VENERDÌ

1

Nick Williams si svegliò alle cinque del mattino e non riuscì più a riprender sonno. Freneticamente attivo, il suo cervello passava in rassegna gli eventi del giorno prima e i loro possibili esiti nella giornata che s’annunciava. Era una cosa che gli era capitata spesso, sia quando frequentava il liceo in Virginia, sia, più di rado, ad Harvard; e, il più sovente, prima delle grandi gare di nuoto. Quando era troppo agitato, il cervello si rifiutava di spegnerglisi del minimo sufficiente e permettergli di dormire.

Rimase a letto quasi un’ora ancora, un po’ tentando di costringersi al sonno, un po’ fantasticando su quel ritrovamento che si augurava essere l’avvisaglia di un grande e prezioso tesoro nascosto. Fantasticare gli piaceva tanto, riusciva a immaginare senza fatica tutte le scene dei romanzi di cui era appassionato lettore. Ora, per un momento, immaginò i titoli del Miami Herald con l’annuncio della sua scoperta, al largo di Key West, di un gran tesoro d’oro.

Verso le sei desistette da ogni sforzo per dormire e balzò dal letto. La sacca sportiva era vicina all’armadio. Chissà cosa sarà mai ’sto coso?, si domandò, dopo aver estratto il tridente, come aveva già fatto quattro o cinque volte durante la notte, per dargli un’occhiata. Un qualche uso pratico doveva avercelo, perché è troppo maledettamente brutto per essere solo ornamentale. Mah, lo saprà Amanda, si disse, scuotendo il capo. Se c’è una persona che mi può dire di dove viene, quella è lei.

Andò alla porta a vetri scorrevole e tirò le tende. Era quasi l’alba. Oltre il balconcino vedeva la spiaggia e l’oceano. Il suo appartamento, al secondo piano, godeva di vista diretta sulla spiaggia. Sull’acqua tranquilla della risacca alitava leggiadra una coppia di pellicani, che attendeva il momento di piombare di sorpresa su qualche pesce salito troppo in superficie. Lungo la spiaggia camminava lenta, tenendosi per mano e parlando sommessamente, una coppia settantenne. Un paio di volte, la donna si staccò per raccogliere una conchiglia o due e riporre il tutto in una borsetta a cerniera.

Lasciata la porta, Nick raccolse i jeans che aveva gettato sul pavimento la sera prima, se li infilò, e passò in soggiorno portandosi dietro la sacca col tridente. Qui, posato con delicatezza l’oggetto d’oro sul tavolo per studiarlo, passò nel vano cucina per accendere la macchina del caffè e la radio.

Libri a parte, il soggiorno era arredato come centinaia di altri appartamenti da spiaggia. Divano e poltrona erano comodi e vivaci, di un crema con inserito un motivo a doppia felce verde-chiaro. Due quadretti di uccelli acquatici su una spiaggia deserta erano l’unico ornamento delle pareti. Tende beige-chiaro in tinta con la moquette incorniciavano la lunga porta scorrevole a vetri che dava sul balcone — arredato, questo, con mobili in canna d’India.

Ciò che conferiva all’appartamento una certa individualità erano i libri. Una grande libreria correva lungo la parete di fronte al divano, tra soggiorno e camera da letto, e andava in pratica dalla porta a vetri del balcone alla porta della camera da letto. Benché la nota dominante dell’appartamento fosse il disordine (giornali e riviste sportive disseminati qua e là sul tavolino, indumenti e asciugamani sul pavimento della camera da letto e del bagno, piatti sporchi nell’acquaio, lavastoviglie aperta e piena a metà di piatti), la zona biblioteca era chiaramente ben curata. Sui quattro scaffali della lunga libreria stavano allineati dai quattro ai cinquecento volumi: tutti tascabili, tutti o quasi romanzi, e tutti accuratamente suddivisi per categorìa.

Davanti a ciascun gruppo di libri, fissato col nastro adesivo sul davanti dello scaffale, c’era un foglio di carta col nome della categoria. A Fan’s Notes, il libro terminato di leggere in barca il giovedì, era già stato rimesso al suo posto (categoria «Lett. americana, sec. 20°, A-G»), subito a destra di una dozzina di libri o più di William Faulkner. Come lettura da capezzale, Nick aveva poi scelto un romanzo francese dell’Ottocento, Madame Bovary, di Gustave Flaubert, da lui già letto durante il secondo anno ad Harvard e giudicato così-così, e di recente, e con sua meraviglia, visto elencato da molte parti fra i dieci migliori romanzi di tutti i tempi, ossia accanto a capolavori come Delitto e castigo di Dostoievski. Mmm, c’è caso che mi sia sfuggito qualcosa, la prima volta, s’era detto la sera, prima di risolversi a una seconda lettura.

