Parte quarta Epilogo: Quello che i morti ci tengono nascosto

19

Il modo migliore per descrivere una storia è raccontarla. È chiaro? La si descrive, a se stessi o al mondo, raccontandola. Raccontare è un atto compensatorio, un sogno. Quanto più dettagliata è la mappa, tanto più somiglia al territorio. La mappa più accurata possibile diventa il territorio, quindi perfettamente dettagliata e perfettamente superflua.

Il racconto è la mappa che è il territorio.

Non bisogna dimenticarlo.

Dal taccuino del signor Ibis

Percorrevano la I-75 diretti in Florida a bordo del pulmino Volkswagen. Guidavano dall’alba, o meglio Shadow guidava mentre il signor Nancy, seduto accanto, di tanto in tanto, con un’espressione sofferente, si offriva di dargli il cambio. Shadow rispondeva sempre di no.

«Sei contento?» gli chiese all’improvviso. Erano ore che lo fissava. Ogni volta che Shadow gli gettava un’occhiata vedeva che lo stava osservando con i suoi occhi marroni come la terra.

«Non esattamente» rispose. «Però non sono ancora morto.»

«Come?»

«"Nessun uomo può dirsi felice fino a quando non è morto." Erodoto.»

Il signor Nancy sollevò un candido sopracciglio e disse: «Io non sono ancora morto e soprattutto per questo motivo sono contento come una pasqua».

«La frase di Erodoto non vuole dire che i morti sono felici» spiegò Shadow. «Significa che non puoi giudicare la vita di qualcuno fino a quando non è finita.»

«Io non la giudico neanche allora» disse il signor Nancy. «In quanto alla felicità, ce ne sono tipi diversi, molti tipi, come ci sono moltissimi tipi di morte. Per quanto mi riguarda, io prendo quello che posso quando posso.»

Shadow cambiò argomento. «Quegli elicotteri, quelli che hanno portato via i cadaveri e i feriti…»

«Sì?»

«Chi li ha mandati? Da dove vengono?»

«Non preoccuparti di loro. Sono come valchirie, come avvoltoi. Arrivano perché devono arrivare.»

«Se lo dice lei.»

«Qualcuno si prenderà cura dei morti e dei feriti. Secondo me il vecchio Jacquel avrà il suo da fare per un mese o più. Dimmi una cosa, ragazzo ombra.»

«Sentiamo.»

«Hai imparato qualcosa da tutta questa vicenda?»

Shadow scrollò le spalle. «Non so. La maggior parte delle cose che ho imparato sull’albero le ho già dimenticate. Ho incontrato alcune persone. Non sono più sicuro di niente, è come uno di quei sogni che ti trasformano. Una parte del sogno rimane per sempre con te, e dentro di te, in profondità, sai qualcosa, perché ti è successa, ma quando vai a cercare i dettagli ti sfuggono.»

«Già» disse il signor Nancy. E a denti stretti aggiunse: «Non sei così stupido».

«Forse no. Mi sarebbe piaciuto conservare più cose di quelle che mi sono passate tra le mani da quando sono uscito di prigione. Mi sono state date tante cose e le ho perse.»

«Forse hai conservato più di quel che credi.»

«No.»

Attraversarono il confine della Florida e Shadow vide la prima palma della sua vita. Si domandò se l’avessero piantata lì di proposito, proprio al confine, per farti sapere che adesso eri entrato nello stato.

Quando il signor Nancy cominciò a russare Shadow gli diede un’occhiata. Aveva ancora la pelle grigia e respirava a fatica. Si domandò, e non per la prima volta, se durante la battaglia avesse riportato qualche danno al petto o ai polmoni. Nancy aveva rifiutato qualsiasi cura medica.

La Florida era molto più grande di quanto avesse immaginato Shadow e quando si fermò davanti a una casetta di legno a un piano con le finestre sigillate alla periferia di Fort Pierce era già notte fonda. Nancy, che gli aveva indicato le strade da seguire durante gli ultimi sette o otto chilometri, lo invitò a fermarsi per la notte.

«Posso trovarmi una camera in un motel. Non è un problema.»

«Potresti, e mi offenderesti. Ovviamente non direi niente ma sarei mortalmente offeso» ribatté il signor Nancy. «Perciò è meglio se rimani, ti preparo un letto sul divano.»

Il signor Nancy aprì le imposte e spalancò le finestre. Nella casa c’era odore di umidità, con un fondo dolciastro, come se nell’aria aleggiassero ancora i fantasmi di biscotti morti da tempo immemorabile.

Shadow accettò con riluttanza di trascorrere la notte nella casa del signor Nancy, e con riluttanza ancora maggiore acconsentì ad accompagnarlo al bar in fondo alla strada per un bicchiere mentre la casa prendeva aria.

«Hai visto Chernobog?» gli chiese Nancy mentre passeggiavano nell’afosa notte della Florida. L’aria pullulava di grossi insetti ronzanti e il terreno di creature che strisciavano o che zampettavano. Il signor Nancy accese un sigaretto e tossì, e continuò a fumarlo anche se lo faceva soffocare.

«Quando sono uscito dalla grotta non c’era più.»

«Sarà andato a casa. Ti aspetterà là, lo sai.»

«Sì.»

Camminarono in silenzio fino in fondo alla strada. Non era un gran bar, ma perlomeno era aperto.

«Il primo giro lo offro io» disse il signor Nancy.

«Siamo venuti per una sola birra, ricorda?» disse Shadow.

«Ma che cosa sei, uno spilorcio?»

Il signor Nancy pagò il primo giro e Shadow offrì il secondo. Guardò con orrore l’altro convincere il barista ad accendere il karaoke, e rimase a osservarlo affascinato e al tempo stesso imbarazzato mentre se la spassava cantando What’s New Pussycat? dall’inizio alla fine per poi passare a una melodiosa e commovente versione di The Way You Look Tonight. Aveva una bella voce, il signor Nancy, e quando finì i pochi clienti del locale lo applaudirono.

Quando tornò al bar da Shadow aveva già un aspetto migliore. Gli occhi erano più limpidi e la sfumatura grigiastra sulla sua pelle era scomparsa. «Tocca a te» disse.

«Non se ne parla nemmeno.»

Ma il signor Nancy aveva ordinato altre birre e stava porgendo a Shadow l’elenco tutto macchiato con le canzoni da scegliere. «Scegline una di cui conosci le parole.»

«Non lo trovo divertente» disse Shadow. Però il mondo cominciava a vorticargli intorno, e non aveva più energia sufficiente per opporsi. Il signor Nancy aveva già messo il nastro di Don’t Let Me Be Misunderstood, e stava spingendo — letteralmente — Shadow sull’improvvisato palcoscenico in fondo al locale.

Shadow prese in mano il microfono come se fosse una creatura viva, la musica cominciò e lui gracchiò: «Baby…». Nessuno gli lanciò addosso le bottiglie. E cantare non era male. «Can you understand me now?» Aveva una voce poco coltivata ma melodica, perfetta per quella canzone. «Sometimes I feel a little mad. Don’t you know that no one alive can always be an angel…»

La stava ancora cantando mentre tornavano a casa nella vivace notte della Florida, il vecchio e il giovane, incespicando felici.

«I’m just a soul whose intentions are good» cantò ai granchi, ai ragni e agli scarafaggi volanti tra le palme, alle lucertole e alla notte intera. «Oh, Lord, please don’t let me be misunderstood.»

Il signor Nancy gli mostrò il divano. Siccome era molto più corto di lui Shadow decise di dormire sul pavimento. Ma prima che finisse di prendere questa decisione era già addormentato, in parte seduto e in parte sdraiato sul minuscolo sofà.

All’inizio non sognò niente. C’era soltanto l’oscurità confortevole, poi vide un fuoco bruciare nelle tenebre e vi si avvicinò.

«Hai agito bene» sussurrò l’uomo-bufalo senza muovere la bocca.

«Non so che cos’ho fatto.»

«Hai ottenuto la pace» disse l’uomo-bufalo. «Hai preso le nostre parole, le hai fatte diventare tue. Non avevano ancora capito che se esistono, e se esiste la gente che li venera, è perché ciò a noi conviene. Potremmo cambiare idea, comunque. Non è escluso che la cambieremo.»

«Sei un dio?»

L’uomo-bufalo scosse la testa. Shadow pensò per un istante che fosse divertito. «Io sono la terra» disse.

E se nel sogno accadde dell’altro, Shadow in seguito non riuscì a ricordarlo.

Sentì sfrigolare qualcosa. Gli faceva male la testa, sentiva una pulsazione dietro gli occhi.

Il signor Nancy stava preparando la colazione: un’alta pila di pancake, pancetta, uova e caffè. Sembrava in gran forma.

«Mi fa male la testa» disse Shadow.

«Fatti una buona colazione e ti sentirai come nuovo.»

«Preferirei sentirmi lo stesso ma con una testa diversa» disse Shadow.

«Mangia.»

Shadow mangiò.

«Come ti senti?»

«Con il mal di testa, e adesso che ho mangiato credo che vomiterò.»

«Vieni con me.»

Accanto al divano dove Shadow aveva passato la notte c’era un baule scuro coperto con un tessuto africano. Il baule era di legno e sembrava, in piccolo, un forziere dei pirati. Il signor Nancy aprì il lucchetto e sollevò il coperchio. Dentro il baule c’erano molte scatole. Nancy rovistò. «E un antico rimedio africano a base d’erbe» disse. «È fatto di corteccia di salice macinato e cose così.»

«Tipo aspirina?»

«Sì. Tipo.» Prese dal fondo del baule una confezione formato famiglia di un farmaco generico contro l’influenza, svitò il coperchio e tirò fuori due pillole. «Tieni.»

«Bel baule» disse Shadow. Prese le pastiglie amare e le inghiottì con un bicchiere d’acqua.

«Me l’ha mandato mio figlio» disse il signor Nancy. «È un bravo ragazzo. Non lo vedo quanto mi piacerebbe vederlo.»

«A me manca Wednesday» disse Shadow. «Nonostante tutto quello che ha fatto. Continuo ad aspettarmi di vederlo comparire, invece alzo gli occhi e lui non c’è.» Fissava il forziere dei pirati cercando di capire che cosa gli ricordasse.

Perderai molte cose. Non perdere queste. Chi gliel’aveva detto?

«Ti manca dopo quello che ti ha fatto passare? Dopo quello che ha fatto passare a tutti quanti?»

«Sì. Credo di sì. Pensa che tornerà?»

«Penso che ovunque due uomini uniscano le loro forze per vendere a un terzo uomo un violino di venti dollari alla cifra di diecimila, Wednesday sarà presente in spirito.»

«Sì, ma…»

«Meglio tornare in cucina» ribatté il signor Nancy con un’espressione impenetrabile e dura. «Quei tegami non si laveranno da soli.»

Lavò tegami e piatti, Shadow li asciugò e li ripose sugli scaffali. A un certo punto il mal di testa passò. Tornarono nel salotto.

