delle prugne, della durezza delle mele, dell’unta squisitezza del pesce arrosto.
Adesso, alla luce del fuoco, vedeva le loro facce; erano tutti lì che guardavano lui quando venne portato fuori dalla capanna per la prima volta, l’unica volta. Allora erano quelle, le sembianze umane. Cresciuto al buio, non aveva mai visto un volto. Era tutto nuovo. Tutto strano. La luce del falò gli feriva gli occhi. Gli misero una corda intorno al collo per condurlo nel luogo dove lo aspettava un uomo.
E quando la lama si levò, quali grida di gioia lanciò la folla. Il bambino delle tenebre rise con loro, libero e felice.
Poi la lama si abbassò.
Shadow aprì gli occhi: moriva di fame e stava congelando in quell’appartamento che aveva i vetri delle finestre coperti all’interno da uno strato di ghiaccio.
Era stato il suo respiro, pensò. Si alzò dal letto, lieto di non doversi rivestire. Passando grattò il pannello di vetro e sentì il ghiaccio sciogliersi sotto l’unghia.
Provò a ricordare il sogno ma aveva dimenticato tutto, eccetto l’infelicità e la tenebra.
Si infilò le scarpe. Sarebbe arrivato fino in centro a piedi, decise, attraversando il ponte all’estremità settentrionale del lago, se aveva capito bene come orientarsi a Lakeside. Indossò la giacca leggera ricordando che si era ripromesso di comprare un cappotto caldo per l’inverno, aprì la porta dell’appartamento e uscì sul portico. Il freddo gli tolse il respiro; quando provò a inspirare dal naso sentì la peluria nelle narici irrigidirsi, come se si stesse congelando. Dal portico si godeva una bella vista del lago, chiazze irregolari di grigio circondate da una distesa bianca.
L’ondata di gelo era arrivata, non c’erano dubbi. A quindici gradi sotto zero non sarebbe stata una bella passeggiata, ma Shadow era certo di potercela fare ad arrivare in centro. Che cosa gli aveva detto Hinzelmann: dieci minuti di strada? E in fondo lui era un uomo forte, camminando di buon passo si sarebbe riscaldato.
Partì in direzione del ponte.
Cominciò a tossire quasi subito, una tosse secca, come se l’aria tagliente gli irritasse i polmoni. Dopo pochi minuti gli facevano male le orecchie, le guance, la bocca, poi cominciarono a dolere i piedi. Spinse più a fondo le mani nelle tasche della giacca e chiuse le dita nel disperato tentativo di non disperdere calore. Si riscoprì a pensare alle storie sugli inverni del Minnesota che gli aveva raccontato Low Key Lyesmith, soprattutto a quella del cacciatore costretto da un orso ad arrampicarsi su un albero durante una gelata particolarmente dura. A un certo punto il cacciatore aveva tirato fuori l’uccello per pisciare e l’arco di urina fumante si era ghiacciato prima di toccare terra, permettendogli di usarlo come scivolo e riconquistare la libertà. Il sorriso sardonico che gli provocò il ricordo fu seguito da un altro colpo di tosse secco e doloroso.
Cammina e cammina, quando si voltò a guardare l’edificio dove abitava si accorse di non essere così lontano come pensava.
Aveva preso la decisione sbagliata. Però ormai camminava da tre o quattro minuti, e già si vedeva il ponte. Proseguire o tornare richiedeva lo stesso sforzo (e una volta a casa cos’avrebbe fatto? Chiamato un taxi da un telefono scollegato? Aspettato il disgelo? Nel frigorifero non c’era niente da mangiare).
Decise di proseguire, e intanto riformulò la prima stima della temperatura. A quanti gradi sotto zero potevano essere? Venti? Trenta? Forse quaranta, forse quello strano valore in cui il termometro in centigradi e quello Fahrenheit dicono la stessa cosa. No, non poteva essere così freddo. Comunque il vento era gelido e soffiava costante sul lago, disceso attraverso il Canada direttamente dall’Artico.
Pensò con rimpianto agli scaldini chimici. Peccato non averli in quel momento.
Ancora dieci minuti, secondo lui, ma il ponte sembrava sempre lontano. Aveva troppo freddo per tremare. Gli facevano male gli occhi. Quello era un freddo da fantascienza, era una storia ambientata sul lato buio di Mercurio all’epoca in cui pensavano che il pianeta avesse un lato buio. O sul roccioso Plutone, dove il sole è soltanto una stella che nell’oscurità brilla poco più luminosa delle altre. Qui, pensò Shadow, ci manca poco che l’aria arrivi a secchiate, spargendosi come birra per l’atmosfera.
Le rare macchine che passavano sembravano irreali: navicelle spaziali, scatolette congelate di vetro e metallo, abitate da gente meglio equipaggiata di lui. Gli venne in mente una vecchia canzone, tra le preferite di sua madre: Walking in a Winter Wonderland, e la canticchiò a labbra chiuse camminando al ritmo della musica.
Non sentiva più i piedi. Guardò le scarpe nere di cuoio e le calze di cotone leggero e cominciò a preoccuparsi seriamente del rischio di congelamento.
Non era uno scherzo, quella camminata. A quel punto non era più neanche una stupidaggine, ormai si trattava di un autentico caso di: Oh-cazzo-sono-nella-merda-fino-al-collo. Gli indumenti che portava offrivano contro il vento la stessa protezione di un velo di pizzo o una rete da pesca; le raffiche gli congelavano le ossa, il midollo, gli stavano congelando le ciglia, quel posticino caldo sotto le palle che cercavano di ritirarsi nella cavità pelvica.
Si esortò a continuare. Continua a camminare. Quando torno a casa, mi bevo una secchiata d’aria. Adesso nella testa gli ronzava una canzone dei Beatles, e adeguò il passo al nuovo ritmo. Fu soltanto quando arrivò al ritornello che si rese conto di canticchiare Help!
Era quasi al ponte. Doveva attraversarlo, poi ci sarebbero voluti altri dieci minuti per arrivare fino ai negozi sulla riva occidentale, forse poco di più…
Un’automobile scura lo superò, rallentò, proseguì di poco e fece retromarcia con un sbuffo di gas per fermarsi proprio accanto a lui. Si abbassò un finestrino, e il vapore che uscì dall’abitacolo si mescolò ai gas di scarico formando una nuvola di alito di drago che rimase sospesa. «Va tutto bene?» chiese il poliziotto.
Il primo istinto fu di rispondere: Sì, alla grande. Durò un attimo, e invece provò a dire: «Sto congelando, credo. Stavo andando in centro a comperare cibo e vestiti caldi ma ho calcolato male il percorso», però quando finì di formulare la frase mentalmente si rese conto che dalla bocca gli era uscito soltanto «C-c-ongelo» e un battito di denti. «S-scusi. Freddo. Scusi.»
Il poliziotto spalancò la portiera e disse: «Entri immediatamente a riscaldarsi, ha capito?». Shadow salì con un enorme senso di gratitudine sul sedile posteriore e cominciò a strofinarsi le mani cercando di non preoccuparsi troppo per le dita dei piedi. Il poliziotto tornò al volante e Shadow lo fissò attraverso la grata metallica sforzandosi di non pensare all’ultima volta che si era trovato in una macchina della polizia e di non vedere che alle portiere posteriori mancavano le maniglie d’apertura. Si concentrò soltanto a far scorrere di nuovo la vita nelle mani; gli doleva la faccia e gli dolevano le dita, paonazze, e al caldo ricominciavano a far male anche le dita dei piedi. Era un buon segno, forse.
La macchina ripartì. Senza voltarsi a guardarlo il poliziotto disse: «Sa, se posso permettermi, lei ha fatto una cosa molto stupida. Non ha sentito le previsioni? Fa meno trenta, là fuori. Dio solo sa com’è freddo il vento, anche se a queste temperature il vento è l’ultimo dei problemi».
«Grazie» disse Shadow. «Grazie di essersi fermato. Le sono molto, molto grato.»
«Questa mattina a Rhinelander una donna è uscita in vestaglia e pantofole per riempire il beccatoio ed è rimasta congelata, letteralmente congelata, sul marciapiede. Adesso è in terapia intensiva. L’hanno detto alla televisione. Lei è nuovo?» Forse era una domanda, ma il poliziotto conosceva già la risposta.
«Sono arrivato ieri sera con il Greyhound pensando che oggi avrei potuto comprarmi degli indumenti caldi, provviste, una macchina. Non mi aspettavo un freddo simile.»
«Infatti. Ha colto di sorpresa anche me. Ero troppo preoccupato per l’effetto serra mondiale. A proposito, mi chiamo Chad Mulligan. Sono il capo della polizia di Lakeside.»
«Piacere, Mike Ainsel.»
«Allora, Mike. Posso chiamarti Mike? Va un po’ meglio?»
«Sì, certo. Meglio.»
«Dove vuoi che ti porti?»
Shadow allungò le mani verso la grata del riscaldamento; al contatto con l’aria calda il dolore divenne intenso e ritrasse le mani. Doveva lasciare che si riprendessero gradualmente. «Mi potresti lasciare in centro?»
«Non ci penso nemmeno. Ti accompagno molto volentieri con la macchina ovunque tu debba andare, eccetto che in banca a fare una rapina, ovviamente. Consideralo una specie di benvenuto da parte della cittadinanza.»
«Tu da dove mi consiglieresti di cominciare?»
«Sei arrivato ieri sera?»
«Sì.»
«Hai fatto colazione?»
«Non ancora.»
«Be’, allora questo mi sembra un ottimo punto di partenza.»
Adesso erano sul ponte che portava nella zona nordoccidentale di Lakeside. «Questa è Main Street, e questa» aggiunse Mulliggan svoltando a destra «è la nostra famosa piazza.»
La piazza cittadina faceva una certa impressione anche d’inverno, ma si capiva che era un posto da vedere in estate, quando si sarebbe trasformata in una profusione di colori: papaveri e iris e fiori di tutti i tipi, e il boschetto di betulle in un angolo avrebbe formato un pergolato argenteo. Adesso era tutta in bianco e nero, una bellezza scheletrica: il gazebo dell’orchestra vuoto, la fontana chiusa per l’inverno, il municipio con la facciata di arenaria coperto di neve.
«… e questa» concluse Chad Mulligan fermandosi davanti alla vetrata di un vecchio edificio che si trovava sul lato occidentale della piazza «è Mabel’s.»
Scese dall’auto e andò ad aprire la portiera a Shadow. I due uomini attraversarono di corsa il marciapiede a testa bassa ed entrarono in una sala calda e odorosa di pane appena sfornato, brioche, zuppa e pancetta.
Il locale era semivuoto. Mulligan prese posto a un tavolo e Shadow gli si sedette di fronte. Forse il capo della polizia locale stava facendo del suo meglio per scoprire chi era lo straniero appena arrivato in città. Oppure era proprio come sembrava: un uomo cordiale e servizievole, di buon cuore.
Una donna, non grassa ma corpulenta, un donnone di una sessantina d’anni con i capelli tinti color bronzo, si affaccendò intorno a loro.
«Buongiorno, Chad. Ti porto una cioccolata, mentre decidi cosa prendere?» Tese a entrambi due menu con la copertina laminata.
«Niente panna, però» disse il poliziotto. «Mabel mi conosce bene» spiegò a Shadow. «Tu cosa prendi, amico?»
«Una cioccolata calda mi sembra perfetta» disse Shadow. «E mi piacerebbe anche con la panna.»
«Bravo» disse Mabel. «Ti piace la vita spericolata, vedo. Ci presenti, Chad? È un nuovo agente, il giovanotto?»
«Non ancora» rispose Mulligan mostrando i denti bianchi in un fugace sorriso. «È Mike Ainsel. Si è trasferito in città ieri sera. Scusatemi.» Si alzò e si avviò verso una porta in fondo con la scritta POINTER. Sulla porta accanto c’era scritto SETTER.
«Sei quello che si è trasferito nell’appartamento su a Northridge Road nella vecchia casa dei Pilsen? Ah sì» disse la donna compiaciuta, «devi essere proprio tu. Hinzelmann è passato presto per la sua pasty di colazione e mi ha raccontato tutto. A voi ragazzi basta la cioccolata o volete dare un’occhiata al menu?»
«Io farei colazione» disse Shadow. «Cosa c’è di buono?»
«Tutto è buono. Lo preparo con le mie mani. Però questo è l’ultimo posto a sud e a est dello Yoopie dove potrai trovare le pasty, e sono davvero squisite. Calde e nutrienti. La mia specialità.»
Shadow non aveva la minima idea di che cosa fosse una pasty ma la ordinò lo stesso e pochi minuti dopo Mabel ritornò con una specie di grossa crèpe ripiegata, la parte inferiore avvolta in un tovagliolo di carta. Shadow la prese e l’addentò: era calda e ripiena di carne, patate, carote, cipolle. «È la prima pasty della mia vita. Proprio buona.»
«E una specialità yoopie» spiegò la donna. «In genere bisogna arrivare almeno fino a Ironwood per trovarle. L’hanno introdotte qui gli uomini venuti a lavorare nelle miniere di ferro dalla Cornovaglia.»
«Cosa vuol dire Yoopie?»
«È la penisola superiore. U.P. Yoopie. Quel pezzettino nel Nordest del Michigan.»
Il capo della polizia tornò al tavolo, prese la tazza di cioccolata e cominciò a berla in modo rumoroso. «Mabel, stai costringendo questo simpatico giovane a mangiare una delle tue pasty?»
«È buona» disse Shadow. Lo era davvero, una prelibatezza avvolta in una crèpe calda.
«Vanno a finire direttamente nella pancia» disse Mulligan toccandosi la sua. «Io ti ho avvisato. Hai detto che hai bisogno di una macchina?» Senza giacca a vento il poliziotto si era rivelato un tipo smilzo con la pancetta e un’aria preoccupata e competente che più che uno sbirro lo faceva sembrare un ingegnere.
Shadow annuì con la bocca piena.
«Bene. Ho fatto qualche telefonata. Justin Liebowitz vende la sua jeep, vuole quattromila dollari ma si accontenterebbe di tremila. I Gunther hanno la Toyota 4-Runner in vendita da otto mesi, ha un colore disgustoso ma probabilmente a questo punto sarebbero disposti a pagare purché gliela si levasse dal cortile. Se non badi troppo alle apparenze è un affarone. Ho usato il telefono che c’è in bagno e ho lasciato un messaggio per Missy Gunther al Lakeside Realty, però non era ancora arrivata, probabilmente si sta facendo la messa in piega da Sheila’s.»
A Shadow la pasty sembrò buona fino in fondo. Saziava in maniera incredibile. Uno di quei cibi che "si attaccano alle costole" come avrebbe detto sua madre. "Che ti fanno diventare grande."
«Allora» disse il capo della polizia Chad Mulligan ripulendosi la schiuma della cioccolata dalla bocca; «adesso andiamo da Hennings Farm and Home Supplies a procurarti un guardaroba invernale come si deve, facciamo un salto da Dave’s Finest Food per riempire la dispensa e poi ti porto al Lakeside Realty. Se ti puoi permettere di spendere mille dollari in contanti saranno contenti, altrimenti gliene potrai dare cinquecento per quattro mesi. Ti ho già detto che è brutta, comunque se il ragazzo non l’avesse dipinta di rosso varrebbe diecimila dollari, è molto affidabile, e tu hai bisogno di una macchina solida per andare in giro con questo tempo, se vuoi il mio parere.»
«Sei molto gentile» disse Shadow. «Non dovresti essere in giro a dare la caccia ai criminali, invece di perdere tempo con i nuovi arrivati? Non che mi lamenti, bada bene.»
Mabel ridacchiò: «Glielo diciamo sempre anche noi».
Mulligan scrollò le spalle. «Questa è un città tranquilla» dichiarò con semplicità. «Non succede granché. Capita sempre di fermare qualcuno che supera il limite di velocità, il che non è male, visto che sono le multe a pagarmi lo stipendio. Venerdì e sabato sera può capitare che qualche stronzo si ubriachi e picchi la moglie, o viceversa, succede anche quello. Donne e uomini, indifferentemente. Comunque, in generale la vita è tranquilla. Mi chiamano se qualcuno chiude le chiavi dentro la macchina. Se c’è un cane che abbaia troppo. Tutti gli anni becco un paio di liceali che fumano marijuana. Il crimine più grave è stato quello di Dan Schwartz: una sera si è ubriacato e si è messo a sparare contro la sua roulotte, poi è scappato sulla sedia a rotelle lungo Main Street, agitando il fucile e urlando che avrebbe sparato a chiunque cercasse di fermarlo, che nessuno gli avrebbe impedito di arrivare all’Interstate. Credo che volesse arrivare a Washington per sparare al presidente. Mi viene ancora da ridere quando ripenso alla scena: Dan che corre verso l’interstate sulla sua sedia a rotelle con un adesivo sullo schienale che dice: "Mio figlio delinquente minorile si fotte tua figlia prima della classe". Ti ricordi, Mabel?»
La donna annuì e fece una smorfia. Non sembrava trovare la scena altrettanto divertente.
«E tu cos’hai fatto?» chiese Shadow.
«Gli ho parlato. Mi sono fatto consegnare il fucile. Ha smaltito la sbronza in galera. Dan non è una cattiva persona, era soltanto ubriaco e infelice.»
Shadow pagò la sua colazione e, malgrado le proteste, anche la cioccolata di Chad Mulligan.
L’Hennings Farm and Home Supplies era un magazzino a sud della città dove vendevano di tutto, dai trattori ai giocattoli (i giocattoli e le decorazioni natalizie erano già in saldo). Tra i clienti in cerca di un’occasione che affollavano il negozio, Shadow riconobbe la ragazzina che aveva viaggiato seduta davanti a lui sull’autobus, la più giovane delle due. Era con i genitori. Le fece un cenno con la mano e lei gli sorrise, un sorriso esitante, con gli elastici blu. Shadow si chiese oziosamente come sarebbe diventata nel giro di dieci anni.
Probabilmente uno splendore, come la ragazza alla cassa che passava la rumorosa pistola elettronica che legge il codice a barre sui suoi acquisti e che di sicuro sarebbe stata capace di usare lo scanner anche su un trattore, se qualcuno l’avesse comperato.
«Dieci paia di mutandoni lunghi?» chiese. «Facciamo scorta, eh?» Era bella come un’attrice del cinema.
A Shadow sembrò di avere ancora quattordici anni, e si sentì sciocco e impacciato. Non disse niente mentre lei passava la pistola sugli stivali termici, sui guanti, sui maglioni e sulla giacca di piumino d’oca.
Non aveva alcun desiderio di verificare la carta di credito che gli aveva dato Wednesday, perlomeno non con il capo della polizia in piedi accanto a lui tutto desideroso di collaborare, e quindi pagò in contanti. Portò i sacchetti con gli acquisti nel bagno degli uomini e ne uscì indossando parecchi capi nuovi.
«Stai bene, gigante» disse Mulligan.
«Almeno sto al caldo» rispose Shadow, e infatti fuori nel parcheggio il vento freddo gli bruciò la faccia ma il resto del suo corpo rimase caldo. Dietro invito di Mulligan sistemò le borse nel bagagliaio e salì, accanto al posto di guida.
«Allora, Mike Ainsel, cos’è che fai nella vita?» chiese il poliziotto. «Che mestiere fa un uomo grande e grosso come te, e pensi di farlo anche qui a Lakeside?»
Il cuore gli batteva forte ma la voce uscì ferma. «Lavoro per mio zio, che commercia in tutto il paese. Faccio i lavori pesanti.»
«Ti paga bene?»
«Sai com’è, sono suo nipote. Sa che non lo deruberò mai e intanto io imparo il mestiere. Fino a quando non scopro che cosa voglio fare davvero.» La spiegazione scivolò liscia come l’olio e suonò convincente. In quel momento a Shadow sembrava di sapere tutto sul conto di Mike Ainsel, e lo trovava simpatico. Mike non aveva nessuno dei suoi problemi. Non era mai stato sposato. Non aveva mai subito l’interrogatorio su un treno merci del signor Wood e del signor Stone. I televisori non parlavano con lui («Ti va di vedere le tette di Lucy?» gli chiese una voce nella memoria). Mike Ainsel non faceva brutti sogni e non sentiva avvicinarsi minacciosa una tempesta.
Riempì la cesta di Dave’s Finest Food con la sua idea di rifornimento da area di servizio sull’autostrada: latte, uova, pane, mele, formaggio, biscotti. Cibarie generiche. Più tardi avrebbe fatto una vera spesa. Mentre lui si aggirava tra gli scaffali, Chad Mulligan salutava gli altri clienti e lo presentava. «Questo è Mike Ainsel, ha preso l’appartamento nella vecchia casa dei Pilsen. Quello sul retro» diceva. Shadow rinunciò subito a ricordare i nomi. Si limitò a sorridere e a stringere mani, sudando un po’, a disagio, con i nuovi indumenti termici nel negozio riscaldato.
Mulligan lo accompagnò al Lakeside Realty, che si trovava proprio di fronte al negozio. Missy Gunther li ricevette fresca di messa in piega. Non ci fu bisogno di presentazioni perché sapeva già chi era Mike Ainsel. Il caro signor Borson che aveva affittato l’appartamento un paio di mesi prima era suo zio Emerson, giusto, un vecchietto molto simpatico; e la vista, non era forse da urlo? Be’, caro, aspetti primavera e vedrà, perché noi siamo molto fortunati, pensi che da queste parti quasi tutti i laghi diventano verdi di alghe, in estate, una cosa da far rivoltare lo stomaco, mentre il nostro, be’, venga qui il quattro luglio e vedrà, praticamente lo si può bere, e il signor Borson aveva pagato un anno di affitto anticipato… In quanto alla Toyota 4-Runner lei non riusciva a credere che Chad Mulligan se la ricordasse ancora, comunque sì, era ben contenta di liberarsene. A dire la verità si era rassegnata all’idea di darla a Hinzelmann per farne la bagnarola dell’anno prossimo e smettere di pagare il bollo, non che la macchina fosse un rottame, tutt’altro, no, era stata del figlio prima che andasse all’università di Green Bay e be’, un giorno lui l’aveva dipinta di rosso porpora e, ah ah, sperava proprio che a Mike piacesse il rosso porpora, era quello l’unico problema, comunque non gliene avrebbe fatto una colpa, se non gli fosse piaciuto …
A metà della litania il capo della polizia Chad Mulligan si congedò. «A quanto pare in ufficio hanno bisogno di me. Piacere di averti conosciuto, Mike» disse, e trasferì i sacchetti con le compere di Shadow nel baule della station wagon di Missy Gunther.
Shadow e Missy andarono insieme a casa di lei: nel cortile era parcheggiato il vecchio fuoristrada. La neve l’aveva mezzo coperto di una coltre abbagliante e il resto della carrozzeria risaltava per quella tonalità stucchevole di porpora che può venire in mente solo a chi si fa un sacco di canne.
Comunque partì al primo tentativo, il riscaldamento funzionava, anche se impiegò dieci minuti al massimo regime prima di trasformare la temperatura dell’abitacolo da insopportabilmente gelida a fredda passabile. Mentre il cambiamento climatico era in atto, Missy Gunther portò Shadow in cucina: scusi il disordine, ma i ragazzini lasciano giocattoli dappertutto dopo Natale e lei non aveva il cuore di spostarli, non voleva per caso mangiare un po’ di tacchino avanzato? Be’, il caffè, allora, ci vuole un attimo a prepararlo. Lui sedette vicino alla finestra spostando un grosso modellino di automobile e confessò a Missy Gunther che gli domandava se avesse già conosciuto i vicini di non averli ancora incontrati.
Mentre il caffè gocciolava dal filtro fu informato che nel palazzo abitavano altri quattro inquilini: all’epoca in cui era casa Pilsen i Pilsen occupavano il pianterreno e affittavano i due appartamenti di sopra, adesso giù abitano il signor Holz e il signor Neiman, che sono una coppia, e quando dico coppia, signor Ainsel, Cielo, c’è gente di tutti i tipi, più varietà di quelle degli alberi nella foresta, anche se quella varietà lì di uomo di solito finisce su a Madison o a Twin Cities, ma a dire la verità qui non si scandalizza nessuno. Passano l’inverno a Key West e torneranno in aprile, così avrebbe potuto conoscerli. Il fatto è che Lakeside è una bella città. E proprio accanto all’appartamento del signor Ainsel ci sta Marguerite Olsen con il bambino, una signora molto, molto gentile, ha avuto una vita dura, però è buona come il pane, e lavora per il "Lakeside News". Che non sarà il giornale più eccitante del mondo ma a dire la verità secondo lei alla gente del posto piace così.
Oh, disse versandogli il caffè, sperava proprio che il signor Ainsel riuscisse a vedere la città in estate o a tarda primavera, quando i lillà, i meli e i ciliegi sono in fiore, secondo me non esiste niente di più bello, niente al mondo che li superi in bellezza.
Shadow le diede cinquecento dollari di acconto, salì in macchina, inserì la retromarcia e uscì dal cortile per imboccare il vialetto. Missy Gunther picchiettò sul vetro. «Questa è per lei. Me l’ero quasi dimenticata.» Gli tese una busta di pelle scamosciata. «È una specie di gioco. Ce le siamo fatte fare qualche anno fa. Non deve guardare subito.»
Lui la ringraziò e guidò con cautela fino in città prendendo la strada che costeggiava il lago. Gli sarebbe piaciuto vederlo in estate, o in autunno: doveva essere bellissimo, ne era sicuro.
Arrivò a casa in dieci minuti.
Parcheggiò la Toyota e imboccò la scaletta esterna che conduceva al suo gelido appartamento. Tirò fuori gli acquisti dai sacchetti, sistemò le provviste nell’armadio e nel frigorifero e poi aprì la busta che gli aveva dato Missy Gunther.
Conteneva un passaporto. Blu, con la copertina plastificata: dentro c’era scritto che Michael Ainsel (il nome era stato aggiunto da Missy Gunther in bella calligrafia) era cittadino di Lakeside. Nella pagina successiva c’era una cartina della città e il resto del libretto era zeppo di buoni sconto validi in tutti i negozi.
«Credo che questo posto potrebbe piacermi» disse Shadow a voce alta. Guardò il lago gelato fuori della finestra coperta di ghiaccio. «Se solo non facesse così freddo.»
Intorno alle due del pomeriggio, mentre Shadow si esercitava nel trucco della Moneta Scomparsa con un pezzo da venticinque centesimi, passandolo da una mano all’altra senza farlo notare, sentì un colpo alla porta. Siccome le mani erano intorpidite dal freddo lasciava cadere continuamente il quarto di dollaro sul tavolo, e il colpo alla porta glielo fece cadere per l’ennesima volta.
Andò ad aprire.
Un istante di puro terrore: l’uomo indossava una maschera nera che gli copriva la parte inferiore del volto. Era il genere di maschera che potrebbe indossare un rapinatore di banche in un telefilm, o che un serial killer userebbe per spaventare le sue vittime in un thriller di serie B. La testa del visitatore era coperta da un berretto di lana nero.
Comunque era più basso e più magro di Shadow, non sembrava armato e indossava una giacca di lana scozzese a colori vivaci, il tipo di giacca che i serial killer in genere evitano con cura.
«Sohh Ihhalaan» disse il visitatore.
«Come?»
L’uomo abbassò la maschera rivelando la faccia allegra del vecchio Hinzelmann. «Ho detto "Sono Hinzelmann". Non so proprio come si facesse prima dell’invenzione di queste maschere. Non me lo ricordo. Probabilmente si calcavano grossi berretti sulla faccia e poi si avvolgevano con sciarpe e chissà cos’altro. A me pare che quello che inventano oggi sia miracoloso. Sarò anche vecchio, ma non ho certo intenzione di prendermela con il progresso.»
Concluse il discorso mettendo in mano a Shadow un cesto pieno di formaggi locali, bottiglie, vasetti e alcuni piccoli salami che sembravano fatti con la cacciagione estiva ed entrò in casa. «Buon giorno dopo il giorno di Natale» disse. Anche con la maschera aveva naso, orecchi e guance rossi come lamponi. «Ho saputo che hai mangiato un’intera pasty di Mabel. Ti ho portato qualche cosetta.»
«È molto gentile da parte sua» disse Shadow.
«Gentile un corno. La settimana prossima ti faccio ripagare tutto con la lotteria gestita dalla Camera di Commercio, che poi sarebbe gestita da me. L’anno scorso abbiamo raccolto quasi diciassettemila dollari per il reparto pediatrico del Lakeside Hospital.»
«Non posso comprare subito i biglietti?»
«Non si può fino a quando la bagnarola non viene messa sul ghiaccio.» Guardò il lago dalla finestra. «Fa freddo, là fuori. Ieri notte la temperatura dev’essere scesa di almeno dieci gradi.»
«Tutto in un colpo» convenne Shadow.
«Ai vecchi tempi si pregava perché venissero gelate così» disse Hinzelmann. «Me l’ha raccontato mio padre.»
«E perché mai?»
«In effetti, sì, a quei tempi era praticamente l’unico modo che i coloni avessero per sopravvivere. Non c’era da mangiare per tutti, allora, e non è che si potesse andare da Dave’s a riempire il carrello, nossignore. Così mio nonno si era spremuto le meningi: quando arrivava una giornata veramente fredda come questa prendeva mia nonna e i bambini, mio zio, la zia e mio papà — che era il più giovane — insieme alla servetta e al bracciante e li portava fino al torrente, li faceva bere un po’ di rum mescolato con erbe, una ricetta del suo paese, poi rovesciava addosso a tutti l’acqua del torrente. Ovviamente congelavano nel giro di pochi secondi, diventavano duri e bluastri come ghiaccioli all’anice. Poi li trasportava fino a una fossa che aveva fatto scavare e riempire di paglia preventivamente e li impilava uno sull’altro, come pezzi di legno di una catasta, metteva intorno altra paglia e copriva la fossa con una tavola per tenere lontani gli animali — a quei tempi c’erano lupi e orsi e creature di ogni genere che ormai non si vedono più, però non c’erano hodag, sono solo storie quelle che si raccontano sugli hodag e non ti giudico così credulone da raccontarti storie senza fondamento, nossignore — dicevamo, chiudeva con una tavola e alla prima nevicata la fossa era completamente coperta, eccetto la bandierina che aveva piantato per ritrovarla.
«A quel punto il nonno superava l’inverno con agio, senza più preoccuparsi di finire le scorte di cibo o di combustibile. E quando arrivava la primavera, andava nel punto dove aveva piantato la bandiera e scavava nella neve, toglieva la tavola, riportava tutti i membri della famiglia a casa e a uno a uno li sistemava davanti al fuoco a scongelare. Nessuno protestava, salvo una volta uno dei braccianti perché, siccome mio nonno non aveva sistemato bene la tavola, una famiglia di topi gli aveva rosicchiato mezzo orecchio. A quei tempi sì che c’erano dei veri inverni. Si poteva fare. Questi inverni da femminuccia che abbiamo adesso non sono abbastanza freddi.»
«Ah no?» chiese Shadow continuando a dargli corda e divertendosi moltissimo.
«Dopo l’inverno del ’49 non ce ne sono più stati, ma tu sei troppo giovane per ricordartelo. Quello sì che è stato un inverno come si deve. Vedo che hai comperato un mezzo di locomozione.»
«Già. Cosa gliene pare?»
«A dirti la verità, il ragazzo dei Gunther non mi è mai piaciuto. Avevo un ruscello con le trote nel bosco in fondo, molto in fondo alla mia proprietà, in effetti sarebbe terra comunale, comunque io ci avevo messo qualche pietra per creare delle pozze dove potessero fermarsi le trote. Prendevo dei veri capolavori, un giorno ho pescato una trota che doveva essere tre o quattro chili, e quel moccioso dei Gunther ha distrutto tutte le pozze minacciando di denunciarmi alla guardia forestale. Adesso è all’università, però tornerà presto e se ci fosse giustizia a questo mondo dovrebbe essere un fuggiasco invernale, invece no, continua a ronzare qui intorno come una tarma intorno a un gilet di lana.» Cominciò a sistemare il contenuto del cesto di benvenuto sugli scaffali. «Questa è la cotognata di Katherine Powdermaker. Ogni Natale, da prima che tu venissi al mondo, me ne regala un vasetto, e la triste verità è che non ne ho mai aperto uno. Sono tutti giù in cantina, quaranta o cinquanta vasetti di cotognata. Magari un giorno ne apro uno e scopro che mi piace. Nel frattempo eccone uno per te. Magari è di tuo gusto.»
«Che cos’è un fuggiasco invernale?»
«Mmm». Il vecchio si sistemò il berretto dietro le orecchie e si grattò la tempia con l’indice paonazzo. «Be’, non è un’esclusiva di Lakeside: la nostra è una città a posto, superiore alla media, comunque non siamo perfetti neanche noi. Certi inverni succede magari che un ragazzino diventi matto, quando fa così freddo da non poter uscire, e la neve è talmente asciutta che non puoi farci nemmeno le palle perché si sbriciolano…»
«E allora scappa?»
Il vecchio annuì con gravità. «Per me la colpa è della televisione che fa vedere ai ragazzi cose che non dovrebbero mai vedere, come Dallas e Dynasty e tutte quelle altre stupidaggini. Io non ho un televisore dall’autunno dell’83, solo uno in bianco e nero che tengo nell’armadio in caso qualcuno di fuori volesse vedere una partita importante.»
«Posso offrirle qualcosa, Hinzelmann?»
«Niente caffè. Mi dà acidità di stomaco. Solo acqua.» Il vecchio scosse la testa. «Il problema più grosso in questa parte del paese è la miseria. Non la miseria della Depressione, qualcosa di più… qual è la parola per dire che si infila dappertutto come gli scarafaggi?»
«Insidiosa?»
«Sì ecco, insidiosa. Il legname non dà più lavoro. Le miniere non danno più lavoro. I turisti non vanno più a nord di Dells, eccetto qualche raro cacciatore e i ragazzini che fanno campeggio sui laghi, però non spendono certo soldi nei negozi e nei locali della città.»
«Lakeside sembra una prospera cittadina.»
Il vecchio chiuse e aprì rapidamente le palpebre. «E non è un’impresa da poco. Credimi. È una bella città ed è l’energia di tutti a renderla bella. Non che la mia famiglia non fosse povera, quand’ero piccolo. Chiedimi che infanzia povera ho avuto.»
Shadow assunse l’espressione seria di chi sta al gioco e disse: «È stata un’infanzia povera la sua, signor Hinzelmann?».
«Solo Hinzelmann, Mike. Eravamo così poveri che non potevamo nemmeno permetterci di accendere il camino. Per festeggiare la notte di Capodanno mio padre succhiava una mentuccia e noi bambini ci mettevamo intorno con le mani tese ad aspettare che la facesse succhiare un pochino anche a noi.»
Shadow fece un fischio di incredulità. Hinzelmann infilò la maschera da sci, abbottonò l’enorme giacca scozzese, prese dalla tasca le chiavi dell’automobile e infine tirò fuori i guanti pesanti. «Se ti annoi vieni a cercarmi in negozio. Ti faccio vedere la mia collezione di mosche da pesca legate a mano. Ti annoierò talmente che dopo tornare quassù ti sembrerà un sollievo.» La voce arrivava soffocata ma comprensibile.
«Verrò» disse Shadow. «Come sta Tessie?»
«È in letargo fino a primavera. Stammi bene, Mike Ainsel.» Uscendo si chiuse la porta alle spalle.
Dopodiché, l’appartamento sembrò ancora più freddo.
Shadow si infilò la giacca e i guanti. Poi gli stivali. Dalle finestre non si riusciva a vedere quasi niente perché lo strato di ghiaccio sulla parte interna dei vetri trasformava il panorama lacustre in un dipinto astratto.
Il suo respiro formava nuvolette nell’aria.
Uscì sul portico di legno e bussò alla porta dei vicini. Sentì una voce femminile gridare a qualcuno di tacere e abbassare il volume della televisione… un bambino, pensò, perché in genere gli adulti non si rivolgono ad altri adulti urlando in quel modo. La porta si aprì e una donna dall’aria stanca con i capelli molto lunghi e molto neri lo fissò con circospezione.
«Sì?»
«Sono Mike Ainsel, signora. Il nuovo vicino.»
La donna rimase impassibile. «Sì?»
«Signora, nel mio appartamento si muore di freddo. Quel po’ di calore che arriva dalla grata non riscalda per niente.»
Lei lo guardò dall’alto in basso, poi l’ombra di un sorriso le sfiorò gli angoli della bocca. «Entri, prego. Se non entra si gelerà anche da noi.»
Shadow entrò. Il pavimento era disseminato di giocattoli di plastica colorati e accanto a un muro c’era un mucchio di carte da regalo strappate dai pacchetti natalizi. Un bambino incollato alla televisione guardava la videocassetta di Hercules, dove al momento un satiro saltellava gridando. Shadow cercò di dare la schiena allo schermo.
«Allora» cominciò la donna, «deve fare così: prima di tutto sigilli le finestre con una specie di striscia adesiva, la trova giù da Hennings. La incolli lungo gli infissi e se vuole fare le cose davvero bene ci passi sopra il phon, così non si stacca più per tutto l’inverno. Questo è il sistema migliore per impedire dispersioni di calore. Poi comperi un paio di termoconvettori. La caldaia del palazzo è vecchia e quando diventa così freddo non ce la fa. Ultimamente abbiamo avuto inverni abbastanza miti, dovremmo esserne contenti, immagino.» Poi gli tese la mano destra. «Sono Marguerite Olsen.»
«Piacere di conoscerla» disse Shadow. Si sfilò un guanto e ricambiò la stretta. «Sa una cosa? Ho sempre pensato che Olsen fosse un cognome per persone più bionde di lei.»
«Il mio ex marito era biondo come da manuale. Biondo e roseo. Non si abbronzava nemmeno sotto la minaccia di un’arma da fuoco.»
«Missy Gunther mi ha detto che lei scrive per il giornale locale.»