Sennonché, le magnifiche e particolareggiate descrizioni della vita provinciale francese di un secolo e mezzo addietro non avevano saputo afferrare per intero la sua attenzione. Aveva avuto infatti un bel seguire la vicenda dell’affascinante Emma Bovary, una donna che contrastava la monotonia della sua vita mediante avventure amorose che avrebbero scandalizzato il villaggio: una volta tanto, non era riuscito ad abbandonarsi. Gliel’aveva impedito l’agitazione che regnava ora nella sua, di vita: il pensiero dominante delle possibilità offerte dall’oggetto d’oro nella sacca sportiva.

Bevendo il caffè del mattino, si girò e rigirò l’oggetto fra le mani. Poi gli venne un’idea. Andò nella seconda camera da letto, di fronte alla cucina e accanto alla lavanderia, e aprì la porta dello stanzino guardaroba, che a lui serviva soprattutto da ripostiglio. In un angolo c’erano quattro scatoloni di cianfrusaglie che si era portati dietro quando aveva comprato l’appartamento, sette anni prima, e che da allora non aveva mai aperto. In uno, ricordava, c’era un mazzo di foto degli oggetti recuperati dalla Santa Rosa. Forse, guardandoci, scoverò qualcosa che assomigli a questo coso, pensò, armeggiando per trovare lo scatolone giusto nella luce fioca.

Trovatolo, lo trascinò in mezzo al soggiorno. A suo tempo, il contenuto era stato probabilmente messo in bell’ordine, come testimoniavano le cartellette etichettate di cartone; ma ora carte, foto e ritagli di giornale si erano in gran parte sfilati dalle rispettive sedi e giacevano là alla rinfusa, Nick ficcò la mano nel mucchio e tirò fuori un ritaglio del Miami Herald. Ingiallito dagli anni e spiegazzato (era finito in un angolo), era una grande fotografia di prima pagina, sulla quale si vedevano cinque persone, fra cui Nick.

Nick si arrestò un momento a guardare foto e didascalia. Ma è proprio passato tutto ’sto tempo?, si domandò. Quasi otto anni dal ritrovamento della Santa Rosa. La didascalia identificava i cinque individui della foto come l’equipaggio del Neptune, una barca da immersione e recupero relitti che aveva trovato una vecchia nave spagnola, di nome Santa Rosa, affondata nel Golfo del Messico circa quindici miglia a nord delle Dry Tortugas. Dalla nave erano stati recuperati oggetti d’oro e d’argento per un valore di oltre due milioni di dollari, ora ammucchiati davanti all’equipaggio che sorrideva felice. Da sinistra a destra, i suoi membri erano: Greta Erhard, Jake Lewis, Homer Ashford, Ellen Ashford e Nick Williams.

Questo era prima che cominciassero a mangiare, si disse Nick. Ellen mangiava per via di Greta, perché questo le dava inconsciamente una scusa per ciò che stava accadendo con Homer. E Homer mangiava perché poteva permetterselo. Come può permettersi ogni cosa. Per certa gente, l’unica salvezza sono le costrizioni: dagli la libertà, e dà fuori di matto.

Rovistando più a fondo nello scatolone, si mise a cercare una serie di una ventina di foto relative ai pezzi maggiori del recupero della Santa Rosa. Finalmente ne trovò alcune, in mazzi di quattro o cinque, in parti diverse di quella che stava ormai diventando una pigna inestricabile. A ogni nuova foto, dava un’occhiata attenta, poi, scuotendo la testa, constatava che mancava ogni somiglianza col tridente d’oro.

In fondo allo scatolone trovò una cartella gialla fermata da un elastico. Pensando lì per lì che contenesse le foto restanti della Santa Rosa, la estrasse e si affrettò ad aprirla. Dalla cartella scivolò, cadendo a terra, una foto 8 X 11 di una bella donna sui trent’anni passati da poco. Accompagnavano la foto appunti manoscritti, qualche lettera imbustata, e una ventina di fogli dattiloscritti a doppio spazio. Com’era possibile che non avesse riconosciuto quella cartella?, pensò Nick con un sospiro.

La donna della foto aveva lunghi capelli neri con un vago riflesso lucido sulla fronte, e portava una camicetta di cotone rosso-scuro, che, aperta in alto, rivelava un triplice filo di perle. In inchiostro blu, contrastante col rosso della camicetta, qualcuno aveva vergato, nell’angolo inferiore destro della foto e con splendida calligrafia da artista: «Mon Cher — je t’aime, Monique».

Nick s’inginocchiò a raccogliere il contenuto sparso della cartella. Guardò a lungo il ritratto, il cuore in tumulto al ricordo della bellezza di lei, poi passò a riordinare le pagine dattiloscritte. Una recava in cima, tutto in maiuscolo: «MONIQUE», e immediatamente sotto «di Nicholas C. Williams». Cominciò a leggere.