Shadow fissava ancora il vecchio baule sforzandosi di ricordare. «Se non vado da Chernobog» domandò, «che cosa succederà?»

«Ci andrai» rispose piattamente il signor Nancy. «Oppure verrà lui da te. Farà in modo di portarti da lui. In un modo o nell’altro vi incontrerete.»

Shadow annuì. Qualche tessera del mosaico stava cominciando ad andare a posto. Un sogno, fatto sull’albero. «Ehi, esiste un dio con la testa da elefante?»

«Ganesh? È un dio indù. Rimuove gli ostacoli e agevola i viaggi. È anche un bravo cuoco.»

Shadow guardò in su. «È nel baule» disse. «Sapevo che era importante, ma non sapevo perché. Avevo pensato che si riferisse al tronco dell’albero e invece parlava del baule, giusto?»

Il signor Nancy aggrottò la fronte. «Non ti seguo.»

«È nel baule.» Sapeva che era vero. Non sapeva perché dovesse essere così, non ancora. Però ne aveva la certezza assoluta.

Si alzò. «Devo andare. Mi dispiace.»

Il signor Nancy inarcò un sopracciglio. «Perché tanta fretta?»

«Perché» rispose Shadow con semplicità «il ghiaccio si sta sciogliendo.»

20

è

primavera

e

il

capripede

palloNaro fischia

da

lon

tanis

simo.

E.E. CUMMINGS

A bordo di un’auto a noleggio Shadow uscì dalla foresta alle otto e trenta del mattino, percorse la discesa senza superare i settanta chilometri orari ed entrò nella città di Lakeside tre settimane dopo averla lasciata, sicuro che non ci sarebbe tornato mai più.

La attraversò, sorprendendosi di quanto poco fosse cambiata in quelle settimane, un’eternità, per lui, e parcheggiò a metà della carrozzabile che conduceva al lago. Poi scese dalla macchina.

Sul lago gelato non c’erano più le baracche dei pescatori, nessun fuoristrada, nessuno seduto davanti a un buco nel ghiaccio con la canna da pesca e una scorta di birra. Il lago era scuro: non più coperto dallo strato bianco di neve, adesso lasciava intravedere qua e là in superficie chiazze d’acqua sopra le quali si rifletteva la luce, e sotto il ghiaccio l’acqua era nera, mentre il ghiaccio era abbastanza trasparente da rivelare l’oscurità sottostante. Il cielo era grigio sopra il lago cupo e deserto.

Quasi deserto.

C’era ancora una macchina parcheggiata vicino al ponte, in una posizione tale che per chiunque attraversasse la città era impossibile non notarla. Era verde sporco, il tipo di macchina che la gente abbandona nei parcheggi. Le era stato levato il motore. Era il simbolo di una scommessa, in attesa che il ghiaccio, squagliandosi pericolosamente, la lasciasse inghiottire per sempre. In fondo alla breve carrozzabile c’era una catena, con un cartello che proibiva l’ingresso a pedoni e veicoli, GHIACCIO SOTTILE, c’era scritto, sopra una sequenza di simboli contrassegnati da una croce: niente macchine, niente pedoni, niente gatti delle nevi, PERICOLO.

Shadow ignorò il cartello e cominciò a scendere. L’argine era scivoloso, la neve si era già sciolta trasformando il terreno in fanghiglia e l’erba offriva scarsa aderenza. Continuando a scivolare, percorse con cautela un piccolo pontile di legno e da lì scese al lago.

Lo strato d’acqua sopra il ghiaccio, un’acqua fatta di ghiaccio e neve sciolti, era più spesso di quel che gli era sembrato dall’alto, e il lago era diventato peggio di una pista di pattinaggio, costringendo Shadow a lottare per restare in piedi. Affondò fino alle caviglie e l’acqua gli entrò negli stivali. Acqua ghiacciata che intorpidiva le membra. Mentre attraversava a fatica il lago ghiacciato Shadow provava uno strano distacco; era come se stesse guardando un film di cui lui era l’eroe: un investigatore, forse.

Si diresse verso la bagnarola, dolorosamente consapevole del fatto che lo strato di ghiaccio era ormai troppo sottile, e che l’acqua sotto era fredda quasi al punto di ghiacciarsi di nuovo. Continuò a camminare, scivolando e cadendo più volte.

Passò accanto a mucchi di bottiglie e lattine vuote e aggirò i buchi scavati dai pescatori, buchi che non si erano più richiusi, pieni di acqua nera.

La bagnarola era più lontana di quanto aveva pensato dalla strada. Sentì un forte crac provenire dalla parte meridionale del lago, il rumore del legno che si spezza, seguito da un suono sordo, come se qualcuno avesse fatto vibrare la corda di un contrabbasso grande come il lago. Uno scricchiolio imponente come quello di una gigantesca porta molto antica che protestava. Shadow proseguì sforzandosi di non cadere.

È un suicidio, gli sussurrò la voce della ragione in un angolo della mente. Non potresti lasciar perdere?

«No» disse a voce alta. «Devo sapere.» E continuò a camminare.

Arrivò alla bagnarola e, ancora prima di toccarla, capì di non essersi sbagliato. Intorno alla macchina aleggiava un miasma, un vago fetore di putrefazione che prendeva anche alla gola. Fece il giro e guardò dentro. I sedili erano tutti rotti e macchiati. L’abitacolo era vuoto. Cercò di aprire le portiere. Erano chiuse con la sicura. Provò il bagagliaio. Chiuso anche quello.

Rimpianse di non aver portato con sé un piede di porco.

Strinse una mano a pugno dentro al guanto, contò fino a tre e colpì forte il finestrino dal lato del volante.

La mano gli faceva male ma il finestrino era rimasto intatto.

Pensò di prendere la rincorsa e dare un calcio al vetro; certo così sarebbe riuscito a romperlo, se non fosse scivolato. L’ultima cosa che desiderava era disturbare troppo la bagnarola facendo cedere il ghiaccio su cui era appoggiata.

La guardò. Poi si avvicinò all’antenna della radio — il tipo di antenna che sale e scende, bloccata in alto da almeno dieci anni — e dopo averla un po’ scossa riuscì a spezzarla alla base. Afferrò l’estremità più sottile, dove una volta doveva esserci stato un pulsantino metallico ormai scomparso, e la piegò a gancio.

Riuscì a infilarla tra il vetro e la gomma di protezione del finestrino spingendola fino alla sicura. Armeggiò, annaspò alla cieca fino a quando il gancio di metallo non si strinse intorno alla chiusura, e a quel punto tirò.

Sentì che il gancio improvvisato perdeva la presa.

Sospirò e ripeté l’operazione, più lentamente, con più attenzione. Gli sembrava di sentire il ghiaccio lamentarsi quando spostava il peso da un piede all’altro. E piano… piano…

L’aveva agganciato. Tirò verso l’alto e la sicura della portiera scattò. Shadow cercò di aprirla con la mano guantata, impugnò la maniglia e tirò; la portiera non cedeva.

È bloccata, pensò, congelata. Per questo non si apre.

Cercando di aprirla scivolò e all’improvviso la portiera cedette disseminando pezzi di ghiaccio dappertutto.

Nell’abitacolo il miasma era più intenso, un fetore di decomposizione e morte da sentirsi male.

Allungò una mano sotto il cruscotto, trovò il gancio di plastica nera che comandava l’apertura del baule e tirò con forza.

Sentì un piccolo tonfo alle spalle, quando il bagagliaio scattò.

Scivolando fece il giro della macchina appoggiandosi per non cadere.

È nel baule, pensò di nuovo.

Il bagagliaio era socchiuso. Si chinò per aprirlo completamente.

L’odore era cattivo, ma avrebbe potuto essere molto più intenso: il fondo del baule era coperto da un paio di centimetri di ghiaccio mezzo sciolto. C’era una ragazza, dentro. Indossava una tuta da neve rossa, tutta macchiata, adesso, e i capelli diritti erano lunghi. Siccome aveva la bocca chiusa Shadow non poteva vedere l’apparecchio con gli elastici azzurri, però sapeva che c’era. Il freddo l’aveva conservata come in un freezer.

Gli occhi erano spalancati, la morte l’aveva colta mentre piangeva: le lacrime che le si erano congelate sulle guance non si erano ancora sciolte.

«Sei sempre stata qui» disse Shadow al cadavere di Alison McGovern. «Tutti quelli che sono passati sul ponte ti hanno vista. Tutti quelli che sono entrati in città ti hanno vista. I pescatori ti sono passati vicino tutti i giorni e nessuno sapeva.»

Allora si rese conto di quant’era stupida, la sua ultima affermazione.

Qualcuno doveva pur sapere. Qualcuno l’aveva pur messa lì dentro.

Allungò le braccia per vedere se riusciva a tirarla fuori. Appoggiò tutto il peso alla macchina e, forse, fu quello a provocare il disastro.

Il ghiaccio sotto le ruote anteriori cedette di colpo in quel preciso momento, forse a causa dei suoi movimenti, o forse no. La macchina affondò il muso nel lago buio e imbarcò acqua dalla portiera aperta. Shadow sentì l’acqua che gli bagnava le caviglie, anche se il punto dove si trovava lui sembrava ancora solido. Si guardò intorno affannosamente, chiedendosi come fare a cavarsi dai guai. Troppo tardi, anche lì il ghiaccio cedette di botto scagliandolo contro la macchina e la ragazza morta dentro il bagagliaio, e il posteriore andò giù, e Shadow con lei, nelle acque fredde. Erano le nove e dieci del mattino del ventitré marzo.

Prima di andare sotto riuscì a prendere un profondo respiro e a chiudere gli occhi, ma il freddo dell’acqua lo colpì come un muro, mozzandogli il fiato.

Rotolò nell’acqua scura trascinato dalla macchina.

Era sotto il lago, nelle sue gelide tenebre, appesantito dagli indumenti, dai guanti e dagli stivali, fasciato e intrappolato nel piumino che assorbiva l’acqua e diventava pesante.

Stava ancora cadendo. Cercò di allontanarsi dalla macchina ma era impossibile, poi un tonfo gli riecheggiò in tutto il corpo, non nelle orecchie, e si rese conto che il piede sinistro era piegato, intrappolato sotto la macchina che si stava appoggiando sul fondale, e venne assalito dal panico.

Aprì gli occhi.

Sapeva che laggiù era buio: razionalmente sapeva che era troppo buio per vedere, invece vedeva ogni particolare. Il volto pallido di Alison McGovern che lo fissava dal baule aperto. Le altre macchine, le bagnarole degli anni passati, sagome di carcasse arrugginite nell’oscurità, erano semisepolte nel fango. E chissà quali altri mezzi di trasporto avevano messo in mezzo al lago, si chiese, prima dell’avvento delle automobili.

Ogni vettura, lo sapeva con certezza, conteneva un bambino morto. Erano decine… e ognuna era stata parcheggiata sul ghiaccio sotto gli occhi di tutti per l’intero inverno, per poi sprofondare nelle acque fredde con l’arrivo della bella stagione.