«Missy Gunther racconta tutto a tutti. Non capisco che bisogno ci sia di un giornale locale, con lei intorno.» Annuì. «Comunque sì. Raccolgo qualche notizia qui e là, anche se è il caporedattore a fare la cronaca. Io curo la rubrica della natura, quella di giardinaggio, tutte le domeniche la rubrica dei lettori e le "Notizie della Comunità", dove si racconta, con un’abbondanza di dettagli estenuante, chi è uscito a cena con chi nel raggio di venti chilometri.»
Quando lei lo guardò con i suoi occhi neri, Shadow sperimentò un istante di puro déja vu. Sono già stato qui, pensò.
No, lei mi ricorda qualcuno.
«Comunque se vuole riscaldare la casa deve fare come le ho detto.»
«Grazie. Quando sarà calda venga a trovarmi con il bambino.»
«Si chiama Leon. Piacere di averla conosciuta, signor… scusi…»
«Ainsel» disse Shadow. «Mike Ainsel.»
«Che tipo di nome è Ainsel?»
Shadow non ne aveva la minima idea. «Il mio» rispose. «Temo di non essermi mai interessato troppo alla storia di famiglia.»
«Norvegese, forse?»
«Non che io sappia» disse. Poi gli tornò in mente lo zio Emerson Borson e aggiunse: «Dal lato paterno, perlomeno».
Prima che arrivasse Wednesday, Shadow aveva sigillato tutte le finestre, sistemato un termoconvettore nel salotto e un altro in camera da letto. L’appartamento era quasi confortevole.
«Che cosa cazzo è quella porcheria rossa che guidi?» chiese Wednesday come formula di saluto.
«Be’, tu ti sei preso la mia porcheria bianca. A proposito, dov’è?»
«L’ho scambiata con un’altra a Duluth. La prudenza non è mai troppa. Non preoccuparti… quando abbiamo finito ti darò la tua parte.»
«Che cosa ci faccio qui?» chiese Shadow. «A Lakeside, voglio dire. Non al mondo.»
Wednesday sorrise in quel suo modo speciale che a Shadow faceva venire voglia di tirargli un cazzotto. «Sei venuto a vivere qui perché è l’ultimo posto dove verrebbero a cercati. A Lakeside ti posso tenere al riparo da sguardi indiscreti.»
«Chi dovrebbe cercarmi? I berretti neri?»
«Esattamente. Ho paura che ormai per noi la House on the Rock sia territorio proibito. È un momento difficile, comunque ce la faremo. Si tratta soltanto di battere i piedi, agitare i gagliardetti e fare qualche capriola prima che l’azione vera e propria cominci, leggermente più tardi del previsto. Credo che aspetteranno la primavera. Fino ad allora non dovrebbe succedere niente di grosso.»
«Come mai?»
«Perché possono anche blaterare discorsi su micromillisecondi e mondi virtuali e slittamenti paradigmatici e quello che ti pare, ma abitano in questo pianeta e sono pur sempre vincolati al ciclo delle stagioni. Questi sono i mesi morti. Una vittoria ottenuta adesso sarebbe una vittoria morta.»
«Non so di cosa stai parlando» disse Shadow. Non era del tutto vero. Una vaga idea ce l’aveva, ma sperava che fosse sbagliata.
«Sarà un inverno duro, e noi due impiegheremo il tempo nel modo più saggio, radunando le truppe e scegliendo il campo di battaglia.»
«D’accordo» disse Shadow. Sapeva che Wednesday gli stava dicendo la verità, o quantomeno una parte di verità. La guerra era vicina. No, non era esatto: la guerra era già cominciata, adesso stava per iniziare lo scontro finale. «Mad Sweeney mi ha detto che quando ci siamo incontrati la prima volta lui lavorava per te. Me l’ha detto prima di morire.»
«Avrei forse dovuto assumere qualcuno che non era neanche in grado di gestire una rissa da bar? Non temere, hai ripagato abbondantemente la fiducia che avevo riposto in te. Sei mai stato a Las Vegas?»
«Las Vegas nel Nevada?»
«Esatto.»
«No.»
«Ci andiamo questa sera da Madison con un aereo privato, un volo notturno per alti papaveri. Mi sono spacciato per uno di loro e li ho convinti a farci salire.»
«Non ti stanchi mai di dire bugie?» domandò Shadow in tono cortese, per pura curiosità.
«Assolutamente mai. Comunque è la verità. La posta in gioco è molto alta, e noi lavoriamo per i pezzi grossi. Le strade sono pulite, per arrivare a Madison non dovremmo impiegare più di due ore. Spegni le stufe e chiudi la porta. Sarebbe orribile se durante la tua assenza il palazzo finisse in cenere.»
«Da chi andiamo, a Las Vegas?»
Wednesday glielo disse.
Shadow spense i termoconvettori, infilò qualche indumento di ricambio in una borsa da viaggio, si voltò e disse: «Guarda, mi sento un po’ stupido. So che mi hai appena detto chi stiamo andando a trovare, ma inspiegabilmente l’ho già dimenticato. Una specie di vuoto di memoria. Me lo ripeti?».
Wednesday glielo disse di nuovo.
Questa volta gli sembrava di averlo afferrato. Il nome era lì, sulla punta della memoria. Rimpianse di non aver fatto più attenzione. Poi abbandonò il pensiero.
«Chi guida?»
«Tu» rispose Wednesday. Uscirono di casa, scesero la scala di legno e si diressero lungo il sentiero ghiacciato verso la Lincoln nera parcheggiata vicino al marciapiede.
Shadow si mise al volante.
Chi entra in un casinò viene assalito da richiami invitanti, richiami invitanti che solo un uomo di pietra, senza cuore, senza cervello e stranamente sprovvisto di cupidigia potrebbe declinare. Senti: il rumore a mitraglia delle monete d’argento che rotolano e si rovesciano nel vassoietto delle slot machine e a volte finiscono sui tappeti monogrammati viene sostituito dal clangore allettante delle monete introdotte nelle fessure, dalle musichette stridule inghiottite dall’enorme salone, soffocato in un confortevole ronzio di sottofondo quando si arriva ai tavoli da gioco, suoni distanti, perfetti per far scorrere l’adrenalina nelle vene del giocatore.
I casinò possiedono un segreto, un segreto che custodiscono e proteggono e stimano come il più sacro dei loro misteri. La maggior parte della gente non gioca per vincere, come in genere viene pubblicizzato, venduto, dichiarato e sognato. È una facile bugia che dà alla gente l’alibi per entrare da quelle enormi porte sempre aperte.
Il segreto è questo: la gente gioca per perdere. Vengono nei casinò per fare l’esperienza di quell’istante in cui si sentono vivi, in groppa alla ruota della roulette, quando vengono girati come le carte o quando, insieme alle monete, smarriscono nelle fessure anche se stessi. Magari si vantano di qualche vincita, di quella certa notte in cui hanno sbancato il casinò, ma custodiscono come un tesoro, un tesoro prezioso, tutte le volte in cui hanno perso. È una specie di sacrificio rivolto a qualche divinità.
I soldi scorrono in un ininterrotto flusso color verde e argento, passano di mano in mano, dal giocatore al croupier al cassiere alla direzione alla sicurezza per finire nel sancta sanctorum, il luogo più segreto, l’ufficio contabile. Ed è qui, nell’ufficio contabilità del casinò, che vieni a riposare, qui dove i bigliettoni verdi vengono contati, impilati, schedati, in uno spazio che diventa ben presto ridondante man mano che il denaro fluito attraverso il casinò diventa immaginario: una sequenza elettrica di on e off, sequenze che scorrono lungo le linee telefoniche.
Nell’ufficio contabilità vedi tre uomini che contano i soldi sotto l’occhio vitreo delle telecamere di cui sono a conoscenza e sotto lo sguardo da insetto di minitelecamere la cui presenza invece ignorano. Durante il suo turno ogni uomo conta più denaro di quanto ne potrà mai guadagnare in una vita intera. Ognuno di loro, quando dorme, sogna di contare le banconote, di impilarle e legarle con le fascette e di vederne sempre di più che vengono smistate e si perdono. Ognuno di loro almeno una volta alla settimana si è futilmente chiesto se esiste un modo per eludere i controlli di sicurezza del casinò e sparire con tutto quello che riuscirebbe ad arraffare; ognuno di loro ha analizzato il sogno, ha stabilito che è irrealizzabile e si è accontentato di uno stipendio sicuro, evitando lo spettro della prigione e di una tomba senza nome.
E qui, nel sancta sanctorum, ci sono i tre uomini che contano i soldi, e le guardie di sicurezza che li sorvegliano e portano i soldi avanti e indietro; e poi c’è un’altra persona. Il suo abito grigio scuro è impeccabile, anche i capelli sono scuri, è ben rasato e sia il suo volto sia il suo atteggiamento risultano in ogni senso facili da dimenticare. Nessuno degli altri si è accorto della sua presenza e se l’hanno notato l’hanno dimenticato immediatamente.
Quando si arriva alla fine del turno si aprono le porte e l’uomo con l’abito grigio esce dalla stanza e si avvia con gli agenti di sicurezza lungo i corridoi; i passi risuonano ovattati sui tappeti con il monogramma. Le casseforti con il denaro vengono spinte sui carrelli fino a un’area di carico interna dove sono trasferite su furgoni blindati. Quando il cancello della rampa si spalanca per permettere ai veicoli blindati di immettersi nelle strade di Las Vegas all’alba, l’uomo con l’abito grigio varca la soglia senza essere visto, salta sulla rampa e arriva al marciapiede. Non si degna nemmeno di alzare lo sguardo, alla sua sinistra, verso l’imitazione di New York.
Las Vegas è diventata l’interpretazione onirica di una città uscita da un libro di fiabe: qui un castello tratto da un racconto per bambini, lì una piramide nera con la sfinge e luci bianche che fendono l’oscurità come il raggio di un Ufo in manovra d’atterraggio, e dappertutto oracoli al neon e schermi rotanti su cui scorrono messaggi di felicità e fortuna, annunci di cantanti, attori e maghi che si esibiscono stabilmente o in tournée, e luci che scintillano invitanti. Ogni ora un vulcano ha un’eruzione di luci e fiamme. Ogni ora una nave pirata affonda una nave da guerra.
L’uomo in grigio cammina lentamente, a suo agio sui marciapiedi, e sente il denaro fluire per la città. Durante l’estate le strade sono roventi, e passando davanti ai negozi l’impianto di aria condizionata soffia una ventata d’inverno nel clima tropicale che gli ghiaccia il sudore sulla faccia. Adesso, nell’inverno desertico, tira un vento secco che gli piace. Nella sua mente il movimento del denaro forma una delicata struttura reticolare, una specie di ripiglino tridimensionale di luce e movimento. Ciò che lo incanta di questa città nel deserto è la velocità, il modo in cui il denaro si sposta da un punto all’altro e passa di mano in mano: per lui è come uno sballo, l’effetto di una droga che lo spinge, come un tossicomane, a scendere per strada.
Un taxi lo segue a passo d’uomo, a debita distanza. Lui non se ne accorge; non gli viene neanche in mente; ci si accorge così di rado di lui che l’idea di poter essere seguito gli risulta quasi inconcepibile.
Sono le quattro del mattino ed è attirato da un albergo con casinò passato di moda da trent’anni, ancora aperto per un giorno o per sei mesi, fino a quando non lo faranno implodere, non lo abbatteranno per costruire al suo posto un palazzo di divertimenti e dimenticarlo per sempre. Nessuno lo conosce, nessuno si ricorda di lui, ma il bar dell’albergo è sciatto e tranquillo e il fumo delle sigarette ha colorato l’aria d’azzurro e a un piano di sopra c’è qualcuno che in una saletta privata sta per perdere parecchi milioni di dollari a poker. L’uomo in grigio prende posto al bar molti piani sotto, ignorato dalla cameriera. Risuonano subliminali le note di una versione filodiffusa di Why Can’t He Be You? Cinque imitatori di Elvis Presley, ciascuno con una tuta da paracadutista di diverso colore, guardano alla Tv una partita di calcio in differita notturna.
Un uomo grande e grosso con un vestito chiaro siede al tavolo dell’uomo in grigio; vedendolo, la cameriera che non ha notato l’uomo in grigio ed è troppo magra per essere considerata bella, troppo palesemente anoressica per lavorare al Luxor o al Tropicana e che conta i minuti che mancano alla fine del turno, si avvicina al tavolo con un sorriso. L’uomo in chiaro ricambia con un sorriso ancora più cordiale: «Stasera sei bellissima, mia cara, un bello spettacolo per questi poveri vecchi occhi», e lei, avvertendo la possibilità di una buona mancia, sorride con molto calore. L’uomo vestito di chiaro ordina un Jack Daniel’s per sé e un Laphroaig con un bicchiere d’acqua per l’uomo in grigio che gli siede accanto.
«Sai» dice l’uomo vestito di chiaro quando arriva il whiskey, «il più bel verso poetico nella storia di questo maledetto paese è stato pronunciato da Canada Bill Jones nel 1853, a Baton Rouge, mentre al tavolo di una partita di faraone truccata veniva derubato fino alle mutande. George Devol, che come Canada Bill non era un uomo incapace di sgamare l’inganno, prese in disparte Bill e gli chiese se non si fosse reso conto che stavano barando. Canada Bill sospirò, scrollò le spalle e disse: "Lo so. Ma è l’unico tavolo da gioco della città". E tornò a farsi spennare.»
Due occhi scuri fissano con sospetto l’uomo vestito di chiaro. L’uomo in grigio replica qualcosa. L’uomo vestito di chiaro, che ha una barba rossiccia che sta incanutendo, scuote la testa.
«Senti» dice, «mi dispiace per quello che è successo nel Wisconsin. Ma vi ho portati tutti in salvo, non è vero? Nessuno si è fatto male.»
L’uomo in grigio sorseggia il Laphroaig allungato con l’acqua assaporandone il gusto torbato. Fa una domanda.
«Non so. Sta succedendo tutto più in fretta del previsto. Sono tutti eccitati per il ragazzo che ho assunto per fare i lavori pesanti… l’ho lasciato fuori, aspetta in taxi. Ci stai sempre?»
L’uomo in grigio risponde.
L’uomo con la barba scuote la testa. «Non la si vede da duecento anni. Se non è morta è uscita di scena.»
Viene detto altro.
«Senti» dice l’uomo con la barba trangugiando d’un fiato ciò che resta del Jack Daniel’s, «tu sei con noi, cerca di essere presente quando avremo bisogno e io mi prenderò cura di te. Che cosa vuoi? Del soma? Te ne posso procurare una bottiglia. Di quello vero.»
L’uomo in grigio lo fissa. Poi annuisce con riluttanza e fa un commento.
«Certo che sì» risponde l’uomo con la barba con un sorriso tagliente come una lama. «Che cosa credi? Mettiamola in questo modo: è l’unico tavolo da gioco della città.» Tende una delle sue manone grandi come zampe e stringe la mono ben curata dell’altro. Se ne va.
La cameriera magra si avvicina perplessa; adesso al tavolo d’angolo c’è un uomo solo, un uomo vestito con un abito grigio scuro molto elegante. «Tutto a posto?» chiede. «Il suo amico ritornerà?»
L’uomo in grigio sospira e spiega che il suo amico non tornerà e quindi lei non sarà pagata per il suo tempo e le sue attenzioni. E poi, vedendo che l’ha ferita e provando pietà per lei esamina i fili d’oro nella sua mente, osserva la matrice, segue il denaro fino a quando non individua un nodo e le dice che se alle sei in punto si troverà davanti al Treasure Island, trenta minuti dopo la fine del suo turno al bar, incontrerà un oncologo di Denver che ha appena vinto quarantamila dollari ai dadi e che ha bisogno di un mentore, di una socia, di qualcuno che lo aiuti a spenderli nelle quarantott’ore che mancano al suo ritorno a casa.
Le parole evaporano nella mente della cameriera ma la lasciano felice. Sospira quando si accorge che i tizi del tavolo d’angolo se ne sono andati senza pagare e senza nemmeno lasciarle la mancia. Le viene in mente che invece di tornare subito a casa, quando avrà finito di lavorare, quella sera andrà al Treasure Island; ma se le si chiedesse perché, mai e poi mai potrebbe spiegarlo.
«Chi era il tipo che hai incontrato?» chiese Shadow mentre attraversavano il salone dell’aeroporto di Las Vegas. C’erano slot machine anche lì. A quell’ora del mattino c’era già gente che le stava rimpinzando di monete. Shadow si domandò se ci fosse qualcuno che non usciva mai dall’aeroporto, che scendeva dall’aereo, percorreva la pista, entrava nell’edificio e si fermava lì, intrappolato dalle immagini rotanti e dalle luci abbaglianti fino a quando non aveva infilato l’ultimo quarto di dollaro nelle macchinette e poi, a tasche vuote, tornava sui propri passi e prendeva il volo che l’avrebbe riportato a casa.
E a quel punto si accorse di essersi distratto proprio mentre Wednesday gli spiegava chi era l’uomo in grigio che avevano seguito col taxi: non aveva sentito.
«Comunque ci sta» disse Wednesday. «Anche se mi costerà una bottiglia di soma.»
«Cos’è?»
«È una bevanda.» Si avvicinarono a piedi all’aeroplano: oltre a loro a bordo c’erano soltanto tre industriali che dovevano essere di ritorno a Chicago prima dell’inizio della giornata di lavoro.
Wednesday si accomodò e ordinò un Jack Daniel’s. «La mia gente vede la vostra gente…» esitò «è come con le api e il miele. Ogni ape produce una gocciolina minuscola di miele e ci vogliono migliaia di api, forse milioni, che lavorano tutte insieme, per riempire il vasetto di miele che metti sul tavolo della colazione. Ora immagina di non poter mangiare altro che miele. Per la mia gente è così… noi ci nutriamo di fede, preghiere, amore.»
«E il soma è…»
«Per riprendere l’analogia, il soma è un vino ricavato dal miele. Come l’idromele.» Ridacchiò. «È una bevanda inebriante. Preghiere e fede concentrate in un succo potente.»
Volavano sopra il Nebraska intenti a mangiare un’enorme colazione quando Shadow disse: «Mia moglie».
«La morta.»
«Laura. Non vuole essere morta. Me l’ha detto lei. Dopo avermi salvato dai tizi sul treno.»
«Il gesto di una brava moglie. Liberarti dall’orrenda prigionia e uccidere chi voleva farti del male. Dovresti tenerla da conto, nipote Ainsel.»
«Lei vuole tornare viva come prima. Possiamo farlo? Si può?»
Wednesday rimase in silenzio così a lungo che Shadow cominciò a chiedersi se avesse sentito la domanda o se per caso non si fosse addormentato con gli occhi aperti. Poi, guardando fisso davanti a sé, parlò: «Conosco l’incantesimo che cura il dolore e la malattia, e libera il cuore da ogni pena.
«L’incantesimo che con un gesto risana.
«L’incantesimo che paralizza i nemici e ne neutralizza le armi.
«L’incantesimo che mi libera da ogni laccio e prigionia.
«Il quinto: posso acchiappare al volo una freccia senza ferirmi.»
Parlava a voce bassa, con urgenza. Non c’era più nessuna traccia del suo solito tono prepotente né di sarcasmo. Wednesday parlava come se stesse recitando la formula di un rito, o come se ricordasse qualcosa di oscuro e doloroso.
«Il sesto: i malefici contro di me si ritorceranno contro chi li ha scagliati.
«Il settimo: posso spegnere il fuoco con un’occhiata.
«L’ottavo: se un uomo mi odia, posso farmelo amico.
«Il nono: so placare il vento e calmare la tempesta il tempo necessario a portare una nave in salvo.
«Questi sono i nove incantesimi che imparai per primi. Io, che fui impiccato all’albero per nove notti complete, ferito nel fianco dalla punta di una lancia, ondeggiai all’albero battuto dai venti, senza cibo e senz’acqua, sacrificato a me stesso, e i mondi si spalancarono sotto di me.
«Con il decimo incantesimo imparai a scacciare le streghe, a farle roteare nei cieli in modo che non ritrovassero più la strada di casa.
«L’undicesimo: se canto quando infuria la battaglia il fuoco e l’acciaio nulla possono contro i miei guerrieri che torneranno sani e salvi al focolare.
«Un dodicesimo incantesimo conosco: se vedo un uomo impiccato posso staccarlo dall’albero per fargli sussurrare tutto ciò che ricorda.
«Il tredicesimo: se spruzzo dell’acqua sulla testa di un bambino egli non cadrà in battaglia.
«Il quattordicesimo: conosco i nomi di tutti gli dèi. Uno per uno.
«Quindicesimo: ho un sogno di potere, gloria, e saggezza, e posso fare in modo che la gente creda ai miei sogni.»
Adesso parlava a voce talmente bassa che Shadow dovette sforzarsi per distinguere le sue parole sopra il frastuono del motore.
«Il sedicesimo: se ho bisogno d’amore posso conquistare la mente e il cuore di ogni donna.
«Il diciassettesimo: nessuna donna da me desiderata desidererà mai un altro.
«E conosco il diciottesimo, l’incantesimo più potente di tutti, e di quest’incantesimo non parlerò a nessuno, perché un segreto che nessuno conosce oltre a te è il segreto più potente che esista.»
Sospirò e tacque.
Shadow aveva la pelle d’oca. Era come se avesse appena visto una porta spalancarsi su un altro luogo, un posto lontano molti mondi dove gli impiccati oscillavano al vento a ogni crocicchio, e nottetempo le streghe si alzavano in volo lanciando strida.
«Laura» si limitò a dire.
Wednesday girò la testa e fissò Shadow nei suoi occhi chiari. «Non posso farla tornare in vita. Non so nemmeno perché non sia completamente morta come dovrebbe.»
«Credo di essere stato io» disse Shadow. «È stata colpa mia.»
Wednesday inarcò un sopracciglio.
«Mad Sweeney mi ha dato una moneta d’oro, la prima sera, quando mi ha fatto vedere il trucco. Da quanto ho capito deve avermi dato la moneta sbagliata. Era più potente del previsto e io l’ho regalata a Laura.»
Wednesday emise un grugnito, abbassò il mento sul petto e aggrottò la fronte. Poi si riappoggiò allo schienale. «In questo caso sì, può essere successo. E comunque no, non sono in grado di aiutarti. Quello che fai nel tuo tempo libero ovviamente è affar tuo.»
«Che cosa vorrebbe dire?»
«Vuol dire che non ti posso impedire di dare la caccia alle pietre aquiline e agli uccelli del tuono. Anche se preferirei infinitamente di più che trascorressi le tue giornate tranquillo e appartato a Lakeside, lontano da sguardi e, spero, da menti indiscrete. Quando le cose si metteranno male avremo bisogno di tutte le braccia disponibili.»
Mentre parlava aveva un’aria molto vecchia e fragile, la sua pelle sembrava quasi trasparente e la carne, sotto la pelle, era grigiastra.
Shadow provò il forte desiderio di allungare una mano e posarla sulla mano grigia di Wednesday. Avrebbe voluto dirgli che tutto si sarebbe risolto per il meglio, una cosa che non credeva, ma che andava detta. Là fuori c’erano uomini dentro treni neri. C’era un ragazzo grasso in una lunga limousine e gente della televisione animata da cattive intenzioni.
Non lo toccò. Non gli disse niente.
Più tardi si chiese se avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi, se quel gesto sarebbe servito a qualcosa, se magari avrebbe potuto allontanare il male che li attendeva. Si rispose che non sarebbe bastato. Sapeva che non sarebbe servito a niente. Tuttavia, dopo, rimpianse che su quel lento volo di ritorno a casa non avesse, anche solo per un istante, sfiorato la mano di Wednesday con la sua.
La breve luce invernale stava già scomparendo quando Wednesday lasciò Shadow davanti a casa. La temperatura, quando aprì la portiera, paragonata al clima di Las Vegas sembrava ancora più da fantascienza.
«Stai lontano dai guai» disse Wednesday. «Fai poco chiasso e non dare nell’occhio.»
«Tutto contemporaneamente?»
«Non fare lo spiritoso con me, ragazzo. A Lakeside puoi passare inosservato. Ho dovuto chiedere un grande favore per tenerti qui al sicuro. In qualsiasi altra città ti scoverebbero nel giro di pochi minuti.»
«Starò buono e mi terrò alla larga dai guai.» Shadow lo pensava davvero. Di guai ne aveva avuti più che a sufficienza ed era pronto a farne a meno. «Quando torni?» chiese.
«Presto» rispose Wednesday. Diede gas alla Lincoln, chiuse il finestrino e ripartì nella notte gelida.
Tre uomini possono tenere un segreto, se due di loro sono morti.
Passarono tre giornate molto fredde. Il termometro non salì mai sopra i meno venti nemmeno a mezzogiorno. Shadow si chiedeva in quanti sopravvivessero a un tempo simile prima dell’elettricità, prima delle maschere e della biancheria di materiale termico, prima dei viaggi facili.
Era nel negozio di video, canne da pesca ed esche, e Hinzelmann gli stava mostrando le mosche fatte a mano per la pesca alla trota. Erano più interessanti di quel che aveva immaginato: colorate imitazioni della realtà, costruite con piume e filo, ciascuna con un amo celato all’interno.
Lo domandò a Hinzelmann.
«Vuoi sapere la verità?»
«La verità».
«Be’» disse il vecchio, «a volte non sopravvivevano all’inverno, e morivano. Camini malfunzionanti, stufe con una cattiva ventilazione ed escursioni termiche ne uccidevano almeno quanti ne uccideva il freddo. Erano tempi duri e la gente passava l’estate e l’autunno ad ammucchiare provviste e scorte di legna. La cosa peggiore era la follia. L’ho sentito alla radio, dicevano che è una cosa legata alla mancanza di luce, perché in inverno non ce n’è abbastanza. Mio padre diceva che la gente dava fuori di matto, la chiamavano pazzia invernale. A Lakeside non è mai stato grave, ma alcune città qui intorno se la sono vista brutta. Quand’ero bambino era ancora comune un modo di dire: se la domestica non ha cercato di ucciderti entro febbraio, significa che non ha spina dorsale.
«I libri di storie valevano oro; qualsiasi cosa da leggere era considerata un tesoro, prima che ci fosse una biblioteca pubblica. Quando mio nonno ricevette un libro da suo fratello in Baviera, tutti i tedeschi si incontrarono nel municipio per sentirglielo leggere, e i finnici e gli irlandesi e tutti gli altri si facevano poi raccontare le storie dai tedeschi.
«A trenta chilometri da qui, a Jibway, trovarono una donna completamente nuda che camminava con un bambino morto al seno, e non permise a nessuno di prenderglielo.» Scosse la testa con aria meditativa e chiuse l’armadietto delle esche con un clic. «Brutta storia. Vuoi una tessera per il noleggio delle videocassette? Prima o poi apriranno un Blockbuster e noi chiuderemo. Per il momento abbiamo ancora una bella scelta di titoli.»
A Shadow tornò in mente che Hinzelmann non aveva né televisore né videoregistratore. Gli piaceva la sua compagnia: le reminiscenze, le storie, il sorriso da folletto. Le cose si sarebbero messe in modo strano però se Shadow avesse ammesso di sentirsi a disagio in presenza di un televisore da quando qualcuno aveva iniziato a parlargli dallo schermo.
Hinzelmann rovistò in un cassetto e ne estrasse una scatola di latta, sembrava una vecchia scatola natalizia, di quelle che contengono cioccolatini o biscotti: un Babbo Natale screziato con un vassoio pieno di bottiglie di Coca-Cola sorrideva dal coperchio. Hinzelmann lo aprì mettendo in mostra un quaderno e blocchetti di biglietti bianchi e disse: «Quanti ne vuoi?».
«Quanti di cosa?»
«Biglietti della bagnarola. Oggi la mettiamo sul lago, perciò è cominciata la vendita dei biglietti. Ogni biglietto costa cinque dollari, se ne prendi dieci spendi quaranta, venti costano settantacinque. Un biglietto ti dà diritto a cinque minuti. Ovviamente non è detto che andrà giù proprio nei tuoi cinque, ma quello che ci va più vicino vince cinquecento testoni, e se va giù proprio nei tuoi cinque minuti ne vinci mille. Prima comperi i biglietti e più hai possibilità di scelta. Vuoi vedere il foglietto informativo?»
«Certo.»
Hinzelmann gli tese un foglio fotocopiato. La bagnarola era una vecchia macchina privata del motore e del serbatoio della benzina che veniva lasciata sul lago ghiacciato per tutto l’inverno. A un certo momento della primavera il ghiaccio cominciava a sciogliersi e quando diventava troppo sottile per reggerne il peso la macchina andava a fondo. La volta in cui era affondata prima risaliva al 27 febbraio 1998. («Non credo che lo si potesse nemmeno definire inverno, quell’anno»), la volta in cui invece era affondata più tardi era il primo maggio («Eravamo nel 1950. Sembrava che quell’anno l’unico modo per far finire l’inverno fosse di piantargli un palo nel cuore»). L’inizio di aprile era il periodo più prevedibile, in genere a metà pomeriggio.
Tutte le ore di metà pomeriggio di aprile erano già state vendute e registrate sul quaderno di Hinzelmann. Shadow acquistò sei biglietti, trenta minuti per il mattino del 23 marzo, dalle nove alle nove e mezzo. Pagò i trenta dollari.
«Vorrei che fossero tutti facili da convincere come te» disse Hinzelmann.
«È un modo per ringraziarla del passaggio che mi ha dato la sera del mio arrivo.»
«No, Mike» disse l’altro. «Questi soldi sono per i bambini.» Per un momento ebbe un’aria seria, senza traccia dell’abituale espressione da diavoletto. «Se vieni nel pomeriggio puoi darci una mano a spingere la bagnarola.»
Consegnò a Shadow sei cartoncini blu con la data scritta nella sua calligrafia antiquata, poi trascrisse dettagliatamente gli orari nel quaderno.
«Hinzelmann» disse Shadow, «ha mai sentito parlare delle pietre aquiline?»
«Su a nord di Rhinelander? No, quello è un fiume, Eagle River. No, non mi pare di averle mai sentite.»
«E degli uccelli del tuono?»
«Be’, c’era la Thunderbird Framing Gallery sulla Quinta Strada, ma ha chiuso. Non sono di molto aiuto, vero?»
«No.»
«Senti, perché non vai a dare un’occhiata in biblioteca? Sono brave persone, anche se magari questa settimana saranno un po’ distratti dalla svendita di libri. Ti ho fatto vedere dov’è, no?»
Shadow annuì e si congedò. Avrebbe dovuto arrivarci da solo all’idea della biblioteca. Salì sulla 4-Runner rossa e imboccò la Main Street diretto a sud, costeggiando il lago fino alla sua punta più meridionale, per raggiungere l’edificio a forma di castello che ospitava la biblioteca comunale. Entrò. Un cartello indicava il seminterrato: VENDITA DI LIBRI, recitava. La biblioteca vera e propria si trovava al pianterreno e Shadow batté gli stivali a terra per scrollare via la neve.
Una donna torva con un rossetto cremisi gli chiese bruscamente che cosa volesse.
«Credo di aver bisogno della tessera per consultare i libri. Cerco notizie sugli uccelli del tuono.»
Tradizioni religiose e miti dei nativi americani occupavano un solo scaffale in una delle torri. Shadow prese alcuni volumi e sedette vicino alla finestra. Nel giro di pochi minuti aveva scoperto che gli uccelli del tuono erano gigantesche creature mitologiche che vivevano sulle vette delle montagne, scatenavano i fulmini e provocavano i tuoni battendo le ali. Lesse che secondo il credo di alcune tribù gli uccelli del tuono avevano creato il mondo. Mezz’ora di lettura non fruttò tuttavia ulteriori informazioni e Shadow non riuscì a trovare le pietre aquiline nemmeno nell’indice generale per argomenti.
Stava riponendo l’ultimo volume sullo scaffale quando si accorse di essere fissato. Un esserino lo spiava tutto serio da dietro i pesanti scaffali. Quando si voltò la faccina era scomparsa. Voltò la schiena al bambino, poi gettò un’occhiata intorno e capì di essere osservato di nuovo.
In tasca aveva il dollaro con la testa della Statua della Libertà. Lo prese tra le dita della mano destra alzandolo in modo che il bambino lo vedesse bene. Lo fece scomparire nella sinistra, mostrò entrambe le mani vuote, portò la sinistra alla bocca e tossì facendo cadere la moneta dalla sinistra alla destra.
Il bambino sgranò gli occhi e sgambettò via per tornare pochi istanti dopo con una poco sorridente Marguerite Olsen. La donna guardò Shadow con aria sospettosa e disse: «Buongiorno, signor Ainsel. Leon mi ha detto che gli ha fatto delle magie».
«Solo un giochetto di prestigio, signora. A proposito, non l’ho mai ringraziata per i suoi consigli su come riscaldare l’appartamento. Adesso è caldo come una cuccia.»
«Bene.» Il gelo dell’espressione della donna non dava segno di volersi sciogliere.
«È una bella biblioteca.»
«È un edificio stupendo. Però la città avrebbe bisogno di qualcosa di meno bello e più efficiente. Va a dare un’occhiata ai libri al piano di sotto?»
«Non era nei miei programmi.»
«Invece dovrebbe. È per una buona causa.»
«Allora ci andrò senz’altro.»
«Torni all’ingresso e prenda le scale. Piacere di averla rivista, signor Ainsel.»
«Mi chiami Mike» disse lui.
Lei non rispose, limitandosi a prendere Leon per mano e ad accompagnarlo nel reparto bambini.
«Ma mamma» sentì che le diceva, «non era un gioco di prestigio. No. Ho visto la moneta sparire e poi cadere dal suo naso. L’ho vista con i miei occhi.»
C’era un ritratto a olio di Abraham Lincoln che lo fissava dal muro, quando Shadow imboccò la scala di marmo e quercia che conduceva al seminterrato. Oltrepassò una porta entrando in una grande sala piena di tavoli carichi di libri d’ogni genere mescolati alla rinfusa: edizioni tascabili e rilegate, narrativa e saggistica, periodici ed enciclopedie ammucchiati senza ordine sui tavoli, di costa o di piatto.
Shadow arrivò fino a un tavolo in fondo coperto di vecchi libri rilegati in pelle con un numero di catalogo scritto in bianco sulla costa. «Lei è il primo che si avvicina a quest’angolo» gli disse l’uomo seduto accanto alla pila di scatole vuote e sacchetti e a una cassettina di metallo aperta. «La gente compera i gialli, i libri per bambini e i romanzi Harlequin. Jenny Kerton, Danielle Steel, quel genere lì.» Lui stava leggendo L’assassinio di Roger Ackroyd, di Agatha Christie. «Costano cinquanta centesimi l’uno, tre per un dollaro.»
Shadow lo ringraziò e continuò a curiosare. Trovò una copia delle Storie di Erodoto con una rilegatura di pelle marrone screpolata. Gli fece tornare in mente il libro che aveva lasciato in prigione. C’era un volume intitolato Perplexing Parlour Illusions, che forse conteneva qualche giochetto con le monete. Li portò entrambi dall’uomo con la cassettina.
«Ne scelga un altro, il prezzo è lo stesso. Oltretutto ci fa un favore, se prende un libro in più. Abbiamo bisogno di spazio sugli scaffali.»
Shadow tornò al tavolo con i volumi rilegati in pelle, deciso a prendersi quello con l’aria meno accattivante, e si trovò incerto tra Common Diseases of the Urinary Tract with Illustrations by a Medical Doctor e Minutes of the Lakeside City Council 1872-1884. Dopo aver dato un’occhiata alle illustrazioni nel testo di medicina pensò che in città c’era sicuramente un adolescente che poteva usarle per scandalizzare gli amici. Portò Minutes all’uomo vicino alla porta che incassò il dollaro e infilò i tre volumi in un sacchetto di carta del negozio di alimentari.
Shadow uscì dalla biblioteca. Tornando a casa si godeva una bella vista del lago. Oltre il ponte si vedeva perfino casa Pilsen, una specie di casa di bambola. E vicino al ponte c’era qualcuno sul ghiaccio, quattro o cinque uomini che spingevano sulla distesa bianca un’automobile color verde scuro.
«Ventitré marzo» disse sottovoce Shadow al lago. «Dalle nove alle nove e mezzo del mattino.» Si chiese se il lago o la bagnorola potessero sentirlo… e, in caso affermativo, se gli avrebbero prestato ascolto. Ne dubitava.
Il vento gli pungeva naso e guance.
Chad Mulligan lo stava aspettando sotto casa. A Shadow cominciò a battere forte il cuore, quando vide la macchina della polizia, ma notando che Mulligan, seduto davanti, stava riempiendo dei moduli, si rilassò.
Si avvicinò con il suo sacchetto di libri.
Il poliziotto abbassò il finestrino. «Sei stato alla svendita della biblioteca?»
«Sì.»
«Due o tre anni fa ho comprato un’intera cassa di romanzi di Robert Ludlum. Devo ancora cominciarli. Mia cugina dice che sono fantastici. Forse se finissi su un’isola deserta con la mia cassa di libri potrei riguadagnare il tempo perduto.»
«Posso fare qualcosa per te, capo?»
«Niente di niente. Sono passato a vedere come ti eri sistemato. Ti ricordi quel detto cinese secondo cui quando salvi la vita di un uomo poi ne diventi responsabile? Ecco, non dico di averti proprio salvato la vita, la settimana scorsa, però mi sembrava giusto lo stesso venire a dare un’occhiata. Come si comporta la Gunthermobile rossa?»
«Bene. È in ottime condizioni.»
«Mi fa piacere.»
«Ho visto la mia vicina, in biblioteca» disse Shadow. «La signora Olsen. Mi stavo chiedendo…»
«Che cosa le si è infilato su per il sedere e poi ci è morto?»
«Se vuoi metterla così.»
«È una storia lunga. Se vieni con me te la racconto.»
Shadow ci pensò un istante, poi disse: «D’accordo». Salì accanto al posto di guida e Mulligan si diresse a nord della città. Spense le luci e parcheggiò sul ciglio di una strada.