«Il meraviglioso della vita sta nella sua imprevedibilità. La vita di ognuno di noi viene irrimediabilmente mutata da cose impossibili a prevedersi. Ogni mattina, usciamo di casa per andare al lavoro, a scuola o dal droghiere, e, novantanove volte su cento, torniamo senza che ci sia accaduto nulla d’interessante o che possiamo ricordare a un mese di distanza. In giorni simili, le nostre vite scorrono via nella banalità del vivere, alla cadenza fondamentalmente monotona dell’esistenza quotidiana. Ma quello per cui viviamo è un altro giorno: il giorno magico.

«Nel giorno magico, il nostro carattere si precisa, la nostra crescita accelera, e si compiono i nostri mutamenti emotivi. Talora, magari una sola volta nella vita, ci capita una serie di codesti giorni: giorni che arrivano uno dopo l’altro, e così pieni di vita, cambiamento e sfida, da trasformarci completamente e da soffonderci l’animo di gioia sconfinata. Accade così che, in periodi del genere, veniamo spesso sopraffatti dal semplice, incredibile miracolo del vivere in sé. Questa è la storia di uno di questi periodi magici.

«A Fort Lauderdale era l’inizio delle vacanze primaverili. La stagione di nuoto di Harvard si era appena conclusa, e mio zio mi offrì, come regalo per i miei ventun anni, l’uso del suo appartamento in Florida per un paio di settimane, così che potessi sfogarmi un po’ dopo i rigori dello studio e della pratica del nuoto…»

Eran quasi dieci anni che non guardava quelle pagine. Nel leggerne i primi paragrafi, ricordò vivamente l’estasi in cui erano state scritte. Due sere prima della festa… Lei, quella sera, aveva un impegno di società; sarebbe rientrata troppo tardi, e sarebbe venuta l’indomani mattina. Io non riuscii a dormire. Era la prima notte in una settimana che non stavo con lei. Si arrestò un istante: le antiche emozioni, turbinandogli dentro, gli davano un senso di vertigine e come di nausea. Rilesse il primo paragrafo. Ed è stato prima del dolore. Prima dell’incredibile, maledetto dolore.

La radio trasmetteva musica da quasi mezz’ora. Lui l’ascoltava, sapeva di ascoltarla, ma non avrebbe saputo dire di quali canzoni si trattasse. Musica di sottofondo, insomma. Ora, proprio nel momento in cui i ricordi di Monique si facevano più acuti, la «stazione di rock and roll classico WM1M, di Miami, 99,9 megacicli in FM» trasmise Time After Time, l’incantevole successo 1984 di Cyndi Lauper. La musica sembrò crescere d’ampiezza, e Nick dovette sedersi per riprendere respiro. Fino alla canzone, era riuscito a dominare i ricordi di Monique; ma ora, dinnanzi alla canzone, che era quella da lui suonata quasi ogni sera in macchina nel tragitto da Fort Lauderdale a Palm Beach per andare da lei, e che portava con sé tutto l’amore, la gioia, la paura e la rabbia giovanili che avevano contraddistinto l’intera storia, fu sopraffatto. E, mentre sedeva in ascolto sul divano, lacrime brucianti gli salirono agli occhi e rigarono silenziose le guance.

«… Sento dal letto il ticchettìo dell’orologio, e penso a te… La mente si perde in cerchi, la confusione non è nulla di nuovo… Flashback, notti calde, quasi lasciate alle spalle… Una valigia di ricordi… E torna, e torna sempre.»

2

«Tu dici, rallenta, io arretro… La seconda mano si dipana…» Brenda allungò la mano ad abbassare il volume del mangiacassette. «Sono io, signor Stubbs: Brenda Goldfine. Non mi riconosce?» gridò a un vecchio in divisa blu seduto su uno sgabello in una torretta circolare al centro della strada. «E quella dietro è Teresa Silver, che non si sente troppo bene. Su, alzi la barriera e ci lasci passare.»

La guardia scese dallo sgabello, uscì, e venne a passo lento verso la vecchia Pontiac di Nick. Preso nota della targa, si portò a lato del finestrino di Brenda. «Per stavolta, passi, Brenda, ma è contro il regolamento. Tutti i visitatori che si presentano a Windsor Cove dopo le dieci di sera devono avere il visto di sicurezza prima dell’arrivo.»

Finalmente, la guardia si decise ad alzare la barriera e Nick avviò la macchina. «Quello lì è proprio un rompiballe» gli disse Brenda, facendo schioccare la gomma nel parlare. «Cristo, si direbbe uno dei padroni del luogo!» Nick aveva sentito parlare di Windsor Cove, o, meglio, ne aveva letto. Una volta, in casa dello zio a Potomac, nel Maryland, aveva trovato una copia della rivista Town and Country sul tavolo e vi aveva letto della «vita elegante di Windsor Cove.» Ora, nel passare davanti alle proprietà del quartiere più prestigioso di Palm Beach, rimase colpito da tutta quell’esibizione di ricchezza privata.