Era lì che riposavano Lemmi Hautala e Jessie Lovat e Sandy Olsen, Jo Ming e Sara Lindquist e gli altri bambini. Laggiù dove regnavano gelo e silenzio…

Tirò per liberare il piede. Era impigliato. La pressione nei polmoni stava diventando insopportabile. Sentiva un dolore lancinante nelle orecchie. Espirò lentamente e l’acqua formò una piccola scia di bollicine intorno alla sua faccia.

Tra poco, pensò, tra poco dovrò respirare. Oppure soffocherò.

Appoggiò le mani al paraurti e spinse con tutte le sue forze. Niente.

È soltanto l’involucro di una macchina, si disse. Hanno tolto il motore che è la parte più pesante. Ce la puoi fare. Continua a spingere.

Spinse.

Lentamente, un tormentoso centimetro dopo l’altro, la bagnarola scivolò sul fango e lui riuscì a liberare il piede. Scalciò cercando di risalire in superficie. Non si mosse. La giacca, si disse. Il piumino. È bloccato, è impigliato da qualche parte. Lo sfilò dalle braccia, armeggiò con le dita intorpidite intorno alla cerniera ghiacciata, poi l’aprì con uno strappo, sentì la stoffa cedere e freneticamente si liberò dal suo abbraccio spingendo verso l’alto, lontano.

Ebbe la sensazione di salire, ma non capiva più dov’era il sopra e dov’era il sotto e stava soffocando, il dolore nel petto e nella testa erano troppo forti, doveva inspirare, era certo che avrebbe inghiottito acqua fredda e sarebbe morto. Poi con la testa colpì qualcosa di solido.

Ghiaccio. Aveva cozzato contro lo strato di ghiaccio sul lago. Lo colpì con i pugni ma non aveva più forza nelle braccia, non trovava appigli, niente contro cui spingere. Il mondo si era dissolto nella fredda tenebra sotto il lago. Restava soltanto il freddo.

È ridicolo, pensò. E allora gli tornò in mente un vecchio film con Tony Curtis che aveva visto da bambino, dovrei girarmi sulla schiena e spingere il ghiaccio verso l’alto schiacciando la faccia contro per trovare un po’ d’aria, così potrei respirare, ci deve essere dell’aria nell’intercapedine, invece stava solo galleggiando, stava morendo congelato e non avrebbe potuto muovere un muscolo nemmeno se ne fosse andato della sua vita, e in effetti c’era proprio quella in gioco.

Il freddo divenne insopportabile, il gelo si trasformò in calore. Sto morendo, pensò. Questa volta provò una rabbia, un furore profondo, e afferrando quel dolore e quella rabbia si dimenò, costringendo all’azione muscoli che non avrebbero voluto muoversi mai più.

Allungò una mano, sentì che raschiava il bordo del ghiaccio e veniva a contatto con l’aria. Annaspò in cerca di un appiglio e sentì che un’altra mano stringeva la sua e tirava verso l’alto.

Picchiò con la testa contro lo strato di ghiaccio, con la faccia ne raschiò la parte inferiore, riemerse all’aria passando da un buco, non potendo far altro che inghiottire aria, mentre l’acqua nera del lago gli colava dal naso e dalla bocca. Batté le palpebre, non riusciva a vedere nient’altro che la luce abbagliante e una sagoma indistinta, qualcuno che lo tirava forte costringendolo a uscire e diceva qualcosa a proposito del fatto che sarebbe congelato: perciò coraggio, amico, forza, e Shadow riemerse scrollandosi come una foca, tremando, tossendo.

Ansimando profondamente si lasciò cadere sul ghiaccio sottile, pur sapendo che ormai non avrebbe resistito a lungo neanche quel pezzo. I suoi pensieri erano lenti e densi come sciroppo.

«Lasciatemi qua» cercò di dire. «Me la caverò.» Parlava strascicando le parole.

Aveva bisogno di riposare un momento, tutto lì, voleva riposare e poi si sarebbe alzato per mettersi in salvo. Era evidente che non poteva restare lì per sempre.

Sentì uno strattone, dell’acqua sulla faccia. Qualcuno gli sollevò la testa. Si accorse che lo trascinavano sulla schiena, avrebbe voluto protestare, spiegare che aveva bisogno di riposare un po’ — magari fare un sonnellino, era chiedere troppo? — e che dopo si sarebbe ripreso. Se soltanto l’avessero lasciato in pace.

Non credeva di essersi addormentato, comunque era in piedi in mezzo a una grande prateria con un uomo con la testa e le spalle di un bufalo e una donna con la testa di un enorme condor, e c’era anche Whiskey Jack tra i due che lo guardava con tristezza scuotendo la testa.

Whiskey Jack gli voltò le spalle e si allontanò lentamente. L’uomo-bufalo si allontanò con lui. La donna uccello di tuono si avviò, poi piegò la testa e con un colpo d’ali planò.

Shadow si sentiva perduto. Avrebbe voluto chiamarli, implorarli di tornare, di non abbandonarlo, ma tutto stava diventando informe: se n’erano andati, la prateria sbiadiva e ogni cosa divenne vuota.


Sentiva un gran male. Era come se ogni cellula del suo corpo, ogni nervo, si stesse scongelando e risvegliando, rendendo nota la sua presenza con un bruciore doloroso.

Una mano dietro la testa lo teneva per i capelli, un’altra gli sosteneva il mento. Aprì gli occhi convinto di trovarsi in ospedale.

Aveva i piedi nudi, indossava ancora i jeans ma era nudo dalla cintola in su. L’aria era satura di vapore. Vedeva uno specchio da barba su un muro di fronte e una bacinella, uno spazzolino azzurro dentro un bicchiere sporco di dentifricio.

Le informazioni venivano processate lentamente dal cervello, un dato per volta.

Gli bruciavano le dita delle mani. Gli bruciavano le dita dei piedi.

Cominciò a gemere.

«Buono, Mike. Buono, adesso» disse una voce conosciuta.

«Come?» cercò di dire. «Cos’è successo?» La sua voce suonava innaturale.

Era immerso in una vasca da bagno piena d’acqua calda. Lui credeva che l’acqua fosse calda, però non ne era certo. Gli arrivava fino al collo.

«La cosa più stupida che si può fare con qualcuno che sta morendo per congelamento è metterlo davanti al fuoco. La seconda cosa più stupida è avvolgerlo nelle coperte, specialmente se i vestiti che porta sono già bagnati. Le coperte lo isolerebbero, trattenendo il freddo all’interno. La terza cosa più stupida — questa è la mia opinione personale — è di togliergli tutto il sangue, riscaldarlo e rimetterglielo dentro. È quello che fanno i medici oggigiorno. Complicato, costoso. Stupido.» La voce arrivava dall’alto, da dietro.

«La cosa più intelligente e più rapida da fare è quello che per secoli hanno fatto i marinai quando un uomo cadeva in mare. Metti il poveraccio dentro l’acqua calda. Non troppo calda. Calda giusta. Adesso, per tua informazione, quando ti ho trovato sul ghiaccio eri sostanzialmente morto. Come ti senti, Houdini?»

«Fa male» rispose Shadow. «Fa male dappertutto. Mi ha salvato la vita.»

«Credo di sì. Riesci a tenere su la testa da solo?»

«Forse.»

«La lascio andare. Se affondi ti riacciuffo.»

Le mani lasciarono la presa.

Shadow si accorse di scivolare piano piano verso il basso. Allungò le mani, afferrò i bordi della vasca e poi appoggiò la schiena. Il bagno era piccolo, la vasca di metallo aveva lo smalto coperto di macchie e di graffi.

Un vecchio entrò nel suo campo visivo. Aveva l’aria preoccupata.

«Ti senti meglio?» chiese Hinzelmann. «Stai lì tranquillo. Ti ho riscaldato ben bene il salotto. Quando te la senti ti presto un accappatoio così posso mettere i pantaloni nell’asciugatrice insieme al resto. D’accordo, Mike?»

«Non mi chiamo Mike.»

«Se lo dici tu.» Il vecchio contrasse la faccia da folletto in un’espressione di disagio.

Shadow aveva perso il senso del tempo: rimase nella vasca fino a quando non riuscì a flettere le dita delle mani e dei piedi senza sentire troppo male. Hinzelmann lo aiutò ad alzarsi e fece scaricare l’acqua. Shadow sedette su un angolo della vasca e con l’aiuto del vecchio si sfilò i pantaloni.

Riuscì a mettersi senza eccessiva difficoltà un accappatoio di spugna troppo piccolo e, sempre appoggiandosi a Hinzelmann, andò a buttarsi su un antico divano nel salotto. Era stanco, debole, profondamente affaticato ma vivo. Nel camino bruciavano alcuni ceppi. Teste di daino dall’aria sorpresa occhieggiavano impolverate dalle pareti, contendendo lo spazio ad alcuni enormi pesci laccati.

Hinzelmann si allontanò con i suoi pantaloni e dopo una breve pausa dalla stanza vicina giunse il rumore sferragliante dell’asciugatrice. Il vecchio tornò con una tazza fumante.

«È caffè» disse, «che è uno stimolante. Ci ho messo un goccio di schnapps. Soltanto un goccio. È quello che si faceva una volta. Un medico oggi non lo consiglierebbe.»

Shadow prese la tazza con entrambe le mani. Su un lato c’era disegnata una zanzara e la frase "Donate sangue-Visitate il Wisconsin!".

«Grazie» disse.

«È a questo che servono gli amici» ribatté Hinzelmann. «Un giorno potresti essere tu a salvarmi la vita. Ma non pensiamoci adesso.»

Shadow sorseggiò il caffè. «Credevo di essere morto.»

«Sei stato fortunato. Ero sul ponte — avevo immaginato che il gran giorno sarebbe stato oggi, te lo senti, a un certo punto, quando hai la mia età — così ero lì con il mio orologio quando ti ho visto uscire. Ho gridato, ma sicuramente non mi hai sentito. Ho visto la macchina andare giù e ti ho visto andar giù con lei e ho pensato che eri perduto. Sono corso sul ghiaccio. Mi hai fatto vedere i sorci verdi. Devi essere rimasto sott’acqua quasi due minuti. Poi ho visto la mano che spuntava nel punto dov’era la macchina, è stato come vedere un fantasma…» Si interruppe. «Per fortuna che il ghiaccio ha retto mentre ti trascinavo a riva.»

Shadow annuì.

«È stato bravissimo» disse a Hinzelmann, e il vecchio sorrise radioso con la sua faccia da folletto.

Shadow sentì chiudersi una porta. Continuò a sorseggiare il caffè.

Adesso che riusciva a pensare più lucidamente cominciava a farsi delle domande.

Si chiedeva per esempio come avesse fatto un uomo anziano, alto metà di lui e pesante forse un terzo a trascinarlo svenuto sul ghiaccio fino alla macchina. Si domandava come avesse fatto a portarlo in casa e a infilarlo nella vasca.