«Darren Olsen conobbe Margie all’università di Stevens Point e la portò quassù a Lakeside. Lei si stava specializzando in giornalismo. Lui studiava gestione alberghiera, qualcosa del genere. Quando arrivarono qui restarono tutti a bocca aperta. Questo succedeva tredici o quattordici anni fa. Lei era bellissima… con quei capelli neri…» si interruppe. «Darren dirigeva il Motel America a Camden, trenta chilometri a ovest. Solo che nessuno si voleva fermare a Camden e a un certo punto il motel chiuse. Nel frattempo avevano avuto due figli. All’epoca Sandy aveva undici anni. Il piccolino — Leon — era ancora un bebè.
«Darren Olsen non era un uomo coraggioso. Al liceo giocava bene a football, ed è stata l’ultima volta che ha combinato qualcosa di buono. Comunque. Non riuscì a trovare il coraggio di dire a Margie che era rimasto senza lavoro. Per un mese o due continuò a uscire, la mattina, per tornare a casa la sera tardi e lamentarsi della dura giornata al motel.»
«E cosa faceva, invece di lavorare?» chiese Shadow.
«Mmm. Non so di preciso. Immagino che arrivasse fino a Ironwood, o magari giù a Green Bay. Probabilmente all’inizio avrà cercato lavoro, ma nel giro di poco tempo si è messo a bere, a fumare erba e magari ad accompagnarsi ogni tanto con qualche donna in cerca di un po’ di piacere. Magari giocava d’azzardo. Quello che so per certo è che prosciugò il conto di entrambi nel giro di dieci settimane. Che Margie venisse a scoprirlo era solo questione di tempo… pronti, via!»
Mise in moto, accese luci e sirene e fece vedere i sorci verdi a un ometto con una macchina targata Iowa che era sceso dalla collina a centoventi all’ora.
Fatta la multa al furfante dello Iowa, Mulligan riprese il racconto.
«Dov’ero arrivato? Ah sì. Allora Margie lo butta fuori e chiede il divorzio. La causa si trasforma in una feroce battaglia sull’affidamento. Così le chiamano sui settimanali scandalistici. "Feroce Battaglia sull’Affidamento dei Figli." Li affidarono a lei. Darren ottenne il permesso di andarli a trovare e poco altro. Leon all’epoca era molto piccolo. Sandy era un bravo ragazzino, il tipico figlio che adora il padre. Non permetteva che Margie dicesse niente contro di lui. Avevano perso la casa, una bella casa in Daniels Road. Lei si trasferì nell’appartamento vicino al tuo e lui lasciò la città per tornare ogni sei mesi a rendere infelici tutti quanti.
«Andò avanti così per anni. Darren tornava, spendeva soldi per i ragazzi, e Margie piangeva. La maggior parte di noi cominciò ad augurarsi che non tornasse più. I suoi, quando erano andati in pensione, si erano trasferiti in Florida perché dicevano di non poter sopportare più gli inverni del Wisconsin. L’anno scorso lui se ne è venuto fuori con la storia che voleva portare i ragazzi in Florida a passare il Natale. Margie gli ha risposto picche, di sparire. Una scena piuttosto spiacevole, e a un certo punto sono stato costretto a intervenire. Lite domestica. Al mio arrivo Darren era in mezzo al cortile che urlava insulti, con i bambini spaventati a morte, e Margie in lacrime.
«Ho detto a Darren che si stava cercando una notte in guardina. Per un momento ho creduto che volesse picchiarmi, ma era abbastanza sobrio per trattenersi. L’ho accompagnato al campo delle roulotte a sud della città e gli ho detto di darsi una calmata. Che l’aveva fatta soffrire abbastanza… Il giorno dopo se n’è andato.
«Due settimane dopo è sparito Sandy. Non è salito sul pulmino per andare a scuola. Aveva raccontato al suo migliore amico che presto avrebbe rivisto il padre, che Darren gli avrebbe portato un regalo speciale per consolarlo del mancato viaggio in Florida. Da allora non lo ha più visto nessuno. L’accusa potrebbe essere quella di rapimento da parte di un genitore. È difficile trovare un ragazzo che non vuole farsi trovare, capisci?»
Shadow disse che capiva. Ma aveva capito anche qualcos’altro: che Chad Mulligan era innamorato di Marguerite Olsen. Si chiese se l’altro si rendesse conto di com’era palese.
Mulligan rimise in moto con le luci accese e costrinse due ragazzini che correvano a novanta all’ora a fermarsi. Non li multò, limitandosi a "farli diventare timorati di Dio".
Quella sera Shadow sedette al tavolo della cucina per cercare di capire come trasformare un dollaro d’argento in un penny. Aveva trovato il trucco nel Perplexing Parlour lllusions, ma le istruzioni erano inutili e vaghe in maniera esasperante. Quasi in ogni frase comparivano espressioni come "fate sparire il penny nel solito modo". In cosa consisteva il solito modo? In una caduta alla francese? Nell’infilarlo nella manica? Nel gridare "Oh mio Dio, guardate là! C’è un leone di montagna!" e ficcare la moneta in tasca mentre l’attenzione del pubblico è rivolta alla finestra?
Lanciò il dollaro in aria, lo afferrò al volo ripensando alla luna e alla donna che gliel’aveva regalato, poi provò a eseguire il trucco. Non funzionava. Entrò in bagno per provare davanti allo specchio e capì che non aveva senso. Così com’era descritto, quel giochetto non poteva funzionare e basta. Sospirò, infilò le due monete in tasca e sedette sul divano. Si coprì le ginocchia con il plaid di acrilico e cominciò a sfogliare il Minutes of the Lakeside City Council 1872-1884. Il testo era su due colonne e il carattere così minuscolo da risultare praticamente illeggibile. Sfogliò il volume osservando le vecchie fotografie e le diverse incarnazioni dei consiglieri comunali di Lakeside: uomini con lunghe basette e pipe d’argilla, con i cappelli, sciupati o nuovi, calcati su facce in gran parte stranamente familiari. Non lo sorprese vedere che nel 1882 il robusto presidente del consiglio comunale era un certo Patrick Mulligan: opportunamente sbarbato e fatto dimagrire di dieci chili non sarebbe risultato il sosia sputato di Chad Mulligan, il suo… cosa… bis-bis-nipote? Shadow si domandò se in quelle foto avrebbe trovato anche il nonno pioniere di Hinzelmann, ma a quanto pareva non aveva mai rivestito cariche pubbliche. Mentre sfogliava le immagini gli era sembrato di vedere il nome Hinzelmann tra le righe, ma quando tornò indietro a cercarlo non lo trovò, e i caratteri così piccoli gli facevano venire il mal di testa.
Si appoggiò il libro sul petto: la testa gli ciondolava. Ragionevolmente decise che addormentarsi sul divano era una sciocchezza. La camera da letto si trovava a pochi passi. D’altra parte la camera da letto e il letto sarebbero stati a pochi passi anche tra cinque minuti, e comunque voleva soltanto chiudere gli occhi un momento, non dormire…
Un’oscurità fragorosa.
Era in mezzo a una pianura aperta. Accanto c’era il luogo da cui era emerso, il punto dove la terra l’aveva gettato fuori. Le stelle cadevano ancora dal cielo, e ogni stella che toccava la terra rossa diventava un uomo o una donna. Gli uomini avevano lunghi capelli scuri e zigomi pronunciati. Le donne somigliavano tutte a Marguerite Olsen. Era il popolo delle stelle.
Lo guardavano con gli occhi scuri e fieri.
«Parlatemi degli uccelli del tuono» disse Shadow. «Ve ne prego. Non è per me. È per mia moglie.»
A una a una le donne gli voltarono le spalle, e quando non le vide più in faccia erano già scomparse, diventando tutt’uno con il paesaggio. Ma l’ultima, con i capelli striati di ciocche grigio scuro, prima di voltarsi indicò con un dito il cielo color vino.
«Chiediglielo direttamente» disse. I lampi di un temporale estivo illuminarono per un momento il paesaggio da un orizzonte all’altro.
C’erano grandi alture rocciose, creste e vette di arenaria, e Shadow cominciò a scalare la più vicina. Aveva il colore dell’avorio antico. Quando si afferrò a un appiglio, sentì che gli si sbriciolava tra le dita. Sono ossa, pensò. Non è roccia. E una torre fatta di vecchie ossa.
Era un sogno e nei sogni non si ha scelta; o non ci sono decisioni da prendere, oppure le decisioni sono state già prese molto prima che il sogno avesse inizio. Shadow continuò ad arrampicarsi. Gli facevano male le mani, le ossa si spezzavano con schiocchi netti frantumandosi sotto i suoi piedi scalzi. Il vento lo strattonava ma lui si strinse alla parete e continuò a scalare la torre.
Era fatta di un unico tipo d’osso, sempre quello, all’infinito, di forma arrotondata. Immaginò che potesse trattarsi di uova di un uccello gigantesco, ma un altro lampo gli raccontò una storia diversa: quelle forme tondeggianti avevano orbite, e denti digrignati in un sorriso senza allegria.
Da chissà dove giungevano i richiami degli uccelli. La pioggia gli bagnava la faccia.
Si trovava a decine di metri da terra, attaccato alla parete di una torre di teschi, mentre fulmini e saette squarciavano il buio sulle ali di quegli uccelli dalle lunghe ombre che volavano in cerchio: animali enormi e neri, simili a condor, con un collare di piume bianche. Erano uccelli grandissimi e sgraziati, spaventosi d’aspetto, e il battito delle loro ali risuonava nella notte con il fragore del tuono.
Volavano in cerchio intorno alla torre.
Devono avere un’apertura alare di almeno sei metri, pensò Shadow.
Poi il primo uccello si staccò dal gruppo per avventarsi su di lui. Lanciava saette azzurre dalle ali. Shadow si infilò in una fessura tra i teschi, sotto lo sguardo di quelle orbite vuote, tra i sorrisi di quelle dentature d’avorio, ma non si fermò, riprese ad arrampicarsi sulla montagna di teschi, tagliandosi con le schegge d’osso acuminate, in preda a repulsione e terrore, in preda a una grande soggezione.
Un altro uccello gli si lanciò addosso e un artiglio grande come una mano gli si conficcò nel braccio.
Si protese cercando di strappargli una piuma — perché se avesse fatto ritorno alla sua tribù senza la piuma dell’uccello del tuono sarebbe caduto in disgrazia, non sarebbe mai diventato uomo — ma l’uccello del tuono si alzò in volo sfuggendo alla sua presa. Poi si allontanò sospinto dal vento. Shadow riprese a salire.
Devono essere decine di migliaia di teschi, pensò. Mille migliaia. E non sono tutti umani. Raggiunse infine la sommità della montagna mentre i grandi uccelli, gli uccelli del tuono, volavano in cerchio lentamente, navigando sulle raffiche della tempesta con minuscoli aggiustamenti delle ali.
Sentì una voce, la voce dell’uomo-bufalo, che superava l’ululato del vento, gli diceva che quei teschi appartenevano a…
La torre cominciò a sgretolarsi e il più grande degli uccelli, con gli occhi di un bianco-azzurro accecante come il fulmine precipitò su Shadow in un impeto di tuono e lui cadeva, crollava insieme alla torre di teschi…
Stava squillando il telefono. Shadow non sapeva nemmeno che fosse stato ricollegato. Intontito, turbato dal sogno, alzò il ricevitore.
«Ma cosa cazzo fai?» urlò Wednesday, furibondo come non l’aveva mai sentito. «Cosa cazzo credi di fare, porca puttana?»
«Dormivo» rispose Shadow stupidamente.
«A cosa cazzo serve metterti al sicuro in un posto come Lakeside se poi tu sollevi un vespaio che non sfuggirebbe neanche a un cadavere?»
«Ho sognato gli uccelli del tuono… E una torre. Teschi…» Raccontare il sogno gli sembrava di fondamentale importanza.
«Lo so che cosa stavi sognando. Tutti lo sanno. Dio Onnipotente. A cosa cazzo serve nasconderti se poi ti fai pubblicità in questa maniera?»
Shadow non disse niente.
All’altro capo della linea ci fu una pausa di silenzio, poi Wednesday disse: «Sarò lì in mattinata». Sembrava che la rabbia gli fosse passata. «Andiamo a San Francisco. I fiori nei capelli sono opzionali.» E chiuse la comunicazione.
Shadow appoggiò il telefono sul tappeto e rigidamente si tirò su. Erano le sei del mattino e fuori faceva ancora buio. Si alzò dal divano, rabbrividiva. Il vento ululava sul lago gelato. E qualcuno vicino a lui, separato soltanto da una parete, piangeva. Era certamente Marguerite Olsen; i suoi singhiozzi soffocati erano insistenti e spezzavano il cuore.
Shadow andò in bagno, poi in camera da letto, e chiuse la porta per non sentire il pianto della donna. Il vento ululava e gemeva come se anche lui cercasse un bambino perduto.
A gennaio il clima di San Francisco era intempestivamente caldo, così caldo che Shadow aveva il collo sudato. Wednesday indossava un abito blu scuro e un paio d’occhiali dalla montatura dorata che gli davano l’aspetto di un avvocato dell’ambiente dello spettacolo.
Stavano camminando lungo Haight Street. La gente di strada, le prostitute e i perdigiorno che li guardavano passare non agitarono il bicchiere di carta per l’elemosina e non chiesero né offrirono niente.
Wednesday aveva le mascelle contratte, Shadow si era accorto subito che era ancora arrabbiato. Quando la piccola Lincoln nera si era fermata davanti alla casa, quel mattino, non aveva fatto domande. Durante il tragitto fino all’aeroporto nessuno dei due aveva parlato. Scoprire che Wednesday aveva un posto in prima classe e che lui era in classe turistica era stato un sollievo.
Adesso era tardo pomeriggio. Shadow non tornava a San Francisco da quando era bambino, aveva visto la città soltanto nei film e rimase sconcertato nel trovarla così familiare, con le sue case colorate e originali, le colline, così unica e diversa da qualsiasi altro posto.
«È quasi impossibile credere che questa città si trovi nello stesso paese di Lakeside» disse.
Wednesday gli lanciò un’occhiataccia. Poi disse: «Non è così, infatti. San Francisco non si trova nello stesso paese di Lakeside più di quanto New Orleans non si trovi nello stesso paese che ospita New York, o Miami in quello di Minneapolis».
«Ah sì?»
«È fuor di dubbio. Magari condividono alcuni simboli culturali — i soldi, il governo federale, gli svaghi — e ovviamente il paese è lo stesso, ma quel che crea l’illusione che si tratti di un’unica nazione sono i dollari, il Tonight Show e i McDonald’s, nient’altro.» Si stavano avvicinando a un parco alla fine della strada. «Sii gentile con la signora che stiamo per incontrare. Ma non troppo.»
«Non preoccuparti.»
Entrarono nell’erba.
Una ragazzina, non poteva avere più di quattordici anni, con i capelli tinti di verde, arancio e rosa, rimase a fissarli mentre le passavano davanti. Sedeva accanto a un cane, un bastardo che per collare e guinzaglio aveva un pezzo di corda. Sembrava più affamata dell’animale. Il bastardo abbaiò allegro e scodinzolò.
Shadow le diede un dollaro. Lei lo guardò come se non lo riconoscesse. «Compra da mangiare al cane» le suggerì. Lei annuì e sorrise.
«Mettiamo le cose in chiaro» disse Wednesday, «devi essere molto cauto con la signora che stiamo per incontrare. Se le prendesse un capriccio per te sarebbe un guaio.»
«È la tua fidanzata?»
«No, nemmeno per tutti i giocattolini di plastica che producono in Cina» rispose Wednesday con garbo. La rabbia sembrava dissipata, o forse era solo stata messa da parte per il futuro. Shadow aveva il sospetto che fosse proprio la rabbia il motore di Wednesday.
Seduta sull’erba sotto un albero c’era una donna che aveva stesa davanti a sé una tovaglia di carta coperta di una gran quantità di contenitori di plastica.
Era… no, non era grassa, tutt’altro, era formosa, un’aggettivo che Shadow non aveva mai avuto occasione di usare. I capelli così chiari che sembravano bianchi erano legati in trecce biondo platino come facevano certe star del cinema muto; portava un rossetto cremisi e dimostrava un’età indefinibile tra i venticinque e i cinquant’anni.
Quando la raggiunsero si stava servendo da un piatto di uova in salsa piccante. Alzò gli occhi, appoggiò l’uovo che aveva scelto e si pulì la mano. «Ciao, vecchio impostore» disse a Wednesday con un sorriso, e lui le fece un profondo inchino con baciamano.
«Sei divina» disse.
«E come diavolo dovrei essere?» rispose lei con dolcezza. «Comunque sei un bugiardo. New Orleans è stata un errore: ho messo su almeno quindici chili. Giuro. Ho capito che me ne dovevo andare il giorno in cui ho cominciato a camminare ondeggiando. Adesso, ci crederesti che quando cammino mi si sfregano le cosce?» L’ultima frase era stata rivolta a Shadow che non avendo idea di cosa rispondere arrossì violentemente. La donna rise contenta. «Sta arrossendo! Wednesday, mio caro, mi hai portato un giovanotto che diventa rosso. Che carino da parte tua! Come si chiama?»
«Lui è Shadow» disse Wednesday che sembrava trovare divertente il suo disagio. «Shadow, di’ ciao a Easter.»
Shadow borbottò qualcosa che poteva suonare come un saluto e la donna gli sorrise di nuovo. Gli sembrava di essere abbagliato dalle luci intermittenti che i bracconieri usano per paralizzare i cervi prima di sparare. Dal punto in cui si trovava sentiva il profumo della sua pelle, una miscela di gelsomino, caprifoglio e latte dolce che lo stordiva.
«Allora, come vanno le cose?» chiese Wednesday.
La donna — Easter — rispose con una risata profonda e gioiosa, di gola. Come si faceva a non trovare adorabile una donna che rideva in quel modo? «Va tutto bene. E tu, vecchio lupo?»
«Speravo di poter contare sul tuo aiuto.»
«Perdi il tuo tempo.»
«Prima di liquidarmi prestami ascolto almeno un momento.»
«È inutile. Risparmia il fiato.»
La donna guardò Shadow. «Siediti, prego, e serviti quello che vuoi. Ecco qui un piatto, riempilo per bene. E tutto squisito. Uova, pollo arrosto, pollo al curry, insalata di pollo, e là c’è il lapin — coniglio, in effetti, freddo è delizioso, e in quella ciotola lo stufato di lepre — vuoi che te lo prepari io?» Cominciò a riempirgli un piatto di plastica e glielo porse. Poi guardò Wednesday. «Vuoi mangiare?»
«Ai tuoi ordini, mia cara» rispose lui.
«Tu» disse la donna «sei così pieno di merda che mi stupisco che gli occhi non ti diventino marroni.» Gli passò un piatto vuoto. «Serviti da solo.»
Il sole del pomeriggio alle sue spalle le aveva trasformato i capelli in un’aura color platino. «Shadow» disse addentando con gusto una coscia di pollo. «Che bel nome. Perché ti chiamano così?»
Shadow si passò la lingua sulle labbra secche. «Quand’ero bambino mia madre e io eravamo, cioè lei era, una specie di segretaria e lavorava per varie ambasciate, ci spostavamo da una città all’altra dell’Europa settentrionale. Poi si è ammalata ed è andata in pensione presto, così siamo tornati negli Stati Uniti. Non avevo mai niente da dire agli altri ragazzi, seguivo gli adulti in silenzio come un’ombra. Avevo bisogno di compagnia, credo. Non saprei. Ero un bambino minuto.»
«Sei cresciuto» disse lei.
«Sì. Sono diventato grande.»
La donna si voltò verso Wednesday che si stava servendo senza complimenti da una ciotola di gombo freddo. «È questo il ragazzo che ha messo tutti in agitazione?»
«Hai saputo anche tu?»
«Tengo le orecchie aperte.» Poi, rivolta a Shadow: «Sta’ alla larga dai guai. Ci sono troppe società segrete da queste parti, senza lealtà e senza amore. Commerciali, indipendenti, governative, sono tutte nella stessa barca. Si va da quelle a malapena competenti a quelle terribilmente pericolose. Ehi, vecchio lupo, l’altro giorno ho sentito una barzelletta che ti piacerebbe. Come si fa a sapere che la Cia non era coinvolta nell’assassinio di Kennedy?».
«L’ho già sentita» rispose Wednesday.
«Peccato.» Rivolse di nuovo l’attenzione a Shadow. «Ma gli spioni che hai incontrato tu sono un’altra faccenda. Loro esistono perché tutti pensano che debbano esistere.» Finì il contenuto di un bicchiere di carta, vino bianco, dal colore, e si alzò in piedi. «Shadow è un bel nome. Voglio un mochaccino. Venite con me.»
Si allontanò. «E il cibo?» chiese Wednesday. «Non puoi lasciare tutto qui.»
Lei gli sorrise, indicò la ragazzina seduta accanto al cane e poi fece il gesto di abbracciare Haight Street e il mondo intero. «Lascia che tutti si nutrano» disse, e proseguì seguita dai due uomini.
«Ricordati» disse a Wednesday, «io sono ricca. Me la passo benone. Perché mai ti dovrei aiutare?»
«Perché sei una di noi. Dimenticata e senza amore esattamente come noi. È piuttosto evidente da quale parte dovresti stare.»
Raggiunsero un bar con i tavolini all’aperto, entrarono e presero posto. C’era una cameriera che sfoggiava un anellino al sopracciglio come un segno di casta e, dietro il banco, una donna che faceva i caffè. La cameriera li accolse con un sorriso finto e prese le ordinazioni.
Easter appoggiò la mano affusolata sul dorso di quella grigia e squadrata di Wednesday. «Ti assicuro che me la cavo. Durante i giorni della mia festa mangiano ancora uova e coniglio, dolciumi e carne, che rappresentano rinascita e accoppiamento. Infilano fiori freschi sul cappellino e li scambiano tra loro. Lo fanno nel mio nome. Sempre più numerosi ogni anno. Nel mio nome, vecchio lupo.»
«E tu diventi ricca e grassa con la loro adorazione e il loro amore?» chiese lui seccamente.
«Non fare lo stronzo.» All’improvviso il suo tono suonò stanco. Sorseggiò il mochaccino.
«È una domanda seria, mia cara. Convengo certamente con te che molti milioni di persone si scambiano doni in tuo nome, e che ancora praticano i riti della tua festa, compresa la caccia alle uova nascoste. Ma quanti di loro sanno chi sei? Dimmelo! Mi scusi, signorina» disse alla cameriera.
«Vuole un altro espresso?»
«No, cara. Mi stavo soltanto domandando se lei non potrebbe risolvere una piccola questione. La mia amica e io non ci troviamo d’accordo sul significato della parola "Easter". Lei lo conosce, per caso?»
La ragazza lo guardò come se dalla bocca gli uscissero rospi verdi. Poi disse: «Non so niente di queste storie cristiane. Io sono pagana».
La donna dietro il banco si intromise: «Credo che voglia dire "Cristo è risorto" o qualcosa del genere in latino».
«Davvero?» disse Wednesday.
«Sì, certo» ribatté la donna. «Easter. Come il sole che sorge a est.»
«Il figlio risorto. Chiaro… una supposizione logica.» La donna sorrise e riprese a macinare il caffè. Wednesday guardò la cameriera. «Credo che prenderò un altro espresso, se non le spiace. E mi dica, in quanto pagana lei che cosa venera?»
«Venero?»
«Esatto. Immagino che le possibilità siano piuttosto ampie. Dunque a chi è dedicato il suo altare domestico? A chi si inchina? Davanti a chi prega all’alba e al tramonto?»
La ragazza fece parecchie smorfie con la bocca prima di dire: «Il principio femminile. È una maniera di acquisire potere. Lo sapeva?».
«Certamente. E ha un nome, questo principio femminile?»
«È la dea che c’è dentro ogni donna» rispose la ragazza con l’anello al sopracciglio e le guance soffuse di rossore. «Non ha bisogno di un nome.»
«Ah» esclamò Wednesday con una smorfia scimmiesca, «e fate in suo onore grandissimi baccanali? Bevete vino inebriante sotto la luna piena mentre nei candelabri bruciano ceri scarlatti? Vi immergete nude nell’acqua alzando estatiche inni alla vostra divinità senza nome mentre le onde vi lambiscono le gambe, su su fino alle cosce come lingue di mille leopardi?»
«Lei mi sta prendendo in giro» disse la ragazza. «Non facciamo niente del genere.» Inspirò profondamente. Shadow sospettò che stesse contando fino a dieci. «Volete altri caffè? Un altro mochaccino per lei, signora?» Adesso sfoderava lo stesso sorriso con il quale li aveva accolti.
Fecero di no con la testa e la ragazza andò a occuparsi di un altro cliente.
«Ecco» disse Wednesday «una che "non ha la fede e non avrà la gioia" come diceva Chesterton. Pagani, bella roba. Allora? Vogliamo uscire, mia cara Easter, e ripetere l’esperimento per strada? Scoprire quanti sanno che la festa di Pasqua prende il nome da Eostre of the Dawn? Vediamo… facciamo così: chiediamolo a cento persone. Per ognuna che conosce la risposta mi taglierai un dito della mano, e quando avrai finito con le mani mi taglierai le dita dei piedi; per ogni venti che non sanno la verità invece tu passerai una notte d’amore con me. E le probabilità sono certamente in tuo favore in questa città: siamo a San Francisco, dopotutto. Lungo queste ripide strade abbondano pagani e miscredenti e streghe.»
Gli occhi verdi della donna si posarono su Wednesday. Erano dell’esatto colore delle foglie in primavera quando il sole vi brilla attraverso. Non disse niente.
«Potremmo provare» continuò Wednesday. «Io finirei col tenermi tutte le dita dei piedi e delle mani e guadagnerei il diritto di passare cinque giorni nel tuo letto. Quindi non venirmi a dire che la gente ti venera e onora la tua festa. Pronunciano il tuo nome, ma per loro non significa niente. Zero.»
A Easter spuntarono le lacrime agli occhi. «Lo so» disse a bassa voce. «Non sono stupida.»
«No. Non lo sei.»
Ha esagerato, pensò Shadow.
Wednesday abbassò gli occhi: «Mi dispiace». Shadow sentì che il suo tono era sincero. «Abbiamo bisogno di te. Ci serve la tua energia. Il tuo potere. Lotterai al nostro fianco, quando scoppierà la tempesta?»
Lei esitò. Sul polso sinistro aveva tatuata una ghirlanda di azzurri nontiscordardime.
«Sì» disse dopo qualche tempo. «Credo di sì.»
Probabilmente è vero quello che si dice, pensò Shadow. Se sembri sincero è fatta. Poi provò un senso di colpa per averlo pensato.
Wednesday posò un bacio su un dito e sfiorò la guancia di Easter. Chiamò la cameriera e pagò i caffè contando con cura il denaro, piegando le banconote insieme alla ricevuta.
Mentre la cameriera si allontanava, Shadow disse: «Signorina, scusi. Credo che abbia perso questo» e raccolse dal pavimento una banconota da dieci dollari.
«No» rispose lei guardando la ricevuta piegata che stringeva in mano.
«L’ho vista cadere» ribatté lui cortese ma insistente. «Provi a contarle.»
La cameriera contò il denaro e con aria perplessa disse: «Cavoli. Ha ragione lei. Grazie.» Prese la banconota e se ne andò.
Easter uscì insieme ai due uomini nella luce che cominciava appena a impallidire. Fece un cenno a Wednesday, poi sfiorò la mano di Shadow e disse: «Che cos’hai sognato, la notte scorsa?».
«Uccelli del tuono. Una montagna di teschi.»
Lei annuì. «E sai a chi appartenevano quei teschi?»
«C’era una voce nel sogno. Me l’ha detto.»
Lei annuì ancora e attese.
«Ha detto che erano miei. Vecchi teschi miei. Migliaia e migliaia.»
Easter guardò Wednesday e disse: «Penso che questo qui sia un custode». Fece il suo sorriso luminoso, batté un colpetto sul braccio di Shadow e si avviò lungo il marciapiede. Lui rimase a guardarla camminare cercando, senza riuscirci, di non pensare alle sue cosce che sfregavano l’una contro l’altra.
Nel taxi diretto all’aeroporto Wednesday si rivolse a Shadow. «Che cosa diavolo è stato quel casino con i dieci dollari?»
«L’avevi fregata. Se c’è un ammanco di cassa lo detraggono dal suo stipendio.»
«E a te che cosa te ne frega?» Wednesday sembrava sinceramente adirato.
Shadow rifletté un momento, poi disse: «Ecco, non vorrei che qualcuno lo facesse a me. In fondo non aveva fatto niente di male».
«Ah no?» L’altro fissò un punto non lontano nel vuoto e disse: «A sette anni ha chiuso un gattino nell’armadio e l’ha lasciato miagolare per giorni. Quando ha smesso di piangere l’ha tirato fuori dall’armadio, l’ha infilato in una scatola di scarpe e l’ha sepolto in cortile. Voleva seppellire qualcosa. Ruba continuamente dalla cassa. Piccole cifre, di solito. L’hanno scorso è andata a trovare la nonna nella casa di riposo per anziani. Ha preso un orologio d’oro antico dal suo comodino e poi ha fatto furtivamente un giro delle altre stanze rubando piccole cifre ed effetti personali, cimeli degli anni d’oro degli anziani ricoverati. Tornata a casa, siccome non sapeva cosa farne e aveva paura che qualcuno la venisse a cercare, ha buttato via tutto eccetto i contanti».
«Ho capito il concetto» disse Shadow.
«Inoltre ha una gonorrea asintomatica» continuò Wednesday. «Sospetta di essere malata ma non fa niente per curarsi. Quando l’ultimo fidanzato l’ha accusata di avergli trasmesso l’infezione lei si è offesa e non l’ha più voluto vedere.»
«Non c’è bisogno che tu vada avanti. Ti ho detto che ho capito il concetto. Comunque potresti farlo con chiunque, no? Dirmi brutte cose sul loro conto, voglio dire.»
«Certo» disse Wednesday. «Fanno tutti le stesse cose. Magari credono di commettere peccati originali, ma in genere sono banali e ripetitivi.»
«E questo ti autorizza a rubarle dieci dollari?»
Wednesday pagò il taxi ed entrarono nell’aeroporto, dirigendosi al cancello. Il volo non era ancora pronto all’imbarco. «Che cos’altro potrei fare? Non sacrificano tori o arieti in mio onore. Non mi mandano le anime di assassini e schiavi, di gente impiccata e sbranata dai corvi. Loro mi hanno creato, loro mi hanno dimenticato. Adesso mi prendo qualche piccola rivalsa. Non ti sembra giusto?»
«Mia mamma diceva sempre: "Non c’è giustizia a questo mondo"» disse Shadow.
«Lo credo» disse Wednesday. «È una di quelle cose che dicono tutte le mamme, insieme a: "Se i tuoi amici si buttassero giù dalla rupe ti ci butteresti anche tu?".»
«Hai fregato dieci dollari a quella ragazza, e io glieli ho ridati» disse Shadow con ostinazione. «Era la cosa giusta da fare.»
Una voce annunciò che il loro volo era pronto all’imbarco. Wednesday si alzò. «Che le tue scelte siano sempre altrettanto facili.»
Il gelo stava allentando la morsa quando Wednesday lasciò Shadow davanti a casa, nelle prime ore del mattino. Lakeside era sempre oscenamente fredda, ma non in maniera insopportabile. L’insegna luminosa sulla facciata della M I Bank lampeggiava alternativamente 3:30 e -15°.
Quando il capo della polizia Chad Mulligan bussò alla sua porta per chiedergli se conosceva una ragazza di nome Alison McGovern erano le nove e mezzo.
«Non mi pare» rispose Shadow insonnolito.
«Questa è la sua foto» disse Mulligan. Era stata scattata al liceo. Shadow la riconobbe immediatamente: era la ragazza con gli elastici azzurri dell’apparecchio per i denti, quella che sul Greyhound aveva imparato dall’amica un uso alternativo dell’Alka Seltzer.
«Ah sì. Era sul pullman con me quando sono arrivato.»
«Dove ti trovavi ieri, Ainsel?»
Shadow ebbe l’impressione che il mondo cominciasse a girargli intorno. Sapeva di non avere motivo di sentirsi colpevole (Sei un criminale che ha violato le norme della libertà vigilata e usa un nome e documenti falsi, gli sussurrò calma una voce interiore. Non basta?).
«Ero a San Francisco» disse. «In California. Ho aiutato mio zio a trasportare un letto a baldacchino.»
«Hai la matrice del biglietto o qualcosa del genere?»
«Sì.» Aveva le carte d’imbarco di andata e ritorno nella tasca posteriore dei pantaloni. «Che cosa sta succedendo?»
Mulligan esaminò le carte. «Alison McGovern è sparita. Lavorava come volontaria alla Lakeside Humane Society. Dava da mangiare agli animali, portava a passeggio i cani. Tutti i giorni dopo la scuola per qualche ora. Comunque. Dolly Knopf, che gestisce il Centro, la sera l’accompagna sempre a casa, quando chiudono. Ieri Alison non si è presentata.»
«È scomparsa?»
«Già. I genitori ci hanno telefonato la notte scorsa. La sciocchina faceva l’autostop per andare al Centro. Si trova sulla County W, piuttosto isolato. I suoi le dicevano sempre di non fare l’autostop, comunque in questo posto non succede mai niente… la gente non chiude la porta a chiave, capisci? È difficile proibire certe cose ai ragazzi. Comunque, guarda un’altra volta la foto.»
Alison McGovern sorrideva. Gli elastici dell’apparecchio erano rossi, non azzurri.
«Puoi onestamente dichiarare di non averla rapita, né violentata o uccisa?»
«Ero a San Francisco. E non farei mai una schifezza del genere.»
«È quello che pensavo, amico. Vuoi venire con noi a cercarla?
«Io?»
«Tu. Questa mattina sono arrivati i ragazzi dell’unità cinofila… finora niente.» Sospirò. «Diamine, Mike. Spero proprio che sia a Twin Cities con qualche amico a fumarsi le canne.»
«Ti sembra probabile?»
«È possibile. Vuoi unirti alla squadra di ricerca?»
Shadow si ricordò di aver visto la ragazzina da Hennings Farm and Home Supplies, il bagliore di un sorriso timido con l’apparecchio dagli elastici azzurri, e di aver pensato a come sarebbe diventata bella, un giorno. «Vengo.»
Nell’atrio della caserma dei pompieri erano in più di venti tra uomini e donne. Shadow riconobbe Hinzelmann e parecchie altre facce ormai familiari. C’erano agenti di polizia e qualcuno con l’uniforme marrone dell’ufficio dello sceriffo.
Chad Mulligan spiegò cosa indossava Alison quando era stata vista l’ultima volta (tuta da sci rossa, guanti verdi, berretto di lana blu sotto il cappuccio della giacca) e divise i volontari in gruppi di tre persone. Shadow, Hinzelmann e un certo Brogan si ritrovarono insieme. Il capo della polizia ricordò a tutti che le giornate erano brevi e che se, Dio non voglia, avessero trovato il corpo di Alison, andava da sé che non dovevano toccare niente ma chiedere aiuto via radio, e che se era viva dovevano tenerla al caldo fino all’arrivo dei soccorsi.
Vennero accompagnati in macchina sulla County W.
Hinzelmann, Brogan e Shadow si avviarono lungo l’argine di un torrente gelato. Ogni gruppo era stato dotato di una piccola ricetrasmittente.
Sotto la cappa di nuvole basse il mondo era completamente grigio. Nelle ultime trentasei ore non aveva nevicato e sulla neve ghiacciata e scintillante le impronte erano ben visibili.
Con i baffetti sottili e le tempie canute Brogan sembrava un colonnello in pensione. Disse a Shadow di essere stato il preside del liceo. «Ma diventavo vecchio. Adesso insegno ancora qualcosina, mi occupo della recita scolastica — che è l’avvenimento più importante dell’anno — vado a caccia e ho una casupola sul lago Pike dove passo molto tempo.» Quando partirono aggiunse: «Da una parte spero di trovarla. Dall’altra sarei più contento se la trovasse qualcun altro. Capisce cosa voglio dire?».
Shadow lo capiva perfettamente.
I tre uomini non parlarono molto. Camminarono cercando una tuta rossa, o un paio di guanti verdi, o un berretto blu o un corpo bianco. Ogni tanto Brogan, che aveva la ricetrasmittente, si teneva in contatto con Chad Mulligan.
All’ora di pranzo si unirono agli altri su un pulmino scolastico requisito per l’occasione e mangiarono hot dog e brodo caldo. Qualcuno indicò un buteo su un albero spoglio e qualcun altro disse che sembrava un falco, ma siccome volò via la discussione non ebbe seguito.
Hinzelmann raccontò la storia della tromba di suo nonno che un giorno aveva provato a suonarla durante una gelata, ma davanti al fienile dov’era andato a esercitarsi faceva così freddo che non uscì nemmeno una nota.
«Tornato in casa appoggiò lo strumento vicino alla stufa a legna. Ebbene, mentre tutta la famiglia dormiva, di colpo le note congelate cominciarono a uscire dalla tromba. Mia nonna si è spaventata a morte.»
Il pomeriggio trascorse interminabile, infruttuoso e deprimente. La luce sbiadì piano piano: le distanze si ridussero e il mondo diventò color indaco mentre il vento soffiava così freddo da bruciare la faccia. Quando fu troppo buio per proseguire le ricerche, Mulligan ordinò via radio di rientrare e i gruppi furono riaccompagnati alla caserma dei pompieri.
Poco lontano c’era Buck Stops Here, la taverna dove si ritrovarono quasi tutti. Sfiniti e demoralizzati, non facevano che ripetere com’era freddo e che molto probabilmente Alison sarebbe ricomparsa tra un paio di giorni ignara dei dispiaceri che aveva causato a tutti.
«Non deve pensare male della nostra città per questo» disse Brogan. «È una città tranquilla.»
«Lakeside» aggiunse una donna ben curata di cui Shadow aveva dimenticato il nome, ammesso che le fosse stata presentata, «è la migliore cittadina dei North Woods. Sa quanti disoccupati abbiamo?»
«No.»
«Meno di venti. Su più di cinquemila abitanti compresi i dintorni. Non saremo ricchi ma tutti hanno un impiego. Non come le città minerarie del Nordest che adesso sono state quasi tutte abbandonate. E ci sono le cittadine agricole strozzate dalla caduta del prezzo del latte, o da quello dei maiali. Sa qual è la principale causa non naturale di morte tra i coltivatori del Midwest?»