«La casa di Teresa è quella laggiù» disse Brenda, indicando una casa in stile coloniale arretrata di un centinaio di metri dalla strada. Nick infilò il lungo viale d’accesso semicircolare e fermò in capo a un vialetto che conduceva all’ingresso della casa. Una costruzione imponente: un piano superiore, sei colonne bianche alte oltre sei metri, una sfarzosa porta culminante in un arco a vetri colorati, con la figura di un airone bianco in volo sullo sfondo di un cielo azzurro a pecorelle.

Brenda diede un’occhiata al sedile posteriore, dove l’amica giaceva svenuta. «Senti, sarà meglio che ci pensi io. Adesso vado a parlare alla signora Silver e a spiegarle quello che è successo. Altrimenti, con lei che a volte salta subito alle conclusioni, c’è caso che tu ti ritrovi nella merda fino al collo.»

Brenda non fece in tempo ad arrivarci, che la porta si apri e apparve una donna attraente in camicetta rossa di seta e pantaloni neri di taglio raffinato. Nick pensò che fosse stata avvertita dalla guardia, probabilmente. Che cosa si dicessero le due donne, non poteva saperlo, ma era evidente che la madre di Teresa stava facendo delle domande. Dopo un paio di minuti, Brenda tornò alla macchina con la donna. «Ma non mi avevi detto che era ancora svenuta» disse la donna con una voce sorprendentemente rauca, in cui si avvertiva un accento straniero — europeo, forse. «Senti, Brenda, questa è proprio l’ultima volta che la lascio venire con te. Perché non solo non sei capace di tenerla sotto controllo, ma dubito anche che ci provi.» Tono collerico, ma non stridulo…

Nick aprì la portiera e smontò. «Questo è il tale di cui le parlavo, signora Silver» disse Brenda. «Senza di lui, Teresa sarebbe forse ancora là sulla spiaggia.»

La signora Silver tese la mano. Nick si sentì un po’ goffo nel prenderla, perché non sapeva come stringere la mano a una donna. «A quanto pare, le sono debitrice, giovanotto» disse con garbo la signora Silver. «Brenda mi ha detto che lei ha salvato Teresa da una quantità di orrori.» La luce dei lampioni giocava sui tratti scultorei del viso di lei, e la sua mano era morbida, sensuale. Nick colse una punta di profumo, un che di esotico. Gli occhi di lei erano fissi nei suoi, fermi, penetranti.

«Be’, sì, signora» rispose goffamente Nick. «Cioè… insomma… lei aveva bevuto un po’ troppo e a me è sembrato che il gruppo di ragazzi con cui stava avesse perduto un po’ il controllo.» Qui si fermò, mentre lei continuava a osservarlo, a soppesarlo, provocandogli un’agitazione che lui non sapeva spiegarsi. «Bisognava che qualcuno la aiutasse, e dato che io per caso ero lì…» Non seppe continuare.

La signora Silver lo ringraziò di nuovo, poi si rivolse a Brenda. «Tua madre ti aspetta, cara. Noi resteremo qui finché non sarai rincasata. Segnalaci con la luce quando ci sarai.» Brenda, manifestamente lieta di essersela cavata a buon mercato, si avviò di corsa nella notte verso la sua casa, a un centinaio di metri di distanza.

Seguì una pausa mentre i due osservavano la sedicenne sparire nella notte. Nick si sorprese a spiare il profilo della signora Silver. Una incipiente consapevolezza di ciò che stava provando lo faceva sentire sempre più nervoso. Dio, se è bella! E giovane, anche. Come fa a essere la madre della ragazza? Mentre si dibatteva in un groviglio di pensieri, avvistò in lontananza un lampeggiare di luci.

«Bene, è a casa» disse la signora Silver, voltandosi verso di lui con un sorriso. «Ora possiamo preoccuparci di Teresa.» Tacque un momento, poi, con una risata: «Ah, quasi dimenticavo che non ci siamo presentati. Sono la madre di Teresa, Monica Silver».

«Nick Williams» fece lui in risposta. Gli occhi scuri di lei erano tornati a fissarlo, e la luce riflessa sembrava variarne l’espressione, dandole l’aria ora di folletto, ora di seduttrice, ora di signora della buona società di Palm Beach. O era lui a immaginarselo? Di certo, non reggeva più quello sguardo; e, sentendosi avvampare le guance, stornò gli occhi.

«Ho dovuto portarla dalla spiaggia al parcheggio» disse bruscamente, andando ad aprire la portiera posteriore. La ragazza, che vi era finita appoggiata contro, quasi cadde fuori, ma senza dar segno di vita. Lui la sollevò e se la caricò in ispalla. «Non sarà dunque un problema portargliela in casa. Ormai, ci sono abituato.»

Discesero in silenzio il vialetto, Monica Silver precedeva di qualche passo. Nick ne osservava l’andatura: si muoveva senza sforzo, da ballerina, con portamento quasi perfetto, i capelli scuri raccolti a crocchia dietro la nuca. Devono essere lunghissimi, pensò lui con gioia, immaginandoli sciolti lungo la bella schiena.