Hinzelmann si avvicinò al camino e con le pinze mise un ceppo sottile nel fuoco.

«Vuole sapere che cosa stavo facendo sul ghiaccio?»

Hinzelmann scrollò le spalle. «Non sono affari miei.»

«Sa, non capisco…» Shadow esitò per mettere ordine nei pensieri, «non capisco perché mi abbia salvato la vita.»

«Be’» disse Hinzelmann, «perché è così che sono stato cresciuto, se vedi qualcuno nei guai…»

«No» lo interruppe Shadow. «Non è questo che intendevo. Voglio dire, lei ha ammazzato tutti quei bambini, ogni inverno un bambino. Ero l’unico ad averlo capito. Deve aver visto che aprivo il bagagliaio. Perché non mi ha lasciato annegare?»

Hinzelmann piegò la testa e si grattò pensieroso il naso ondeggiando avanti e indietro come se stesse riflettendo. «Be’» disse, «è una buona domanda. Credo di averlo fatto perché ero in debito con un certo individuo. E io sono uno che paga i debiti.»

«Wednesday?»

«Esatto, lui.»

«C’era una ragione per cui dovevo nascondermi proprio a Lakeside, vero? Una ragione per cui nessuno sarebbe mai riuscito a trovarmi?»

Hinzelmann non disse niente. Sganciò un pesante attizzatoio nero dal muro e attizzò il fuoco, facendo alzare una nube di scintille e fumo. «Questa è casa mia» rispose in tono petulante. «È una buona città.»

Shadow finì di bere il caffè e appoggiò la tazza sul pavimento. Lo sforzo gli sembrò sfinente. «Da quanto tempo vive qui?»

«Abbastanza.»

«Ha fatto lei il lago?»

Hinzeimann lo guardò sorpreso. «Sì» disse. «L’ho fatto io. Quando arrivai lo chiamavano lago, ma non c’era che una sorgente con un ruscello e una gora.» Si fermò. «Ho capito subito che questo paese era l’inferno per la gente come me. Ci divora, e io non volevo essere divorato. Così ho fatto un patto: un lago in cambio della prosperità…»

«Al modesto costo di un bambino per inverno.»

«Bravi bambini» disse Hinzelmann scuotendo lentamente la testa. «Tutti bravi bambini. Sceglievo solo quelli che mi piacevano. A eccezione di Charlie Nelligan, che era una pecora nera. Quand’è successo, nel 1924,1925? Sì. Il patto era questo.»

«La gente della città» disse Shadow, «Mabel, Marguerite, Chad Mulligan… sono al corrente?»

Hinzelmann non rispose. Estrasse l’attizzatoio dal camino: i primi dieci centimetri di punta erano arancioni, arroventati. L’impugnatura dell’attizzatoio doveva essere troppo calda, ma la cosa non sembrava disturbare Hinzelmann, che continuò ad armeggiare col fuoco. Poi appoggiò l’oggetto rovente tra le fiamme. Disse: «Sanno di vivere in un buon posto. Mentre le altre città e cittadine della contea, diavolo, in questa parte dello stato, vanno in malora. Questo lo sanno.»

«Ed è merito suo?»

«Io proteggo la città» rispose Hinzelmann. «A Lakeside non succede niente che io non voglia. Lo capisci? Nessuno viene qua se io non voglio. È per questo che tuo padre ti ha mandato qui. Non ti voleva in giro per il mondo ad attirare l’attenzione. Ecco perché.»

«E lei l’ha tradito.»

«Non ho fatto proprio niente del genere. Era un imbroglione. Ma io pago sempre i miei debiti.»

«Non le credo» disse Shadow.

Hinzelmann aveva l’aria offesa e con una mano si ravviò una ciocca di capelli bianchi. «Mantengo sempre la mia parola.»

«No. Non è vero. Laura è venuta qui. Ha detto che qualcosa la stava chiamando. E cosa mi dice della coincidenza che ha portato Sam Black Crow e Audrey Burton in città la stessa notte? Non credo più alle coincidenze.

«Sam Black Crow e Audrey Burton. Due donne che mi conoscevano e sapevano che ero ricercato. Se una di loro avesse fallito nell’intento di smascherarmi, rimaneva sempre l’altra. E se avessero fallito entrambe, chi altri avrebbe fatto venire a Lakeside, Hinzelmann? Il direttore della prigione per un weekend di pesca sul ghiaccio? La madre di Laura?» Shadow era arrabbiato. «Voleva che me ne andassi e non voleva far sapere a Wednesday che era stato lei a cacciarmi.»

Alla luce del fuoco Hinzelmann sembrava più un gargoyle che un diavoletto. «Lakeside è una buona città» disse. Se non sorrideva aveva un’aria cerea, cadaverica. «E tu stavi attirando troppa attenzione. Un’attenzione negativa.»

«Doveva lasciarmi sul ghiaccio» disse Shadow. «Doveva lasciarmi nel lago. Ho aperto il baule della macchina. Al momento Alison è ancora gelata, ma quando il ghiaccio si scioglierà il corpo affiorerà in superficie. A quel punto andranno giù a dare un’occhiata, e troveranno il suo deposito di cadaverini. Immagino che alcuni siano ancora piuttosto ben conservati.»

Hinzelmann allungò una mano e impugnò l’attizzatoio. Non finse nemmeno più di attizzare il fuoco e lo brandì come una spada, un bastone, agitando nell’aria la punta arroventata e fumante. Shadow era consapevole di essere nudo, stanco e con i riflessi molto rallentati, tutt’altro che in grado di difendersi.

«Vuole uccìdermi? Si accomodi. Facciamola finita. Io sono comunque un uomo morto: so che lei è il padrone di questa città, il suo piccolo mondo. Ma se pensa che nessuno verrà a cercarmi, si illude. È finita, Hinzelmann. In un modo o nell’altro per lei è finita.»

Il vecchio si alzò appoggiandosi all’attizzatoio come a un bastone. A contatto con la punta incandescente, il tappeto bruciò. Quando Hinzelmann guardò Shadow i suoi occhi azzurro chiaro erano gonfi di lacrime. «Amo questa città» disse. «Mi piace davvero tanto il mio ruolo di vecchio brontolone, mi piace raccontare le mie storie, guidare Tessie e pescare nel ghiaccio. Ti ricordi quello che ti ho detto una volta? Non è per il pesce che prendi ma per la pace mentale che ti riporti a casa.»

Puntò l’attizzatoio in direzione di Shadow che ne sentì il calore a mezzo metro.

«Potrei ucciderti» disse Hinzelmann, «sistemarti per sempre. L’ho già fatto. Non sei il primo a capire cosa stavo facendo. Il padre di Chad Mulligan l’aveva capito. Ho sistemato lui e posso sistemare anche te.»

«Può darsi» rispose Shadow, «ma per quanto ancora, Hinzelmann? Un altro anno? Altri dieci? Adesso ci sono i computer, Hinzelmann. Non sono stupidi. Gli schemi si ripetono. Ogni anno a Lakeside sparisce un bambino. Prima o poi verranno a ficcare il naso. Come verranno a cercare me. Mi dica, quanti anni ha, lei?» Intanto ripiegava le dita intorno a uno dei cuscini del divano preparandosi a tirarselo sopra la testa per deviare il primo colpo.

La faccia di Hinzelmann era impassibile. «Mi davano i loro bambini prima che i romani arrivassero nella Foresta Nera» disse. «Prima di essere un coboldo ero un dio.»

«Forse è ora di cambiare.» Shadow si domandò che cosa fosse un coboldo.

L’altro lo fissava. Poi riappoggiò l’attizzatoio nel fuoco. «Non è così semplice. Che cosa ti fa pensare che io possa lasciare questa città anche se lo volessi, Shadow? Io faccio parte di Lakeside. Sarai tu a mandarmi via? Sei pronto a uccidermi, pur di mandarmi via?»

Shadow guardò per terra. Sul tappeto si vedevano ancora i bagliori della brace, dove la punta dell’attizzatoio aveva bruciato la lana. Hinzelmann seguì il suo sguardo e la schiacciò con il piede. Nella mente di Shadow si affollarono, non invitati, i volti dei bambini, molto più di cento, che lo fissavano con gli occhi ciechi e i capelli serpeggianti intorno al volto come lunghe alghe. Lo guardavano con aria di rimprovero.

Sapeva che stava per tradirli e non sapeva cosa fare per impedirselo.

«Non posso ucciderla. Lei mi ha salvato la vita.»

Scosse la testa. Non si era mai sentito più stronzo di così. Altro che l’eroe di un film o un investigatore, era soltanto un traditore di merda che faceva finta di indignarsi e poi se ne andava voltando le spalle a tutto.

«Vuoi conoscere un segreto?» chiese Hinzelmann.

«Va bene» rispose lui con il cuore pesante. Non ne poteva più di segreti.

«Guarda questo.»

Al posto di Hinzelmann comparve un bambino di circa cinque anni, con i capelli lunghi e scuri. Era completamente nudo eccetto per una logora striscia di cuoio intorno al collo. Lo trapassavano due spade: una conficcata nel petto, l’altra che entrava dalla spalla per uscire con la punta sotto la cassa toracica. Il sangue scorreva dalle ferite lungo il corpo del bambino formando una pozza intorno ai suoi piedi. Le spade erano straordinariamente antiche.

Il bambino guardò Shadow con occhi che esprimevano soltanto sofferenza.

E Shadow pensò tra sé: naturalmente. Un modo come un altro per fare un dio tribale. Non aveva bisogno che glielo si spiegasse. Sapeva tutto.

Prendi un bambino, lo fai crescere al buio impedendogli di vedere chiunque, di toccare chiunque, lo nutrì bene per qualche anno, lo nutri meglio di qualsiasi altro bambino nel villaggio e poi, dopo cinque anni, nella notte più lunga dell’anno lo trascini terrorizzato fuori dalla capanna in mezzo ai fuochi e lo trapassi con spadoni di ferro e di bronzo. Fai affumicare il corpicino sopra un fuoco di carbone fino a quando non è perfettamente essiccato e allora lo avvolgi in pelli di animali. Lo porti con te da un accampamento all’altro, nel cuore della Foresta Nera, offrendogli in sacrificio animali e bambini, trasformandolo nel talismano della tribù. Passato molto tempo, quando il talismano si sbriciola, metti le fragili ossa in una scatola e veneri la scatola; un giorno la scatola si aprirà e le ossa si sparpaglieranno in giro e verranno dimenticate e le tribù che adoravano il dio bambino della scatola saranno estinte da tempo; e il dio bambino, il talismano del villaggio, sarà un pallido ricordo, poco più che un fantasma: un folletto, un coboldo.

Shadow si chiese chi mai centocinquant’anni prima fosse emigrato nel Wisconsin settentrionale: un taglialegna, forse, o un cartografo, attraversando l’Atlantico con Hinzelmann vivo nel cuore.