«Il suicidio?» arrischiò Shadow.
La donna lo guardò con aria delusa. «Sì. È esatto. Si tolgono la vita.» Scosse la testa. «Poi ci sono anche troppe cittadine che vivono solo su quelli che vengono a caccia o sui villeggianti, si limitano a spennarli e a rispedirli a casa pieni di trofei e di punture di insetti. E quelle industriali dove tutto fila liscio come l’olio fino a quando Wal-Mart non sposta i suoi centri di distribuzione o la 3M smette di produrre cd o quello che è, e all’improvviso una barca di gente non sa più come pagare il mutuo della casa. Scusi, non ho capito il suo nome.»
«Ainsel» disse Shadow. «Mike Ainsel.» La birra che stava bevendo era di produzione locale, fatta con acqua sorgiva. Era buona.
«Sono Callie Knopf» si presentò la donna. «La sorella di Dolly.» Aveva le guance ancora arrossate dal freddo. «Quello che voglio dire è che Lakeside è fortunata. Abbiamo un po’ di tutto: agricoltura, industria leggera, turismo, artigianato. Buone scuole.»
Shadow la guardava sconcertato. In fondo alle sue parole risuonava il vuoto, era come ascoltare un venditore, un buon venditore che crede nel suo prodotto ma il cui problema in fondo è rifilarti tutte le spazzole o l’enciclopedia completa. Forse la donna glielo lesse in faccia, perché disse: «Mi scusi. Quando si ama qualcosa non si smetterebbe mai di parlarne. Lei di che cosa si occupa, signor Ainsel?».
«Mio zio commercia in antichità. Mi chiama quando ha bisogno di spostare qualche oggetto pesante. È un buon lavoro, ma saltuario.» Un gatto nero che era la mascotte del locale si strusciò contro le gambe di Shadow e gli sfregò il muso contro uno stivale. Poi saltò sulla panca e gli si addormentò vicino.
«Quanto meno può viaggiare» disse Brogan. «Si occupa di nient’altro?»
«Ha in tasca otto monete da venticinque centesimi?» chiese Shadow. Brogan rovistò tra gli spiccioli e ne trovò cinque, che gli allungò. Callie Knopf fornì le altre tre.
Shadow le sistemò in due file di quattro, poi, senza alcuna incertezza, eseguì il Trucco Attraverso il Tavolo, dando l’illusione di far cadere metà delle monete proprio nel legno mentre in realtà le passava dalla mano sinistra alla destra.
Poi prese tutte le monete nella destra, afferrò con la sinistra un bicchiere vuoto, lo coprì con un tovagliolo e fece sparire a uno a uno dalla mano i quarti di dollaro per farli ricomparire nel bicchiere con un sonoro clic. Infine aprì la mano destra per mostrare che era vuota e levò il tovagliolo in modo che tutti potessero ammirare le monete dentro il bicchiere.
Le restituì — tre a Callie, cinque a Brogan — poi ne riprese una dalla mano di Brogan, lasciandogliene quattro, vi soffiò sopra e la trasformò in un penny che diede all’ex preside. Quando Brogan contò le monete che gli erano rimaste fu stupito di trovarne ancora cinque da venticinque centesimi.
«Ma sei un Houdini» chiocciò Hinzelmann. «Proprio Harry Houdini!»
«Solo un dilettante. Devo fare ancora molta strada.» Però provava una certa fierezza. Per Shadow era il suo primo pubblico adulto.
Tornando a casa si fermò in un negozio di alimentari a comperare un cartone di latte. La ragazza con i capelli fulvi alla cassa aveva un’aria familiare e gli occhi rossi di pianto. Era tutta lentiggini.
«Ti conosco» disse Shadow, «sei…» e stava per dire la ragazzina dell’Alka-Seltzer ma si fermò in tempo, «l’amica di Alison. Sul Greyhound. Spero che torni presto.»
La ragazza tirò su col naso e annuì. «Anch’io.» Soffiò forte il naso in un fazzoletto di carta che infilò nella manica.
Portava una patacca con la scritta: CIAO! MI CHIAMO SOPHIE! CHIEDIMI COME SI FA A PERDERE 10 CHILI IN UN MESE!
«Ho passato la giornata a cercarla. Ancora niente.»
Sophie annuì e trattenne una nuova ondata di lacrime. Passò il cartone del latte davanti allo scanner che ne lesse il prezzo con un cinguettio elettronico. Shadow le diede due dollari.
«Io me ne vado da questa città di merda» disse la ragazza all’improvviso, con voce soffocata. «Vado a vivere da mia mamma a Ashland. Adesso è scomparsa Alison. Sandy Olsen è sparito l’anno scorso. Jo Ming l’anno prima. E se l’anno prossimo toccasse a me?»
«Credevo che Sandy Olsen fosse stato rapito dal padre.»
«Sì» ribatté lei con amarezza. «Certo. E Jo Ming è andata in California e Sarah Lindquist si è persa durante un’escursione e non l’hanno mai ritrovata. Può darsi. Comunque io voglio andare a Ashland.»
Inspirò e trattenne un momento il fiato. Poi, inaspettatamente, gli sorrise. Non c’era niente di falso in quel sorriso. Le avevano detto che quando dava il resto doveva sorridere, e lei sorrideva. Gli augurò una buona serata. Poi si dedicò alla cliente con il carrello pieno, cominciò a svuotarlo e a passare i prodotti davanti allo scanner.
Shadow prese il latte e tornò al volante, superò la pompa di benzina e la bagnarola sul lago, oltre il ponte verso casa.
L’arrivo in America
1778
C’era una ragazza che fu venduta dallo zio, scrisse il signor Ibis nel suo bel corsivo regolare.
Questa è la sostanza, il resto sono dettagli.
Vi sono storie che se le si ascolta con il cuore aperto feriscono troppo profondamente. Sentite. Ecco un uomo, una brava persona secondo i suoi stessi canoni, e anche secondo i suoi amici: fedele e sincero con la moglie, adora i figli e li copre d’attenzioni, si preoccupa delle sorti del suo paese, svolge con puntiglio il lavoro, nel miglior modo possibile. Quindi, efficiente e ben disposto, stermina ebrei: apprezza la musica che viene diffusa nei campi per tenerli tranquilli; consiglia loro di non dimenticare i numeri di identificazione, quando entrano nelle docce… molti se li dimenticano, spiega, si dimenticano i numeri e all’uscita prendono i vestiti sbagliati. Questo discorso li calma. Allora ci sarà ancora vita dopo le docce, si dicono gli ebrei per confortarsi. Il nostro uomo supervisiona i dettagli dell’operazione di trasporto dei corpi ai forni crematori; se ha un rammarico è quello di non essere del tutto insensibile al fatto di mandare quella feccia nelle camere a gas. Sa che se fosse davvero un uomo probo non proverebbe che gioia all’idea di ripulire la terra dei suoi parassiti.
C’era una ragazza che fu venduta dallo zio. Messa così sembra molto semplice.
Nessun uomo, dichiarò Donne, è un’isola, e si sbagliava. Se non fossimo isole andremmo alla deriva, coleremmo a picco nelle altrui tragedie. Siamo isolati (non bisogna dimenticare che "isolare" viene da isola) dai drammi delle vite altrui grazie alla nostra natura insulare e alla ripetitività delle storie. La struttura non cambia mai: c’era un essere umano che nacque, visse e per un motivo o per l’altro morì. Ecco. Per i dettagli ciascuno di noi si può ispirare alla propria esperienza. Banale come ogni storia, come ogni esistenza unica. Le vite sono come i fiocchi di neve dalle forme sempre diverse, identici tra loro come piselli nel baccello (avete mai guardato in un baccello? Voglio dire avete mai guardato davvero i piselli? Dopo un’ispezione ravvicinata confonderli risulterebbe impossibile) ma pur sempre unici.
In assenza degli individui vediamo soltanto numeri: un migliaio di morti, centomila morti, "le perdite potrebbero salire a un milione". Grazie alle storie individuali le statistiche diventano persone, ma anche questa è menzogna, perché il numero di persone che continua a soffrire è già in sé assurdo, privo di significato. Guarda, la vedi la pancina gonfia del bambino, e le mosche che gli zampettano negli angoli degli occhi, le membra scheletriche?: ti renderà le cose più facili sapere il suo nome, l’età, conoscerne i sogni, le paure? Vederlo da "dentro"? E se così fosse, non faremmo forse un torto a sua sorella, sdraiata vicino a lui nell’arida polvere, caricatura gonfia e deforme di un cucciolo nato da donna? E se per loro proviamo un sentimento, diventano forse, questi due, più importanti delle migliaia d’altri bambini affamati dalla stessa carestia, delle migliaia di giovani vite condannate a diventare ben presto nutrimento per la miriade di larve figlie di quelle mosche?
Isoliamo momenti di dolore come questi e rimaniamo sulla nostra isola dove non possono farci male più di tanto. Li chiudiamo nella loro conchiglia di madrcperla e li lasciamo scivolare via dall’anima senza soffrire veramente.
La narrativa ci permette di entrare in altre menti, in altri luoghi, di guardare con altri occhi. E poi nel racconto ci fermiamo, prima di morire, oppure un sostituto muore per noi, che restiamo in buona salute, e nel mondo di là della storia voltiamo pagina o chiudiamo il libro, tornando alla nostra esistenza.
Una vita che come ogni vita è uguale e diversa da qualsiasi altra.
E la verità nuda e cruda è questa: C’era una ragazza che fu venduta dallo zio.
Così dicevano, nel posto da cui veniva: nessuno può sapere con certezza chi è il padre, ma della madre, ah, di lei non si può dubitare. Lignaggio e proprietà erano matrilineari, però il potere restava in mani maschili: un uomo poteva disporre completamente dei figli di sua sorella.
In quel luogo c’era la guerra, una guerra piccola, poco più di una scaramuccia tra gli uomini di due villaggi rivali. Quasi una lite di vicinato. Un villaggio aveva la meglio, l’altro aveva la peggio.
La vita come merce, le persone come oggetti. Da migliaia di anni la schiavitù apparteneva alla cultura di quelle zone del mondo. I mercanti di schiavi arabi avevano distrutto l’ultimo dei grandi regni dell’Africa Orientale, mentre in quella occidentale ci avevano pensato gli stati ad annientarsi a vicenda.
Non c’era niente di deplorevole o insolito nel fatto che lo zio vendesse i gemelli, anche se i gemelli erano considerati creature magiche, e lo zio ne aveva paura, abbastanza da non avvisarli che sarebbero stati venduti, nel caso attaccassero la sua ombra e lo uccidessero. Avevano dodici anni. Lei si chiamava Wututu, l’uccello messaggero, lui Agasu, dal nome di un re. Erano due bei bambini sani e siccome erano gemelli, un maschio e una femmina, erano state insegnate loro molte cose sugli dèi, e siccome erano gemelli ascoltavano gli insegnamenti e li ricordavano.
Lo zio era un uomo grasso e pigro. Se avesse avuto una mandria numerosa forse avrebbe rinunciato a un capo, invece di vendere i bambini, ma non l’aveva. Così vendette i gemelli. Basta parlare di lui: non comparirà più in questo racconto. Seguiamo i gemelli.
Vennero fatti marciare per una decina di chilometri insieme ad altre persone ridotte in schiavitù o comperate in guerra fino a un piccolo avamposto. Qui, durante la compravendita, i gemelli furono ceduti insieme ad altri tredici schiavi a sei uomini armati di lance e coltelli che li condussero a occidente, verso il mare, e poi per molti chilometri di marcia lungo la costa. Quindici schiavi con le mani legate, incatenati tutti insieme per il collo.
Wututu chiese al fratello Agasu che cosa ne sarebbe stato di loro.
«Non lo so» disse lui. Agasu sorrideva spesso: aveva i denti bianchi e perfetti e quando sorrideva brillavano, e il suo sorriso felice faceva felice anche Wututu. Ma adesso restava serio. Cercava di mostrarsi coraggioso per la sorella, la testa alta e le spalle diritte, fiero, minaccioso e buffo come un cucciolo che arruffava il pelo.
L’uomo subito dietro Wututu nella fila che aveva le guance coperte di cicatrici disse: «Ci venderanno ai diavoli bianchi che ci porteranno nella loro terra dall’altra parte dell’acqua».
«E che cosa ci faranno là?» domandò lei.
L’uomo non rispose.
«Dunque?» ripeté Wututu. Agasu si guardò alle spalle. Mentre camminavano non potevano parlare né cantare.
«È possibile che ci mangino» disse l’uomo. «Così mi è stato detto. Per questo hanno bisogno di tanti schiavi. Perché hanno sempre fame.»
Wututu cominciò a piangere. Agasu disse: «Non piangere, sorella. Non ti mangeranno. Io ti proteggerò. I nostri dèi ti proteggeranno».
Però Wututu continuava a piangere e a camminare con il cuore pesante, in preda a dolore, rabbia e paura come solo un bambino può sentirli: sentimenti crudi e travolgenti. Non riusciva a dire a suo fratello che non era preoccupata d’essere mangiata dai diavoli bianchi. Lei sarebbe sopravvissuta, ne era certa. Piangeva perché temeva che mangiassero lui e non era sicura di poterlo proteggere.
Arrivarono a una base commerciale dove vennero trattenuti per dieci giorni. La mattina del decimo giorno furono fatti uscire dalla capanna dov’erano stati imprigionati (molto affollata verso la fine, man mano che si riempiva di schiavi). Quando arrivarono al porto Wututu vide la nave che li avrebbe portati lontano.
Il suo primo pensiero fu di stupore per la grandezza della nave, il secondo che era troppo piccola per accoglierli tutti. Ondeggiava leggera sull’acqua. La scialuppa fece molti viaggi per imbarcare i prigionieri sulla nave dove vennero ammanettati e infilati sotto coperta dai marinai, alcuni dei quali avevano la pelle rossa come l’argilla o bruciata dal sole, strani nasi appuntiti e barbe che li facevano sembrare bestie feroci. Alcuni marinai avevano l’aspetto della sua gente, come gli uomini che li avevano portati fin lì. Uomini, donne e bambini furono separati, costretti in zone diverse. Siccome erano troppi, una dozzina di loro vennero incatenati all’aperto, sotto il posto dove i marinai legavano le amache.
Wututu finì con i bambini, non con le donne, e invece di essere incatenata fu soltanto rinchiusa. Agasu venne costretto in catene con gli uomini, stretti come sardine. Sotto coperta la puzza era terribile, benché dopo l’ultimo carico l’equipaggio avesse lavorato di ramazza. Era un odore che aveva impregnato il legno: odore di paura e bile, diarrea e morte, febbre, follia, odio. Wututu sedeva con gli altri bambini, tutti incollati uno all’altro. Un’onda le fece ruzzolare addosso un bambino che si scusò in una lingua a lei sconosciuta. Nella semioscurità cercò di sorridergli.
La nave levò l’ancora e prese il largo.
Wututu si chiedeva da dove venissero quegli uomini bianchi (sebbene nessuno fosse bianco davvero: bruciati dal sole e dal mare, avevano la pelle scura). Erano così sprovvisti di cibo da dover mandare a prendere gente fin nella sua terra? Oppure lei era una prelibatezza, un bocconcino per uomini che avevano assaggiato di tutto e solo la carne nera nella pentola faceva venir loro l’acquolina in bocca?
Durante il secondo giorno di navigazione la nave incontrò una tempesta, non di quelle brutte, ma il ponte rollava e beccheggiava e l’odore del vomito si mescolò a quello dell’urina, delle feci liquide e della paura. Dalle grate di aerazione sulla coperta, dov’erano stivati gli schiavi, la pioggia cadeva su di loro a secchiate.
Dopo una settimana di viaggio, ormai molto lontani da terra, gli schiavi furono liberati dai ferri. Ogni disobbedienza, spiegarono, ogni guaio sarebbe stato punito con una severità che non immaginavano nemmeno.
Al mattino venivano nutriti con fagioli e gallette, più un cucchiaio ciascuno di succo di lime e aceto, talmente aspro da provocare smorfie e accessi di tosse; alcuni sputacchiavano e piangevano quando gli veniva ficcato in bocca. Però non potevano sputarlo: se li sorprendevano a sputarlo o a lasciarlo colare fuori venivano frustati o bastonati.
La sera mangiavano carne salata. Aveva un sapore sgradevole, e sulla superficie grigia c’era una patina con i colori dell’arcobaleno. Questo all’inizio. Nel corso del viaggio peggiorò.
Ogni volta che era possibile Wututu e Agasu si stringevano vicini, parlavano della mamma, della casa e dei compagni di gioco. A volte lei raccontava al fratello storie che la loro madre le aveva raccontato, come la storia di Elegba, il più scaltro degli dèi, che prestava occhi e orecchi al Grande Mawu, che gli portava messaggi dal mondo e riportava al mondo le sue risposte.
La sera, per ammazzare il tempo, i marinai permettevano agli schiavi di cantare ed esibirsi nelle danze.
Wututu era stata fortunata a finire con i bambini. Venivano ammassati insieme e ignorati; le donne non erano altrettanto fortunate. Su certe navi negriere le schiave venivano violentate in continuazione dall’equipaggio, un tacito privilegio stabilito in partenza. La loro non era quel genere di nave, il che tuttavia non significa che episodi di violenza non si verificassero.
Morirono in un centinaio tra uomini, donne e bambini, e vennero buttati in mare; in alcuni casi vennero buttati in mare anche schiavi ancora vivi, e ci pensò l’abbraccio verde e freddo dell’oceano a spegnere la loro ultima febbre mandandoli a picco mentre annaspavano impotenti.
La nave su cui viaggiavano Wututu e Agasu era olandese, ma loro non lo sapevano, avrebbe anche potuto essere britannica, portoghese o spagnola, o francese, per loro.
Erano gli uomini dell’equipaggio che avevano la pelle nera, perfino più nera di Wututu, a ordinare ai prigionieri dove andare, cosa fare, quando danzare. Un mattino Wututu vide che uno di loro la stava fissando. Mentre mangiava lui le si avvicinò e rimase a fissarla senza parlare.
«Perché lo fai?» gli chiese lei. «Perché servi i diavoli bianchi?»
Lui rispose con una smorfia, come se quella fosse la domanda più buffa mai sentita. Poi si piegò su di lei fin quasi a sfiorarle l’orecchio, fino a nausearla con il suo alito. «Se tu fossi più grande» le disse «ti farei gridare di piacere. Magari stanotte lo faccio. Ho visto come balli.»
Lei lo guardò con i suoi occhi color nocciola e imperturbabile, quasi sorridendo, gli disse: «Se ci provi io te lo stacco con i denti che ho lì dentro. Sono una strega, e i miei denti sono affilati». Si gustò il piacere di vedergli cambiare espressione. L’uomo si allontanò senza dire niente.
Le parole le erano uscite di bocca ma non erano farina del suo sacco: non le aveva pensate né formulate. No, erano dello scaltro Elegba. Mawu aveva creato il mondo e poi, grazie agli imbrogli di Elegba, aveva smesso di interessarsene. Era stato Elegba l’astuto con l’erezione dura come il ferro che aveva parlato attraverso di lei, che le era entrato dentro per un momento, e prima di addormentarsi, quella sera, lei gli rese grazie.
Molti prigionieri rifiutavano il cibo. Venivano frustati fino a quando non si decidevano a ingoiare quello che gli veniva cacciato in bocca a forza, anche se le frustate erano talmente tante che due di loro ne morirono. Nessun altro cercò di conquistare la libertà lasciandosi morire di fame. Un uomo e una donna provarono a uccidersi buttandosi in acqua. La donna ci riuscì. L’uomo venne tratto in salvo, legato a un albero e frustato per ore e ore fino a quando la sua schiena non fu un’unica piaga. Lo lasciarono legato all’albero giorno e notte, senza cibo e senz’acqua, solo il suo piscio se aveva sete. Entro tre giorni delirava, la testa gli era diventata gonfia e molle come un melone troppo maturo. Quando smise di vaneggiare lo gettarono in mare. Dopo quel tentativo di fuga, ai prigionieri vennero rimessi ceppi e catene per cinque giorni.
Fu un viaggio lungo, tremendo per i prigionieri e spiacevole per i membri dell’equipaggio che pure si erano fatti il cuore duro e fingevano d’essere allevatori che portavano il bestiame al mercato.
Entrarono nel porto di Bridgeport, alle Barbados, in una bella giornata tiepida e dalle imbarcazioni mandate dal molo gli schiavi furono portati a riva, poi sulla piazza del mercato, dove con un certo numero di urla e randellate vennero sistemati in file ordinate. A un fischio la piazza si riempì di uomini: uomini con le guance paonazze che pungolavano e palpavano, gridavano, ispezionavano, chiamavano con espressioni ammirate o scontente.
Wututu e Agasu furono separati. Accadde così in fretta: un omone costrinse Agasu ad aprire la bocca, gli guardò i denti, gli tastò i bicipiti, annuì e altri due uomini lo trascinarono via. Agasu non cercò di lottare. Guardò la sorella e le disse: «Coraggio». Lei annuì; poi le lacrime le appannarono la vista e scoppiò a piangere. Insieme erano gemelli magici e potenti. Separati erano due bambini disperati.
Dopo di allora lo avrebbe rivisto una volta sola, e non da vivo.
Questo fu il destino di Agasu: dapprima lo condussero in una fattoria per l’addestramento degli schiavi dove ogni giorno lo frustavano per colpe che aveva commesso e colpe che non aveva commesso; gli impartirono una rozza infarinatura di inglese e gli diedero il nome di Inky Jack per via della sua pelle scura. Quando scappò gli diedero la caccia con i cani e lo riacciuffarono, poi gli tagliarono un alluce con lo scalpello perché non dimenticasse la lezione. Si sarebbe lasciato morire di fame, ma quando provò a rifiutare il cibo gli spezzarono gli incisivi per costringerlo a mandar giù una pappa liquida; poteva solo deglutire o soffocare.
Già a quei tempi agli schiavi arrivati dall’Africa si preferivano quelli nati in cattività. Gli uomini nati liberi cercavano sempre di fuggire, o uccidersi, e in un caso o nell’altro si portavano via i profitti del padrone.
Quando Inky Jack compì sedici anni venne venduto insieme ad altri a una piantagione di zucchero sull’isola di Saint-Domingue; al grosso schiavo con i denti rotti diedero il nome di Hyacinth. Nella piantagione incontrò una vecchia del suo villaggio — era stata una schiava domestica finché le mani non le erano diventate troppo nodose e artritiche — la quale gli raccontò che i bianchi separavano apposta i prigionieri provenienti dallo stesso villaggio o dalla stessa regione per evitare che scoppiassero insurrezioni e rivolte. Non volevano che gli schiavi si parlassero tra loro.
Hyacinth imparò un po’ di francese e qualche precetto cattolico. Ogni giorno tagliava canne da zucchero da prima dell’alba a dopo il tramonto.
Procreò molti figli. Insieme ad altri schiavi andava nel bosco, a notte fonda, e benché fosse proibito danzava la calinda, cantava in onore di Damballa-Wedo, il dio serpente, intorno a un serpente nero. Cantava in onore di Elegba, Ogu, Shango, Zaka, e per molti altri dèi ancora, per tutti gli dèi che i prigionieri avevano portato sull’isola, nascosti nei cuori e nelle menti.
Era raro che nelle piantagioni di zucchero di Saint-Domingue gli schiavi vivessero più di dieci anni. Il tempo libero di cui disponevano — due ore nella calura del mezzogiorno e cinque nel buio della notte (dalle undici alle quattro) — era l’unico in cui potevano dedicarsi alla coltivazione di qualcosa per nutrirsi (poiché i padroni non provvedevano al loro mantenimento, gli schiavi ricevevano piccoli appezzamenti di terra con i quali dovevano cavarsela) ed erano anche le uniche ore in cui potevano dormire e sognare. Ciò nonostante trovavano il tempo per riunirsi e danzare, per cantare e adorare i loro dèi. La terra dell’isola era fertile e gli dèi del Dahomey, del Congo e del Niger misero radici profonde e crebbero lussureggianti, promettendo libertà ai fedeli che si radunavano nel bosco a pregarli.
Hyacinth aveva venticinque anni quando un ragno lo punse sul dorso della mano destra. La ferita si infettò e la mano si necrotizzò: nel giro di pochissimo tempo il braccio divenne gonfio e violaceo, e la mano puzzava. Pulsava e bruciava.
Gli diedero da bere del rum grezzo, scaldarono la lama di un machete alla fiamma viva fino a quando non scintillò rossa e bianca. Con una sega gli tagliarono il braccio quasi alla spalla e con la lama lo cauterizzarono. Giacque in preda alla febbre per una settimana, poi tornò al lavoro.
Il monco Hyacinth prese parte alla rivolta degli schiavi del 1791.
Fu Elegba stesso a prendere possesso di Hyacinth nel boschetto, a cavalcarlo come i bianchi cavalcavano i loro destrieri, e a parlare attraverso di lui. Hyacinth ricordava poco del suo discorso, ma gli altri gli dissero che aveva promesso la fine della schiavitù. Ricordava soltanto l’erezione, spaventosa e dolente; e ricordava di aver alzato entrambe le mani — quella che gli era rimasta e quella che aveva perso — alla luna.
Fu sacrificato un maiale, e gli uomini e le donne della piantagione ne bevvero il sangue caldo, stringendo tra loro solenne promessa di fratellanza. Giurarono fedeltà all’esercito di liberazione, e invocarono ancora tutti gli dèi delle terre dalle quali erano stati strappati.
«Se moriremo combattendo contro i bianchi» si dicevano «rinasceremo in Africa, nelle nostre case, nelle nostre tribù.»
Siccome tra i rivoltosi c’era un altro Hyacinth, adesso Agasu era conosciuto con il nome di Grande Monco. Combatté, pregò, fece sacrifici e architettò piani. Vide i suoi amici e le sue donne morire e continuò a combattere.
Combatterono per dodici anni, una guerra folle e sanguinaria contro i proprietari delle piantagioni spalleggiati dalle truppe mandate dalla Francia. Lottarono senza sosta e, contro ogni previsione, vinsero.
Il primo gennaio del 1804 venne dichiarata l’indipendenza di Saint-Domingue, che da allora si sarebbe chiamata Repubblica di Haiti. Il Grande Monco non visse abbastanza per vedere quel giorno. Era morto nell’agosto del 1802, ucciso dal colpo di baionetta di un soldato francese.
Nel momento esatto della morte del Grande Monco (noto prima con il nome di Hyacinth e, prima ancora, di Inky Jack, ma dentro di sé per sempre Agasu) la sorella Wututu — chiamata Mary nella prima piantagione in Carolina, Daisy quand’era diventata una domestica, e Sukey quand’era stata venduta alla famiglia Lavere che abitava lungo il fiume di New Orleans — sentì la lama fredda della baionetta trapassarle il petto e cominciò a gridare in maniera irrefrenabile. Le figlie gemelle si svegliarono piangendo. Avevano la pelle color caffelatte, le sue nuove figlie, non come i figli neri che aveva messo al mondo nella piantagione quando lei stessa era poco più di una bambina… figli che non aveva più visto da quando avevano quindici e dieci anni. La secondogenita era morta da un anno, quando lei era stata venduta.
Sukey aveva ricevuto molte frustate da quando era approdata con quella nave olandese: una volta le avevano messo il sale sulle ferite, un’altra volta era stata fustigata con tanta violenza e così a lungo che per giorni e giorni non si era potuta sedere né lasciare che qualcosa le sfiorasse la schiena. Quand’era più giovane era stata violentata: da uomini neri che avevano ricevuto l’ordine di dividere la sua branda di legno e da uomini bianchi. Era stata messa in catene. Non aveva pianto, però. Da quando l’avevano separata dal fratello aveva pianto una sola volta. Nel North Carolina, quando aveva visto che il cibo per i figli degli schiavi e quello per i cani veniva versato nello stesso trogolo, e che i suoi figli contendevano le briciole ai cani. Un giorno aveva visto quella scena — già vista ogni giorno, nella piantagione, e l’avrebbe vista ancora innumerevoli volte prima di andarsene — ma quel giorno le spezzò il cuore.
Per qualche anno era stata bella. Poi le sofferenze avevano lasciato il segno e bella non era più. La faccia era rugosa, e negli occhi castani c’era troppo dolore.
Undici anni prima, quando ne aveva venticinque, il braccio destro le si era rattrappito. Nessuno dei bianchi aveva potuto impedirlo. La carne sembrava staccarsi dalle ossa, e adesso il braccio le penzolava inerte, un braccìno scheletrico rivestito di pelle, inservibile. Dopo era diventata una schiava domestica.
La famiglia Casterton, proprietaria della piantagione, apprezzava le sue capacità di cuoca e la sua abilità nelle faccende, ma la signora Casterton trovava sgradevole la vista di quel braccìno avvizzito e perciò la vendette alla famiglia Lavere della Louisiana che si trovava lì per un anno: il signor Lavere era un uomo grasso e allegro che aveva bisogno di una cuoca e di una cameriera tuttofare e non provava la minima repulsione per il braccio della schiava Daisy. Quando l’anno successivo tornarono in Louisiana la schiava Sukey andò con loro.
A New Orleans donne e uomini andavano da lei a comperare incantesimi d’amore e piccoli talismani, la gente di colore, naturalmente, e anche i bianchi. La famiglia Lavere chiudeva un occhio. Forse apprezzavano il prestigio che portava alla loro casa una schiava temuta e rispettata. Tuttavia per nessuna ragione al mondo le avrebbero venduto la sua libertà.
A tarda notte Sukey andava nel bayou e danzava la calinda e la bamboula. Come i danzatori di Saint-Domingue e della sua terra nel bayou anche loro avevano come voudón un serpente nero; però gli dèi della madrepatria e delle altre nazioni africane non possedevano la sua gente come avevano posseduto Agasu e gli schiavi di Saint-Domingue. Ma lei continuava a invocarli per implorare grazia.
Ascoltava i bianchi che parlavano della rivolta di Santo Domingo (come chiamavano l’isola) e del fatto che fosse destinata a fallire, li ascoltava — «Pensate! Una terra in mano ai cannibali!» — e poi notò che smisero di parlarne.
Ben presto ebbe l’impressione che fingessero che un posto chiamato Santo Domingo non fosse mai esistito, e in quanto ad Haiti, non veniva nemmeno nominata. Era come se tutta la nazione americana avesse deciso che con uno sforzo di volontà si poteva ordinare a un’isola caribica di discrete dimensioni di non esistere più.
Sotto gli occhi vigili di Sukey una generazione di bambini Lavere diventò grande. La più piccola, non riuscendo a pronunciare "Sukey" l’aveva soprannominata Marna Zouzou, e il nome le era rimasto. Adesso correva l’anno 1821 e Sukey aveva superato la cinquantina. Ne dimostrava molti di più.
Conosceva più segreti della vecchia Sanité Dédé che vendeva caramelle davanti al Cabildo, più di Marie Saloppé che si autodefiniva regina del vudù: loro erano entrambe libere donne di colore, mentre Marna Zouzou era una schiava e schiava sarebbe morta, perché così aveva decretato il padrone.
La giovane donna che andò da lei per scoprire che ne era stato del marito si presentò come la Vedova Paris. Aveva i seni alti, era giovane e orgogliosa. Nelle sue vene scorreva sangue africano, europeo, indiano. La sua pelle aveva una tonalità rossastra, i capelli erano di un nero scintillante. Anche gli occhi erano neri, e arroganti. Il marito, Jacques Paris, forse era morto. Era bianco per tre quarti, in base a complessi calcoli, bastardo di una famiglia un tempo importante, immigrato qui da Santo Domingo, e nato libero come la sua bellissima moglie.
«Il mio Jacques. È morto?» chiese la Vedova Paris. Lavorava come parrucchiera a domicilio, pettinava le signore eleganti di New Orleans per le loro impegnative occasioni sociali.
Marna Zouzou consultò le ossa divinatorie e scosse la testa. «È con una donna bianca, da qualche parte più a nord. Una bianca con i capelli d’oro. È vivo.»
La magia non c’entrava. A New Orleans tutti sapevano della donna di Jacques Paris, e di che colore aveva i capelli.
Marna Zouzou si sorprese di scoprire che la Vedova Paris non fosse al corrente del fatto che a Colfax, ogni notte, il suo Jacques infilava il piccolo pipi pallido dentro una ragazza dalla pelle rosa. Be’ no, non ogni notte, quando non era così ubriaco da poterlo usare soltanto per pisciare. Forse lo sapeva. Forse era venuta per un’altra ragione.
La Vedova Paris tornò a trovare la vecchia schiava un paio di volte alla settimana. Dopo un mese le portò dei doni; nastri per i capelli, una torta di semi aromatici, un gallo nero.
«Marna Zouzou» disse, «è ora che tu mi insegni quello che sai.»
«Sì» rispose lei, che sapeva riconoscere da quale parte tirava il vento. Inoltre la Vedova Paris le aveva confidato di essere nata con le dita dei piedi unite da una membrana, il che voleva dire che nel grembo di sua madre aveva ucciso un gemello. Aveva altra scelta, Marna Zouzou?
Insegnò alla ragazza che le noci moscate appese a un filo portato al collo fino a quando non si rompe guariscono il mal di cuore, che un piccione ancora implume squartato e messo sulla testa del malato cura la febbre. Le insegnò a confezionare il sacchetto magico, un sacchettino di cuoio contenente tredici penny, nove semi di cotone e le setole di un maiale nero, e le spiegò come strofinarlo perché si realizzassero i desideri.
La Vedova Paris imparò ogni cosa. Però non era interessata agli dèi. Non molto. Le interessavano le pratiche. Fu felice di scoprire che se immergi una rana viva nel miele e poi la metti in un formicaio, quando le ossa saranno state ben spolpate e bianche un esame accurato rivelerà un osso piatto a forma di cuore, e un altro con un gancio: l’osso con il gancio dovrà essere agganciato a un indumento della persona di cui desideri l’amore, mentre quello a forma di cuore andrà custodito con cura (perché in caso di perdita il tuo amato si rivolterà contro di te come un cane rabbioso). Se esegui tutto nel modo giusto l’amato sarà infallibilmente tuo.
Apprese che la polvere di serpente mescolata alla cipria di una rivale l’accecherà, e che poi la si può far annegare prendendo un capo della sua biancheria, rovesciandolo e seppellendolo a mezzanotte sotto un mattone.
Marna Zouzou mostrò alla Vedova Paris la Radice Meravigliosa, la piccola e la grande radice di Giovanni il Conquistatore, il sangue di drago, la valeriana e l’erba cinquefoglie. Le spiegò come preparare un tè-che-toglie-le-forze e l’acqua-segui-me e l’acqua faire-Shingo.
Tutto questo e altro ancora le insegnò. Eppure l’anziana donna era delusa. Faceva del suo meglio per trasmetterle le verità nascoste, la conoscenza profonda; per dirle di Papa ’Legba, di Mawu, di Aido-Hwedo il serpente voudón e il resto, ma la Vedova Paris (adesso rivelerò il nome che le era stato dato alla nascita, lo stesso con cui sarebbe diventata famosa: Marie Laveau. Ma non si tratta della grande Marie Laveau di cui avete sentito parlare, bensì di sua madre, che in seguito divenne la Vedova Glapion) non era interessata agli dèi della terra lontana. L’isola di Santo Domingo si era rivelata una terra fertile per gli dèi africani, invece questo suolo ricco di granturco, meloni e cotone, per gli stessi dèi sembrava sterile.
«Non vuole capire» si lamenta Marna Zouzou con la sua confidente Clementine che lavava tende e copriletti per molte famiglie del distretto. Clementine aveva le guance bruciate dal vapore e una delle sue figlie era morta per le ustioni riportate quando si era capovolto un bollitore di rame.
«Allora non insegnarle più niente.»
«Le insegno ma lei non riconosce ciò che ha valore, vede solo l’uso che ne può fare. Le offro diamanti, e lei resta abbagliata dai vetri colorati. Le offro una demi-bouteille del miglior claret e lei beve acqua di fiume. Le offro quaglie e lei preferisce mangiare ratti.»
«Allora perché insisti?» chiede Clementine.
Marna Zouzou si stringe nelle spalle scuotendo il braccino rattrappito.
Non può rispondere. Potrebbe dirle che insegna perché è grata d’essere sopravvissuta, e infatti lo è: ne ha visti morire troppi. Potrebbe dire che sogna il giorno in cui gli schiavi insorgeranno, com’erano insorti (per essere sconfitti) a LaPlace, ma nel profondo del cuore sa che senza gli dèi africani, senza i favori di ’Legba e Mawu non riusciranno mai a sconfiggere i padroni bianchi, non torneranno mai a casa.
Quella terribile notte di vent’anni prima, quando si era svegliata con il petto trafitto dal metallo freddo, la vita di Marna Zouzou era finita. Adesso, più che vivere odiava. Se qualcuno le avesse domandato di parlare di quell’odio non sarebbe stata in grado di raccontare la storia di una ragazzina di dodici anni su una nave puzzolente: il ricordo era diventato cicatrice… troppe frustate e troppe botte, troppe notti in ceppi e catene, troppe separazioni, troppo dolore. Avrebbe potuto parlare di suo figlio, però, di quando il padrone, scoprendo che sapeva leggere e scrivere, gli aveva fatto tagliare il pollice. Avrebbe potuto raccontare di sua figlia, a dodici anni incinta di otto mesi di un caposquadra, e del buco scavato nella terra rossa per accogliere il ventre gravido e di come poi era stata frustata fino ad avere la schiena sanguinante. Malgrado il buco scavato con cura sua figlia aveva perso il bambino e anche la vita una domenica mattina, quando tutti i bianchi erano in chiesa…
Troppa sofferenza.
«Venera gli dèi» disse alla giovane Vedova Paris nel bayou, un’ora dopo mezzanotte. Erano entrambe nude fino alla cintola, sudate nella notte umida, la pelle che coglieva riflessi di luna.