Era una notte calda e umida, proprio da Palm Beach, e Nick arrivò all’ingresso tutto in sudore. «Potrebbe farmi un altro favore, Nick?» chiese la signora Silver. «Le spiacerebbe portarla in camera sua? Mio marito non c’è, la servitù è tutta a letto, e dubito seriamente che Teresa possa riprendersi abbastanza da salire le scale, anche col mio aiuto, in un futuro prossimo…»

Guidato dalla signora Silver, Nick, con la ragazza in ispalla, attraversò l’atrio e il soggiorno, salì i gradini dello scalone fino alla piattaforma, infilò la scala di sinistra che conduceva al piano superiore, e arrivò alla camera da letto. Una camera gigantesca: letto matrimoniale con baldacchino, televisore gigante, una vetrina intera di film per il videoregistratore, un impianto stereo da far onore a un complesso rock, e manifesti e foto di Bruce Springsteen dappertutto. Depose Teresa con delicatezza sul letto. Un «Grazie» da lei mormorato rivelò che ora, almeno, era semicosciente. La madre si chinò a darle un bacio.

Nick lasciò sole le due donne e ridiscese le scale per tornare in soggiorno. Non riusciva a credere che qualcuno potesse abitare davvero in una casa del genere. Diamine: il soggiorno, da solo, era più grande della casa di Falls Church in cui lui era cresciuto. Alle pareti erano appesi quadri veri, dal soffitto pendevano lampadari di cristallo, e sui vari tavoli e nei vari angolini e nicchie era una profusione di oggetti d’arte e ninnoli. Dio, che casa! Troppo, troppo…

Sentì una mano sulla spalla e si ritrasse d’istinto. «Santo cielo, non si spaventi: sono solo io!» disse con garbata ironia Monica Silver. Lui si girò a guardarla. Era una sua impressione, o aveva trovato modo di pettinarsi e di truccarsi di fresco nei pochi secondi in cui era rimasta sola? Per la prima volta, la vide in piena luce. Era la donna più bella che avesse mai vista. Gli si mozzò il respiro e provò un senso di vertigine. Fuori, non aveva potuto vedere chiaramente la sua pelle. Ora si sorprese a fissarle le braccia nude, a seguire gli eleganti contorni del collo. Quella pelle aveva la levigatezza dell’avorio, e chiedeva di venir toccata. Controllati, Williams, udì dentro di se una voce, o rischi di commettere uno sproposito.

Si sforzò di calmarsi, ma invano. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Lei stava dicendo qualcosa, gli aveva fatto una domanda. Lui non l’aveva nemmeno sentita, tanto era sbigottito da quanto stava accadendo, dal luogo in cui si trovava. Lei lo stava guidando per la casa. Lui non riusciva più a controllare la fantasia. Entrarono in una piccola stanza dove c’era un tavolo, e lei lo invitò ad accomodarsi.

«È il meno che possa fare,» diceva intanto «per ripagarla di ciò che ha fatto per Teresa. So che deve aver fame, e sono avanzate delle cosine eccellenti dal ricevimento di stasera.»

Nick si trovava in un angolo-prima colazione a lato della cucina. Alla sua sinistra, una porta che dava sul patio e sul retro. Le luci attorno alla enorme piscina erano ancora accese, sicché ebbe una visione di aiuole curate con rose in fiore, sedie e sdraio, ombrelloni colorati, tavolini bianchi di ferro con gambe attorte a merletto… Non riusciva a credere che fosse vero: si sentiva trasportato in un altro mondo, un mondo che esisteva solo nei libri e al cinema.

Monica Silver imbandì la tavola: salmone affumicato, cipolle, capperi, formaggio morbido, due tipi di pane e un piatto di pesce a lui sconosciuto. «Aringa marinata» spiegò lei con un sorriso, vedendo la sua espressione interrogativa. Poi gli porse un bicchiere da vino. Lui lo prese e, senza rendersene conto, la fissò dritto negli occhi. Ne rimase come trafitto. Si sentì debole e impotente, come attratto dai maliosi occhi marrone-scuro di lei nel mondo di ricchezza, lusso e bellezza che doveva essere il suo. E si sentì vacillare le ginocchia, tumultuare il cuore, pizzicare le dita…

Lei versò un po’ di vino bianco prima nel bicchiere di lui, poi nel proprio. «È un ottimo borgogna, Clos des Mouches» disse, toccandogli il bicchiere col proprio in un lieve tintinnìo. «Brindiamo, dunque.»

Lei era radiosa, lui ammaliato. «Alla felicità» disse lei.