Il bambino insanguinato scomparve e ricomparve il vecchio con il ciuffo di capelli bianchi e il sorriso da folletto, le maniche del maglione ancora bagnate da quando aveva infilato Shadow nella vasca che gli aveva salvato la vita.

«Hinzelmann?» chiamò una voce dalla porta.

Il vecchio si voltò imitato da Shadow.

«Ero venuto a dirti» disse Chad Mulligan con la voce tirata «che la bagnarola è andata giù. L’ho vista andar giù mentre ero in macchina e ho pensato di venire a dirtelo, nel caso non te ne fossi accorto.»

Impugnava la pistola puntata verso il pavimento.

«Ehi, Chad» disse Shadow.

«Ehi, amico» rispose l’altro. «Mi hanno comunicato ufficialmente che eri morto in prigione per un attacco di cuore.»

«Non dirmi. Sembra che non faccia altro che morire dappertutto.»

«È arrivato qui, Chad, e mi ha minacciato» disse Hinzelmann.

«No» ribatté Mulligan. «Sono in casa da dieci minuti. Ho sentito tutto. Di mio padre. Del lago.»

Entrò nella stanza senza alzare la canna della pistola. «Cazzo, Hinzelmann. È impossibile arrivare in questa città senza vedere il lago. È proprio in mezzo. Che cosa diavolo dovrei fare, adesso?»

«Lo devi arrestare» rispose subito il vecchio, un vecchio spaventato nella sua stanzetta piena di polvere. «Ha detto che mi avrebbe ucciso. Chad, sono così contento che tu sia qui.»

«No» rispose il poliziotto, «non lo sei.»

Hinzelmann sospirò. Si chinò come in un gesto di rassegnazione, invece estrasse l’attizzatoio dal fuoco. La punta era arroventata, arancione brillante.

«Mettilo giù, Hinzelmann. Mettilo giù lentamente e tieni le mani in alto dove le posso vedere, poi voltati con la faccia al muro.»

C’era un’espressione di assoluta paura sulla faccia del vecchio. Shadow avrebbe provato pena per lui se non avesse avuto vivo il ricordo delle lacrime ghiacciate sulle guance di Alison McGovern. Hinzelmann non si mosse, non appoggiò l’attizzatoio e non si voltò verso il muro. Shadow stava quasi lanciandosi per strapparglielo dalle mani quando il vecchio lo tirò contro Mulligan.

Fece un lancio dal basso in alto, tanto per fare, si sarebbe detto, e si precipitò verso la porta.

Mulligan deviò l’attizzatoio con il braccio sinistro.

Il rumore dello sparo risuonò assordante.

Un colpo in testa, pulito.

Mulligan disse: «Meglio che ti rivesti». Aveva parlato con una voce spenta.

Shadow annuì. Andò nell’altra stanza, aprì lo sportello dell’asciugatrice e si infilò i vestiti. I jeans erano ancora umidi ma li indossò lo stesso. Quando ritornò nel salotto tutto vestito — eccetto per il piumino rimasto sul fondo gelato del lago, e per gli stivali che non riusciva a trovare da nessuna parte — Mulligan stava tirando fuori dal camino alcuni pezzi di legno.

Disse: «È un brutto giorno quando un poliziotto deve provocare un incendio doloso per occultare un omicidio». Poi guardò Shadow. «Hai bisogno di un paio di stivali.»

«Non so dove li ha messi.»

«Diavolo» esclamò Mulligan. Poi aggiunse: «Mi dispiace, Hinzelmann». Prese il vecchio per il colletto e alla cintura e lo buttò nel camino. I capelli bianchi presero fuoco subito e la stanza cominciò a riempirsi dell’odore di carne bruciata.

«Non è stato un omicidio. L’hai fatto per autodifesa» disse Shadow.

«Lo so io cos’è stato» rispose seccamente Mulligan. Stava trafficando con i ceppi fumanti che aveva sparso in giro per la stanza. Ne spinse uno vicino al divano, prese una vecchia copia del "Lakeside News" e ne accartocciò le pagine. Il giornale prese fuoco immediatamente.

«Esci fuori» disse il poliziotto.

Aprì le finestre mentre uscivano dalla casa e chiuse la porta.

Shadow lo seguì a piedi nudi fino alla macchina. Mulligan gli aprì la portiera accanto al posto di guida e Shadow salì pulendosi i piedi sul tappetino. Poi si infilò i calzini ormai praticamente asciutti.

«Possiamo andare a prendere un paio di stivali da Hennings Farm and Home» disse Chad Mulligan.

«Quanto hai sentito?»

«Abbastanza. Troppo.»

Arrivarono da Hennings Farm and Home in silenzio e al parcheggio il capo della polizia disse: «Che numero porti?».

Shadow glielo disse.

Mulligan entrò nel negozio e ne uscì poco dopo con un paio di calzettoni pesanti di lana e un paio di stivali di cuoio adatti ai lavori nei campi. «C’erano solo questi della tua misura. Oppure stivali di gomma, ma ho pensato che avresti preferito questi.»

Shadow si infilò calzettoni e stivali. Gli andavano perfettamente.

«Grazie» disse.

«Hai una macchina?»

«È parcheggiata sulla carrozzabile del lago. Vicino al ponte.»

Mulligan mise in moto e uscì dal parcheggio.

«Che ne è stato di Audrey?»

«Il giorno dopo che ti hanno portato via mi ha detto che le piacevo come amico, ma che tra noi le cose non avrebbero mai funzionato, essendo parenti eccetera eccetera e se ne è tornata a Eagle Point. Mi ha spezzato il cuore, praticamente.»

«E naturale» disse Shadow. «Niente di personale contro di te. Hinzelmann non aveva più bisogno di lei e l’ha fatta andare via.»

Passando davanti alla casa del vecchio videro uscire dal camino un denso pennacchio di fumo bianco.

«Era venuta qui soltanto perché ce l’aveva fatta venire lui. Per dargli una mano a mandarmi via. Stavo attirando troppa attenzione, un’attenzione che non desiderava.»

«Credevo di piacerle.»

Si fermarono accanto alla macchina a noleggio di Shadow. «Adesso che cosa farai?» gli chiese.

«Non so» rispose Mulligan. La sua faccia solitamente tormentata cominciava ad avere un’aria meno catatonica. Sembrava più angosciato del solito. «Credo di avere un paio di possibilità. O mi…» — distese indice e pollice come a simulare una pistola immaginaria che si puntò in bocca — «ficco un proiettile nel cervello. Oppure aspetto un paio di giorni, fino a quando il ghiaccio non sarà sciolto completamente, mi lego un blocco di cemento alla gamba e salto giù dal ponte. Oppure prendo dei sonniferi. Magari potrei andare in macchina nella foresta e prenderli lì. Non voglio che sia uno dei miei ragazzi a ripulire. Meglio lasciare l’incomodo alla contea, giusto?» Sospirò e scosse la testa.

«Non l’hai ucciso tu, Chad. Hinzelmann è morto tanto tempo fa, molto lontano da qui.»

«Grazie per averlo detto, Mike. Però l’ho ucciso. Ho sparato a un uomo a sangue freddo e ho cercato di far passare l’omicidio per un incidente. E se mi chiedessi perché l’ho fatto, perché l’ho fatto veramente, non sarei neanche in grado di dirtelo.»

Shadow allungò una mano e toccò l’altro sul braccio. «Hinzelmann era il padrone della città. Non credo che tu avessi molta voce in capitolo in quello che è successo nella casa. Credo che sia stato lui ad attirarti lì. Voleva che sentissi le nostre parole. Ti ha teso una trappola. Era l’unico modo che aveva per andarsene, credo.»

L’espressione infelice di Mulligan non cambiò. Shadow si rese conto che l’altro lo ascoltava a malapena. Aveva ucciso Hinzelmann e costruito una pira, e adesso, obbedendo all’ultimo dei desideri del vecchio, si sarebbe tolto la vita.

Shadow chiuse gli occhi cercando di ricordare quel luogo mentale dov’era andato quando Wednesday gli aveva chiesto di far nevicare: quel luogo che riusciva a forzare i pensieri di un altro. Sorrise anche se non ne aveva voglia e disse: «Chad. Lascia perdere». Vedeva una nube, nella mente dell’altro, nera e opprimente, la vedeva e concentrandosi immaginò di dissiparla come fa il sole con la foschia del mattino. «Chad» ripeté con forza, cercando di perforare quella nuvola, «adesso Lakeside cambierà. Non sarà più l’unica città tranquilla di una regione tormentata e depressa. Assomiglierà molto di più alle altre. Ci saranno più problemi. Disoccupati. Fuori di testa. Più aggressioni. Crimini di ogni genere. Avranno bisogno di un capo della polizia con esperienza. Lakeside ha bisogno di te.» Poi aggiunse: «Marguerite ha bisogno di te».

Qualcosa si agitò nella nube nera che riempiva la testa di Chad. Shadow lo percepì e andò oltre, visualizzando le mani scure e pratiche di Marguerite Olsen, i suoi occhi intensi e i capelli lunghissimi e neri. Visualizzò il modo in cui piegava la testa e accennava a un sorriso, se era divertita. «Ti sta aspettando.» Shadow sapeva di dire la verità.

«Margie?»

In quel momento — in seguito non avrebbe saputo dire come aveva fatto, e dubitava di poterlo fare ancora — Shadow raggiunse la mente di Chad Mulligan e con estrema semplicità vi estrasse gli eventi di quel pomeriggio con la precisione e il distacco di un rapace che svuoti le orbite di un animale morto.

Chad rilassò la fronte aggrottata, batté le palpebre assonnato.

«Vai a trovare Margie. Mi ha fatto piacere rivederti, Chad. Stammi bene.»

«Certo» sbadigliò l’altro.

La radio gracchiò un messaggio e Chad allungò una mano per afferrare il microtelefono. Shadow uscì dalla macchina della polizia.

Si avvicinò alla sua. Vedeva la distesa grigia del lago in mezzo alla città. Pensò ai bambini morti che aspettavano sul fondo.

Tra poco Alison sarebbe affiorata in superficie…

Quando passò accanto alla casa di Hinzelmann vide che il pennacchio di fumo si era trasformato già in una vampata e sentì il suono della sirena dei pompieri.

Si diresse a sud verso la Highway 51. Andava al suo appuntamento finale. Ma prima, pensò, si sarebbe fermato a Madison per dire un ultimo addio.


La cosa che piaceva di più a Samantha Black Crow era fare la chiusura serale della Coffee House. Era una cosa che la calmava: le dava la sensazione di mettere ordine nel mondo. Infilava un cd delle Indigo Girls nello stereo e svolgeva gli ultimi lavori seguendo un ritmo solo suo. Innanzitutto puliva la macchina del caffè. Poi faceva il giro finale per assicurarsi che tutte le tazze e i piatti fossero tornati in cucina, e che i giornali sparsi nel locale fossero stati raccolti e ammucchiati ordinatamente vicino all’ingresso, pronti per essere riciclati.