Jacques, il marito (la cui morte, avvenuta tre anni prima, portava parecchi segni riconoscibili) della Vedova Paris, le aveva parlato un po’ degli dèi di Santo Domingo, ma non le interessavano. Per lei, il potere veniva dai riti, non dagli dèi.
Marna Zouzou e la Vedova Paris cantilenavano e si lamentavano nella palude. Cantavano per il serpente, la donna di colore libera e la schiava con il braccio rattrappito.
«C’è qualcosa di più della tua prosperità e della sconfitta delle tue rivali» disse Marna Zouzou.
Molte parole rituali, parole che un tempo conosceva come le conosceva il fratello, erano sfuggite alla memoria. Aveva detto alla graziosa Marie Laveau che le parole non erano importanti, che contavano le melodie e i ritmi, e lì, mentre canta per il serpente, nella palude, ha una strana visione. Vede il ritmo dei canti, il ritmo della calinda, della bamboula, tutti i ritmi dell’Africa equatoriale che lentamente si diffondono sulla terra a mezzanotte fino a quando il paesaggio trema e ondeggia al ritmo degli antichi dèi dai cui regni lei proviene. Ma nemmeno questo, comprende lì nella palude, nemmeno questo basterà.
Si volta verso la graziosa Marie e si vede con i suoi occhi, una donna dalla pelle nera, il volto rugoso, il braccio che le penzola al fianco, gli occhi di chi ha visto i propri figli contendere il cibo ai cani. Vide se stessa e per la prima volta capì il disgusto e la paura che la giovane donna provava nei suoi confronti.
Allora rise, e si accovacciò prendendo nella mano buona il serpente lungo come un alberello e grosso come la cima di una nave.
«Tieni» disse, «questo sarà il nostro voudón.»
Lasciò cadere il serpente inerte nel cesto che la pallida Marie portava al braccio.
E poi, al chiaro di luna, per l’ultima volta la seconda vista le permise di vedere il fratello Agasu. Non era il ragazzino di dodici anni che aveva lasciato al mercato degli schiavi di Bridgeport, ma un uomo enorme, nudo, la schiena coperta dì profonde cicatrici, e sorrideva mostrando i denti rotti. In una mano stringeva il machete. Il braccio destro era un moncherino.
Lei allungò la mano sinistra, quella buona.
«Aspettami, aspettami un momento» sussurrò. «Arrivo. Arrivo da te tra poco.»
E Marie Paris pensò che la vecchia stesse parlando con lei.
L’America ha investito religione e morale in azioni ad alto rendimento. Ha adottato la posizione inattaccabile di una nazione che è benedetta perché merita di esserlo, e i suoi figli, indipendentemente da quali teologie riconoscono o disprezzano, sottoscrivono senza riserve il credo nazionale.
Shadow si diresse a ovest, attraverso Wisconsin e Minnesota, entrò nel North Dakota, dove le montagne innevate sembravano grandi bufali addormentati, e lui e Wednesday macinarono chilometri su chilometri vedendo tutto e non vedendo niente. Poi piegarono verso il South Dakota, diretti alle riserve.
Wednesday aveva scambiato la Lincoln, che Shadow guidava volentieri, con un vetusto e ingombrante Winnebago che sprigionava un persistente e inconfondibile odore di gatto e che Shadow non guidava volentieri per niente.
Quando superarono il primo cartello che segnalava Mount Rushmore, ancora lontano parecchie centinaia di chilometri, Wednesday borbottò qualcosa. «Quello lì» disse «è un luogo sacro.»
Shadow aveva pensato che il suo compagno di viaggio dormisse. «So che era sacro per gli indiani.»
«È un posto sacro» ribatté Wednesday. «È così che si fanno le cose in America: hanno bisogno di dare alla gente una scusa per pregare. Di questi tempi non si può andare a vedere una montagna e basta. Perciò ecco i faccioni spaventosi dei presidenti del signor Gutzon Borglum. Una volta scavati nella roccia il permesso di venire è accordato, ed ecco le folle che accorrono a vedere dal vivo qualcosa che hanno visto mille volte in cartolina.»
«Conoscevo un tipo, una volta. Faceva pesi alla Muscle Farm, anni fa. Mi aveva raccontato che gli indiani dakota, i più giovani, scalavano la montagna mettendosi uno sulle spalle dell’altro fino a che l’ultimo potesse pisciare sul naso del presidente.»
Wednesday scoppiò a ridere sguaiatamente. «Oh bene! Benissimo! E c’è un presidente in particolare che è la latrina della loro collera?»
Shadow scrollò le spalle. «Non l’ha specificato.»
Sotto le ruote del Winnebago scorrevano i chilometri e Shadow cominciò a immaginare di essere immobile, mentre il paesaggio americano gli scorreva di fianco a centotrenta all’ora. Una foschia invernale ne smussava i contorni.
Erano le dodici del secondo giorno di viaggio, e ormai erano quasi arrivati. Shadow, che stava rimuginando tra sé, disse: «A Lakeside la settimana scorsa è sparita una ragazza. Quando eravamo a San Francisco».
«Ah sì?» Wednesday sembrava scarsamente interessato.
«Una ragazzina che si chiamava Alison McGovern. Non è la prima. Ne sono scomparsi altri. Sempre in inverno.»
Wednesday aggrottò la fronte. «Che tragedia, vero? Le faccine sui cartoni del latte — anche se non riesco a ricordarmi quando ne ho vista una l’ultima volta — e sui muri nelle aree di servizio. "Mi hai visto?" chiedono. Una domanda metafisica. "Mi hai visto?" Esci alla prossima.»
A Shadow sembrò di sentire il rumore di un elicottero, ma le nubi troppo basse non permettevano di vedere niente.
«Perché hai scelto proprio Lakeside?» chiese.
«Te l’ho detto. È un posticino tranquillo in cui nascondersi. A Lakeside sei al sicuro, fuori dalla portata dei radar.»
«Come mai?»
«Perché è così. Adesso prendi a sinistra.»
Shadow svoltò.
«C’è qualcosa che non va» disse Wednesday. «Cazzo. Porca puttana schifosa. Rallenta, ma non fermarti.»
«Ti spiacerebbe spiegarmi?»
«Guai. Conosci una strada alternativa?»
«No. È la prima volta che vengo qui. E non so nemmeno dove stiamo andando.»
Dall’altra parte della collina c’era una luce rossa e lampeggiante, un po’ appannata dalla foschia.
«È un posto di blocco» disse Wednesday, e si infilò una mano prima in una tasca e poi nell’altra in cerca di qualcosa.
«Posso fermarmi e tornare indietro.»
«Inutile. Li abbiamo anche alle calcagna. Tieniti sui venti, venticinque all’ora.»
Shadow guardò nello specchietto retrovisore: a un paio di chilometri si vedevano i fanali di una macchina. «Ne sei sicuro?» chiese.
Wednesday sbuffò. «Sicuro come l’oro» disse. «Come l’allevatore di tacchini quando riuscì a covare il suo primo uovo di tartaruga. Ah, ce l’ho fatta!» e dal fondo della tasca estrasse un gessetto bianco.
Cominciò a scrivere sul cruscotto, tracciando segni come se stesse cercando di risolvere un’equazione algebrica, oppure come un vagabondo intento a scrivere lunghi messaggi per altri vagabondi in un codice tutto loro: cane mordace, città pericolosa, donna generosa, una galera accettabile per passarci la notte…
«Va bene» esclamò Wednesday. «Adesso vai a cinquanta e non rallentare per nessun motivo.»
Una delle macchine che li seguiva aveva acceso lampeggianti e sirene e stava accelerando per raggiungerli. «Non rallentare» ripeté Wednesday. «Vogliono farci rallentare prima che arriviamo al posto di blocco.» Scrac, scrac, scrac faceva il gesso sulla plastica.
Salirono sulla cima della collina. Il posto di blocco si trovava a meno di un chilometro. Dodici automobili schierate e sul ciglio della strada macchine della polizia e parecchi fuoristrada neri.
«Ecco fatto» disse Wednesday, e ripose il gessetto in tasca. Il cruscotto era coperto di segni simili a rune.
La vettura con la sirena li aveva raggiunti. Aveva rallentato e una voce amplificata stava gridando: «Fermatevi!». Shadow guardò Wednesday.
«Sterza sulla destra» gli ordinò lui. «A destra, buttati fuori strada.»
«Non posso con questa roba. Ci ribaltiamo.»
«Andrà tutto bene. A destra. Ora!»
Shadow girò il volante con la mano destra e il camper sussultò e sbandò. Per un attimo pensò di aver avuto ragione, che il Winnebago si sarebbe ribaltato, e il mondo di là del parabrezza si dissolse in uno scintillio indistinto, come il riflesso in una pozza d’acqua chiara quando la brezza ne increspa la superficie.
Nuvole e foschia non c’erano più, anche la neve e il giorno erano scomparsi.
Adesso sopra la sua testa brillavano le stelle, sospese nel cielo come punte di lance luminose che fendevano la notte.
«Parcheggia qui» disse Wednesday. «Possiamo proseguire a piedi.»
Shadow spense il motore. Si sporse a prendere giacca, stivali e guanti e uscì dal veicolo. «Va bene. Andiamo.»
Wednesday lo guardò con un’espressione in cui oltre al divertimento si leggeva qualcos’altro, irritazione, forse. Oppure orgoglio. «Perché non dici niente?» gli chiese. «Perché non esclami che tutto questo è impossibile? Perché diavolo ti limiti a fare quello che dico e prendi le cose con quella calma assurda?»
«Perché non mi paghi per fare domande» rispose Shadow. E con la certezza di dire il vero, senza riflettere aggiunse: «Perché dopo Laura non mi sorprende più niente».
«Dopo che è tornata dal regno dei morti?»
«Dopo che ho saputo che si scopava Robbie. Quello sì che mi ha ferito. Tutto il resto rimane in superficie. Dove andiamo, adesso?»
Wednesday gli indicò un punto e sì avviarono. La terra sotto i loro piedi era rocciosa, levigata e vulcanica, a tratti scivolosa come vetro. L’aria era fresca, ma non fredda come d’inverno. Scesero goffamente una collina, incontrarono un sentiero sconnesso e lo seguirono. Shadow guardò a valle.
«Quello che cosa diavolo è?» chiese, ma Wednesday si portò un dito alle labbra e scosse deciso la testa. Silenzio.
Sembrava un ragno meccanico delle dimensioni di un trattore, di metallo blu, costellato di led luminosi. Era lì accovacciato ai piedi della collina. Vicino, per terra, c’erano ossa di ogni tipo, e accanto a ogni osso brillava una fiammella, poco più grande della fiamma di una candela.
Wednesday gli fece cenno di tenersi lontano da quegli oggetti. Shadow mosse un altro passo di lato, un errore, sul sentiero scivoloso: la caviglia cedette e rotolò lungo il pendio a balzelloni. Cercò di aggrapparsi a una roccia, ma il troncone di ossidiana gli tagliò il guanto come se fosse di carta.
Arrivò a fondovalle, fermandosi tra il ragno meccanico e le ossa.
Appoggiò una mano a terra per rialzarsi e con il palmo sfiorò una specie di femore e si ritrovò…
… in piedi, con una sigaretta in mano, a guardare l’orologio in pieno giorno. Tutt’intorno a lui c’erano macchine ferme, alcune vuote, altre con uomini a bordo. Rimpiangeva di aver bevuto quell’ultimo caffè, perché aveva un gran bisogno di pisciare e la cosa cominciava a metterlo a disagio.
Uno degli uomini della polizia locale, con una spruzzata di brina sui baffi spioventi, gli si avvicinò. Shadow aveva già dimenticato come si chiamava.
«Non so come abbiamo fatto a perderli» dice il poliziotto locale in tono avvilito.
«È stata un’illusione ottica» replica lui. «Capita, in particolari condizioni atmosferiche. Per via della foschia. È stato un miraggio. In verità loro erano su un’altra strada e noi abbiamo creduto che fossero su questa.»
Il poliziotto sembra deluso. «Ah. Pensavo che fosse una storia tipo X-Files.»
«Niente di così eccitante, temo.» Gli capita di soffrire di emorroidi e il culo ha appena cominciato a prudergli in quel modo che segnala una crisi infiammatoria. Vuole tornare nella sua Beltway. Vorrebbe tanto un albero dietro cui nascondersi: il bisogno di pisciare è sempre più forte. Butta la sigaretta per terra e la calpesta.
Il poliziotto si avvicina a una delle macchine della polizia e dice qualcosa al collega al volante. Scuotono entrambi la testa.
Lui tira fuori il telefono, tocca i tasti, fa scorrere il menu e trova l’indirizzo "Laundry", un nome che lo aveva tanto divertito digitare, un riferimento a The Man from U.N.C.L.E. Ma mentre guarda si rende conto che il riferimento è sbagliato, loro avevano una sartoria come copertura, era nella serie di telefilm Get Smart che c’era la lavanderia, e dopo tutti quegli anni si vergogna ancora all’idea di non aver capito che si trattava di una parodia delle spie, e che lui lo aveva desiderato davvero il telefono nella suola della scarpa…
Risponde una voce di donna. «Sì?»
«Parla Town per il signor World.»
«Attenda, prego. Vedo se è raggiungibile.»
Silenzio. Town incrocia le gambe, tira su la cintura — devo assolutamente perdere altri cinque chili - per allentare la pressione sulla vescica. Poi una voce cortese lo raggiunge al telefono: «Buongiorno, signor Town».
«Li abbiamo persi» dice Town. La frustrazione gli ha chiuso lo stomaco: erano i bastardi, i luridi figli di troia che hanno ammazzato Woody e Stone, cavoli. Due bravi colleghi. Bravi. Lui ha una gran voglia di fottersi la signora Wood, ma sa che è ancora troppo presto per farsi avanti. Perciò la porta fuori un paio di volte al mese, come investimento sul futuro, e lei intanto gli è grata per l’attenzione…
«Come?»
«Non lo so. Avevamo un posto di blocco, per loro non c’erano vie di fuga e invece sono spariti lo stesso.»
«Un altro piccolo mistero della vita. Non ti preoccupare. Hai calmato gli indigeni?»
«Ho detto che è stata un’illusione ottica.»
«L’hanno bevuta?»
«Probabile.»
C’era qualcosa di molto familiare nella voce del signor World… una cosa strana da pensare, visto che lavorava per lui già da due anni e gli parlava tutti i giorni; ovvio che la sua voce gli risultasse familiare.
«A questo punto saranno lontani.»
«Dobbiamo mandare degli uomini a intercettarli alla riserva?»
«Il gioco non vale la candela. Ci sono troppe questioni giurisdizionali, e il numero di burattini che posso manovrare in una mattina è limitato. Non abbiamo fretta. Torna indietro. Ora sono tutto preso a organizzare l’incontro politico.»
«Ci sono problemi?»
«È un casino. Ho proposto di farlo qua. I tecnologici lo vogliono a Austin o forse a San José, i giocatori a Hollywood, gli intangibili a Wall Street. Insomma tutti lo vogliono a casa propria. Nessuno cede.»
«Devo fare qualcosa?»
«Non ancora. Ne blandirò qualcuno, ad altri mostrerò i denti. Sai come vanno queste cose.»
«Sissignore.»
«Procedi, Town.»
Il collegamento viene interrotto.
Town pensa che avrebbe già dovuto chiamare gli uomini della S.W.A.T. per quel Winnebago di merda, o per far minare la strada, o piazzarci un marchingegno nucleare che facesse vedere a quei bastardi che non scherzavano affatto. Era come gli aveva detto una volta il signor World, Stiamo scrivendo il futuro a lettere di fuoco, e Town pensa che se non piscerà immediatamente ci rimetterà un rene, come quand’era bambino e suo padre durante i viaggi lunghi in autostrada diceva: «Mi scoppia la vescica» e a Town sembra di risentirne ancora la voce, il nasale accento yankee: «Se non piscio mi scoppia la vescica»…
… e in quel momento Shadow sentì che una mano gli stava aprendo la sua, un dito alla volta, staccandola dal femore. Non aveva più bisogno di urinare; quel bisogno riguardava un altro. Era in piedi, in una valle coperta di rocce cristalline, sotto un cielo stellato.
Wednesday gli fece di nuovo segno di tacere. Poi si incamminò e lui lo seguì.
Dal ragno meccanico arrivò una specie di cigolio e Wednesday si immobilizzò di colpo. Anche Shadow si fermò. Gruppi di luci verdi intermittenti si alzarono e percorsero velocemente il ragno. Shadow cercò di non fare rumore respirando.
Pensò a quello che era appena successo. Era stato come guardare dentro la mente di un altro da una finestra. E poi ripensò. Il signor World: ero io che trovavo familiare la sua voce. Quello era un pensiero mio, non di Town. Perciò sembrava strano. Provò a identificare la voce, a metterla nella categoria alla quale apparteneva, ma continuava a sfuggirgli.
Mi verrà in mente, pensò. Prima o poi mi verrà in mente.
Le luci verdi diventarono azzurre, poi rosse, sbiadirono in un pallido porpora e il ragno si afflosciò sulle zampe metalliche. Wednesday, solitaria figura sotto le stelle, riprese a caminare con il suo cappello a tesa larga, il logoro mantello scuro agitato dal vento di quel non luogo, appoggiando il bastone sulla roccia cristallina.
Quando il ragno metallico fu solo un bagliore lontano nella notte stellata, molto distante nella pianura, Wednesday disse: «Adesso possiamo parlare».
«Dove siamo?»
«Dietro le quinte.»
«Come?»
«Pensa alle quinte di un teatro e immagina di esserci dietro. Ho appena tirato fuori noi due dalla platea e stiamo camminando nella parte posteriore del palcoscenico. È una scorciatoia.»
«Quando ho toccato l’osso sono entrato nella mente di un tale che si chiama Town. È uno spione anche lui. Ci odia.»
«Sì.»
«Ha un capo che si chiama World. Mi ricorda qualcuno, ma non so chi. Guardavo nella mente di Town, o forse c’ero dentro. Non so bene.»
«Sanno dove stiamo andando?»
«Credo che abbiano deciso di sospendere la caccia, per il momento. Non volevano seguirci alla riserva. Stiamo andando in una riserva?»
«Può darsi.» Wednesday si appoggiò un istante al bastone, poi riprese a camminare.
«Che cos’era quella specie di ragno?»
«Una manifestazione diagrammatica. Un motore di ricerca.»
«Sono pericolosi?»
«Si arriva alla mia età solo aspettandosi il peggio.»
Shadow sorrise. «E quale sarebbe l’età?»
«Quella della mia lingua» rispose l’altro. «Poco più vecchia di quella dei miei denti.»
«Tieni le carte così nascoste» disse Shadow «da farmi dubitare della loro esistenza.»
Wednesday si limitò a un grugnito.
Ogni collina era più ripida della precedente.
Shadow cominciava ad avere mal di testa. C’era una pulsazione nella luce stellare, qualcosa che risuonava all’unisono con il battito nelle tempie e nel petto. In fondo all’altura successiva incespicò, aprì la bocca per dire qualcosa e senza preavviso vomitò.
Wednesday prese una fiaschetta dalla tasca. «Bevine un sorso» disse. «Un sorso solo.»
Il liquido era aspro ed evaporò come un buon brandy, anche se non sembrava alcolico. Wednesday si riprese subito la fiaschetta e la infilò nella tasca. «Al pubblico non fa bene camminare dietro le quinte. È per questo che ti senti così. Dobbiamo uscire in fretta.»
Accelerarono il passo, Wednesday arrancava spedito, Shadow incespicando di tanto in tanto ma più in forma, dopo la bevanda che gli aveva lasciato in bocca un gusto di scorza d’arancia, olio di rosmarino, menta e chiodi di garofano.
L’altro lo afferrò per un braccio. «Là» disse indicando due identici monticelli di roccia cristallina alla loro sinistra. «Cammina tra quei monticelli. Restami accanto.»
Camminarono, e Shadow fu colpito sulla faccia contemporaneamente dall’aria fredda e dalla luce del giorno.
Erano fermi a metà salita di una dolce collina. La foschia era scomparsa rivelando un giorno freddo e assolato, con il cielo di un azzurro perfetto. A fondovalle si vedeva una strada sterrata su cui procedeva una station wagon rossa che sembrava un’automobilina giocattolo, a quella distanza. Da una roulotte usciva del fumo. Era come se qualcuno, una trentina d’anni prima, l’avesse fatta ruzzolare sul pendio collinare. La roulotte aveva subito riparazioni di ogni tipo e, in alcuni punti, era anche rattoppata.
La porta si spalancò non appena si avvicinarono, e un uomo di mezza età con uno sguardo penetrante e una bocca che sembrava una ferita da coltello li guardò dall’alto in basso dicendo: «Ehi, avevo sentito che due bianchi mi stavano venendo a trovare. Due bianchi in un Winnebago. E ho saputo che si sono persi, come succede sempre ai bianchi, se non piazzano indicazioni dappertutto. Ecco qui due poveri diavoli alla mia porta. Lo sapete che siete in terra lakota?». L’uomo aveva i capelli lunghi e grigi.
«Da quando in qua sei un lakota, vecchio imbroglione?» disse Wednesday. Adesso indossava una giacca e un berretto con i paraorecchi, e a Shadow cominciava già a sembrare impossibile che fino a pochi minuti prima, sotto le stelle, portasse un cappello a tesa larga e un logoro mantello. «Allora, Whiskey Jack? Io sto morendo di fame e il mio amico qui ha appena vomitato la colazione. Ci fai entrare?»
Whiskey Jack si grattò un’ascella. Era vestito con un paio di jeans e una maglietta grigia come i suoi capelli. Ai piedi calzava dei mocassini e non sembrava rendersi conto del freddo. Poi disse: «Mi piace questo posto. Venite dentro, uomini bianchi che hanno perso il loro Winnebago».
Dentro la roulotte c’era molto fumo e, seduto al tavolo, un altro uomo, con un paio di calzoni di pelle scamosciata e i piedi scalzi. La sua pelle aveva il colore della corteccia.
Wednesday sorrideva felice. «Bene» disse, «ma guarda che caso. Whiskey Jack e Apple Johnny. Due piccioni con una fava.»
L’uomo seduto, Apple Johnny, lo guardò fisso, poi si portò una mano sui genitali e disse: «Ti sbagli un’altra volta. Sono appena arrivato e la mia fava è al suo posto.» Poi guardò Shadow e alzò la mano mostrando il palmo. «Sono John Chapman. Non credere a niente di quello che dice il tuo capo sul mio conto. È uno stronzo. È sempre stato stronzo e sempre lo sarà. Certa gente nasce così, non ci si può fare niente.»
«Sono Mike Ainsel» disse Shadow.
Chapman si grattò il mento ispido. «Ainsel» ripeté. «Non è un nome. Ma in certi casi può funzionare. Come ti chiamano?»
«Shadow.»
«Ti chiamerò Shadow, allora. Ehi, Whiskey Jack» gridò, però non disse proprio così, ci mise molte più sillabe. «Si mangia?»
Whiskey Jack usò un cucchiaio di legno per sollevare il coperchio di una pentola di ferro nero che borbottava sulla cucina economica. «È pronto.»
Prese quattro scodelle di plastica e le riempì, poi le mise sul tavolo. Aprì la porta, uscì nella neve e da un cumulo prese una tanica di plastica da cinque litri. La portò dentro e ne versò il liquido, di colore giallo-marrone torbido, in quattro grossi bicchieri che sistemò accanto alle scodelle. Infine trovò quattro cucchiai e sedette con gli altri al tavolo.
Wednesday alzò il bicchiere con aria sospettosa. «Sembra piscio» disse.
«Bevi ancora quella roba?» gli chiese Whiskey Jack. «Voi bianchi siete matti. Questo è molto meglio.» Poi, rivolgendosi a Shadow: «Lo stufato è soprattutto di tacchino selvatico. John ha portato il brandy di mele».
«È un sidro leggero» spiegò John Chapman. «Non mi sono mai piaciuti i liquori forti. Fanno diventare matti.»
Lo stufato era delizioso, e il sidro squisito. Shadow si costrinse a mangiare lentamente, a masticare, anziché ingoiare tutto subito, ma aveva più fame di quanto sospettasse. Si servì una seconda porzione di tacchino e un secondo bicchiere di sidro.
«Corre voce che sei andato in giro a parlare con tutti, e che hai proposto di tutto. Che vuoi portare i vecchi sul sentiero di guerra» disse John Chapman. Shadow e Whiskey Jack stavano lavando i piatti e mettendo lo stufato avanzato in un contenitore. Poi Whiskey Jack sistemò le scodelle in un cumulo di neve davanti alla porta con una cassetta del latte sopra per riconoscerlo.
«Mi sembra una sintesi equa e assennata» rispose Wednesday.
«Vinceranno loro» disse Whiskey Jack senza mezzi termini. «Hanno già vinto. Tu hai già perso. Come l’uomo bianco e la mia gente. Hanno vinto quasi sempre i bianchi. E quando perdevano firmavano un trattato. Poi lo rompevano. Così vìncevano di nuovo. Io non combatto per un’altra causa persa.»
«È inutile che guardi me» disse John Chapman, «perché anche se combattessi per te — cosa che non farei mai — non potrei esserti di nessun aiuto. Quei luridi bastardi mi hanno spremuto tutto quello che c’era da spremere.» Si interruppe. Poi riprese: «Paul Bunyan». Scosse lentamente la testa e lo ripeté. «Paul Bunyan.» Shadow non aveva mai sentito nessuno pronunciare un nome in modo così minaccioso.
«Paul Bunyan?» chiese. «Che cosa ha fatto?»
«Ha occupato spazio mentale» rispose Whiskey Jack. Si fece dare una sigaretta da Wednesday, fumarono insieme.
«E come quei cretini che pensano che i colibrì si preoccupino della linea o dei denti cariati o scemenze del genere, o forse vogliono soltanto risparmiare ai colibrì i danni dello zucchero» spiegò Wednesday «e riempiono i beccatoi di schifoso dolcificante. Gli uccelli vengono, se lo mangiano e muoiono, perché si rimpinzano di cibo che non contiene calorie ma li sazia. Questo è Paul Bunyan. Nessuno ha mai raccontato le sue storie. Nessuno ci ha mai creduto. È saltato fuori da un’agenzia di pubblicità di New York nel 1910 e ha riempito la mitica pancia della nazione di calorie inutili.»
«A me piace Paul Bunyan» disse Whiskey Jack. «Sono andato sulla sua giostra al Mall of America, qualche anno fa. Quando precipiti giù vedi il vecchio Paul in cima. Splash! A me sta bene. Non mi dà fastidio che non sia mai esistito, vuol dire che non ha mai tagliato un albero. E non li ha nemmeno piantati. Che è molto meglio.»
«Hai detto giusto» disse Johnny Chapman.
Wednesday soffiò un anello di fumo che rimase sospeso nell’aria e si dissipò lentamente in riccioli e volute. «Maledizione, Whiskey Jack; il punto non è questo e lo sai.»
«Io non ti aiuterò» gli rispose l’altro. «Quando ti ritroverai con il culo per terra potrai tornare qua, e se ci sarò ti darò ancora da mangiare. Il cibo migliore lo trovi in autunno.»
«Tutte le alternative sono peggiori» disse Wednesday.
«Non hai nessuna idea delle alternative» ribatté Whiskey Jack. Poi guardò Shadow: «Tu sei a caccia» disse. La sigaretta gli aveva arrochito la voce.
«Lavoro» rispose Shadow.
Whiskey Jack scosse la testa. «Sei anche a caccia di qualcosa. Hai un debito in sospeso.»
Shadow pensò alle labbra violacee di Laura, alle sue mani coperte di sangue. Annuì.
«Sta’ a sentire; prima c’era la Volpe, e il Lupo era suo fratello. La Volpe disse: gli uomini vivranno qui per sempre. Se moriranno non resteranno morti a lungo. Il Lupo disse: no, la gente morirà, deve morire, tutte le cose che sono vive devono morire, altrimenti si diffonderanno e invaderanno la terra, mangeranno tutti i salmoni e i caribù e i bufali, mangeranno tutte le zucche e tutto il granturco. Allora un giorno il Lupo morì, e disse alla Volpe: "Svelta, riportami in vita". E la Volpe rispose: "No, i morti devono rimanere morti, mi hai convinto". E piangeva, mentre lo diceva. Ma l’aveva detto, era deciso. Adesso il Lupo regna sul mondo dei morti e la Volpe vive per sempre sotto il sole e la luna, e ancora piange suo fratello.»
«Se non ci stai, non ci stai. Noi però ce ne andiamo» disse Wednesday.
Whiskey Jack era impassibile. «Sto parlando con questo giovanotto. Per te non posso fare niente. Per lui sì.» Si rivolse a Shadow: «Parlami dei tuoi sogni».
«Mi stavo arrampicando su una torre di teschi. C’erano degli uccelli enormi che volavano intorno alla torre. Nelle ali avevano lampi. Mi hanno attaccato. La torre è caduta.»
«Tutti sognano» disse Wednesday. «Ci rimettiamo in strada?»
«Non tutti sognano il Wakinyau, l’uccello del tuono» disse Whiskey Jack. «Ne abbiamo sentito l’eco fin qui.»
«Te l’avevo detto» disse Wednesday. «Cazzo.»
«In West Virginia ce n’è un gruppo» riprese Chapman in tono pigro. «Almeno un paio di femmine e un vecchio maschio. Nella terra che chiamavano lo Stato di Franklin ce n’è una coppia da riproduzione, ma il vecchio Ben non è mai arrivato nel suo stato, tra il Kentucky e il Tennessee. Certo non sono mai stati tanti, nemmeno ai bei tempi.»
Whiskey Jack tese una mano che aveva il colore dell’argilla scura e toccò con delicatezza Shadow sulla faccia. «Ehi, è vero. Se dai la caccia all’uccello del tuono puoi riportare in vita la tua donna. Ma lei appartiene al Lupo, al regno dei morti, non deve più calpestare la terra.»
«Come fai a saperlo?» domandò Shadow.
Whiskey Jack non mosse le labbra. «Cosa ti ha detto il bufalo?»
«Di credere.»
«Un buon consiglio. Pensi di seguirlo?»
«Più o meno. Sì.» Stavano parlando senza pronunciare parole, senza l’ausilio della bocca, del suono. Shadow si chiese se per i due uomini presenti nella roulotte loro fossero rimasti immobili per un secondo o una frazione di secondo.
«Quando avrai trovato la tua tribù torna a trovarmi» disse Whiskey Jack. «Ti posso aiutare.»
«Lo farò.»
Whiskey Jack abbassò la mano. Poi si rivolse a Wednesday. «Vuoi andare a riprenderti il tuo Ho Chunk?»
«E cos’è?»
«Ho Chunk. È così che i Winnebago si riferiscono a se stessi.»
L’altro fece di no con la testa. «Troppo rischioso. Recuperarlo potrebbe rivelarsi problematico. Lo staranno cercando.»
«È rubato?»
Wednesday fece un’aria offesa. «Nemmeno per sogno. I documenti sono nello scomparto del cruscotto.»
«E le chiavi?»
«Ce le ho io» disse Shadow.
«Mio nipote, Harry Bluejay, ha una Buick dell’81. Perché non mi date le chiavi del camper? Potete prendervi la sua macchina.»
Wednesday arruffò il pelo. «Che razza di affare sarebbe?»
Whiskey Jack scrollò le spalle. «Ti rendi conto di come sarà difficile riprendere il camper dal punto in cui l’avete abbandonato? Ti sto facendo un favore. Prendere o lasciare. A me non interessa.» Chiuse la bocca sottile come una ferita di coltello.
Wednesday aveva un’aria arrabbiata, poi la rabbia si stemperò in rammarico. «Shadow, dagli le chiavi del Winnebago» ordinò. Shadow obbedì.
«Johnny» disse Whiskey Jack, «puoi portare questi uomini da Harry Bluejay? Digli da parte mia che deve dargli la macchina.»
«Volentieri» rispose John Chapman.
Si alzò, prese un piccolo sacco di tela appoggiato accanto alla porta e uscì. Shadow e Wednesday lo seguirono. Whiskey Jack rimase sulla soglia. «Ehi» disse a Wednesday, «tu non tornare. Non sei il benvenuto.»
L’altro alzò il dito medio verso il cielo e in tono affabile rispose: «Fottiti».
Scesero a valle nella neve, aprendosi un varco dov’era più alta. Chapman li precedeva a piedi nudi, rossi sulla crosta di neve dura. «Non hai freddo?» gli chiese Shadow.
«Mia moglie era choctaw».
«E ti ha insegnato dei sistemi magici per non sentire il freddo?»
«No, credeva che fossi matto. Diceva sempre: "Ma perché non ti infili gli stivali, Johnny?".» Il pendio divenne più ripido e dovettero smettere di parlare. Incespicavano e scivolavano, si afferravano ai tronchi delle betulle per non cadere. Quando il terreno diventò un po’ più piano Chapman riprese: «Adesso è morta, ovviamente. Quando è morta credo di essere andato un po’ fuori di testa. Può succedere a tutti. Può succedere anche a te». Gli batté una pacca sul braccio. «Per Gesù e Giosafat, sei grande e grosso.»
«Così dicono» rispose Shadow.
Camminarono lungo quella ripida discesa per circa mezz’ora e quando arrivarono a fondovalle imboccarono la strada sterrata diretti al gruppo di case che avevano già visto dall’alto.
Un’automobile rallentò, si fermò. La donna al volante abbassò il finestrino e disse: «Avete bisogno di un passaggio, voi tre ubriaconi?».
«Molto cortese da parte sua, signora» rispose Wednesday. «Stiamo cercando un certo Harry Bluejay.»
«Sarà alla sala giochi» rispose lei. Shadow pensò che fosse sulla quarantina. «Salite.»
Salirono tutti: Wednesday accanto al posto di guida, Shadow e John Chapman sul sedile posteriore. Le gambe di Shadow erano troppo lunghe per lo spazio tra i due sedili, ma cercò di sistemarsi alla meglio. L’auto ripartì e procedette sobbalzando sul fondo stradale sconnesso.
«Da dove venite?» chiese la donna.
«Siamo andati a trovare un amico» rispose Wednesday.
«Che vive sulla collina qui dietro» aggiunse Shadow.
«Quale collina?»
Shadow si girò a guardare dal polveroso parabrezza posteriore. Non c’era nessuna collina, soltanto la pianura coperta di nuvole.
«Whiskey Jack» continuò allora Shadow.
«Ah, qui lo chiamiamo Inktomi. Credo che sia lui. Mio nonno raccontava delle belle storielle sul suo conto. Le migliori erano spinte, ovvio.» Presero una buca e la donna imprecò. «Tutto a posto, lì dietro?»
«Sissignora» rispose John Chapman. Si teneva aggrappato al sedile con tutte e due le mani.
«Sono le strade della riserva» disse lei. «Ci si fa l’abitudine.»
«Sono tutte così?» domandò Shadow.
«Più o meno. Quelle qui intorno sono così. E non venire a chiedermi che fine fanno tutti i soldi che guadagnano i casinò, perché quale persona sana di mente verrebbe fin qui per andare in un casinò? Di quei soldi noi non sentiamo nemmeno l’odore.»
«Mi dispiace.»
«Non è il caso.» Cambiò marcia con una grattata e un gemito. «Sapete che la popolazione bianca della zona continua a diminuire? Ormai ci sono solo città fantasma. Come si fa a tenerli qui a lavorare nei campi dopo che hanno visto il mondo alla televisione? E comunque coltivare le Badlands non rende. Perciò prima ci hanno portato via la terra e si sono insediati dove stavamo noi, e adesso se ne vanno. Vanno a sud. A ovest. Magari se aspettiamo che si trasferiscano tutti a New York o a Miami e Los Angeles ci possiamo riprendere le terre senza muovere un dito.»
«Buona fortuna» disse Shadow.
Trovarono Harry Bluejay nella sala giochi, al tavolo del biliardo, impegnato in qualche tiro spettacolare per far colpo sulle ragazze. Aveva una ghiandaia azzurra tatuata sul dorso della mano destra e molti piercing all’orecchio destro.
«Ho hoka, Harry Bluejay» salutò John Chapman.
«Vaffanculo, brutto spettro bianco e scalzo» rispose Harry Bluejay in tono colloquiale. «Quando ti vedo mi viene la pelle d’oca.»
In fondo alla sala c’erano uomini più anziani di Harry che giocavano a carte o parlavano. Ce n’erano altri, più o meno della sua età, che aspettavano il loro turno al tavolo da biliardo, un biliardo grande, con uno strappo nella stoffa verde che era stato riparato con un pezzo di nastro adesivo argentato.
«Ho un messaggio da parte di tuo zio» ribatté Chapman imperturbabile. «Dice di dare la tua macchina a questi due.»
Nella sala giochi dovevano esserci trenta o quaranta persone, e all’improvviso si misero tutti a guardare con attenzione le carte che tenevano in mano, oppure a studiarsi i piedi, o le unghie, facendo del loro meglio per fingere di non ascoltare.
«Non è mio zio.»
L’aria nella sala era viziata, densa di fumo. Chapman sorrise mettendo in mostra le due più brutte file di denti che Shadow avesse mai visto in un essere umano. «Vuoi che glielo riferisca? Pensa che secondo lui sei l’unica ragione che lo fa restare con i lakota.»
«Whiskey Jack dice un sacco di cose» ribatté Harry Bluejay in tono petulante. Anche lui non pronunciava davvero le parole Whiskey Jack, era un nome che suonava più come Wisakedjak. Ecco come lo chiamavano. Wisakedjak, non Whiskey Jack.
«Infatti» disse Shadow. «E tra l’altro ha detto che dovevi scambiare la tua Buick con il nostro Winnebago.»
«Non vedo nessun Winnebago.»
«Te lo porterà lui» disse John Chapman. «Lo sai bene che lo farà.»
Harry Bluejay tentò un tiro di abilità e lo sbagliò. Non aveva la mano abbastanza ferma. «Io non sono il nipote della vecchia volpe. Vorrei che la piantasse di andare in giro a dirlo.»
«Meglio una volpe viva che un lupo morto» rispose Wednesday, in un tono di voce talmente profondo da sembrare un ringhio. «Allora, ci dai questa macchina o no?»