Parlarono per più di tre ore. Lei raccontò di essere cresciuta in Francia, figlia di un piccolo commerciante parigino di pellicce con scarsi mezzi, e di aver conosciuto il marito, Aaron (il primo dei grandi mercanti di pellicce di Montreal), mentre aiutava il padre in negozio. Aveva diciassette anni, all’epoca, e il corteggiamento era stato fulmineo: il signor Silver le aveva fatto la dichiarazione a una sola settimana dall’incontro, e lei aveva accettato subito benché l’aspirante marito avesse vent’anni più di lei. Trasferitasi a Montreal, l’aveva sposato prima di compiere diciott’anni. Nove mesi dopo era nata Teresa.

Nick disse di essere al terz’anno di Harvard, dove intendeva specializzarsi in inglese e francese per ottenere una buona formazione umanistica e iscriversi quindi a legge o seguire una specializzazione postuniversitaria. All’udire che era al terz’anno di francese, lei passò dall’inglese alla lingua natia, e il suo nome diventò Monique. Lui perse qualche singola parola, ma non il succo del discorso. E la voce sensazionale di lei, unita al suono della lingua straniera, non fece che accrescere la forza del sortilegio generato dal vino e dalla sua bellezza.

Di quando in quando, se ne uscì anche lui in qualche frase di francese, la magia dell’ambiente e il calore nascente del rapporto avevano spazzato via ogni suo normale scrupolo. E, quando faceva qualche errore, era una risata di gusto per entrambi. Lei lo correggeva con affascinante indulgenza, non scordando mai di aggiungere, sulle prime: «Mais vous parlez français très bien». Poi, quando la conversazione si fece più personale (Nick parlò dei problemi col padre; Monique si chiese a voce alta se c’era qualcosa che una madre potesse fare con una figlia adolescente oltre che sperare di averle impresso qualche valore primario), Monique passò dal “vous” al “tu”, accrescendo l’intimità che già si era creata fra loro che andò approfondendosi coll’avanzare della notte.

Monique parlò di Parigi, del fascino romantico delle strade, dei bistrot, dei musei, della storia, e Nick, visualizzando, si sentì trasportato con lei nella Ville lumière. Lei gli raccontò i suoi sogni di adolescente, quando, passeggiando per il XVI arrondissement fra i ricchi, si riprometteva che un giorno… Lui ascoltava intento, rapito, un sorriso quasi beato sul volto. Alla fine, lei fu costretta a dirgli che era ora di prender congedo, perché l’indomani sul presto la attendeva una lezione di tennis. Erano ormai le tre passate. Lui si scusò, e si avviarono insieme alla porta. Lei disse, ridendo, che era stato bello. Alla porta, si alzò sulla punta dei piedi a baciarlo sulla guancia. Al tocco di quelle labbra, lui si sentì volare il cuore fin chissà dove. «Telefonami, qualche volta» disse lei con un brioso sorriso nel chiudergli la porta alle spalle.

Per più di trenta ore, Nick non fece che pensare a lei, parlandole fra sé durante il giorno, e avendola per amante, in sogno, durante la notte. Le telefonò una, due, tre volte, trovando però sempre a rispondergli la segreteria telefonica. Alla terza, allora, lasciò il proprio numero e indirizzo, pregandola di chiamare lei quando avesse tempo.

Alle dodici del secondo giorno dopo la famosa serata, cominciò a calmarsi, a rendersi conto che quell’adorare l’immagine di una donna conosciuta una sola sera, e sposata a un altro, per giunta, era assurdo. Nel tardo pomeriggio andò alla spiaggia per giocare a pallavolo con altri studenti universitari conosciuti nei primi giorni di permanenza in Florida. Aveva appena battuto un servizio vincente, quando gli parve di sentir chiamare il suo nome da una voce rauca, accentata, inconfondibile.

Sul momento pensò di sognare: a meno di dieci metri, sulla sabbia, c’era Monique. Portava un vivace bikini a strisce bianche e rosse, e i lunghi capelli neri le arrivavano, sciolti, fino alla vita. La partita si fermò, tra i fischi degli amici. Nick le andò vicino, il cuore pulsante alle tempie e il petto così stretto da mozzare il respiro. Con un sorriso, Monique lo prese a braccetto e gli disse che, avendo portato Teresa a Lauderdale per una festicciola di liceo, e dato il caldo…

Passeggiarono lungo la spiaggia, conversando, mentre dietro i palazzi calava il sole. Incuranti dei giovani tutt’intorno, camminavano sulla battigia, i piedi lambiti dalla calda carezza dell’acqua. Monique insisté perché mangiassero nell’appartamento di Nick, e così si fermarono a comprare tonno, pomodori, cipolle e maionese da spalmare sui tramezzini. Birra fredda, patatine e tramezzini su un tavolo nudo di formica furono la cena; l’amore, il dessert. Nick ebbe quasi un orgasmo al primo bacio, e la passione lo rese goffo e comico nel suo armeggio per spogliare Monique del bikini. Monique lo fermò con un dolce sorriso, piegò ordinatamente bikini e calzoncini di lui (che, naturalmente, non stava più nella pelle), e venne quindi a raggiungerlo sul letto. Dopo due baci, Nick venne preso da un parossismo di desiderio e, rotolando bruscamente sopra Monique, cominciò a ruotare le anche. Lì per lì un po’ allarmata, Monique lo indusse a calmarsi un tantino e lo guidò piano a sé.