La Coffee House le piaceva molto. Era un locale formato da una lunga serie di stanze serpeggianti piene di poltrone, divani e tavolini bassi, in una strada su cui si affacciavano molte librerie che vendevano libri usati.

Coprì il cheesecake avanzato e lo mise nel grande frigorifero, con uno straccio ripulì le ultime briciole. Le piaceva essere sola.

Un colpo battuto alla finestra attirò la sua attenzione richiamandola al mondo reale. Andò ad aprire la porta per far entrare una donna della sua età, con i capelli color magenta legati in una coda di cavallo. Si chiamava Natalie.

«Ciao» le disse Natalie alzandosi sulle punte per baciarla tra la guancia e l’angolo della bocca. Un tipo di bacio che può significare molte cose. «Hai finito?»

«Quasi.»

«Vuoi andare al cinema?»

«Certo. Mi piacerebbe. Ne ho ancora per cinque minuti. Perché non ti siedi a leggere l’"Onion"?»

«Ho già visto il numero di questa settimana.» Sedette vicino alla porta e rovistò tra la pila di giornali fino a quando non trovò qualcosa di suo gradimento. Cominciò a leggere mentre Sam riponeva il denaro della cassa in un sacchetto per metterlo nella cassaforte.

Andavano a letto insieme da una settimana. Sam si chiedeva se fosse quella la relazione che aspettava da tutta la vita. Si diceva che era soltanto per una questione di sostanze chimiche e ormoni se si sentiva felice, quando vedeva Natalie, e forse era davvero tutto lì; comunque sapeva che quando la vedeva le veniva voglia di sorridere. E che se erano insieme si sentiva a suo agio.

«In questo giornale» disse Natalie «c’è un altro di quegli articoli che si intitolano L’America sta cambiando?.»

«Be’, sta cambiando o no?»

«Questo non ce lo dicono. Dicono che forse sì, ma non sanno come, non sanno perché e forse non sta cambiando nemmeno.»

Sam sorrise. «Così hanno accontentato tutti, non ti pare?»

«Credo di sì.» Natalie aggrottò la fronte e tornò a leggere il giornale.

Sam lavò lo strofinaccio e lo ripiegò. «Comunque malgrado il governo e tutto il resto all’improvviso mi sembra che la mia vita vada benissimo. Forse è la primavera che è arrivata presto. È stato un lungo inverno e sono contenta che sia finito.»

«Anch’io.» Seguì una pausa. «L’articolo dice che un sacco di gente sta raccontando di fare strani sogni. Io non ne ho fatti. Niente di più strano del solito.»

Sam si guardò intorno per vedere se aveva dimenticato qualcosa. Niente. Aveva fatto un buon lavoro. Si sfilò il grembiule, lo appese in cucina. Poi tornò e cominciò a spegnere le luci. «Recentemente in effetti io ho fatto qualche sogno pazzesco» disse. «Ho perfino cominciato cominciato a scriverli in un diario. Quando mi sveglio li scrivo. Però poi quando leggo quello che ho scritto non vogliono dire più niente.»

Infilò la giacca e i guanti.

«Io ho studiato un po’ l’interpretazione dei sogni» disse Natalie. Natalie aveva fatto un po’ di tutto. Dallo studio di antiche discipline di autodifesa alle saune, dal feng shui e alla jazz dance. «Se me li racconti ti dico che cosa significano.»

«Va bene.» Sam aprì la porta e spense l’ultimo interruttore. Fece uscire Natalie, la seguì e chiuse l’ingresso della Coffee House. «Qualche volta ho sognato della gente che cadeva dal cielo. Altre volte sono sottoterra che parlo con una donna con la testa di bufalo. E altre ancora sogno questo tizio che ho baciato in un bar il mese scorso.»

Natalie sbuffò. «Una storia di cui avresti dovuto parlarmi?»

«Forse. Non una storia come pensi tu. Era un bacio tipo vaffanculo.»

«Gli stavi dicendo di andare ’affanculo?»

«No, stavo dicendo a tutti gli altri di andarci. Ma avresti dovuto esserci per capire la situazione.»

I tacchi di Natalie risuonavano sul marciapiede e Sam le camminava accanto. «È il proprietario della mia macchina.»

«Quella cosa rossa che hai preso quando sei andata a trovare tua sorella?»

«Sì.»

«E lui dov’è finito? Perché non se la riprende?»

«Non lo so. Forse è in prigione. Forse è morto.»

«Morto?»

«È possibile.» Sam esitò. «Qualche settimana fa ne ero certa. Non so dirti come ma lo sapevo con assoluta sicurezza. Poi invece ho cominciato a pensare che forse no, non era morto. Non so. Può darsi che le mie percezioni extrasensoriali non funzionino granché.»

«Per quanto tempo pensi di tenerti la macchina?»

«Fino a quando qualcuno non viene a reclamarla. Penso che lui vorrebbe così.»

Natalie la guardò sconcertata, poi disse: «E queste da dove vengono?».

«Cosa?»

«Le rose. Quelle che hai in mano, Sam. Da dove sono arrivate? Le avevi già, quando siamo uscite dalla Coffee House? Non credo, le avrei notate.»

Sam guardò in basso e sorrise: «Che carina sei stata. Scusa se non ti ho ringraziato subito. Sono bellissime. Grazie. Non sarebbero state più adatte rosse?».

Erano sei rose bianche, con i gambi avvolti in un pezzetto di carta.

«Non te le ho date io» disse Natalie con una smorfia.

E nessuna delle due parlò più fino a quando non arrivarono al cinema.

Tornata a casa, quella notte, Sam mise le rose in un vaso improvvisato. In seguito ne fece una copia in bronzo e tenne per sé la storia di come le aveva avute, anche se una notte che era molto ubriaca raccontò a Caroline, che aveva preso il posto di Natalie, la storia delle rose fantasma. Caroline convenne con lei che si trattava di una storia davvero strana e magica, ma in fondo al cuore non credette a una sola parola e quindi tutto andò bene.


Shadow aveva parcheggiato vicino a un telefono pubblico. Il numero gliel’aveva dato il servizio informazioni.

No, gli dissero. Non c’è. Probabilmente è ancora alla Coffee House.

Durante il tragitto si fermò per comperare le rose.

Trovò il locale dove lavorava Sam, attraversò la strada e rimase ad aspettare e osservare davanti a una libreria.

Il locale chiudeva alle otto, e dieci minuti dopo le otto Shadow vide Sam Black Crow uscire in compagnia di una donna più piccola con i capelli a coda di cavallo dall’insolita sfumatura di rosso, camminavano per mano come se quel gesto bastasse a tenere il mondo a bada, e chiacchieravano, o meglio Sam parlava e l’amica ascoltava. Shadow si chiese che cosa le stesse dicendo. Parlando sorrideva.

Le due donne attraversarono la strada e gli passarono davanti. La ragazza con la coda di cavallo gli arrivò a trenta centimetri di distanza, Shadow avrebbe potuto allungare una mano e toccarla, ma loro non lo videro.

Rimase a osservarle mentre si allontanavano lungo la strada e provò uno spasimo, come se dentro gli risuonasse un accordo in minore.

Era stato un bel bacio, rifletteva Shadow, però Sam non l’aveva mai guardato come stava guardando la ragazza con la coda di cavallo e non lo avrebbe mai più potuto fare.

«Che diavolo, mi rimane pur sempre il ricordo di Perù» disse tra sé mentre Sam si allontanava. «Di El Paso. I ricordi non me li toglie nessuno.»

Poi la rincorse e le infilò in mano le rose. Si allontanò velocemente perché non voleva che lei gliele restituisse.

Risalì la collina per tornare dove aveva parcheggiato la macchina e partì seguendo le indicazioni per Chicago senza superare mai il limite di velocità.

Era l’ultima cosa che doveva fare.

Non aveva fretta.


Passò la notte in un Motel 6. Svegliandosi la mattina si rese conto che i suoi indumenti puzzavano ancora della melma del lago. Li indossò pensando che comunque non dovevano durare troppo.

Pagò il conto. Cercò l’edificio di arenaria e riuscì a trovarlo facilmente. Era più piccolo di come lo ricordava.

Imboccò le scale camminando con calma, perché altrimenti avrebbe voluto dire che era ansioso di andare a morire, ma nemmeno troppo piano, perché la lentezza avrebbe significato paura. Qualcuno aveva spazzato e lavato le scale: non c’erano più i sacchi neri dell’immondizia, e invece che di verdura marcia adesso puzzavano di candeggina.

La porta rossa all’ultimo piano era spalancata: nell’aria aleggiava un odore di cibo stantio. Dopo un attimo di esitazione Shadow suonò il campanello.

«Arrivo!» gridò una voce femminile, e piccola come uno gnomo e straordinariamente bionda Utrennjaja Zarja uscì dalla cucina e si affrettò verso di lui asciugandosi le mani sul grembiule. Aveva un’aria diversa dalla prima volta, pensò Shadow, sembrava felice. Le guance erano rosse di fard e nei suoi vecchi occhi brillava una luce. Vedendolo rimase a bocca aperta e gridò: «Sei tornato a trovarci!». Gli corse incontro a braccia aperte. Lui si abbassò per abbracciarla, lei lo baciò sulla guancia. «È così bello rivederti! Però devi andare via subito.»

Shadow entrò. Tutte le porte delle stanze erano aperte (eccetto, naturalmente, quella di Polunochnaja Zarja) ed erano spalancate anche le finestre. Un venticello gentile soffiava lungo il corridoio.

«State facendo le pulizie di primavera» disse Shadow alla donna.

«Aspettiamo un ospite. Adesso però devi andartene davvero. Vuoi un caffè, prima?»

«Sono venuto per Chernobog» disse Shadow. «È arrivato il momento.»

Utrennjaja Zarja scosse la testa con impeto. «No, no. Non vuoi incontrarlo. Non è una buona idea.»

«Lo so, ma l’unica cosa che ho capito veramente su come ci si deve comportare con gli dèi è che se stringi un patto poi lo mantieni. Loro contravvengono a tutte le regole che vogliono. Noi no. Anche se provassi a uscire di qui sono sicuro che i miei piedi mi riporterebbero indietro.»

La donna sporse il labbro inferiore, poi disse: «È vero. Vai via per oggi e torna domani. Domani non ci sarà».

«Chi è?» gridò una voce dal fondo del corridoio. «Utrennjaja Zarja, con chi stai parlando? Non riesco a girare questo materasso da sola.»

Shadow percorse il corridoio e disse: «Buon giorno, Vechernjaja Zarja. Posso aiutarla?». Con un gridolino di sorpresa la donna lasciò cadere il materasso.

La stanza era piena di polvere: c’erano strati di polvere su ogni superficie, di legno e di vetro, e i granelli sospesi nell’aria danzavano nei raggi di sole entrati dalla finestra aperta, disturbati da una raffica occasionale di vento e dal pigro ondeggiare delle tendine di pizzo ingiallito.