Bluejay rabbrividì in maniera violenta, visibile. «Subito» disse. «Subito. Stavo solo scherzando. Scherzo un sacco, io.» Appoggiò la stecca sul tavolo e prese una giacca pesante da un attaccapanni vicino alla porta che era zeppo di giacche uguali. «Fatemi tirare prima fuori la mia roba.»
Continuava a lanciare occhiate a Wednesday, come se avesse paura di vederlo esplodere da un momento all’altro.
La macchina di Harry Bluejay era parcheggiata a un centinaio di metri. Per arrivarci passarono davanti a una chiesetta cattolica imbiancata a calce, e il prete in piedi sulla soglia li guardò passare. Fumava una sigaretta come se fumare non gli piacesse.
«Buon giorno, padre!» gridò Johnny Chapman, ma l’uomo con il colletto rigido non rispose, schiacciò la sigaretta sotto il tacco, raccolse il mozzicone, lo gettò nel bidone dell’immondizia ed entrò in chiesa.
Alla macchina di Harry Bluejay mancavano i deflcttori, e le ruote erano le più lisce che Shadow avesse mai visto: gomma nera perfettamente levigata. Bluejay spiegò che la macchina beveva olio, ma se si continuava a mettergliene dentro lei sarebbe andata per sempre, fino a quando non si fosse fermata.
Riempì un sacco nero dell’immondizia con tutta la sua roba (tra cui parecchie bottiglie di birra economica con il tappo a vite, non finite, un pacchettino di resina di cannabis avvolto nella stagnola e nascosto sommariamente nel portacenere, una coda di puzzola, due dozzine di cassette di musica country, e una copia malconcia e ingiallita di Straniero in terra straniera). «Scusi se prima l’ho fatta arrabbiare» disse Bluejay a Wednesday mentre gli dava le chiavi della macchina. «Ha idea di quando avrò il Winnebago?»
«Chiedi a tuo zio. È lui il commerciante di macchine usate del cazzo» ringhiò l’altro.
«Wisakedjack non è mio zio» disse Harry Bluejay. Prese il sacchetto di plastica nero, entrò nella casa più vicina e si chiuse la porta alle spalle.
Lasciarono Johnny Chapman a Sioux Falls, davanti a un negozio di alimentazione naturale.
Durante il viaggio Wednesday non parlò. Era d’umore nero fin da quando avevano lasciato la casa di Whiskey Jack.
In una trattoria alle porte di St Paul Shadow prese un quotidiano che qualcuno aveva abbandonato su un tavolo. Dopo una prima occhiata lo riguardò, incredulo, e poi lo mostrò a Wednesday.
«Leggi qui» gli disse.
Wednesday sospirò e abbassò gli occhi sulla prima pagina. «Sono felice di sapere che la controversia dei controllori di volo sia stata risolta senza ricorrere a misure drastiche.»
«Non quello» disse Shadow. «Guarda qui. C’è scritto che è il quattordici febbraio.»
«Buon San Valentino.»
«Siamo partiti in gennaio, il venti, o ventuno. Non lo so di preciso ma era la terza settimana di gennaio. Siamo stati in viaggio tre giorni al massimo. Com’è che oggi è il quattordici febbraio?»
«Perché abbiamo camminato per quasi un mese» rispose Wednesday. «Nelle Badlands. Dietro le quinte.»
«Alla faccia della scorciatoia» esclamò Shadow.
Wednesday allontanò il giornale. «Al diavolo Johnny Appleseed e il suo Paul Bunyan. Nella realtà Chapman era proprietario di quattordici frutteti. Aveva migliaia di acri. Sì, non se la cavava male con la frontiera, però non c’è una sola storia sul suo conto che contenga una briciola di verità, salvo che a un certo punto ha dato di matto. Ma non importa. Come dicono i giornalisti, se la verità non è abbastanza appassionante, riporta la leggenda. Questo paese ne ha bisogno, anche se nemmeno alle leggende si crede più.»
«Ma tu sai.»
«Io sono superato. A chi cazzo gliene frega qualcosa di me?»
A bassa voce, Shadow disse: «Tu sei un dio».
Wednesday si voltò di scatto a guardarlo, come se fosse sul punto di replicare, poi si riappoggiò pesantemente allo schienale a studiare il menu. «E allora?»
«È una bella cosa» disse Shadow.
«Ah sì?» ribatté l’altro, e questa volta fu Shadow a distogliere lo sguardo.
Sul muro del gabinetto di un’area di servizio a una quarantina di chilometri da Lakeside, Shadow vide un piccolo manifesto: una foto in bianco e nero di Alison McGovern e in alto, scritta a mano, la domanda Mi hai visto? Era la stessa fotografia presa a scuola: una ragazzina che sorride sicura con gli elastici azzurri dell’apparecchio sui denti superiori e che da grande vuole lavorare con gli animali.
Mi hai visto?
Shadow comperò una merendina Snicker, una bottiglia d’acqua e una copia del "Lakeside News". In prima pagina il titolo, che rimandava all’articolo scritto da Marguerite Olsen, nostra inviata, era illustrato dalla fotografia che ritraeva un ragazzo e un uomo più anziano in piedi sul lago ghiacciato, accanto a una baracca tipo gabinetto all’aperto: insieme i due reggevano un grosso pesce. Sorridevano. Padre e figlio catturano un luccio da record. Nella cronaca.
Al volante c’era Wednesday. «Leggimi qualcosa di interessante» disse.
Shadow sfogliò il giornale lentamente ma non trovò niente da leggere.
Wednesday lo lasciò sul vialetto davanti a casa. Un gatto grigio fumo che era rimasto a guardarlo fuggì, quando Shadow si chinò per accarezzarlo.
Shadow si fermò sul portico di legno ad ammirare il lago punteggiato qui e là dalle capanne verdi e marroni dei pescatori. Accanto a molte capanne erano parcheggiate le macchine dei proprietari. Vicino al ponte vide la vecchia bagnarola verde, proprio come nella foto sul giornale. «Ventitré marzo» la incoraggiò. «Intorno alle nove e un quarto. Puoi farcela.»
«Impossibile» ribatté una voce di donna. «Sarà il tre aprile, alle sei del pomeriggio, che il sole scioglierà il ghiaccio.» Shadow sorrise. Marguerite Olsen, in tuta da sci, stava riempiendo il beccatoio per gli uccelli.
«Ho letto il suo articolo sul luccio da record.»
«Eccitante, vero?»
«Be’, istruttivo, magari.»
«Credevo che non sarebbe più tornato. È stato via un bel pezzo, vero?»
«Lo zio aveva bisogno di me. Diciamo che il tempo è volato.»
Sistemò l’ultimo pezzettino di grasso nella gabbia e cominciò a riempire una reticella con semi di cardo che prendeva da un grosso barattolo. Alcuni cardellini con il piumaggio invernale color oliva cinguettarono impazienti da un abete.
«Il giornale non dice niente su Alison McGovern.»
«Non c’è niente da dire. Non è stata ritrovata. Sembrava che qualcuno l’avesse vista a Detroit ma era un falso allarme.»
«Povera bambina.»
Marguerite Olsen riavvitò con forza il tappo del barattolo. «Spero che sia morta» disse in tono pratico.
Shadow era esterrefatto. «Perché?»
«Perché le alternative sarebbero peggiori.»
I cardellini saltavano freneticamente da un ramo all’altro aspettando con impazienza che gli umani si allontanassero.
Non stai pensando ad Alison. Tu pensi a tuo figlio. Stai pensando a Sandy.
A Shadow sembrò di risentire qualcuno che diceva Sandy mi manca. Chi era stato?
«Grazie della chiacchierata» disse.
«Grazie a lei.»
Febbraio fu una successione di giornate brevi e grige. A volte nevicava, a volte no. Le temperature salirono, in certi momenti arrivarono addirittura allo zero. Shadow se ne stava chiuso in casa fino a quando non si sentiva in prigione e allora, nei giorni in cui Wednesday non aveva bisogno di lui per qualche viaggio, cominciò a fare delle passeggiate.
Camminava quasi tutto il giorno, lunghe escursioni fuori città. Da solo, fino alla foresta nazionale a settentrione o a occidente, oppure fino ai campi di granturco e ai pascoli a sud. Percorse la pista del Lumber County Wilderness, camminò lungo i vecchi binari della ferrovia e lungo tutte le strade secondarie. Un paio di volte attraversò perfino il lago gelato da nord a sud. Se incontrava un indigeno o un turista o qualcuno che faceva jogging salutava con la mano e diceva buongiorno. In genere non incontrava nessuno eccetto cornacchie e fringuelli, e qualche volta intravvide un falco che divorava i resti di un opossum o di un procione schiacciati da una macchina. In un’occasione memorabile restò a osservare un’aquila catturare un pesce argenteo dal fiume White Pine che, ghiacciato verso l’argine, in mezzo correva ancora impetuoso. Il pesce si agitò tra gli artigli dell’aquila, scintillando sotto il sole di mezzogiorno; Shadow si augurò che riuscisse a liberarsi per nuotare nel cielo e sorrise della propria illusione.
Scoprì che se camminava non doveva pensare, ed era quello che voleva; se pensava la mente viaggiava verso luoghi che non riusciva a controllare, luoghi che lo facevano stare male. La cosa migliore era sfinirsi. Quand’era sfinito di stanchezza i pensieri non vagavano fino a Laura, o a sogni strani, oppure a cose che non esistevano e non potevano esistere. Dopo una lunga passeggiata tornava a casa e dormiva senza difficoltà, senza sogni.
Nel negozio del barbiere sulla piazza principale incontrò il capo della polizia Chad Mulligan. Shadow si aspettava sempre molto da un taglio di capelli, e le sue aspettative venivano regolarmente deluse. Si ritrovava uguale, dopo ogni taglio, solo con i capelli più corti. Chad, seduto sulla sedia accanto a lui, sembrava straordinariamente preoccupato del proprio aspetto. Quando il barbiere ebbe finito si guardò allo specchio con severità, come se si preparasse ad affibbiarsi una multa per eccesso di velocità.
«Stai bene» gli disse Shadow.
«Se tu fossi una donna ti piacerebbe?»
«Credo di sì.»
Attraversarono insieme la piazza per andare da Mabel’s a bere due tazze di cioccolata calda. «Ehi Mike, hai mai pensato di entrare in polizia?»
Shadow scrollò le spalle. «Non direi» rispose. «Ci sono un sacco di cose da imparare, credo.»
Chad scosse la testa. «Sai qual è l’unica importante? Tenere i nervi a posto. Succede qualcosa, gridano, gridano all’assassino, e tu devi riuscire a dire che è tutto un errore, e che se escono tranquillamente sistemerai tutto. E devi dirlo sul serio.»
«Riesci a sistemare tutto davvero?»
«In genere sì, quando gli hai messo le manette. Comunque sì, in un modo o nell’altro in genere le cose si risolvono. Fammi sapere, se ti serve un lavoro. Stiamo assumendo personale e tu sei il tipo di uomo che cerchiamo.»
«Me lo ricorderò, se mio zio non mi desse più lavoro.»
Sorseggiarono la cioccolata calda. Mulligan disse: «Senti, Mike, cosa faresti se avessi una cugina? Una vedova, diciamo. E cominciasse a chiamarti?».
«A chiamarti in che senso?»
«Al telefono. Da un altro stato.» Mulligan arrossì. «L’ho vista l’anno scorso a un matrimonio. Era sposata, allora, cioè suo marito era ancora vivo e io e lei siamo parenti. Non è una cugina di primo grado, però.»
«Ti interessa?»
Mulligan arrossì ancora. «Non ne sono sicuro.»
«Mettiamola così: tu le interessi?»
«Be’, ha detto qualcosa, al telefono. È una gran bella donna.»
«Dunque… cosa pensi di fare?»
«Potrei invitarla a venire qua. Potrei dirglielo, cosa te ne pare? Praticamente mi ha già fatto capire che le piacerebbe.»
«Siete adulti e vaccinati. Mi pare che potresti provare.»
Chad annuì, arrossì e annuì di nuovo.
Il telefono nell’appartamento taceva, scollegato. Shadow pensò di farlo riallacciare, ma non riusciva a immaginare nessuno da chiamare. Una volta a notte fonda alzò il ricevitore e rimase in ascolto, convinto che il vento gli portasse una conversazione lontana tra alcune persone che parlavano a voce troppo bassa perché le parole risultassero intelliggibili. Disse: «Pronto?» e «Chi parla?». Non rispose nessuno, e nel silenzio improvviso ci fu l’eco distante di una risata, così fievole che non sapeva se l’aveva solo immaginata.
Durante le settimane successive Shadow fece altri viaggi con Wednesday.
Aspettò nella cucina di un cottage di Rhode Island mentre il suo capo, in una camera da letto buia, discuteva con una donna che non si voleva alzare dal letto e non voleva che né lui né Shadow la vedessero in faccia. Nel frigorifero c’era un sacchetto di plastica pieno di grilli, e un altro con cadaveri di topolini.
In un locale rock di Seattle Shadow guardò Wednesday salutare gridando per superare il frastuono della musica una giovane donna con i capelli rossi e corti e dei tatuaggi a spirale. Quella conversazione doveva essere andata bene, perché Wednesday uscì dal locale sorridendo felice.
Cinque giorni dopo Shadow era a bordo di un’auto a noleggio quando Wednesday uscì corrucciato da un ufficio di Dallas. Sbatté la portiera e rimase seduto in silenzio, rosso di rabbia. «Metti in moto» disse. Poi aggiunse: «Albanesi di merda. Come se a qualcuno gliene fregasse di loro».
Tre giorni più tardi volarono a Boulder, dove pranzarono piacevolmente con cinque giovani donne giapponesi. Fu un pasto improntato alla più grande cortesia e Shadow non capì se alla fine fossero arrivati a un accordo o a una decisione. Comunque Wednesday sembrava abbastanza contento.
Shadow aveva voglia di tornare a Lakeside, dove c’era una pace, un’atmosfera accogliente che apprezzava.
Ogni mattina, se non era in viaggio, attraversava il ponte e arrivava in piazza. Comperava due pasty da Mabel’s; ne mangiava una sul posto, bevendo un caffè. Se qualcuno aveva dimenticato il giornale lo leggeva, benché non fosse così interessato alle notizie da comperarsene uno personalmente.
Si infilava la seconda pasty in tasca, avvolta in un sacchetto di carta, e la mangiava a pranzo.
Un mattino stava leggendo "Usa Today" quando Mabel gli chiese: «Ehi Mike, dove vai oggi?».
Il cielo era di un pallido azzurro, la foschia mattutina aveva coperto gli alberi di brina. «Non so» rispose lui. «Forse torno sulla pista.»
La donna gli riempì di nuovo la tazza di caffè. «Non sei mai stato a County Q? È piuttosto bello. Prendi la stradina che parte dal negozio di tappeti sulla Twentieth Avenue.»
«No. Non ci sono mai stato.»
«Be’. È proprio bello.»
Era straordinariamente bello. Shadow parcheggiò l’auto in periferia e camminò sul ciglio della strada, una strada di campagna che serpeggiava intorno alle colline a est della città coperte di aceri brulli, betulle candide, abeti scuri.
A un certo punto un gattino si mise a camminare al suo fianco. Aveva il colore della polvere, con le zampette bianche. Shadow gli si avvicinò e l’animale non fuggì.
«Ehi gatto» lo chiamò senza imbarazzo.
Il gatto piegò la testa e lo guardò con gli occhi smeraldini. Poi soffiò, non contro di lui, ma contro qualcosa sul bordo della strada, qualcosa che Shadow non poteva vedere.
«Tranquillo» gli disse. Il gatto attraversò e scomparve in un campo di granturco che non era stato raccolto.
Dopo la curva successiva c’era un minuscolo cimitero con vecchie lastre tombali levigate dal tempo, anche se su alcune erano posati dei fiori freschi. Non c’era un muro di cinta, nessuna palizzata, soltanto rovi piegati dal ghiaccio e dagli anni. Shadow superò il cumulo di ghiaccio e fanghiglia sul ciglio della strada. C’erano due montanti di pietra all’ingresso del camposanto, ma il cancello mancava. Entrò.
Si aggirò osservando le pietre tombali: non c’erano iscrizioni successive al 1969. Spazzò via la neve da un angelo di granito dall’aria solida e vi si appoggiò.
Dalla tasca tirò fuori il sacchetto di carta con la pasty. Quando lo aprì un filo di vapore si disperse nell’aria fredda. Aveva un buon profumo. L’addentò.
Alle sue spalle sentì scricchiolare qualcosa. Per un attimo pensò che fosse il gatto, poi riconobbe il profumo e, sotto il profumo, l’odore di decomposizione.
«Non guardarmi, ti prego» disse lei da dietro.
«Ciao, Laura.»
Lei rispose con voce esitante, forse, gli sembrò, addirittura impaurita. «Ciao, cucciolo.»
Lui staccò un pezzo di pasty. «Vuoi assaggiarne un po’?» le chiese.
Adesso Laura era in piedi proprio alle sue spalle. «No. Mangiala tu. Io non mangio più queste cose.»
Shadow addentò la sua pasty. Era ottima. «Vorrei vederti» disse.
«Non ti piacerebbe» rispose lei.
«Ti prego.»
Laura aggirò l’angelo di granito e Shadow la guardò alla luce del sole. C’erano alcune cose diverse e altre che erano rimaste uguali. Gli occhi non erano cambiati, né il sorriso fiducioso. Ovviamente sembrava molto morta. Shadow finì di mangiare, si alzò e rovesciò le briciole nel sacchetto di carta che poi piegò e si infilò in tasca.
I giorni passati nell’impresa di pompe funebri a Cairo in un certo senso gli rendevano più facile stare con lei. Non sapeva che cosa dirle.
La mano fredda di Laura cercò la sua e la strinse leggermente. Gli batteva forte il cuore. Aveva paura, e ciò che lo spaventava era la normalità di quel momento. Stava talmente bene accanto a lei che sarebbe rimasto lì per sempre.
«Mi manchi» ammise.
«Sono qui» disse lei.
«È quando ci sei che mi manchi di più. Quando siamo insieme. Quando non ci sei, quando sei soltanto un fantasma del passato o un sogno di un’altra vita, allora è più facile.»
Gli strinse la mano.
«Dunque» domandò lui, «com’è la morte?»
«È dura. Non finisce mai.»
Gli appoggiò la testa su una spalla e lui quasi si sciolse. Disse: «Vuoi fare due passi?».
«Volentieri.» Gli sorrise, un sorriso sbilenco e un po’ nervoso nel viso morto.
Uscirono dal camposanto e tenendosi per mano ripresero la strada che portava in città. «Dove sei stato?» gli chiese Laura.
«Quasi sempre qui.»
«Ti ho un po’ perso, da Natale. A volte sapevo dov’eri per qualche ora, o qualche giorno. Sembravi dappertutto. Poi scomparivi.»
«Ero qui a Lakeside. È una bella cittadina.»
«Oh.»
Laura non indossava più il tailleur blu con cui era stata seppellita. Adesso portava una gonna lunga e scura, uno strato di maglioni e un paio di stivali rosso borgogna. Shadow le fece i complimenti per gli stivali.
Lei piegò la testa. Sorrise. «Non sono belli? Li ho trovati in questo negozio fantastico a Chicago.»
«Che cosa ti ha fatto venire fin qui da Chicago?»
«Oh, è da un pezzo che me ne sono andata, cucciolo. Ero diretta a sud perché il freddo non mi piace. Una volta mi piaceva, dirai, ma adesso no, deve dipendere dal fatto che sono morta. Più che come freddo lo percepisci come una specie di nulla; e quando sei morto è proprio il nulla che ti fa paura. Stavo andando in Texas con l’idea di passare l’inverno a Galveston. Mi piaceva, da bambina.»
«Strano» disse Shadow, «è la prima volta che te ne sento parlare.»
«Ah sì? Allora era qualcun altro che ci passava l’inverno. Non saprei. Ricordo i gabbiani: il pane lanciato in aria per i gabbiani, erano centinaia, il cielo coperto di gabbiani che battevano le ali e acchiappavano il pane al volo.» Si interruppe. «Se questa scena non l’ho vista io deve averla vista qualcun altro.»
Un’automobile svoltò alla curva e il conducente salutò con la mano. Shadow ricambiò il saluto. Camminare con sua moglie era meravigliosamente normale.
«Si sta bene» disse lei, come se gli avese letto nel pensiero.
«Sì.»
«Quando ho sentito la chiamata sono tornata indietro di corsa. Ero appena arrivata in Texas.
«La chiamata?»
Lei alzò gli occhi. Al collo le brillava la moneta d’oro. «Sembrava una chiamata. Ho cominciato a pensare a te. A quanto avevo bisogno di vederti. Era una specie di fame.»
«Sapevi che ero qui?»
«Sì.» Aggrottò la fronte e affondò gli incisivi superiori nel labbro inferiore bluastro, mordendolo delicatamente. Piegò la testa di lato e disse: «Lo sapevo. All’improvviso lo sapevo. Sembrava che mi stessi chiamando, invece non eri tu, vero?».
«No.»
«Non volevi vedermi.»
«Non è quello.» Esitò. «Sì. Non volevo vederti. Mi fa troppo male.»
La neve scricchiolava sotto le scarpe scintillando al sole come una coltre di diamanti.
«Dev’essere difficile» disse lei «non vivere.»
«Vuoi dire essere morta? Senti, sto ancora cercando la maniera di riportarti indietro. Credo di essere sulla buona strada…»
«No» disse lei, «cioè, ti sono grata. E spero proprio che tu ci riesca. Ho fatto un sacco di cose sbagliate…» Scosse la testa. «Ma adesso parlavo di te.»
«Io sono vivo. Non sono morto, non ti ricordi?»
«Non sei morto, però non sono sicura che tu sia davvero vivo.»
Che brutta piega ha preso questa conversazione, pensò lui. Che brutta piega ha preso tutto quanto.
«Io ti amo» disse lei in tono distaccato. «Tu sei il mio cucciolo. Ma da morti si vedono le cose con più chiarezza. È come se tu non ci fossi, capisci? Sei come un grosso, solido buco a forma di uomo.» Aggrottò le sopracciglia. «Anche quando stavamo insieme. Mi piaceva stare con te. Tu mi adoravi e avresti fatto qualsiasi cosa per me. Però a volte mi capitava di entrare in una stanza credendo che fosse vuota. Accendevo la luce, la spegnevo, e mi rendevo conto che tu eri lì seduto; non leggevi, non guardavi la tv, non facevi niente.»
A quel punto lo abbracciò, come per mitigare l’asprezza delle proprie parole, e aggiunse: «La cosa più bella di Robbie è che lui era vero. Uno stronzo, a volte, oppure divertente, e quando facevamo l’amore gli piaceva avere gli specchi intorno perché così poteva vedersi mentre mi scopava, ma era vivo, cucciolo. Voleva veramente le cose. Riempiva lo spazio». Si interruppe e lo guardò piegando leggermente la testa. «Scusa. Ti ho ferito?»
Siccome la voce avrebbe potuto tradirlo, Shadow si limitò a fare segno di no con la testa.
«Bene» disse lei. «Molto bene.»
Stavano arrivando alla piazzola di sosta dove aveva parcheggiato la macchina. A Shadow sembrava che a quel punto fosse necessario dire qualcosa: Ti amo, oppure non andartene, ti prego, oppure ancora mi dispiace. Il tipo di frase che si usa per rappezzare una conversazione che imprevedibilmente è scivolata in zone buie. Invece disse: «Io non sono morto».
«Forse no» rispose lei. «Ma sei sicuro di essere vivo?»
«Guardami.»
«Questa non è una risposta» ribatté la sua defunta moglie. «Quando sarai vivo lo capirai.»
«E adesso?»
«Be’, ti ho rivisto. Adesso torno a sud.»
«In Texas?»
«In qualche posto caldo. Non mi interessa quale.»
«Io devo stare qui ad aspettare. Fino a quando il mio capo non mi chiama.»
«Questa non è vita» disse Laura. Sospirò, e poi sorrise, quel sorriso che dopo mille volte riusciva a commuoverlo ancora. Come se ogni volta fosse la prima.
Si avvicinò per stringerla a sé ma lei scosse la testa e si sottrasse all’abbraccio. Seduta sull’angolo di un tavolo da picnic coperto di neve rimase a guardarlo allontanarsi in macchina.
Interludio
Era cominciata la guerra e non se ne accorgeva nessuno. La tempesta era vicina e nessuno se ne rendeva conto.
A Manhattan la caduta di una trave provocò la chiusura di una strada per due giorni: uccise due pedoni, un tassista arabo e il suo passeggero.
Un camionista di Denver fu trovato ucciso in casa. Il corpo contundente, un martello a granchio con l’impugnatura in plastica, era stato abbandonato sul pavimento accanto al cadavere. Il volto non era stato toccato ma il cranio era sfondato e sullo specchio del bagno qualcuno aveva scritto con un rossetto scuro alcune parole in un alfabeto sconosciuto.
In un ufficio di smistamento della corrispondenza di Phoenix, in Arizona, un uomo impazzì, diede i numeri, come dissero al telegiornale quella sera, e sparò a Terry "Il Troll" Evensen, uno strano individuo morbosamente obeso che viveva da solo in una roulotte. I feriti erano stati parecchi ma rimase ucciso soltanto Evensen. L’omicida — un dipendente delle poste insoddisfatto, si pensò a tutta prima — non fu né catturato né, tantomeno, identificato.
«Onestamente» dichiarò il direttore dell’ufficio di Terry "Il Troll" Evensen, al telegiornale delle cinque, «tutti immaginavano che sarebbe stato proprio il Troll a dare i numeri per primo. Bravo lavoratore, ma uno strano tipo. Non si può mai dire nella vita, eh?»
Più tardi la sera, quando rimandarono in onda il servizio, l’intervista al direttore dell’ufficio postale fu tagliata.
In Montana vennero trovati morti i nove membri di una comunità dì anacoreti. I giornalisti avanzarono l’ipotesi che si fosse trattato di un suicidio collettivo, ma presto si seppe che la causa del decesso era imputabile all’avvelenamento da monossido di carbonio sprigionato da una vecchia caldaia.
Nel cimitero di Key West venne profanata una cripta.
In Idaho un treno passeggeri della Amtrak si scontrò con un camion della Ups e il conducente del camion rimase ucciso. I passeggeri del treno riportarono soltanto ferite lievi.
A questo stadio era ancora una guerra fredda, una guerra per finta, dove non c’era in gioco niente di davvero importante.
Il vento scuoteva i rami dell’albero. Le fiamme sprigionavano scintille. La tempesta stava arrivando.
La regina di Saba, mezzo demone, si diceva, per parte di padre, la maga, strega e regina che governò su Saba quando Saba era la terra più ricca mai esistita al mondo, con le sue spezie e le gemme e i legni profumati trasportati via nave e a dorso di cammello in ogni angolo della terra, colei che in vita veniva adorata come una divinità, venerata come una dea dai più saggi tra i re, alle due di notte guarda il traffico senza vederlo dal marciapiede di Sunset Boulevard: una sposa di plastica vestita da puttana su una torta nuziale nera e fluorescente. È in piedi, padrona del marciapiede e della notte che l’avvolge.
Quando qualcuno la guarda muove le labbra come se parlasse da sola. Quando gli uomini in macchina le passano vicino stabilisce un contatto d’occhi e sorride.
È stata una lunga notte.
È stata una lunga settimana, e quattromila lunghi anni.
È fiera di non dovere niente a nessuno. Le altre ragazze che battono il marciapiede hanno protettori, abitudini, figli, gente che le sfrutta. Lei no.
Nel mestiere che fa non c’è niente di sacro. Non più.
Una settimana prima a Los Angeles sono cominciate le piogge che hanno trasformato le strade in trappole scivolose e teatri di incidenti, sciogliendo il fango sulle colline e trascinando le case nei canyon, il mondo nelle fogne e nei tombini, facendo annegare i barboni e i senza tetto nel canale. Quando a Los Angeles arrivano le piogge colgono sempre tutti di sorpresa.
Bilqis ha passato tutta la settimana in casa. Non potendo stare sul marciapiede si è rannicchiata sul letto nella stanza color fegato crudo ad ascoltare la pioggia battere sulla scatola di metallo del condizionatore e inviando messaggi personali in rete. Ha lasciato i suoi inviti a adultfinder.com, LA-escorts.com, Classyhollywoodbabes.com, con un anonimo indirizzo e-mail. È orgogliosa di saper esplorare nuovi territori, ma allo stesso tempo inquieta: ha sempre evitato di lasciare qualsiasi cosa possa assomigliare a un indizio. Non si è mai fatta pubblicità sulle ultime pagine del "L.A. Weekly", preferendo invece scegliersi i clienti da sola dopo aver visto, annusato e toccato quelli capaci di adorarla come serve a lei, quelli che si lasceranno portare fino in fondo…
E adesso, mentre rabbrividisce all’angolo della strada (poiché le piogge di fine febbraio sono finite, ma il freddo che hanno portato perdura) le viene in mente che in fondo anche lei ha un vizio, come le puttane che si fanno di eroina o di crack, e la cosa la rattrista e ricomincia a muovere le labbra. Se si fosse abbastanza vicini alla sua bocca dipinta di rosso rubino si sentirebbero queste parole:
«Ora mi leverò e andrò attorno per la città, per le strade e le piazze; cercherò colui che l’anima mia ama». E questo che mormora, e aggiunge: «Sul mio letto, durante la notte, ho cercato colui che l’anima mia ama. Mi baci egli dei baci della sua bocca. Il mio amico è mio e io son sua».
Bilqis spera che la fine delle piogge riporti i clienti. In genere batte lungo due o tre isolati del Sunset Boulevard e si gode l’aria fresca delle notti losangeline. Una volta al mese dà una bustarella all’agente di polizia che ha preso il posto di quello a cui la dava prima, sparito nel nulla. Si chiamava Jerry LeBec e la sua scomparsa rappresenta ancora un mistero per la polizia. Lei era diventata la sua ossessione, la seguiva ovunque. Un pomeriggio Bilqis era stata svegliata da un rumore e aprendo la porta di casa aveva trovato Jerry LeBec in borghese, che si dondolava in ginocchio sul vecchio zerbino, la testa china, aspettando di vederla uscire. Il rumore che l’aveva svegliata era provocato della testa del poliziotto che batteva contro la porta mentre dondolava avanti e indietro.
Gli aveva accarezzato i capelli invitandolo a entrare, e più tardi aveva infilato i suoi vestiti in un sacco nero dell’immondizia che aveva gettato in un bidone dietro un albergo a parecchi isolati di distanza. Pistola e portafogli li aveva messi in un sacchetto del supermercato, ci aveva rovesciato fondi di caffè e avanzi di cibo, l’aveva chiuso e buttato in un cestino vicino alla fermata dell’autobus.
Non conservava souvenir.
Le luci arancioni della notte a occidente brillano e pulsano come lampi lontani, chissà dove sull’acqua, e Bilqis sa che tra poco ricomincerà a piovere. Sospira. Non vuole farsi sorprendere dalla pioggia. Tornerà a casa, decide, si farà un bagno e si depilerà le gambe — ha l’impressione di passare molto tempo a depilarsi le gambe con il rasoio — e dormirà.
Si avvia verso la sommità della collina dove ha parcheggiato la macchina.
Due fari si avvicinano, rallentano, lei gira la testa e sorride. Il sorriso si raggela quando vede che si tratta di una limousine bianca, di quelle lunghe. Gli uomini con le lunghe limousine bianche vogliono fottere sulle loro limousine bianche, non nell’intimità del tempio di Bilqis. Però potrebbe essere un investimento per il futuro.
Un finestrino dal vetro scuro viene abbassato e Bilqis si avvicina, sorridente. «Ciao, dolcezza» dice. «Hai bisogno di qualcosa?»
«Di tanto amore» risponde una voce dal fondo della macchina. Lei cerca di guardare dentro: una ragazza di sua conoscenza una notte è salita su una limousine di quel tipo con cinque giocatori di football ubriachi che l’hanno ridotta male, ma qui c’è un solo cliente e da quello che riesce a vedere dal finestrino sembra molto giovane. Non ha l’aria del probabile adoratore, però i soldi che passeranno dalle mani di lui alle sue sono pur sempre energia, a modo loro — baraka, la chiamavano tanto tempo fa — e di questi tempi, in cui ne girano pochi, le farebbero francamente comodo.
«Quanto?» chiede lui.
«Dipende da quello che vuoi e per quanto tempo. E se te lo puoi permettere.» Dal finestrino esce un odore di fili elettrici bruciati e circuiti surriscaldati. La portiera si apre.
«Posso permettermi tutto quello che voglio» dice il cliente. Lei si affaccia nell’abitacolo e da un’occhiata intorno. C’è soltanto lui, un ragazzino con le guance paffute che non sembra avere nemmeno l’età per comprarsi da bere. Siccome è solo, entra.
«Ricco, eh?» dice.
«Ricchissimo» risponde lui scivolando sul sedile di pelle per avvicinarsi. Si muove in modo strano. Lei sorride.
«Mmm. Questo mi eccita, tesoro» gli dice. «Devi essere uno di quei ricconi della new economy.»
Lui gongola, fa la ruota come un pavone. «Sì. Tra le altre cose. Sono un ragazzo tecnologico.» L’automobile riparte.
«Allora, Bilqis, quanto vuoi per un pompino?»
«Come mi hai chiamata?»
«Bilqis» ripete lui. E poi, con una voce del tutto inadeguata, si mette a cantare «You are an immaterial girl living in a material world.» Sembra preparato, come se si fosse esercitato davanti allo specchio.
Lei smette di sorridere, la sua faccia diventa quella di una donna saggia, più dura. «Cosa vuoi?»
«Te l’ho detto. Tanto amore.»
«Ti darò quello che vuoi» dice lei. Bilqis deve assolutamente uscire da quella limousine. Sta correndo troppo veloce perché possa buttarsi giù, ma è pronta a farlo se non la faranno scendere con le buone. Qualsiasi cosa stia succedendo lì dentro, non le piace.
«Quello che voglio. Sì.» Il ragazzo si interrompe per passarsi la lingua sulle labbra. «Voglio un mondo pulito. Voglio essere padrone del domani. Voglio l’evoluzione, la devoluzione, la rivoluzione. Voglio che la mia gente passi dalle zone periferiche alle luci della ribalta. Voi vivete nelle tenebre dei bassifondi. È sbagliato. Noi abbiamo bisogno di stare sotto le luci e brillare. Da ogni angolazione. Voi vivete nelle tenebre da tanto di quel tempo che non sapete più usare gli occhi.»
«Mi chiamo Ayesha» dice lei. «Non so di che cosa parli. Su quell’angolo c’è un’altra, Bilqis. Possiamo tornare sul Sunset, se vuoi ci puoi avere insieme…»
«Oh, Bilqis» dice lui con un sospiro teatrale. «La fede è limitata. Stanno arrivando al limite delle loro possibilità. Al buco di credibilità.» E poi ricomincia a cantare con la sua voce stonata e nasale. «You are an analog girl, living in a digital world». La limousine prende una curva troppo veloce e il ragazzo le cade addosso. L’autista è nascosto dietro un paio di occhiali scuri. Lei viene assalita dall’irrazionale certezza che non ci sia nessuno, al volante, che la limousine bianca stia attraversando Beverly Hills come Un Maggiolino tutto matto, che sia stregata.
Poi il cliente allunga una mano e batte sul finestrino scuro.
L’auto rallenta e prima che sia ferma del tutto Bilqis spalanca la portiera e un po’ saltando un po’ cadendo finisce sull’asfalto. È una strada in salita. Alla sua sinistra un ripido pendio, a destra un precipizio. Comincia a correre in discesa.
La limousine rimane ferma.
Comincia a piovere, i tacchi alti la fanno scivolare e prende una storta. Si libera delle scarpe e corre, fradicia di pioggia, cercando il modo di togliersi da lì. Ha paura. È dotata di poteri, è vero, ma si tratta di magia legata al desiderio e al sesso. L’hanno tenuta in vita in quella terra per tanto tempo, ma quanto al resto ha sempre dovuto usare occhi, cervello e presenza.
A destra, all’altezza delle ginocchia, c’è un guardrail di metallo per impedire alle macchine di cadere dal precipizio, adesso la pioggia sta trasformando la strada nel letto di un fiume, e a lei sanguinano le piante dei piedi.
Le luci di Los Angeles si estendono come la mappa intermittente di un regno immaginario, il paradiso in terra, e Bilqis sa che per mettersi in salvo deve lasciare la strada.
«Io son nera ma son bella» sussurra alla notte e alla pioggia. «Sono la rosa di Saron, il giglio delle valli. Fortificatemi con l’uva, sostentatemi con i pomi, perché io son malata d’amore.»
Un fulmine brucia verde nel cielo. Lei perde la presa e scivola per qualche metro escoriandosi una gamba e un gomito; si sta rialzando quando vede i fanali della limousine che si avvicinano. Scende pericolosamente troppo veloce; lei si chiede se sia meglio buttarsi a destra, dove potrebbe finire schiacciata contro il fianco della collina, o a sinistra, dove rischia di finire nel burrone. Attraversa di corsa determinata ad arrampicarsi quando la limousine bianca arriva sbandando, diavolo, deve fare almeno i centoventi all’ora, sembra un acquaplano, e lei affonda le mani nella terra, tra i cespugli, intenzionata a rialzarsi e scappare, quando la terra bagnata cede sotto il suo peso facendola ricadere sulla strada.
L’impatto con il corpo sfonda la griglia del radiatore e la lancia per aria come un burattino. Atterra accanto alla limousine e nella caduta si frattura pelvi e cranio. Sulla sua faccia scende la pioggia fredda.
Comincia a maledire il suo assassino: lo maledice in silenzio perché non può più muovere le labbra. Lo maledice per la veglia e il sonno, in vita e in morte. Lo maledice come soltanto una donna che è mezzo demone da parte di padre può maledire.
Si sente sbattere una portiera. Qualcuno si avvicina a Bilqis. «You are an analog girl» canta ancora stonato «living in a digital world.» E poi aggiunge: «Madonne di merda. Tutte madonne di merda». Si allontana.