Il corpo di Monique era quasi perfetto. Bei seni pieni ed erti (rifatti, naturalmente, dopo l’allattamento di Teresa; ma che poteva importare a Nick, se anche l’avesse saputo?), vita stretta, sedere tondo, femminile (non uno di quei sederi mascolini tipici delle supermagre), gambe lisce e muscolose tenute in forma a forza di ginnastica. Ma ciò che mandava in estasi Nick era la sua pelle, quella magnifica pelle d’avorio, così morbida e liscia al tocco.

E la bocca di lei sembrava sposare perfettamente la sua. Nick era stato con due donne, in precedenza: una squillo d’alto bordo offertagli come dono natalizio dopo che la squadra di nuoto di Harvard aveva scoperto che lui era ancora vergine al termine del primo anno, e Jennifer Barnes di Radcliffe, la sua amica fissa per gran parte del second’anno. I denti di Jennifer sbattevano sempre contro i suoi, quando si baciavano, ma questa non era stata l’unica difficoltà del loro rapporto. Da fisica, lei aveva un approccio al sesso di tipo quasi clinico: misurava lunghezze, durate, frequenze e perfino volume dell’eiaculato! Così, dopo tre “esecuzioni controllate”, con lei, aveva deciso che non valeva la pena di continuare.

Nick scivolò in Monique con un gemito, ed entrambi seppero che sarebbe venuto in fretta. Dieci secondi dopo, infatti, raggiungeva l’orgasmo e faceva per ritirarsi. Monique, però, lo tenne in sé avvinghiandogli le natiche, e poi, con mossa abile (che lui non riuscì a capire come avvenisse), gli passò sopra. Nick si sentì fuori del proprio elemento. Nella sua limitata esperienza, all’orgasmo seguiva necessariamente il ritirarsi, sicché ora non capiva che cosa Monique intedesse fare. Piano, molto piano, gli occhi semichiusi e mormorando fra sé un pezzo di musica classica, lei prese a dondolarsi avanti e indietro sopra di lui, le pareti della vagina strette attorno al pene flaccido. Dopo un paio di minuti, passò a premere il pube in avanti, nel suo dondolìo, e, mentre il suo respiro si faceva più affannoso, lui si sentì con stupore nuovamente eccitato. Gli occhi di lei si chiusero quindi del tutto, il ritmo aumentò, e le spinte del suo movimento in avanti gli procurarono un leggero dolore. Ma il suo pene era ormai eretto, ed egli cominciò a rispondere al movimento, a ruotare agilmente il bacino con lei.

Monique si chinò in avanti, concentrata ma sorridente pur a occhi chiusi, preparandosi all’orgasmo. Felice di sentire in sé Nick di nuovo ritto, misurò il proprio venire in maniera perfetta, controllando la cadenze di entrambi, e si piegò a titillare, con sapiente dolcezza, i capezzoli di lui in sincronia con le proprie spinte in avanti. Nick, che non s’era mai visto carezzare i seni durante l’amore, rimase scioccato, ma anche sopraffatto dall’eccitazione pura scatenata da quella carezza. Lei, allora, insistette, arrivando a pizzicarlo quando ne vide (e sentì) la risposta. E mentre il corpo di lei sussultava sotto le ondate di un delizioso orgasmo, Nick emetteva un lungo gemito, venendo per la seconda volta in un quarto d’ora. L’orgasmo di Nick si concluse in un abbandono totale alla voluttà, e versi animaleschi accompagnarono i brividi involontari di soddisfatto godimento.

Il dopo amoroso di Monique, gioioso e tenero, convinse Nick, un po’ imbarazzato per la propria rumorosa e incontrollata risposta, che tutto era andato come doveva. Monique andò al guardaroba, prese una delle sue tre camicie da sera, e se la infilò. Le code le arrivavano quasi alle ginocchia (era alta infatti solo 1,65 contro il quasi 1,90 di lui), e, con quell’indumento maschile addosso e quei lunghi capelli incornicianti un sorriso da folletto, aveva un aspetto sbarazzino da monella. Quando Nick fece per dichiararle tutto il suo amore, lei gli venne vicino e gli mise un dito sulle labbra. Poi lo baciò appassionatamente, gli disse che doveva scappare a prendere Teresa, s’infilò di corsa sotto la doccia per non più di un minuto, si vestì, lo baciò di nuovo, e si avviò alla porta — senza che, in tutto questo tempo, luì avesse trovato la forza di muoversi. Quando fu uscita, Nick si abbandonò a un sonno soddisfatto. E senza sogni.