Shadow ricordava quella stanza, ci aveva dormito Wednesday. Era la camera di Bielebog.

Vechernjaja Zarja lo guardò con aria incerta. «Il materasso» disse. «Bisogna girarlo.»

«È facile» rispose Shadow. Prese il materasso e lo capovolse con facilità. Era un vecchio letto di legno, e il materasso di piume, che pesava quanto un uomo, ricadde sulla rete alzando un nuvolone di polvere.

«Cosa ci fai qui?» gli chiese lei in tono bellicoso.

«Sono venuto perché in dicembre un giovanotto ha fatto una partita a dama con un vecchio dio e ha perso.»

I capelli grigi di Vechernjaja Zarja erano legati in una crocchia stretta. Fece una smorfia. «Torna domani.»

«Non posso» rispose lui con semplicità.

«È il tuo funerale, allora. Vai a sederti. Utrennjaja Zarja ti porterà una tazza di caffè. Chernobog dovrebbe arrivare da un momento all’altro.»

Shadow ripercorse il corridoio fino in salotto. La stanza, benché ora la finestra fosse aperta, era esattamente come la ricordava. Il gatto grigio che dormiva su un bracciolo del divano socchiuse un occhio, poi, poco impressionato da Shadow, ricominciò a ronfare.

Era lì che aveva sfidato Chernobog a dama, in quella stanza aveva puntato la sua vita per convincere un vecchio a prendere parte all’ultimo maledetto imbroglio di Wednesday. La brezza fresca che entrava dalla finestra aperta scacciava l’aria stantia.

Entrò Utrennjaja Zarja con un vassoio di legno rosso. Accanto alla tazzina smaltata di caffè nero fumante c’era un piattino pieno di biscotti con pezzetti di cioccolato. Appoggiò il vassoio sul tavolo davanti a Shadow.

«Ho rivisto Polunochnaja Zarja» disse lui. «È venuta a trovarmi nell’aldilà e mi ha dato la luna perché mi rischiarasse il cammino. Ha preso qualcosa da me ma non ricordo cosa.»

«Tu le piaci» rispose Utrennjaja Zarja. «Lei sogna tanto. E ci protegge. E talmente coraggiosa.»

«Dov’è Chernobog?»

«Dice che le pulizie di primavera gli danno ai nervi ed è andato a leggere il giornale nel parco. A comprare le sigarette. Magari oggi non ritorna nemmeno. Non sei obbligato ad aspettarlo. Perché non te ne vai? Vieni domani.»

«Aspetterò.» Non c’era nessuna forza magica che gli imponesse di aspettare, Shadow ne era sicuro. Era una decisione sua. Doveva farlo, e se fosse stato l’ultimo gesto della sua vita, bene, era lì di sua spontanea volontà. Dopo di che basta obblighi, niente più misteri né fantasmi.

Sorseggiò il caffè caldo, nero e dolce proprio come lo ricordava.

Sentì arrivare dal corridoio una profonda voce maschile e si mise seduto più diritto. Fu contento di vedere che non gli tremavano le mani.

«Shadow?»

«Buongiorno» disse. Rimase seduto.

Chernobog entrò con una copia del "Chicago Sun Times" che appoggiò sul tavolino. Fissò Shadow, poi gli tese una mano con aria incerta. Si scambiarono una stretta.

«Sono venuto per il nostro accordo. Lei ha fatto la sua parte. Adesso tocca a me.»

Chernobog annuì e aggrottò la fronte. Il sole gli faceva brillare i capelli grigi e i baffi, rendendoli quasi dorati. «È…» si accigliò, «non è…» si interruppe. «Va’ via, è meglio. Non è il momento adatto.»

«Faccia pure con comodo. Io sono pronto.»

Chernobog sospirò. «Tu sei un ragazzo molto stupido, lo sai?»

«Credo di sì.»

«Sei un ragazzo stupido. E in cima a quella montagna hai fatto un ottimo lavoro.»

«Ho fatto quello che dovevo fare.»

«Può darsi.»

Chernobog si avvicinò alla vecchia credenza di legno e si chinò per sfilare da sotto una valigetta diplomatica. Toccò le chiusure che scattarono con un clic soddisfacente, sollevò il coperchio e prese dalla valigia un martello. Lo soppesò: sembrava una mazza in miniatura, con il manico di legno macchiato.

Poi si rialzò. Disse: «Io ti sono debitore. Più di quanto tu possa immaginare. Per merito tuo le cose stanno cambiando. È arrivata primavera. L’autentica primavera».

«So che cos’ho fatto» disse Shadow. «Non avevo molte altre possibilità.»

Chernobog annuì. Nei suoi occhi c’era un’espressione che Shadow non ricordava di avergli mai visto. «Ti ho parlato di mio fratello?»

«Bielebog?» Shadow si alzò e andò a mettersi al centro del tappeto sporco di cenere. Si inginocchiò. «Ha detto che non lo vedeva da tanto tempo.»

«Sì» rispose il vecchio alzando il martello. «È stato un lungo inverno, ragazzo, un lunghissimo inverno. Ma adesso sta finendo.» Scosse la testa lentamente come se cercasse di ricordare qualcosa. «Chiudi gli occhi.»

Shadow ubbidì, alzò la testa e aspettò.

Il martello era freddo come il ghiaccio, e gli sfiorò la fronte con la delicatezza di un bacio.

«Pum\ Ecco fatto» esclamò Chernobog. C’era un sorriso sulla sua faccia che Shadow non aveva mai visto prima, rilassato e caldo come il sole di un giorno d’estate. Il vecchio tornò verso la valigetta, ripose il martello, la richiuse e la spinse di nuovo sotto la credenza.

«Chernobog? Ma lei è davvero Chernobog?»

«Sì. Per oggi lo sono» rispose il vecchio. «Domani sarò Bielebog, per oggi sono ancora Chernobog.»

«Allora perché? Perché non mi ha ucciso quando poteva ancora farlo?»

Il vecchio sfilò una sigaretta senza filtro dal pacchetto, prese una grossa scatola di fiammiferi dalla mensola del caminetto e accese la sigaretta. Sembrava profondamente immerso nei suoi pensieri. «Perché» disse dopo qualche tempo «c’è il sangue. Ma c’è anche la gratitudine. Ed è stato un lungo, lunghissimo inverno.»

Shadow si alzò. Ripulì i jeans tutti impolverati sulle ginocchia.

«Grazie» disse.

«È stato un piacere» rispose l’altro. «Sai dove trovarmi, la prossima volta che vvuoi fare una partita a dama. I bianchi li prenderò io.»

«Grazie, magari verrò, ma non subito.» Guardò il vecchio negli occhi sfavillanti chiedendosi se avessero avuto sempre quella sfumatura d’azzurro dei fiori del granturco. Si strinsero la mano senza dirsi addio.

Uscendo, Shadow baciò Utrennjaja Zarja sulla guancia, baciò la mano di Vechernjaja Zarja e scese le scale facendo due gradini alla volta.

Post scriptum

Reykjavik, in Islanda, è una città strana anche per chi ha visto molte città strane. È vulcanica, e l’energia che la riscalda viene da grandi profondità.

Ci sono turisti, anche se non quanti uno si potrebbe aspettare all’inizio di luglio. Il sole brilla, brillava ormai da settimane: smetteva di sfavillare per un paio d’ore nel cuore della notte, tra le due e le tre del mattino seguiva una specie di alba buia e il giorno ricominciava daccapo.

Il turista grande e grosso aveva passeggiato in lungo e in largo tutta la mattina ascoltando la gente parlare in una lingua che in mille anni era cambiata ben poco. Gli islandesi potevano leggere le antiche saghe con la facilità con cui leggevano un quotidiano. Sull’isola c’era un senso di continuità che lo spaventava e insieme trovava disperatamente rassicurante. Era molto stanco: quella luce perenne gli aveva reso praticamente impossibile il sonno, ed era rimasto seduto tutta la notte nella sua camera d’albergo a leggere una guida e Casa desolata, che aveva comperato qualche settimana prima in un aeroporto, non ricordava più quale. Ogni tanto aveva interrotto la lettura per guardare fuori della finestra.

Finalmente anche l’orologio aveva decretato l’arrivo del mattino.

Comperò una barretta di cioccolato in uno dei numerosi negozi di dolciumi e continuò a camminare sul marciapiede, trovandosi costretto di tanto in tanto a ricordare la natura vulcanica dell’Islanda. Gli capitava di girare un angolo e notare per un momento una certa qualità sulfurea dell’aria. Più che l’Ade gli faceva venire in mente l’odore delle uova marce.

La maggior parte delle donne che gli passavano accanto erano bellissime: snelle e pallide, il tipo di donna che piaceva a Wednesday. Shadow si domandò che cosa l’avesse attirato in sua madre, che era sì bella, ma molto diversa.

Sorrideva alle donne carine perché lo facevano sentire maschio in una maniera piacevole, e sorrideva anche alle altre perché si stava divertendo.

A un certo punto, non sapeva esattamente quando, si era accorto di essere osservato. Durante la passeggiata per Reykjavik aveva avuto la conferma che qualcuno lo seguiva. Ogni tanto si girava all’improvviso per cogliere l’inseguitore sul fatto ma si ritrovava a fissare le strade riflesse nelle vetrine dei negozi, niente di strano, nessuno che sembrasse pedinarlo.

Entrò in un pìccolo ristorante dove mangiò pica affumicata, more e salmone artico con le patate bollite, bevendo una Coca-Cola più dolce e zuccherina di quella che vendevano negli Stati Uniti.

Quando gli portò il conto il cameriere domandò: «Mi scusi, è americano?».

«Sì.»

«Allora buon quattro di luglio.» Il cameriere sembrava molto compiaciuto.

Shadow non si era reso conto che fosse già il quattro. Il giorno dell’Indipendenza. Sì. L’idea dell’indipendenza gli piaceva. Lasciò la mancia insieme al denaro del conto e uscì fuori. Dall’Atlantico soffiava un vento freddo, e Shadow si abbottonò la giacca.

Andò a sedersi sull’argine erboso per ammirare la città, e gli venne in mente che prima o poi sarebbe dovuto tornare a casa. E che un giorno avrebbe dovuto costruirsi una casa a cui tornare. Si chiese se la casa fosse come un evento che accadeva a un dato luogo dopo un po’ di tempo, oppure un posto che se si continuava a camminare, ad aspettare e a desiderare abbastanza, prima o poi si finiva per trovare.

Un uomo anziano si avvicinò a grandi passi: portava un mantello grigio scuro dall’orlo logoro, come se avesse molto viaggiato, e un cappello blu dalla tesa larga, con un piuma di gabbiano fissata spavaldamente nel nastro. Sembrava un vecchio hippy, pensò Shadow. O un pistolero in pensione. Era assurdamente alto.

Il vecchio si accovacciò accanto a lui e gli fece un cenno laconico. Aveva una benda da pirata su un occhio e un pizzetto bianco sul mento. Shadow si chiese se volesse scroccargli una sigaretta.