La portiera sbatte di nuovo.
La limousine ingrana la retromarcia e le passa sopra, lentamente, una volta. Le ossa si frantumano sotto gli pneumatici. Poi la limousine ci ripassa sopra di nuovo.
Quando infine si allontana giù per la collina lascia dietro di sé soltanto il rosso ammasso di carne di una creatura difficilmente identificabile come umana, e presto anche quella macchia sarà lavata dalla pioggia.
Interludio numero due
«Ciao, Samantha.»
«Mags, sei tu?»
«E chi, sennò? Leon mi ha detto che zia Sammy ha telefonato mentre ero sotto la doccia.»
«Abbiamo fatto una bella chiacchierata. È un bambino così dolce.»
«Sì, piace anche a me.»
Seguì un momento di disagio per entrambe, un fruscio nella linea. Poi: «Sammy, come va l’università?».
«Abbiamo una settimana di vacanza per qualche problema alla caldaia. E come si sta nei North Woods?»
«Bene, ho un nuovo vicino. Fa giochi di prestigio con le monete. Attualmente nella rubrica della posta del "Lakeside News" c’è in corso un violento dibattito sulla ricollocazione del terreno vicino al cimitero, sulla sponda sudorientale del lago, e la qui presente ha scritto un energico editoriale in cui riassume la posizione del giornale senza offendere nessuno e in effetti senza far capire a nessuno da che parte stiamo.»
«Sembra divertente.»
«Non lo è. Alison MacGovern è scomparsa la settimana scorsa… la figlia maggiore di Jilly e Stan McGovern. Una brava ragazzina. Qualche volta veniva a fare la baby-sitter per Leon.»
La bocca si aprì per dire qualcosa ma si richiuse, lasciandolo in sospeso e aggiungendo invece: «È orribile».
«Sì.»
«Allora…» e siccome qualsiasi altro commento ferirebbe la sorella, dice: «È carino?».
«Chi?»
«Il vicino.»
«Si chiama Ainsel. Mike Ainsel. Non è male. Troppo giovane per me. Un uomo grande e grosso, sembra come si dice… comincia con la lettera M?»
«Malvagio? Musone? Magnifico? Marito?»
Una risata e poi: «Sì, ha un’aria sposata, credo. Voglio dire che se gli uomini sposati hanno un’aria particolare allora lui ce l’ha. Ma stavo pensando a Malinconico. Ha un’aria malinconica».
«E Misterioso?»
«Non particolarmente. Quando è arrivato sembrava un po’ imbranato, non sapeva neanche sigillare le finestre. Adesso sembra uno che non sa che cosa debba fare in questo posto. C’è per un po’, poi sparisce per lavoro. Ogni tanto lo vedo camminare nella zona.»
«Forse è un rapinatore di banche.»
«Già. Proprio quello che pensavo.»
«Non è vero. È stata un’idea mia. Senti, Mags, tu come stai? Te la cavi?»
«Sì.»
«Davvero?»
«No.»
Una lunga pausa, poi: «Vengo a trovarti».
«Sammy, non è necessario.»
«Prima che rimettano in funzione la caldaia e riapra l’università. Ci divertiremo. Puoi prepararmi il letto sul divano e invitare a cena il misterioso vicino.»
«Sam, vuoi combinare matrimoni?»
«Cosa dici? Dopo Claudine-la-puttana-venuta-dall’inferno forse sono di nuovo pronta per un uomo. Mentre facevo l’autostop fino a El Paso, a Natale, ho incontrato un ragazzo strano.»
«Oh. Senti, Sam, la devi smettere di fare l’autostop.»
«Secondo te come arrivo a Lakeside?»
«Alison McGovern faceva l’autostop. Non è sicuro nemmeno in una cittadina come questa. Prendi il Greyhound.»
«Me la cavo.»
«Sammy.»
«Va bene. Spediscimi i soldi, se la cosa ti farà dormire più tranquilla.»
«Certo che sì.»
«Va bene, sorellona prepotente. Abbraccia Leon da parte mia e digli che la zia viene a trovarlo ma questa volta non deve nasconderle i giocattoli nel letto.»
«Glielo dirò. Comunque non prometto che servirà a qualcosa. Quando pensi di arrivare?»
«Domani sera. Non venire a prendermi alla stazione, chiederò a Hinzelmann di darmi un passaggio con la sua Tessie.»
«Troppo tardi. Tessie è in naftalina per l’inverno. Comunque Hinzelmann ti accompagnerà lo stesso. Gli sei simpatica. Ascolti sempre le sue storie.»
«Magari potresti far scrivere a lui l’editoriale Vediamo "sulla riconversione dei terreni vicini al cimitero". Accadde che nell’inverno tal dei tali un giorno mio nonno sparò a un cervo vicino al cimitero. Finiti i proiettili usò i noccioli delle ciliege che gli aveva dato la nonna. I noccioli entrarono nel cranio del cervo senza ucciderlo. Due anni dopo, mentre si trovava da quelle parti, vide questo enorme maschio con un grande ciliegio ben ramificato tra le corna. Be’, gli sparò, e la nonna preparò tante di quelle torte di ciliege che ancora le mangiavano il quattro luglio dell’anno dopo…"»
E a quel punto le due sorelle risero insieme.
Interludio numero tre
Jacksonville, Florida, due di notte
«Sul cartello c’è scritto che avete bisogno di personale.»
«Ne abbiamo sempre bisogno.»
«Posso fare solo i turni di notte. Va bene, per lei?»
«Benone. Vado a prenderle il modulo da compilare. Ha mai lavorato a una pompa di benzina?»
«No, però non dovrebbe essere difficile.»
«Be’, di sicuro non è ingegneria spaziale. Sa signora, mi scusi se glielo dico ma non mi sembra molto in forma.»
«Lo so. E una malattia. Però sembra peggio di quello che è. Niente di pericoloso.»
«Okay. Mi lasci il modulo. Al momento per i turni di notte siamo a corto. Qui lo chiamano il turno degli zombie. Se se ne fanno troppi è così che ci si sente. Dunque com’è… Larna?»
«Laura.»
«Laura. Okay. Bene, spero che non le dispiaccia avere a che fare con i tipi strani. Perché di notte vengono tutti fuori.»
«Non ne dubito. Me la caverò.»
Ehi, vecchio amico.
Come dici, vecchio amico?
Tutto a posto, vecchio amico.
Dai fiato a una vecchia amicizia.
Perché così cupo?
Andiamo avanti per sempre.
Tu, io, lui
Ci sono troppe vite in gioco…
Sabato mattina. Shadow andò ad aprire la porta.
Era Marguerite Olsen. Non entrò, rimase sulla soglia, al sole, con un’aria seria. «Signor Ainsel…»
«Mike, per favore.»
«D’accordo, Mike. Ti piacerebbe venire a cena da noi, questa sera? Intorno alle sei? Non cucino niente di straordinario, spaghetti e polpette.»
«Mi piacciono gli spaghetti con le polpette.»
«Se non hai altri impegni, ovviamente…»
«Non ne ho.»
«Alle sei.»
«Porto dei fiori?»
«Come vuoi. È un invito tra vicini. Non una cena romantica.»
Shadow si infilò sotto la doccia. Andò a fare quattro passi fino al ponte. Il sole era alto, una monetina opaca nel cielo, e quando rientrò era sudato, sotto la giacca pesante. Poi prese la 4-Runner per andare da Dave’s Finest Food a comperare una bottiglia di vino. Ne scelse una che costava venti dollari, sperando che il prezzo fosse garanzia di qualità. Siccome non sapeva niente di vini, decise per un cabernet californiano perché una volta, quand’era giovane e la gente usava ancora coprire le automobili di adesivi, ne aveva visto uno con la scritta LA VITA È UN CABERNET che l’aveva fatto molto ridere.
Acquistò anche una pianta. Solo foglie, senza fiori. Non aveva niente di romantico, nemmeno vagamente.
Comperò un litro di latte che non avrebbe mai bevuto e un po’ di frutta che non avrebbe mai mangiato.
Infine passò da Mabel’s a prendere la sua pasty di pranzo. Mabel si illuminò, quando lo vide. «Ti ha trovato, Hinzelmann?»
«Non sapevo che mi stesse cercando.»
«Invece sì. Vuole portarti a pescare nel ghiaccio. E Chad Mulligan mi ha chiesto se ti avevo visto. È arrivata sua cugina da fuori. E una seconda cugina, tanto carina, ti piacerà» disse mentre infilava la pasty nel sacchetto di carta marrone chiudendolo bene perché non si disperdesse il calore.
Shadow fece tutta la strada fino a casa mangiando e guidando con una mano sola, con le briciole che gli cadevano sui pantaloni e sul pavimento della macchina. Superò la biblioteca sul lato meridionale del lago. La città, coperta di ghiaccio e neve, era tutta in bianco e nero. L’arrivo della primavera sembrava lontano al di là di ogni immaginazione e la bagnarola aveva l’aria di potersene restare parcheggiata per sempre sul ghiaccio, circondata dalle baracche dei pescatori, dai pickup e dalle tracce dei gatti delle nevi.
Raggiunto l’edificio dove abitava, parcheggiò, percorse il vialetto e i gradini di legno e fu davanti alla sua porta. I cardellini e i picchiotti appollaiati sul beccatoio non lo degnarono di un’occhiata. Entrò in casa. Bagnò la pianta e si domandò se mettere il vino in frigorifero.
Mancava ancora un sacco di tempo alle sei.
Shadow si rammaricò di non poter più guardare la televisione. Voleva essere intrattenuto senza pensare, voleva stare seduto e lasciarsi invadere da suoni e luci. Ehi, ti va di vedere le tette di Lucy? sussurrò nel ricordo una voce simile a quella dell’attrice; scosse la testa per dire di no, anche se non c’era nessuno a vederlo.
Si rese conto di essere nervoso. Quell’invito era la prima vera occasione sociale — con persone normali, non carcerati o dèi o eroi prodotti da chissà quale cultura o quale sogno — dal giorno del suo arresto, più di tre anni prima. Avrebbe dovuto fare conversazione nei panni di Mike Ainsel.
Guardò l’ora. Le due e mezzo. Marguerite Olsen gli aveva detto di presentarsi alle sei. Intendeva proprio le sei in punto? Oppure qualche minuto prima? O dopo? Alla fine decise che avrebbe suonato alla porta alle sei e cinque.
Squillò il telefono.
«Cosa c’è?» disse.
«Ti pare il modo di rispondere al telefono?» grugnì Wednesday.
«Quando il telefono sarà allacciato risponderò come si deve. Hai bisogno?»
«Non so.» Seguì una pausa, poi Wednesday disse: «Organizzare gli dèi è come mettere in fila un branco di gatti. Non ci sono portato». C’erano nella sua voce una rassegnazione e un senso di sfinimento che Shadow percepiva per la prima volta.
«C’è qualcosa che non va?»
«È dura. Troppo dura. Non so se funzionerà. Forse faremmo prima a tagliarci la gola. A tagliarcela e farla finita.»
«Non devi dire così.»
«Già. Hai ragione.»
«E se anche ti tagliassi la gola» disse Shadow nel tentativo di rallegrarlo, «probabilmente non sentiresti neanche male.»
«Farebbe male eccome. Il dolore è dolore anche per quelli come me. Se ti muovi e agisci nel mondo materiale il mondo materiale agisce su di te. Il dolore ti fa soffrire, esattamente come l’avidità intossica e la lussuria brucia. Magari non moriamo facilmente ed è più che certo che moriamo male, comunque moriamo. Se siamo ancora amati e ricordati qualcosa che ci assomiglia parecchio prende il nostro posto e tutta la stramaledetta storia ricomincia daccapo. Se veniamo dimenticati siamo finiti.»
Shadow non sapeva che cosa dire, perciò chiese: «Da dove telefoni?».
«Fatti i cazzi tuoi.»
«Sei ubriaco?»
«Non ancora. Continuo a pensare a Thor. Tu non l’hai conosciuto, Thor. Un omone grande e grosso come te. Cuore d’oro. Non troppo svelto di cervello ma capace di levarsi la camicia per dartela. E si è ucciso. Si è messo la canna di una pistola in bocca e nel 1932, a Philadelphia, si è fatto saltare le cervella. Che razza di modo di morire sarebbe, per un dio?»
«Mi dispiace.»
«Non te ne fotte niente, figliolo. Ti somigliava un casino. Grande e fesso.» Wednesday smise di parlare e tossì.
«C’è qualcosa che non va?» domandò Shadow per la seconda volta.
«Si sono messi in contatto.»
«Chi?»
«L’opposizione.»
«E allora?»
«Vogliono discutere i termini di una tregua. Fare un trattato di pace. Vivi e lascia vivere.»
«Allora che cosa succede, adesso?»
«Adesso vado a bere uno schifoso caffè con quelle teste di cazzo moderne nella Kansas City Masonic Hall.»
«Va bene. Vieni a prendermi tu o ti raggiungo io da qualche parte?»
«Tu resta dove sei e cerca di non dare nell’occhio. Non metterti nei guai. Mi hai capito?»
«Ma…»
Seguì un clic, e il collegamento si interruppe. Non c’era la linea, ma, del resto, non c’era mai stata.
Restava solo da far passare il tempo. Siccome la telefonata gli aveva lasciato un senso di inquietudine, Shadow si alzò con l’idea di andare a fare una passeggiata, ma la luce stava già morendo, quindi tornò a sedersi.
Prese il Minutes of the Lakeside City Council 1872-1884 e cominciò a sfogliarlo sforzandosi di decifrare il minuscolo carattere di stampa, senza leggere davvero, fermandosi solo qui e là quando qualcosa attirava la sua attenzione.
Apprese che nel luglio del 1874 il consiglio comunale era preoccupato per il numero di taglialegna itineranti che stavano arrivando in città. All’angolo tra la Terza Strada e Broadway doveva sorgere un teatro d’opera. Si prevedeva che le proteste scatenate dal progetto di costruzione della diga sul Mill Creek sarebbero cessate, una volta trasformato il bacino in lago. L’amministrazione autorizzò il pagamento di settanta dollari al signor Samuel Samuels, e di ottantacinque dollari al signor Heikki Salminen, per la cessione della terra e le spese di trasferimento dei loro domicili lontano dalla zona da inondare.
A Shadow non era mai venuto in mente che il lago fosse artificiale. Perché chiamare una città Lakeside se tutto era cominciato con una fetente gora? Continuando a leggere scoprì che responsabile del progetto di realizzazione del bacino era stato un certo Hinzelmann, originario di Hùdemuhlen, in Baviera, e che l’amministrazione comunale gli aveva concesso fondi per trecentosettanta dollari, con l’accordo che in caso di superamento del tetto massimo si sarebbe ricorsi a una sottoscrizione pubblica. Shadow strappò un pezzetto di carta da un tovagliolo e lo infilò nel libro. Immaginava già la faccia di Hinzelmann quando avrebbe visto il riferimento al nonno. Si chiese se il vecchio fosse al corrente del fatto che la sua famiglia era stata determinante per la creazione del lago. Sfogliò altre pagine in cerca di riferimenti al progetto.
La cerimonia di inaugurazione si era svolta nella primavera del 1876, come apertura dei festeggiamenti per il centenario della fondazione della città. L’amministrazione aveva espresso a Hinzelmann i ringraziamenti della cittadinanza.
Shadow guardò l’ora. Le cinque e mezzo. Andò in bagno, si fece la barba, si pettinò. Si cambiò. In un modo o nell’altro passò anche l’ultimo quarto d’ora. Afferrò la bottiglia e la pianta e si diresse dalla vicina.
La porta si aprì subito. Marguerite Olsen sembrava nervosa quanto lui. Prese la bottiglia di vino e il vaso e ringraziò. Il televisore era acceso, con una videocassetta del Mago di Oz. Era ancora nella fase color seppia, quando Dorothy è in Kansas, e siede a occhi chiusi nel carrozzone del professor Marvel mentre il vecchio imbroglione finge di leggere i suoi pensieri, e il vento che di lì a poco l’avrebbe strappata dalle sue abitudini si sta avvicinando. Leon, seduto davanti allo schermo, giocava con un’autocisterna dei pompieri. Vedendo Shadow si illuminò, tutto felice, si alzò e, inciampando per l’eccitazione, corse in camera sua, riemergendo subito dopo trionfante con una moneta da un quarto di dollaro.
«Guarda, Mike Ainsel!» gridò. Congiunse le mani e finse di prendere la moneta nella destra, spalancata. «L’ho fatta scomparire, Mike Ainsel!»
«È vero» ammise Shadow. «Dopo cena, se la mamma è d’accordo, ti faccio vedere come eseguire il trucco in un modo più naturale.»
«Fatelo pure adesso» disse Marguerite, «visto che dobbiamo aspettare Samantha. L’ho mandata a comprare un po’ di panna acida. Non so perché ci metta tanto.»
E come se quella battuta fosse stata il segnale per l’entrata in scena di Samantha, sul portico risuonarono dei passi e la porta venne spalancata con una spallata. Shadow non la riconobbe subito, poi lei disse: «Non sapevo se volevi il tipo con le calorie o quella che sa di colla per tappezzieri perciò ho preso quella con le calorie» e lui la riconobbe: era la ragazza a cui aveva dato un passaggio sulla strada per Cairo.
«Hai fatto bene» disse Marguerite. «Sam, questo è il nostro nuovo vicino, Mike Ainsel. Mike, questa è mia sorella Samantha Black Crow.»
Io non ti conosco, pensò Shadow con disperazione. Tu non mi hai mai visto. Siamo due perfetti estranei. Si sforzò di ricordare come aveva fatto a concentrarsi sulla neve, com’era stato facile: adesso la situazione era disperata. Tese la mano e disse: «Molto piacere».
Lei batté le palpebre, lo guardò meglio. Un attimo di perplessità, poi, riconoscendolo, cominciò a sorridere. «Ciao» disse.
«Devo controllare il forno» esclamò Marguerite con il tono nervoso di chi pensa che brucerebbe tutta la cena, assentandosi anche solo per un momento dalla cucina.
Sam si sfilò il piumino e il berretto. «E così saresti tu il vicino malinconico e misterioso» disse. «Chi l’avrebbe mai detto?» Aveva parlato a bassa voce.
«E tu» disse lui «sei Sam femmina. Possiamo parlarne in privato?»
«Solo se mi prometti che mi spiegherai cosa sta succedendo.»
«Promesso.»
Leon gli tirò una gamba dei pantaloni. «Me lo fai vedere adesso?» domandò, mostrandogli la moneta.
«D’accordo. Però ricorda che un grande mago non rivela a nessuno i suoi segreti.»
«Prometto» rispose Leon tutto serio.
Shadow prese la moneta con la sinistra e l’infilò nella destra del bambino mostrandogli in che modo si creava l’illusione di afferrarla mentre in realtà la si lasciava nell’altra mano. Poi gli fece ripetere il movimento da solo.
Dopo alcuni tentativi Leon riusciva a eseguirlo bene. «Adesso conosci metà del trucco» gli disse Shadow. «L’altra metà consiste nel concentrare e insieme attirare l’attenzione dove dovrebbe essere la moneta. Guarda. Se ti comporti come se fosse nella mano destra, nessuno baderà alla sinistra, anche se sei un po’ imbranato.»
Sam rimase a osservare la scena senza dire una parola.
«In tavola!» gridò Marguerite emergendo dalla cucina con una zuppiera di spaghetti fumanti. «Vai a lavarti le mani, Leon.»
C’era il pane croccante all’aglio, un’ottima salsa di pomodoro, le polpette piccanti. Shadow si complimentò con Marguerite per la cena.
«Una vecchia ricetta di famiglia» gli disse lei, «dalla parte còrsa.»
«Credevo che foste indiane.»
«Papà è cherokee» disse Sam. «Il nonno materno di Mag veniva dalla Corsica.» Sam era l’unica a bere il cabernet. «Papà ha lasciato la mamma di Mag quando lei aveva dieci anni ed è andato a vivere dall’altra parte della città. Sei mesi dopo sono nata io. Quando ha ottenuto il divorzio ha sposato mia madre e quando avevo dieci anni se n’è andato. Credo che un decennio sia il suo massimo di capacità di concentrazione.»
«Be’, sono dieci anni che è in Oklahoma» disse Marguerite.
«Invece nella mia famiglia materna erano ebrei dell’europa» continuò Sam, «venuti da uno di quei posti che fino a poco fa erano comunisti e adesso sono nel caos. Credo che alla mamma piacesse l’idea di sposare un cherokee, con tutto quel che ne consegue di etnico.» Bevve un altro sorso di vino rosso.
«La mamma di Sam è scatenata» aggiunse Marguerite con un tono che sembrava di approvazione.
«Sai dov’è, adesso?» chiese Sam. Shadow scosse la testa. «In Australia. Su Internet ha conosciuto un tizio che vive a Hobart. Quando si sono incontrati lo ha trovato disgustoso, però la Tasmania le è piaciuta molto e quindi adesso vive lì con un gruppo di donne, insegna a fare i batik e cose del genere. Non è forte, alla sua età?»
Shadow disse di sì e si servì altre polpette. Sam raccontò che gli inglesi avevano cercato di portare gli aborigeni della Tasmania all’estinzione e che quando avevano fatto una catena umana intorno all’isola per prendere i sopravvissuti in trappola c’erano finiti soltanto un vecchio e un bambino malato. Spiegò a Shadow che i tilacini, i lupi del deserto, erano stati tutti uccisi dai contadini preoccupati per le pecore, e che negli anni Trenta qualche uomo politico si era accorto che i tilacini andavano protetti, però ormai non ce n’era più mezzo. Finì il secondo bicchiere di vino e si versò il terzo.
«Allora» disse all’improvviso, con le guance arrossate, «parlaci della tua famiglia. Come sono, gli Ainsel?» Sorrideva con malizia.
«Siamo molto banali» rispose Shadow. «Nessuno di noi si è spinto fino in Tasmania. Dunque frequenti l’università di Madison… Come ti trovi?»
«Sai com’è» disse lei, «studio storia dell’arte, storia del movimento femminile e con ogni probabilità mi fondo da sola le mie sculture in bronzo.»
«Quando sarò grande farò le magie. Puf» disse Leon. «Mi insegni, Mike Ainsel?»
«Certo. Se alla mamma non dispiace.»
«Mags, dopo cena, mentre tu metti a letto Leon, mi faccio portare da Buck Stops Here per un’oretta» annunciò Sam.
Marguerite non rispose con l’alzata di spalle che ci si sarebbe aspettati. Girò la testa e sollevò un sopracciglio.
«Mike mi sembra un uomo interessante» continuò Sam. «E abbiamo un sacco di cose di cui parlare.»
Marguerite guardò Shadow, impegnato ad asciugare con un tovagliolo di carta una macchia immaginaria di pomodoro sul mento. «Be’, siete adulti» disse in un tono di voce che sottintendeva il contrario, oppure che, anche nel caso lo fossero davvero, non avrebbero dovuto essere considerati tali.
Dopo cena Shadow aiutò Sam in cucina, asciugando i piatti, e poi fece vedere un trucco a Leon contandogli i penny nella manina: ogni volta che il bambino apriva la mano e contava le monete ne trovava sempre una in meno del previsto. E l’ultimo penny — «Stringilo eh! Stringilo forte!» — quando Leon aprì la mano scoprì che era stato trasformato in una moneta da dieci centesimi. Gli strilli lamentosi di Leon «Ma come hai fatto? Mamma, ma come fa?» lo seguirono fin nel corridoio.
Sam gli diede il cappotto. «Vieni» disse. Il vino le aveva arrossato le guance.
Fuori era freddo.
Shadow si fermò a prendere il Minutes of the Lakeside City Council e a infilarlo in un sacchetto della spesa. Poteva darsi che giù al Buck ci fosse Hinzelmann, e voleva fargli vedere la pagina in cui si parlava di suo nonno.
Percorsero il vialetto fianco a fianco.
Lui aprì la porta del garage e lei cominciò a ridere. «Oddiosanto» esclamò vedendo la 4-Runner. «La macchina di Paul Gunther. L’hai comprata tu. Oddiosanto.»
Shadow le aprì la portiera, poi fece il giro e salì. «La conosci?»
«Sì, un paio d’anni fa, una volta che sono rimasta un po’ da Mags. Sono stata io a convincere Paul a dipingerla di rosso.»
«Ah. Fa piacere avere qualcuno con cui prendersela.»
Arrivato in strada scese per andare a chiudere il garage, poi tornò al volante. Sam lo guardò in modo strano, come se tutta la sua sicurezza stesse abbandonandola. Shadow allacciò la cintura e lei disse: «D’accordo. È stato stupido da parte mia, vero, salire in macchina con un assassino psicopatico?».
«L’altra volta sei arrivata sana e salva.»
«Hai ammazzato due uomini. Sei ricercato dall’Fbi. E adesso scopro che vivi sotto falso nome porta a porta con mia sorella. A meno che Mike Ainsel non sia il tuo vero nome.»
«No» rispose Shadow con un sospiro. «Non lo è.» Detestava ammetterlo, era come perdere qualcosa di importante, abbandonare Mike Ainsel negando di essere lui, era come dire addio a un amico.
«Li hai uccisi tu?»
«No.»
«Sono venuti a casa mia, hanno detto di averci visti insieme. E uno dei due mi ha mostrato una tua foto. Come si chiamava… Cappello? No, Città. Era come nel Fuggitivo. Io ho risposto che non ti avevo mai visto.»
«Grazie.»
«Perciò dimmi che cosa sta succedendo. Mantengo il segreto, se tu mantieni il mio.»
«Non conosco nessun segreto che ti riguardi.»
«Be’, sai che l’idea di dipingere questa macchina di rosso è stata mia, e quindi sono colpevole di aver condannato Paul Gunther a diventare oggetto di derisione e disprezzo da parte di tutta la zona, costringendolo a lasciare la città per sempre. Credo che fossimo piuttosto fumati» ammise.
«Dubito che sia un grande segreto» disse lui. «A Lakeside lo sapranno tutti. È una tonalità di rosso da strafatti.»
E poi, molto in fretta, e a voce molto bassa, lei disse: «Se vuoi uccidermi ti prego di non farmi soffrire. Non dovevo venire in macchina con te. Sono così cogliona, cazzo. Ti posso identificare. Merda».
Shadow sospirò. «Non ho mai ucciso nessuno. Davvero. Adesso andiamo al bar e beviamo qualcosa. Oppure, a un tuo ordine, faccio inversione e ti riporto a casa. In un caso o nell’altro spero che non chiamerai la polizia.»
Attraversarono il ponte in assoluto silenzio.
«Chi ha ucciso quei due?»
«Se te lo dicessi non mi crederesti.»
«Ti crederò.» Adesso sembrava arrabbiata. Shadow si domandò se portare la bottiglia di vino a cena fosse stata una buona idea. Certo in quel momento la vita non era un cabernet.
«Non sarà facile.»
«Io posso credere a qualsiasi cosa. Non hai idea di quello che riesco a credere.»
«Ah sì?»
«Credo in cose reali e in altre che non lo sono e credo in altre cose ancora che nessuno sa se sono reali o no. Credo in Babbo Natale e nel coniglietto di Pasqua e in Marilyn Monroe e nei Beatles, in Elvis e Mister Ed. Guarda… credo che gli uomini siano esseri perfettibili, che il sapere sia infinito, che il mondo sia nelle mani di un cartello bancario segreto e che gli alieni vengano a trovarci regolarmente, alieni bravi e tutti rugosi che assomigliano ai lemuri e alieni cattivi che mutilano il bestiame e vogliono rubarci l’acqua e le donne. Credo che il futuro sia preoccupante e che un giorno la Donna-Bufalo-Bianco tornerà a prenderci tutti a calci nel sedere. Credo che gli uomini siano soltanto bambini troppo cresciuti con gravi problemi di comunicazione e che il declino del sesso in America coincida con la chiusura dei drive-in. Credo che gli uomini politici siano dei disonesti senza principi e credo che siano comunque preferibili all’alternativa. Credo che quando verrà il grande terremoto la California affonderà nell’oceano, mentre la Florida si dissolverà, inghiottita dalla follia, dagli alligatori e dalle scorie tossiche. Credo che il sapone antibatterico stia distruggendo la nostra capacità di resistenza alla sporcizia e alle malattie e che quindi un giorno verremo tutti annientati da un banale raffreddore come i marziani nella Guerra dei Mondi. Credo che i più grandi poeti del secolo scorso siano Edith Sitwell e Don Marquis e che la giada sia sperma di drago secco, e che migliaia di anni fa, in una vita precedente, sono stata una sciamana siberiana monca. Credo che il destino dell’umanità sia scritto nelle stelle. Credo che le caramelle fossero davvero più buone quand’ero piccola, che da un punto di vista aerodinamico per il bombo sia impossibile volare, che la luce sia un’onda e una particella e che da qualche parte ci sia un gattino chiuso dentro una scatola vivo e morto allo stesso tempo (ma che se non si sbrigano ad aprire la scatola e a dargli da mangiare finirà per essere morto e basta) e che nell’universo ci siano stelle miliardi di anni più vecchie dell’universo stesso. Credo in un dio tutto mio che si preoccupa per me e protegge tutte le mie azioni. Credo in un dio impersonale che ha messo in moto l’universo e poi è andato a spassarsela e non sa nemmeno che esisto. Credo in un universo privo di dèi mosso da caos, rumore di fondo e una grande fortuna. Credo che tutti quelli che dicono che il sesso sia un’attività sopravvalutata non l’hanno mai fatto come si deve. Credo che chiunque sostienga di sapere come va il mondo sia capace di mentire anche sulle piccole cose. Credo nell’onestà assoluta e nella necessità di ragionevoli menzogne sociali. Credo nel diritto delle donne di scegliere, nel diritto di un bambino di vivere, che se ogni vita umana è sacra non c’è niente di male nella pena di morte, sempre che sia possibile fidarsi del sistema legale, e che solo uno scemo si fiderebbe. Credo che la vita sia un gioco, uno scherzo crudele, e che sia quella cosa che ti capita quando sei vivo, quindi tanto vale godersela.» Si fermò, senza fiato.
Shadow fu tentato di staccare le mani dal volante per applaudire. Invece disse: «Va bene. Allora se ti racconto quello che ho scoperto non penserai che sono matto da legare».
«Può darsi. Prova.»
«Ci crederesti se ti dicessi che tutti gli dèi immaginati sono ancora con noi?»
«… Può darsi.»
«E che nel mondo ci sono dèi nuovi, dèi dei computer e dei telefoni e cose così, e che tutti sembrano credere che non ci sia posto per entrambe le categorie. E che molto probabilmente scoppierà una specie di guerra.»
«Sono stati questi dèi a uccidere i due uomini?»
«No, li ha uccisi mia moglie.»
«Mi pareva che avessi detto che tua moglie era morta.»
«Infatti.»
«Allora li ha uccisi prima di morire?»
«Dopo. Non chiedermi di più.»
Sam alzò una mano e allontanò i capelli dalla fronte.
Si fermarono davanti al Buck Stops Here, sulla Main Street. Nell’insegna sul vetro c’era un cervo con l’aria stupita che, ritto sulle zampe posteriori, teneva tra quelle anteriori un boccale di birra. Shadow afferrò il sacchetto con il libro e scese dalla macchina.
«Perché devono farsi la guerra?» domandò lei. «Sembra superfluo. Che cosa c’è in palio?»
«Non lo so.»
«È più facile credere nell’esistenza degli alieni. Magari Town e Come Cavolo Si Chiama erano Uomini Neri di tipo alieno.»
Erano in piedi sul marciapiede davanti al bar. Sam smise di parlare e guardò Shadow mentre il suo respiro rimaneva sospeso nell’aria come una pallida nuvoletta. «Dimmi solo che sei dalla parte giusta.»
«Non posso» rispose lui. «Mi piacerebbe ma… sto facendo del mio meglio.»
Sam, senza smettere di guardarlo, si morse il labbro inferiore. Poi annuì. «Mi basta» disse. «Non ti denuncerò. Puoi offrirmi una birra.»
Shadow le aprì la porta e furono assaliti da un’ondata di caldo e musica. Entrarono.
Sam si avvicinò a salutare gli amici. Shadow fece un cenno ad alcune persone le cui facce — ma non i loro nomi — ricordava dal giorno delle ricerche di Alison McGovern, o che aveva incontrato da Mabel’s di mattina. Chad Mulligan era in piedi al banco, con un braccio intorno alle spalle di una donna con i capelli rossi, piccolina, la cugina probabilmente; Shadow si chiese che aspetto avesse, però al momento lei gli dava la schiena. Vedendolo, Chad alzò la mano in un cenno di saluto scherzoso. Shadow gli sorrise e ricambiò, poi si guardò intorno per cercare Hinzelmann, ma il vecchio non sembrava nei paraggi. Individuò un tavolino libero in fondo e partì.
A quel punto qualcuno cominciò a gridare.
Un urlo orribile, sguaiato, tipo ho-visto-un-fantasma, un urlo isterico che interruppe di colpo ogni conversazione nel locale. Shadow si voltò, sicuro che stessero uccidendo qualcuno, poi si rese conto che invece stavano tutti guardando lui. Perfino il gatto nero, che durante il giorno dormiva sul davanzale, era in cima al jukebox con la coda ritta e la schiena a gobba e lo stava fissando.
Il tempo rallentò la sua corsa.
«Prendetelo!» strillò una voce femminile molto prossima all’isteria. «Oh, per amor del Cielo, qualcuno lo fermi! Non fatelo scappare! Vi prego!» Shadow la conosceva.
Nessuno si mosse. Lo fissavano. E lui fissava loro.
Chad Mulligan si avvicinò passando in mezzo ai clienti del locale. La donna piccolina lo seguiva con aria circospetta, gli occhi sbarrati come se si stesse preparando a urlare daccapo. Shadow la conosceva. Eccome.
Chad teneva ancora in mano il bicchiere di birra, che appoggiò sul tavolo più vicino. «Mike» disse.
«Chad» ribatté lui.
Audrey Burton afferrò una manica di Chad. Era pallidissima e aveva gli occhi gonfi di lacrime. «Shadow» disse, «brutto bastardo. Schifoso bastardo assassino.»
«Sei sicura di conoscere quest’uomo, cara?» chiese Chad. Sembrava a disagio.
Audrey Burton lo guardò incredula. «Ma sei matto? Ha lavorato per anni con Robbie. Quella troia di sua moglie era la mia migliore amica. È ricercato per omicidio. Sono venuti a interrogarmi. È un evaso.» Aveva perso completamente il controllo, tremava e singhiozzava cercando di dominare i nervi come l’attrice di una telenovela decisa a vincere l’Oscar per l’interpretazione più melodrammatica dell’anno. La cugina in carne e ossa, pensò Shadow, per niente colpito dall’esibizione.
Nessuno disse niente. Chad Mulligan lo guardava. «Probabilmente si tratta di un errore. Sono certo che riusciremo a chiarire tutto» disse. Poi, rivolto ai presenti: «Va tutto bene. Non preoccupatevi. Adesso risolviamo la questione. È tutto a posto». Rivolto a Shadow aggiunse: «Usciamo, Mike». Con calma e competenza. Shadow ne fu molto colpito.
«Certo» disse.
Si sentì sfiorare una mano e quando si girò vide che Sam lo guardava. Le sorrise nel modo più rassicurante possibile.
Lei guardò Shadow e le facce di tutti quelli che lo fissavano e poi si rivolse a Audrey Burton: «Io non ti conosco. Ma. Tu. Sei. Una. Stronza». Poi si alzò sulle punte, attirò Shadow a sé e lo baciò con trasporto, un bacio che a lui sembrò durare parecchi minuti, anche se in tempo reale potevano essere solo pochi secondi.
Uno strano bacio, pensò Shadow, con le labbra contro quelle di lei: non rivolto a lui ma alla gente nel bar, per far sapere a tutti che stava dalla sua parte. Era un bacio-dichiarazione d’intenti. Anche mentre lo baciava, lui era certo di non piacerle nemmeno, perlomeno non in quel modo.
Però gli tornò in mente una storia che aveva letto da bambino, tanto tempo prima: la storia di un viandante scivolato lungo un dirupo. Sopra c’erano le tigri mangiatrici d’uomini, e sotto il baratro fatale. L’uomo, aggrappato a un appiglio, si guarda intorno: lì accanto ci sono delle fragole, la morte lo attende in alto e in basso. Cosa deve fare? chiedeva l’indovinello.
E la risposta era: Mangiare le fragole.
Quand’era bambino gli era sembrata una storia senza senso. Adesso invece la capiva. Perciò chiuse gli occhi e si abbandonò al bacio dimenticando tutto eccetto le labbra di Sam e la morbidezza della sua pelle, dolce come una fragolina di bosco.
«Andiamo» lo esortò con fermezza Chad Mulligan. «Andiamo a parlarne fuori.»
Sam si ritrasse. Si passò la lingua sulle labbra e sorrise, un sorriso che quasi coinvolse anche gli occhi. «Non male» disse. «Baci bene per essere un maschio. D’accordo, andate a giocare fuori.» Poi si rivolse di nuovo a Audrey Burton: «Ma tu resti una grande stronza».
Shadow le lanciò le chiavi della macchina e Sam le prese al volo con una mano sola. Lui attraversò il locale e uscì seguito da Mulligan. Aveva cominciato a nevicare, fiocchi delicati che scendevano a spirale nella luce dell’insegna al neon. «Hai qualcosa da dirmi?» gli chiese il poliziotto.
Audrey li aveva seguiti fuori con l’aria di potersi rimettere a strillare da un momento all’altro. «Ha ucciso due uomini, Chad. Quelli dell’Fbi sono venuti a casa mia. È uno psicopatico. Vengo con te alla centrale, se vuoi.»
«Signora, lei ha già creato abbastanza guai» disse Shadow con una voce che risuonava stanca perfino alle sue stesse orecchie. «Se ne vada, per favore.»
«Hai sentito, Chad? Mi ha minacciato!»
«Torna dentro, Audrey» le disse Mulligan. Lei fu sul punto di obiettare, poi strinse le labbra con tanta forza da farle diventare bianche e rientrò nel bar.
«Vuoi dire qualcosa a proposito delle dichiarazioni di Audrey?»
«Non ho ucciso nessuno» rispose Shadow.
Chad annuì. «Ti credo. Sono sicuro che riusciremo a venirne a capo facilmente. Non mi vuoi creare dei problemi, vero, Mike?»
«No. È tutto un equivoco.»
«Esattamente» ribatté il poliziotto. «Quindi penso che la cosa migliore sia andare da me in ufficio e chiarire quello che c’è da chiarire.»
«Sono in arresto?»
«No. A meno che tu non voglia essere arrestato. Direi che potresti seguirmi per senso civico e insieme vedremo di capirci qualcosa.»
Chad lo perquisì e non gli trovò addosso armi. Salirono sulla macchina della polizia. Shadow dietro, ancora una volta, separato dalla barriera di metallo, sos pensò. Mayday. Aiuto. Cercò di influenzare la mente dell’altro, come aveva fatto una volta con un poliziotto a Chicago: Sono il tuo vecchio amico, Mike Ainsel. Mi hai salvato la vita. Non ti rendi conto che è un’assurdità? Perché non lasci perdere?
«Mi sembrava fondamentale tirarti fuori di lì» disse Chad. «Ci mancava che qualche trombone si mettesse a dire che Alison McGovern l’hai uccisa tu e ci ritrovavamo con un bel linciaggio da gestire.»
«Giusto.»
Restarono in silenzio per tutto il tragitto fino al comando di polizia che in realtà, spiegò Chad mentre parcheggiava, apparteneva al dipartimento dello sceriffo della contea. Loro ne occupavano poche stanze. La contea doveva far costruire entro breve qualcosa di più moderno, ma per il momento dovevano accontentarsi.
Entrarono.
«Devo chiamare un avvocato?» chiese Shadow.
«Non sei accusato di niente. Decidi tu.» Superarono alcune porte a vento. «Siediti là.»
Shadow si accomodò su una sedia di legno coperta di bruciature di sigaretta. Sì sentiva stupido, e stordito. Sulla bacheca degli annunci, accanto al cartello VIETATO FUMARE, c’era un piccolo manifesto con la scritta: CHI L’HA VISTA? La fotografia era quella di Alison McGovern.
C’era un tavolo di legno con qualche vecchia copia di "Sports IIlustrated" e "Newsweek". L’illuminazione era scarsa. Le pareti gialle in origine dovevano essere state bianche.
Dopo una decina di minuti Chad gli portò una cioccolata acquosa presa dal distributore automatico. «Cos’hai nel sacchetto?» chiese. E solo allora Shadow si accorse di stringere ancora la borsa di plastica con il Minutes of the Lakeside City Council.
«Un vecchio libro» disse. «C’è il ritratto di tuo nonno. O forse bisnonno.»
«Davvero?»
Shadow sfogliò le pagine e trovò il ritratto dei consiglieri comunali; indicò l’uomo che si chiamava Mulligan. Chad ridacchiò. «Roba da matti» esclamò.
Passarono i minuti e le ore, con lui chiuso in quella stanza. Lesse due numeri di "Sports Illustrated" e attaccò una copia di "Newsweek". Di tanto in tanto Chad veniva a chiedergli se aveva bisogno di andare al bagno, una volta gli offrì un panino al prosciutto e un sacchetto di patatine.
«Grazie. Sono in arresto, adesso?»
Mulligan strinse i denti e inspirò. «Be’, non ancora. A quanto pare non ti chiami veramente Mike Ainsel, però in questo stato uno può farsi chiamare come vuole, se non ha scopi illegali. Diciamo che sei in stato di fermo.»
«Posso fare una telefonata?»
«Urbana?»
«No.»
«Se usiamo la mia carta telefonica ti costerà meno, perché il telefono pubblico nell’ingresso si succhia dieci dollari come niente.»
Certo, pensò Shadow. Così saprai che numero ho chiamato e probabilmente ascolterai la telefonata da una derivazione.
«Molto gentile» disse. Entrarono in un ufficio deserto. Shadow diede a Chad il numero: era quello di un’impresa di pompe funebri di Cairo, Illinois. Chad lo compose e porse a Shadow il ricevitore. «Ti lascio da solo» disse e uscì.
Il telefonò suonò libero alcune volte, prima che qualcuno rispondesse.
«Jacquel Ibis. Dica, prego.»
«Buonasera, signor Ibis. Sono Mike Ainsel. A Natale ho lavorato qualche giorno da voi.»
Un momento di esitazione, poi: «Certamente, Mike. Come stai?».
«Non troppo bene, signor Ibis. Sono in un brutto guaio. Sto per essere arrestato. Speravo che lei avesse visto mio zio nei dintorni, o che magari potesse fargli avere un messaggio.»
«Posso sicuramente chiedere in giro. Aspetta in linea, Mike. C’è qui qualcuno che ti vorrebbe parlare.»
Il telefono venne passato a qualcuno e una voce di donna, roca, disse: «Ciao, bello. Ho sentito la tua mancanza».
Shadow era sicuro di non riconoscere la voce. Però sapeva chi era la donna. Non aveva dubbi…
Lascia che sia, gli sussurrò la voce roca nella mente, in un sogno. Abbandonati a me.
«Chi era la ragazza che stavi baciando, bello? Vuoi farmi ingelosire?»
«Siamo soltanto amici» rispose lui. «Credo che volesse dimostrare qualcosa. Come fai a sapere che mi ha baciato?»
«Ovunque vada la mia gente, là io ho occhi e orecchi» disse lei. «Sta’ attento, bello…» Seguì un momento di silenzio, poi all’apparecchio tornò il signor Ibis. «Mike?»
«Sì.»
«C’è qualche difficoltà a rintracciare tuo zio. Sembra impossibilitato a muoversi. Comunque cercherò di far arrivare un messaggio a Nancy. Buona fortuna.» Riattaccò.
Shadow sedette ad aspettare il ritorno di Chad nell’ufficio vuoto, rimpiangendo che non ci fosse niente a distrarlo. Con riluttanza riprese in mano il Minutes, lo aprì a caso e cominciò a leggere.
Un’ordinanza presentata e approvata con otto voti contro quattro nel dicembre del 1876 proibiva di sputare e di gettare tabacco sui marciapiedi e sul pavimento dei luoghi pubblici.
Il 13 dicembre 1876 Lemmi Hautala, dodici anni, "era fuggita, si temeva, in preda a un delirio. Le ricerche erano scattate subito ma la tormenta di neve le aveva fatte sospendere". Il consiglio comunale aveva votato all’unanimità una mozione per inviare le condoglianze alla famiglia.
L’incendio scoppiato nelle stalle e nelle scuderie Olsen la settimana successiva era stato spento senza danni per uomini e cavalli.
Shadow cercò nelle colonne di testo fitto e molto piccolo ma non trovò altre notizie su Lemmi Hautala.
E poi, mosso non soltanto dal capriccio, andò a vedere le pagine che riguardavano l’inverno del 1877 e trovò ciò che cercava. Era un appunto nei verbali di gennaio: Jessie Lovat, di età imprecisata, una "bambina negra", era scomparsa la notte del 28 dicembre. Si riteneva che fosse stata "rapita dai cosiddetti venditori ambulanti". Alla famiglia Lovat non erano state mandate le condoglianze dell’amministrazione.
Shadow stava studiando i verbali dell’inverno 1878 quando Chad Mulligan entrò, dopo aver bussato, con l’aria di un bambino che torni a casa con una pagella piena di brutti voti.
«Ainsel» disse. «Mike. Sono desolato. Personalmente mi piaci. Però questo non cambia le cose, capisci?»
Shadow rispose che capiva.
«Non posso far altro che arrestarti per violazione della libertà vigilata.» Gli lesse i suoi diritti, riempì alcuni moduli, gli prese le impronte digitali e lo accompagnò lungo il corridoio, fino al gruppo di celle che si trovavano dall’altra parte dell’edificio.
C’era un lungo banco, alcune porte su un lato della stanza, due celle e un’altra porta. Una delle celle era occupata da un uomo che dormiva sul pavimento di cemento sotto una coperta sottile. L’altra era vuota.
Dietro il banco una donna dall’aria assonnata con un’uniforme marrone guardava Jay Leno su un piccolo televisore portatile bianco. Lesse i documenti e firmò. Chad si trattenne a riempire altre carte. La donna venne da questa parte del banco, perquisì Shadow, gli prese tutto — portafogli, monete, chiavi, libro, orologio — e l’appoggiò sul banco, poi gli diede un sacchetto di plastica che conteneva la divisa arancione e gli disse di andare a cambiarsi nella cella aperta. Poteva tenersi i calzini e la biancheria intima. Shadow entrò nello stanzino, indossò la divisa carceraria e le pantofole. C’era una puzza tremenda. La casacca arancione che infilò dalla testa aveva sulla schiena una scritta a grandi lettere nere: LUMBER COUNTY JAIL.
Il gabinetto intasato era pieno fino all’orlo di un liquame scuro, feci liquide e piscio acre di bevitori di birra.
Quando uscì diede i suoi indumenti alla donna che li infilò in un sacco di plastica con tutti i suoi averi. Prima di consegnarle il portafogli le disse: «C’è tutta la mia vita, qui dentro». La donna lo prese e lo tranquillizzò dicendo che sarebbe stato al sicuro. Chiese a Chad di confermare e il poliziotto, alzando la testa dall’ultimo foglio, rispose che Liz diceva la verità, non avevano mai perso niente di proprietà dei detenuti.
Shadow era riuscito a nascondere nei calzini le quattro banconote da cento dollari che aveva sfilato dal portafogli, insieme al dollaro d’argento fatto sparire mentre si svuotava le tasche.
«Senti» disse uscendo dalla cella dove si era cambiato, «non potrei finire di leggere il libro?»
«Mi dispiace, Mike, le regole sono regole» rispose Chad.
Liz andò a riporre gli effetti personali di Shadow in uno sgabuzzino e Chad lo salutò dicendo che lo affidava all’ottimo agente Bute. Liz lo guardò con l’aria stanca, per niente lusingata. Chad uscì. Squillò il telefono e Liz — l’agente Bute — rispose. «Okay» disse. «Okay. Nessun problema. Okay. Nessun problema. Okay.» Riagganciò il ricevitore facendo una smorfia.
«Qualche problema?»
«Sì. Be’, non proprio. Una specie. Mandano qualcuno a prenderti da Milwaukee.»
«Perché dovrebbe essere un problema?»
«Perché devo tenerti qui dentro per tre ore con me» rispose la donna. «E quella cella» — indicò la più vicina alla porta, con l’uomo che dormiva sul pavimento — «è occupata. Il fermato è sotto controllo perché ha tentato il suicidio. Non posso metterti con lui. Però per tre ore non vale la pena di portarti nella prigione della contea.» Scosse la testa. «E non puoi certo stare lì dentro» — questa volta indicò la cella dove si era cambiato — «perché il cesso è rotto. La puzza è tremenda, vero?»
«Sì, insopportabile.»
«Lo farei per chiunque. Non vedo l’ora di andare nella nuova sede. Ieri abbiamo avuto una donna in quella cella, deve aver buttato dentro un assorbente. Le avverto sempre: ci sono i contenitori appositi. Gli assorbenti intasano lo scarico. Ogni stramaledetto assorbente giù per quel cesso costa alla contea cento dollari di idraulico. Quindi ti posso tenere qui con me ma devo metterti le manette. Oppure te ne stai nella cella puzzolente.» Lo guardò. «Scegli tu.»
«Sceglierò le manette, anche se non mi piacciono.»
L’agente Bute ne staccò un paio dalla cintura e batté una mano sulla fondina, come per ricordargli che era armata. «Metti le mani dietro la schiena.»
Le manette stringevano, Shadow aveva i polsi grandi. Poi gli mise i ceppi alle caviglie e lo fece sedere su una panca all’altra estremità del banco, contro il muro. «Adesso» disse, «se tu non dai fastidio a me io lascio tranquillo te.» Girò il televisore in modo che potesse vederlo anche lui.
«Grazie.»
«Quando avremo gli uffici nuovi» spiegò l’agente Bute «questi casini non succederanno più.»
Il Tonight Show terminò e cominciò un episodio di Cheers. Shadow non aveva l’abitudine di guardarlo, ma la puntata in cui la figlia di Coach arriva al bar l’aveva vista molte volte. Secondo lui si finisce per vedere sempre lo spesso episodio dei programmi che uno non segue, anno dopo anno; doveva essere una specie di legge cosmica.
L’agente Liz Bute si assopì davanti allo schermo. Non era profondamente addormentata, ma nemmeno sveglia, quindi non si accorse che a un certo punto i personaggi di Cheers avevano smesso di recitare le loro battute per mettersi a fissare Shadow.
Diane, la barista bionda che si crede un’intellettuale, fu la prima a rivolgergli la parola. «Shadow» disse, «eravamo così preoccupati per te. Sei scomparso dalla circolazione. Mi fa tanto piacere vederti, anche se in ceppi e couture penitenziaria.»
«Quello che dovresti fare, secondo me» pontificò quel seccatore di Cliff, «è di evadere durante la stagione della caccia, quando si vestono tutti d’arancione.»
Shadow rimase in silenzio.
«Ah, il gatto ti ha mangiato la lingua, a quanto pare» disse Diane. «Be’, ci hai fatto fare proprio un bell’inseguimento!»
Shadow distolse lo sguardo. L’agente Liz aveva cominciato a russare debolmente. La cameriera Carla sbottò: «Ehi, stronzo! Abbiamo interrotto la puntata per farti vedere qualcosa che te la farà fare addosso. Sei pronto?».
L’immagine vacillò e lo schermo diventò nero. La parola DIRETTA pulsava in bianco nell’angolo in basso a sinistra. Una sommessa voce femminile fuori quadro disse: «Non è ancora tardi per passare dalla parte dei vincitori. Comunque sei libero di restare dove sei. Essere americano significa poter scegliere. Questo è il miracolo americano. Libertà di fede significa essere liberi di credere nella cosa sbagliata, in fondo. Esattamente come la libertà di parola ti dà il diritto di tacere».
Adesso sullo schermo si vedeva l’immagine di una strada. La telecamera avanzò a sobbalzi come in un documentario girato con una cinepresa a spalla.
Un uomo con i capelli radi, l’abbronzatura e l’aria avvilita, riempì lo schermo. Era in piedi accanto a un muro e sorseggiava caffè da un bicchiere di plastica. Guardò in macchina e disse: «I terroristi si nascondono dietro definizioni astute come "combattenti per la libertà". Voi e io sappiamo che sono soltanto una banda di assassini».
Shadow riconobbe la voce. Una volta era stato dentro la testa di quell’uomo. Anche se dall’interno la voce del signor Town gli era sembrata diversa — più profonda, con più risonanza — era certo di non sbagliarsi.
Le telecamere si allontanarono mostrando Town davanti a un edificio di mattoni in una strada americana. Sopra la porta c’era un’insegna: una squadra a triangolo e un compasso intorno alla lettera G.
«Posizione» disse una voce fuori campo.
«Vediamo se dentro stanno girando» ribatté la voce femminile fuori quadro.
La parola DIRETTA continuava a lampeggiare nell’angolo sinistro dello schermo. Adesso si vedeva una piccola sala male illuminata. In fondo c’era un tavolo con due uomini seduti. Uno dei due dava la schiena alla telecamera che all’improvviso fece una strana zoomata. Per un momento i due andarono fuori fuoco, poi vennero ripresi in un’inquadratura perfetta. L’uomo che guardava in macchina si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro come un orso in gabbia. Era Wednesday. In un certo senso sembrava che si stesse divertendo. Quando vennero inquadrati entrò, con un pop, anche il sonoro.
L’uomo che dava la schiena alla telecamera stava dicendo «… stiamo offrendo è la possibilità di mettere fine a questa storia seduta stante, senza ulteriore spargimento di sangue, senza altre violenze, altre sofferenze, altre vite sprecate. Non merita forse qualche concessione?»
Wednesday si fermò e si voltò. Aveva le narici dilatate dall’ira. «Prima di tutto» ruggì «voi dovete capire che mi state chiedendo di parlare a nome degli altri, il che è palesemente irragionevole. E poi cosa diavolo ti fa pensare che io creda alla tua parola?»
L’uomo che dava le spalle alla telecamera mosse la testa. «Fai un torto a te stesso» disse. «È ovvio che non avete capi. Però i tuoi ascoltano te. Ti danno retta. E in quanto al fatto che io mantenga o meno la mia parola, queste trattative preliminari sono filmate e trasmesse in diretta.» Indicò la telecamera. «Qualcuno dei tuoi in questo momento ci sta guardando. Altri vedranno le videocassette. La telecamera non mente.»
«Tutti e tutto mentono» rispose Wednesday.
Shadow riconobbe la voce dell’uomo che dava le spalle alla macchina. Era il signor World, quello che aveva parlato con Town al cellulare mentre Shadow era nella testa di Town.
«Tu non credi» disse World «che manterremo la nostra parola?»
«Io credo che le vostre promesse siano fatte per non essere mantenute e i vostri giuramenti per essere rinnegati. Invece io ho una parola sola.»
«Un salvacondotto è un salvacondotto» disse World, «e abbiamo concordato una tregua. A proposito, devo dirti che il tuo giovane protégé è di nuovo nelle nostre mani.»
Wednesday sbuffò. «No» disse. «Non è vero.»
«Stavamo parlando di come affrontare l’imminente cambio di paradigma. Non dobbiamo essere necessariamente nemici. Non credi?»
Wednesday sembrava turbato. Disse: «Farò qualsiasi cosa in mio potere per…».
Shadow notò qualcosa di strano nell’immagine di Wednesday. Un puntino rosso nell’occhio sinistro, quello di vetro. Muovendosi il puntino lasciava un’aura fosforescente. Lui non sembrava rendersene conto.»
«È un grande paese» disse Wednesday con l’aria di chi si sforzi di mettere ordine nei propri pensieri. Mosse la testa e il puntolino rosso del laser scivolò sulla guancia. Poi ritornò sull’occhio. «C’è spazio per…»
Si sentì un bang, attutito dagli altoparlanti del televisore, e la metà sinistra della testa di Wednesday esplose. Il suo corpo ricadde all’indietro con un tonfo.
World si alzò, sempre dando la schiena alla macchina, e uscì dall’inquadratura.
«Rivediamo la scena al rallentatore» disse in tono rassicurante la voce dell’annunciatrice.
La parola DIRETTA venne sostituita da REPLAY. Molto lentamente il pallino rosso centrò l’occhio di vetro e ancora una volta metà della faccia di Wednesday si dissolse in una nuvola di sangue. Ci fu un fermo immagine.
«Sì, è ancora la Terra di Dio» disse l’annunciatore, lo speaker del telegiornale incaricato di pronunciare la battuta finale, «ma la domanda è: di quale dio stiamo parlando?»
Un’altra voce — quella di World, secondo Shadow, perché ne riconosceva l’intonazione vagamente familiare che aveva già notato la prima volta — disse: «Adesso torniamo alla nostra programmazione regolare».
In Cheers Coach tranquillizzò la figlia dicendole che era davvero bellissima, proprio come sua madre.
Squillò il telefono e l’agente Liz si svegliò di soprassalto. Alzò il ricevitore. Disse: «Okay. Okay. Sì. Okay». Riagganciò. Si alzò. «Devo metterti dentro» disse a Shadow. «Non usare il gabinetto. Ti stanno venendo a prendere dal dipartimeno dello sceriffo di Lafayette.»
Gli tolse le manette e i ceppi alle caviglie e lo rinchiuse nella cella. La puzza era ancora più forte con la porta chiusa.
Shadow sedette sulla branda di cemento, sfilò il dollaro d’argento della Libertà dal calzino e cominciò a farlo scivolare da un dito all’altro, da una mano all’altra, concentrato soltanto nel non farlo vedere a nessun eventuale curioso. Era un modo per passare il tempo, per stordirsi.
Sentiva la mancanza di Wednesday. Una nostalgia improvvisa e profonda. Gli mancavano la sua sicurezza, il suo modo di fare. Le sue convinzioni.
Aprì la mano, guardò la Signora Libertà, il profilo argenteo. Chiuse le dita intorno alla moneta e strinse forte. Si chiese se sarebbe diventato uno di quelli che finiscono condannati a morte per un reato che non hanno commesso. Sempre che fosse arrivato al processo. Da quanto sembrava, World e Town ci avrebbero impiegato un attimo a farlo fuori. Magari sarebbe finito vittima di un disgraziato incidente, mentre lo portavano a destinazione. Potevano sparargli perché aveva cercato di fuggire. Non era improbabile.
Nella stanza dall’altra parte del vetro c’era un certo movimento. Entrò l’agente Liz, premette un pulsante e una porta che Shadow non poteva vedere si aprì: un uomo di pelle scura con l’uniforme marrone dello sceriffo entrò e si avvicinò svelto al banco.
Shadow infilò il dollaro d’argento nel calzino.
Il nuovo arrivato diede alcuni documenti a Liz che li lesse in fretta e firmò. Arrivò Chad Mulligan, scambiò qualche parola con l’uomo, aprì la porta della cella e si rivolse a Shadow:
«Ecco. Sono venuti a prenderti. A quanto pare sei una questione di sicurezza nazionale. Lo sapevi?»
«Una bella storia per la prima pagina del "Lakeside News".»
Chad lo guardò inespressivo. «Cosa, che un balordo è stato arrestato per aver violato i termini di libertà vigilata? Non è granché, come storia.»
«È di questo che si tratta?»
«Così dicono a me» rispose Chad Mulligan. Shadow incrociò le mani davanti, questa volta, e Chad lo ammanettò. Poi gli mise i ceppi e fissò la catena tra questi e le manette.
Mi porteranno fuori, pensò Shadow. Forse potrei tentare la fuga, con i ceppi, le manette e tutto vestito di arancione sulla neve, ma l’idea gli sembrò stupida e disperata già mentre la formulava.
Chad lo riportò nell’ufficio. Liz aveva spento il televisore. L’uomo di colore lo guardò dall’alto in basso. «È un omone grande e grosso» disse rivolto a Chad. Liz gli consegnò il sacchetto di carta che conteneva tutti gli effetti personali di Shadow e l’uomo firmò.
Chad guardò prima Shadow, poi l’altro e a voce bassa, ma non abbastanza perché Shadow non sentisse, disse: «Senta, questo modo di procedere non mi piace».
L’uomo annuì. «Deve fare reclamo presso le autorità competenti. Il nostro compito è portarlo in sede.»
Chad era irritato. Si voltò verso Shadow. «D’accordo» disse. «L’uscita sulla rampa è di là.»
«Come?»
«Di là. Si arriva direttamente alla macchina.»
Liz aprì con le chiavi. «Faccia in modo che quest’uniforme arancione torni da dove è venuta» disse. «La divisa dell’ultimo delinquente che abbiamo spedito a Lafayette non è più tornata. La contea le paga.» Spinsero Shadow oltre la soglia dove li aspettava una macchina con il motore acceso. Era una berlina nera, non l’automobile del dipartimento dello sceriffo. Un altro agente, brizzolato e con i baffi, stava fumando una sigaretta in piedi vicino alla macchina. Vedendoli arrivare la spense sotto una scarpa e aprì la portiera posteriore per far salire Shadow.
Salì a fatica, impacciato dalle manette e dai ceppi. Non c’era nessuna griglia divisoria nell’abitacolo.
I due uomini dello sceriffo salirono davanti. Quello di colore si era messo al volante. Aspettava che gli aprissero il portone.
«Dai, sbrigati» disse, tamburellando con le dita sul volante.
Chad Mulligan picchiò su un finestrino. L’agente bianco diede un’occhiata al collega e poi abbassò il vetro. «Non si fa così» disse Chad. «Volevo soltanto dire questo.»
«Abbiamo preso nota delle sue opinioni e le trasmetteremo a chi di dovere» rispose l’uomo al volante.
Le porte sul mondo esterno si spalancarono. Stava ancora nevicando, una macchia confusa alla luce dei fanali. L’agente alla guida accelerò e imboccò la strada che portava su Main Street.
«Hai saputo di Wednesday?» chiese. Adesso la sua voce suonava diversa, più vecchia, e familiare. «E morto.»
«Sì. Lo so» rispose Shadow. «L’ho visto alla Tv.»
«Quei bastardi» disse l’agente di razza bianca. Erano le sue prime parole, pronunciate con una voce roca e un forte accento, una voce familiare come quella dell’autista. «Te lo dico io cosa sono quelli, bastardi e figli di puttana.»
«Grazie di essere venuti a prendermi.»
«Figurati» disse l’uomo al volante. Alla luce dei fanali di un’automobile che veniva in senso contrario sembrava già più vecchio. E più piccolo. L’ultima volta che Shadow l’aveva visto indossava un paio di guanti giallo limone e una giacca a quadretti. «Eravamo a Milwaukee. Quando è arrivata la chiamata di Ibis ci siamo messi a correre come matti.»
«Credi che gli permetteremmo di sbatterti dentro e spedirti sulla sedia elettrica quando io sono ancora qui che aspetto di spaccarti la testa con la mia mazza?» chiese tetramente l’altro mentre rovistava in una tasca in cerca delle sigarette. Aveva un accento dell’Europa dell’Est.
«Il vero casino scoppierà tra meno di un’ora» disse il signor Nancy, sempre più simile a se stesso ormai, «quando arriveranno a prenderti davvero. Usciamo prima di imboccare la Highway 53: ti leviamo quei cosi e tu ti rivesti.» Chernobog mostrò la chiave per aprire le manette e i ceppi e sorrise.
«Mi piace con i baffi» gli disse Shadow. «Le stanno bene.»
Chernobog li accarezzò con un polpastrello giallo di nicotina. «Grazie.»
«È proprio morto, Wednesday? Non è uno scherzo, vero, o qualcosa del genere?»
Si rese conto solo in quel momento di essersi aggrappato a una speranza, una folle speranza. Ma l’espressione di Nancy gli disse tutto quello che c’era da sapere e anche l’ultima speranza svanì.
L’arrivo in America
14.000 a.C.
Quando ebbe la visione faceva freddo ed era buio, perché all’estremo Nord la luce era un grigiore fugace a metà di giornate che cominciavano, e finivano, tutte uguali: un interludio tra due oscurità.
Non si potevano definire, secondo i parametri di allora, una tribù numerosa: erano i nomadi delle Pianure Settentrionali. Avevano un dio, il cranio di un mammut, e la sua pelle, trasformata in un rozzo mantello. Nunyunnini, lo chiamavano. Quando non erano in viaggio lo tenevano su una piattaforma di legno, ad altezza d’uomo.
Lei era la sacerdotessa, guardiana dei segreti della divinità, e si chiamava Atsula, la volpe. Atsula precedeva i due uomini che portavano il dio su lunghi bastoni, avvolto in pelli d’orso perché occhi profani non lo vedessero in epoche considerate poco propizie.
Piantavano le loro tende ovunque, nella tundra. La più bella, fatta con pelli di caribù, era la tenda sacra e in quel momento accoglieva quattro membri della tribù: Atsula la sacerdotessa, Gugwei l’anziano, Yanu, il capo dei guerrieri, e Kalanu la guida. Li aveva convocati Atsula il giorno dopo aver avuto la visione.
Con la mano sinistra rattrappita, Atsula gettò dei licheni nel fuoco, e poi qualche foglia secca: il fumo che si alzò dalle fiamme faceva lacrimare gli occhi e aveva un odore acre e strano. Poi prese una tazza di legno dalla piattaforma e la porse a Gugwei. Dentro c’era un liquido giallo scuro.
Atsula aveva trovato i funghi pungh — ogni esemplare dotato di sette macchie, come solo una sacerdotessa sapeva trovare — li aveva raccolti nelle notti senza luna, e li aveva fatti essiccare su una striscia di cartilagine di daino.
La sera precedente, prima di dormire, ne aveva mangiati tre. I suoi sogni erano stati confusi, spaventosi, popolati di luci violente e improvvise, di montagne rocciose con lampi puntati verso il cielo come ghiaccioli. Durante la notte si era svegliata immersa in un bagno di sudore. Accovacciata sopra la tazza di legno l’aveva riempita di urina. Poi aveva messo la tazza fuori, nella neve, ed era tornata a dormire.
Al risveglio aveva tolto lo strato di ghiaccio dalla tazza dove era rimasto un liquido molto concentrato.
Era quel liquido che stava offrendo agli altri, prima a Gugwei, poi a Yanu e Kalanu. Ne presero tutti un gran sorso, poi toccò a lei. Versò ciò che restava per terra davanti al dio, una libagione a Nunyunnini.
Rimasero seduti nella tenda fumosa in attesa che la divinità parlasse. Fuori, nelle tenebre, il vento gemeva e ansimava.
Kalanu, la guida, era una donna che vestiva e si comportava come un maschio: si era perfino presa Dalani, una fanciulla di quattordici anni, in moglie. Kalanu chiuse le palpebre con forza, poi si alzò e si avvicinò al cranio del mammut. Si infilò sotto il mantello in modo da entrare con la testa nel teschio.
«C’è il male nella nostra terra» disse Nunyunnini con la voce di Kalanu. «Un male di tale portata che se resterete nella terra delle vostre madri e delle madri delle vostre madri perirete tutti.»
I tre che ascoltavano reagirono con un borbottio.
«Sono i mercanti di schiavi? Oppure i grandi lupi?» chiese Gugwei dai lunghi capelli bianchi, con il volto rugoso come la corteccia grigia di un biancospino.
«Non sono i mercanti di schiavi» rispose Nunyunnini, antico idolo. «Non sono i grandi lupi.»
«È una carestia? Sta arrivando un’epoca di carestia?» insisté Gugwei.
Nunyunnini taceva. Kalanu uscì dal cranio e dal mantello e aspettò con gli altri.
Toccò a Gugwei nascondersi sotto il manto e infilare la testa dentro il teschio.
«Non è una carestia come ne avete conosciute» disse Nunyunnini attraverso la bocca di Gugwei, «anche se la carestia verrà.»
«Allora cosa sarà?» domandò Yanu. «Io non ho paura. L’affronterò. Abbiamo lance, e pietre. Avremo la meglio anche su cento guerrieri invincibili. Li condurremo negli acquitrini e lì, con le nostre pietre, spaccheremo loro la testa.»
«Non è faccenda d’uomini» disse Nunyunnini con la vecchia voce di Gugwei. «Arriverà dal cielo, e né le tue lance né le tue pietre potranno niente.»
«Come faremo a proteggerci?» chiese Atsula. «Ho visto fiamme nel cielo. Ho udito rumori più assordanti del tuono. Ho visto foreste rase al suolo e fiumi in ebollizione.»
«Ahi…» disse Nunyunnini, ma non aggiunse altro. Gugwei uscì dal cranio del mammut piegandosi a fatica, perché era un uomo anziano, con le articolazioni gonfie e rigide.
Seguì un lungo silenzio. Atsula gettò altre foglie tra le fiamme e il fumo fece lacrimare gli occhi a tutti e quattro.
Poi fu Yanu a introdurre la testa nel cranio, a stringersi il mantello intorno alle spalle possenti. La sua voce rimbombò nella tenda. «Dovete mettervi in cammino» disse Nunyunnini. «Dovete viaggiare in direzione del sole. Là dove sorge il sole, troverete una nuova terra e sarete salvi. Sarà un lungo viaggio: la luna nascerà e morirà due volte, incontrerete mercanti di schiavi e belve feroci, ma io vi guiderò e vi proteggerò, se viaggerete verso il sole.»
Atsula sputò sul pavimento fangoso e disse «No.» Sentiva su di sé lo sguardo del dio. «No» ripeté. «Sei una divinità cattiva se ci ordini di partire. Moriremo. Moriremo tutti e allora chi rimarrà per trasportarti da una piattaforma all’altra, per montare la tua tenda, per ungere di grasso le tue grandi zanne?»
Il dio non rispose. Atsula prese il posto di Yanu e fissò dalle orbite vuote e ingiallite del mammut.
«Atsula non ha fede» disse Nunyunnini con la voce della sacerdotessa. «Atsula morirà prima che il resto della tribù entri nella nuova terra, ma la tribù vivrà. Abbiate fede in me: a oriente c’è una terra disabitata. Sarà la vostra terra e la terra dei vostri figli e dei figli dei vostri figli per sette generazioni e sette volte sette. Se Atsula non avesse dubitato sarebbe stata vostra per sempre. Al mattino raccoglierete le vostre tende e i vostri averi e partirete verso il sole.»
E Gugwei, Yanu e Kalanu chinarono il capo e inneggiarono alla potenza e alla saggezza di Nunyunnini.
La luna divenne piena e calò, rinacque e calò nuovamente. La gente della tribù camminava verso oriente, verso il sole nascente, lottando contro i venti gelidi che bruciavano la pelle. Nunyunnini aveva promesso il vero: durante il viaggio non persero nessun membro della tribù eccetto una donna che morì di parto, ma le partorienti appartengono alla luna, non a Nunyunnini.
Attraversarono il ponte che univa i continenti.
Kalanu era partita alle prime luci dell’alba per esplorare il terreno. Adesso era buio e non era ancora tornata, il cielo era popolato di stelle che pulsavano luminose, vive e in movimento, bianche e verdi, viola e rosse. Atsula e la sua gente avevano già visto l’aurora boreale e ne avevano ancora paura, ma questo era uno spettacolo perfino più spaventoso.
Kalanu tornò quando le luci inondavano il cielo.
«Ci sono momenti» disse ad Atsula «in cui mi pare che potrei spalancare le braccia e volare in cielo.»
«Perché sei una guida» le rispose la sacerdotessa. «Quando morirai andrai in cielo e diventerai una stella che ci guiderà come ci hai guidato in vita.»
«A oriente ci sono montagne di ghiaccio, molto alte» disse Kalanu dai lunghi capelli corvini secondo la foggia maschile. «Possiamo scalarle, ci vorranno molti giorni.»
«Ci condurrai al sicuro» disse Atsula, «io morirò ai piedi di una montagna, e la mia morte sarà il sacrificio per il vostro passaggio nella nuova terra.»
A occidente, nelle terre da cui erano venuti, dove il sole era tramontato già da ore, il cielo fu squarciato da una luce spaventosamente gialla, più violenta del lampo, più intensa del sole. Un’esplosione di puro fulgore che spinse tutti quelli che stavano attraversando il ponte a coprirsi gli occhi, sputando e gridando. I bambini piangevano.
«Quella è la disgrazia da cui ci aveva messo in guardia Nunyunnini» disse Gugwei l’anziano. «È un dio saggio e potente.»
«Il migliore degli dèi» disse Kalanu. «Nella nuova terra gli innalzeremo un’alta piattaforma e lucideremo le sue zanne e il suo cranio con olio di pesce e grasso animale, e racconteremo ai nostri figli e ai figli dei nostri figli e ai figli dei figli per sette generazioni che Nunyunnini è l’onnipotente e che non dovrà mai essere dimenticato.»
«Gli dèi sono grandi» disse Atsula con lentezza, come se stesse comunicando un segreto terribile. «Però il nostro cuore è più grande ancora. Poiché è dai nostri cuori che essi nascono, e ai nostri cuori faranno ritorno…»
E non possiamo dire quante altre parole blasfeme avrebbe aggiunto a queste, perché fu interrotta con una violenza che non ammetteva repliche.
Il rombo che arrivò da occidente era così forte da far sanguinare le orecchie e lasciò tutti sordi per qualche momento, temporaneamente ciechi e sordi ma vivi, consapevoli di essere stati più fortunati delle tribù che non si erano spinte altrettanto a oriente.
«È una buona cosa» disse la sacerdotessa senza riuscire a sentir» le proprie parole.
Atsula morì ai piedi della montagna quando il sole di primavera era allo zenit. Non riuscì a vedere il Nuovo Mondo, e la sua tribù raggiunse la nuova terra senza sacerdotessa.
Scalarono le montagne dirigendosi verso sud e verso occidente, fino a quando non trovarono una valle dove scorreva acqua limpida, e dove pesci argentei nuotavano in abbondanza nei fiumi, una valle popolata da cervi che non conoscevano l’uomo ed erano talmente mansueti che prima di ucciderli si doveva sputare e chiedere perdono al loro spirito.
balani mise al mondo tre maschi, e qualcuno disse che Kalanu era riuscita a compiere la più difficile delle magie e a ingravidare la sua sposa, e altri dissero che Gugwei non era troppo vecchio per tenere compagnia a una donna, quando il marito era lontano, e certamente, dopo la morte di Gugwei, Dalani non ebbe più figli.
La glaciazione cominciò e finì e la gente si sparse sul territorio dando vita a nuove tribù che scelsero nuovi totem: corvi e volpi e orsi e grandi felini e bufali, ogni animale contrassegnava l’identità di ciascuna tribù, e tutti erano dèi.
Nella nuova terra i mammut erano più grandi e più lenti, più sprovveduti dei mammut delle pianure siberiane, e i funghi pungh dalle sette macchie risultarono introvabili e Nunyunnini non parlò più agli uomini della sua tribù.
Poi, al tempo dei nipoti di Dalani e Kalanu, un manipolo di guerrieri di una ricca e numerosa tribù che tornavano a casa da una spedizione a settentrione a caccia di schiavi, capitarono nella vallata dove si era stabilito il popolo originario: uccisero quasi tutti gli uomini e fecero prigionieri donne e bambini.
Nella speranza di ottenere clemenza uno dei bambini li portò in una caverna nella montagna dove trovarono il cranio di un mammut, ciò che restava della sua pelle, una tazza di legno e il teschio di Atsula l’oracolo.
Alcuni guerrieri avrebbero voluto prendere gli oggetti sacri, rubando gli dèi del Popolo Originario e assorbendone il potere, ma altri si opposero, dicendo che ciò avrebbe portato soltanto sfortuna, scatenando le ire dei loro dèi (perché questi erano i membri della tribù dei corvi, e i corvi sono divinità gelose).
Così gettarono tutto in un profondo dirupo e portarono con sé i sopravvissuti del Popolo Originario nel loro lungo viaggio verso sud. Le tribù dei corvi e le tribù delle volpi diventarono ancora più potenti in quella terra e ben presto Nunyunnini fu completamente dimenticato.