«Hvernig gengur? Manst pú eftir mér?» disse il vecchio.

«Mi dispiace, non parlo islandese.» E goffamente aggiunse la frase che aveva imparato quella notte dal suo frasario: «Eg tala bara ensku», «Parlo solo inglese», poi aggiunse: «Americano».

Il vecchio annuì lentamente. Disse: «Tanto tempo fa la mia gente è andata fino in America. Sono andati in America e poi sono tornati in Islanda. Hanno detto che era un buon paese per gli uomini, ma un cattivo posto per gli dèi. E senza i loro dèi si sentivano troppo… soli». Parlava l’inglese fluentemente, con strane pause e un ritmo molto particolare. Shadow lo guardò: visto da vicino sembrava vecchissimo, aveva la pelle coperta da un fitto reticolo di rughe minuscole come le crepe nel granito.

Il vecchio disse: «Io ti conosco, ragazzo».

«Ah sì?»

«Tu e io abbiamo percorso lo stesso sentiero. Sono rimasto appeso all’albero per nove giorni, sacrificio di me stesso a me stesso. Sono il dio degli Asi, il signore delle forche.»

«Sei Odino.»

L’uomo annuì pensieroso come soppesando il nome. «Ebbene sì, mi chiamano in molti modi, sono anche Odino, figlio di Borr» disse.

«Ti ho visto morire, ho vegliato il tuo corpo. Hai cercato di distruggere tutto per il potere. Avresti sacrificato tutto per te stesso. Ci hai provato.»

«No. Non ho fatto niente del genere.»

«Wednesday l’ha fatto. Era te.»

«Lui era me, sì. però io non sono lui.» L’uomo si grattò il naso facendo ballonzolare la piuma di gabbiano. «Tornerai» chiese il signore delle forche «in America?»

«Non ho niente a cui tornare» rispose Shadow, e mentre lo diceva capì che era una menzogna.

«Ci sono cose che ti aspettano» disse il vecchio, «ma aspetteranno fino al tuo ritorno.»

Una farfalla bianca passò volteggiando. Shadow non parlò. Ne aveva avuto abbastanza degli dèi e del loro modo di fare per parecchie vite. Decise che sarebbe andato in autobus all’aeroporto a cambiare il suo biglietto con uno per un volo diretto verso qualche località sconosciuta. Voleva viaggiare ancora.

«Ehi» disse, «ho una cosa per te.» Rovistò in fondo alla tasca e trovò l’oggetto che cercava. «Dammi una mano» disse.

Odino lo guardò con aria strana e assorta. Poi scrollò le spalle e tese la mano destra con il palmo all’ingiù. Shadow gliela girò.

Aprì le mani mostrando che erano completamente vuote e fece comparire l’occhio di vetro nel palmo scuro e rugoso del vecchio. Ve lo lasciò.

«Come hai fatto?»

«Magia» rispose Shadow serio.

Il vecchio fece una smorfia, rise e applaudì. Guardò l’occhio, tenendolo tra indice e pollice, e annuì, come se sapesse esattamente di cosa si trattava, poi lo infilò in un sacchetto di pelle che portava appeso alla cintura. «Takk kærlega. Ne avrò cura io.»

«È stato un piacere» disse Shadow. Si alzò ripulendosi l’erba dai jeans.

«Ancora» ordinò il signore di Asgard, con un gesto imperioso della testa, una voce profonda e autoritaria. «Fanne altre. Altre magie.»

«Non siete mai soddisfatti» disse Shadow. «D’accordo: questa è una magia che ho imparato da un tizio che adesso è morto.»

Allungò una mano e dall’aria afferrò una moneta d’oro. Era una moneta d’oro normale: non avrebbe riportato indietro i morti né guarito i malati, però era pur sempre d’oro.

«E questo è tutto» disse tenendola tra l’indice e il pollice. «Fine della storia.»

La lanciò in aria con un colpetto di pollice.

La moneta disegnò un arco scintillante nel sole e rimase sospesa nel cielo di mezza estate come se non volesse tornare più a terra. Forse non tornò. Shadow non restò a controllare. Si allontanò dall’argine, e continuò a camminare.

Ringraziamenti

Scrivere questo libro ha richiesto tempo, un lungo viaggio, e mi ha reso debitore verso molte persone.

La signora Hawley mi ha prestato la sua casa in Florida per scrivere, a patto che spaventassi e scacciassi gli avvoltoi. Poi mi ha prestato anche la sua casa in Manda, perché finissi il libro, pregandomi di non spaventare e non scacciare i fantasmi. Grazie a lei e al signor Hawley per la loro gentilezza e generosità. Jonathan e Jane mi hanno offerto casa e amaca, e in cambio io ho provveduto a pescare dalla vasca dei ramarri certe curiose bestioline che ho visto solo in Florida. Sono molto grato a tutti loro.

Dan Johnson mi ha fornito le informazioni mediche di cui avevo bisogno man mano, mi ha segnalato gli anglicismi casuali e involontari (come molti altri, del resto), ha risposto alle domande più strane e, un giorno di luglio, mi ha portato in giro per il Wisconsin settentrionale su un piccolo aereo privato. Oltre a fare in modo che la mia vita procedesse regolarmente mentre lavoravo al libro, la mia assistente, la mitica Lorraine Garland, è riuscita a reperire il numero di abitanti di alcuni sperduti paesini, e non ho ancora capito come abbia fatto. (Suona in un gruppo tutto femminile, le Flash Girls; fatela contenta, comprate l’ultimo album, Play Each Morning, Wild Queen.) Sul treno diretto a Gothenburg Terry Pratchett mi ha aiutato a sbrogliare una trama parecchio intricata. Eric Edelman mi ha ragguagliato su una serie di dubbi di genere diplomatico. Anna Sunshine Ison ha dissotterrato alcuni reperti dai campi di concentramento per i giapponesi sulla costa occidentale, reperti che dovranno aspettare il prossimo libro per una collocazione, dal momento che in questo non hanno trovato posto. Nell’epilogo le parti migliori del dialogo sono state scritte grazie a Gene Wolfe. Il sergente Kathy Ertz ha cortesemente risposto alle mie più assurde domande di procedura poliziesca, e il vicesceriffo Multhauf mi ha accompagnato in macchina per una ricognizione. Pete Clark ha accolto con gentilezza e senso dello humour alcune mie ridicole perplessità di carattere personale. Dale Robertson è stato il consulente idrologo del libro. Le osservazioni sui popoli, le lingue e i pesci fatte da Jim Miller mi sono state molto utili, e altrettanto devo dire dell’apporto linguistico di Margret Rodas. Jamy Ian Swiss ha conferito il tocco magico ai giochi con le monete. Qualsiasi errore contenuto in queste pagine è mio, e non può essere attribuito ad altri.

Molte persone hanno letto il manoscritto e mi hanno consigliato, fatto correzioni, incoraggiato, riempito di informazioni preziose. Ringrazio in particolare Colin Greenland e Susanna Clarke, John Clute e Samuel R. Delany. Inoltre: Owl Goingback (un nome che è un programma), Iselin Røsjø Evensen, Peter Straub, Jonathan Carroll, Kelli Bickman, Dianna Graf, Lenny Henry, Pete Atkins, Amy Horsting, Chris Ewen, Teller, Kelly Link, Barb Gilly, Will Shetterly, Connie Zastoupil, Rantz Hoseley, Diana Schutz, Steve Brust, Kelly Sue DeConnick, Roz Kaveney, Ian McDowell, Karen Berger, Wendy Japhet, Terje Nordberg, Gwenda Bond, Therese Littleton, Lou Aronica, Hy Bender, Mark Askwith, Alan Moore (mi ha prestato Litvinoff’s Book), e il vero Joe Sanders. Grazie anche a Rebecca Wilson, e a Stacy Weiss per le sue intuizioni. Dopo aver letto la prima stesura Diana Wynne Jones mi ha avvertito del genere di libro che stava prendendo forma e dei rischi che avrei corso scrivendolo, e ogni sua previsione si è rivelata fondata.

Purtroppo il professor Frank McConnell non è più con noi. Credo che questo libro gli sarebbe piaciuto.

Finita la prima stesura, mi sono reso conto di quante persone prima di me avevano affrontato gli stessi argomenti; mi riferisco in particolare al mio autore preferito, così poco di moda, James Branch Cabell; al compianto Roger Zelazny e, naturalmente, all’inimitabile Harlan Ellison e alla sua serie di Deathbird Stories che mi sono rimaste impresse nella memoria da quando avevo ancora l’età in cui un libro può cambiare la vita.

Non vedo per quale motivo si dovrebbe segnalare ai posteri la musica ascoltata durante la scrittura di un libro, e durante questo libro ne ho ascoltata tantissima. Tuttavia, senza Dream Café di Greg Brown e 69 Love Songs dei Magnetic Fields, queste pagine non sarebbero state quelle che sono, e quindi grazie e Greg e a Stephin. Mi sembra doveroso informarvi che è possibile ascoltare la musica della House on the Rock, su nastro o cd, compresa quella del Mikado e della Giostra più Grande del Mondo. Sarà un’esperienza diversa, sicuramente non migliore. Scrivete a: The House on the Rock, Spring Green, WI 53588 USA, o telefonate negli Stati Uniti al 608/935.36.39.

I miei agenti, Merrilee Heifetz della Writers House, Jon Kevin e Erin Culley La Chapelle della CAA, sono stati ascoltatori attenti e veri pilastri di saggezza.

Parecchie persone hanno aspettato una serie di cose che avevo promesso di fare appena finito il libro, dimostrandosi straordinariamente pazienti. Vorrei ringraziare gli amici della Warner Brothers Pictures (soprattutto Kevin McCormick e Lorenzo di Bonaventura), della Village Roadshow, della Sunbow e della Miramax, e Shelly Bond, che ha sopportato l’insopportabile.

Due persone senza le quali non ce l’avrei fatta: Jennifer Hershey di Harper Collins negli Stati Uniti e Doug Young di Hodder Headline in Gran Bretagna. È una bella fortuna avere un buon editor, e loro sono tra gli editor migliori che abbia conosciuto. Oltretutto non si sono mai lamentati, sono stati pazienti e, quando le scadenze si avvicinavano vorticosamente come foglie secche spinte da una raffica di vento, si sono rivelati a dir poco stoici.

Bill Massey è comparso alla fine, alla Headline, a supervisionare con il suo occhio di falco. Kelly Notaras ha seguito la produzione con grazia e grande cortesia.

Infine vorrei ringraziare la mia famiglia, Mary, Mike, Holly e Maddy, i più pazienti di tutti, che mi hanno voluto bene e durante la lavorazione del libro mi hanno permesso di andare via per lunghi periodi per scrivere e scoprire l’America… e quando infine l’ho trovata, l’America, è stato come se ci avessi sempre vissuto.


Neil Gaiman

nei pressi di Kinsale, County Cork

15 gennaio 2001

FINE
Загрузка...