Durante gli otto giorni seguenti, Nick si sentì il padrone del mondo. Vide Monique ogni giorno, il più spesso possibile nella residenza di lei a Palm Beach, ma qualche volta anche nell’appartamento dello zio da lui occupato. Fecero l’amore a ogni occasione, e fu sempre diverso. Monique era piena di sorprese. La seconda volta che andò a casa di lei, per esempio, Nick la trovò sul retro, intenta a nuotare nuda nella piscina. Lei gli disse che aveva messo in libertà la servitù per l’intera giornata, e, nel giro di minuti, si diedero alla pazza gioia sull’erba fra il giardino e la piscina.

La loro relazione fu condotta in francese. Monique gl’insegnò a conoscere i cibi e i vini; lui condivise con lei la sua conoscenza della letteratura francese. Una notte di passione discussero della Sinfonia pastorale di André Gide sia prima che dopo l’amore. Monique difendeva il pastore, e rise dell’insistenza di Nick sull’“innocenza” della cieca Gertrude. Un’altra sera, nella quale Monique volle che lui portasse una maschera nera da Halloween e una calzamaglia bianca durante la lunga cena alla francese, il preludio all’amore fu la lettura del Balcone di Jean Genet.

I giorni trascorsero rapidissimi, avvolti nella magia dell’amore e dell’intimità. Una volta, al suo arrivo alla residenza di Palm Beach, Nick trovò Monique con addosso una pelliccia incredibile: una pelliccia lunga di foca d’Alasca, bordata al collo, ai risvolti e lungo le maniche, dalle spalle ai polsi, di una striscia di volpe color indaco. Era la cosa più soffice che avesse mai toccato, anche più morbida della seducente pelle di lei. Scherzosa come sempre, Monique aveva messo l’aria condizionata al massimo, così da poter portare la pelliccia prediletta sulla carne nuda. Dopo l’amore, quella sera, lei gli infilò il corpo nudo in una delle pellicce di castoro del marito, spiegando la presenza di mezza dozzina di pellicce nella residenza di Palm Beach con un semplice: «È il nostro mestiere, e ci piace tenere qualche cosetta da mostrare ad amici e conoscenti, casomai a loro interessasse…».


A ogni nuovo incontro, Nick le dichiarava il suo amore con sempre maggior zelo. Monique gli rispondeva col solito «Je t’aime», ma evitava di rispondere alle sue insistenti domande sul futuro. Così come evitava di rispondere a ogni domanda sul suo rapporto col marito, del quale non diceva altro se non che era un alcolizzato da lavoro e che viveva a Montreal per gran parte dell’anno. La residenza di Palm Beach era stata un acquisto sollecitato soprattutto da lei, che non amava il freddo e desiderava una vita sociale più attiva di quella di Montreal. Così, lei di solito ci passava il periodo da Natale a Pasqua; Teresa, che aveva appena terminato le vacanze primaverili concessele dal suo esclusivo liceo privato ed era tornata in Canada, calava a Palm Beach il più spesso possibile per stare con lei.

Breve e succinta nelle risposte alle domande sulla sua vita del momento, Monique liricheggiava invece nel raccontare della sua adolescenza parigina. Riguardo al marito, non lo criticava mai, né mai si lagnava della vita coniugale; una volta, anzi, disse che i giorni passati con lui erano stati i più felici della sua esistenza. Parlò anche di qualche suo amico, che però Nick non aveva ancora avuto modo di conoscere perché stavano sempre soli.

Un giorno Monique venne a prenderlo con la sua Cadillac per portarlo a Key Largo, così che potesse fare qualche tuffo alla Pennekamp Recreation Area. Come al solito, portava la fede al dito. Lui, che quel giorno aveva giurato a se stesso di strapparle qualche impegno per il futuro, decise che non ne poteva più di quella costante presenza e le chiese di togliersela. Lei oppose un garbato rifiuto, poi, alla sua insistenza, s’infuriò. Accostata la macchina (stavano percorrendo l’autostrada fra le paludi a nord delle Key) e arrestato il motore, disse con fermezza:

«Io sono sposata, e questo è un fatto che il togliermi l’anello non cambierebbe minimamente. Sono anche innamorata di te, non c’è dubbio, ma la mia situazione ti è stata chiara fin dal principio. Se dunque non la sopporti più, forse è meglio che ci lasciamo».

Sconvolto dalla risposta e atterrito dal pensiero di vivere senza di lei, Nick si scusò e tornò a dichiararle il suo amore, baciandola appassionatamente. Poi saltò sul sedile posteriore e le disse che la voleva, lì, subito. Lei lo raggiunse, con qualche riluttanza, e fecero l’amore. Poi, però, rimase silenziosa e pensierosa per quasi tutto il resto della giornata.

Il venerdì, a una settimana esatta dal primo incontro, lei lo condusse in un negozio di abiti da sera per trovargli un vestito adatto alla cena formale che intendeva dare il sabato per alcuni amici. Così, finalmente, mi vedranno con lei, pensò Nick. E, stavolta, dovrà pur parlare del nostro futuro! Lui avrebbe dovuto essere a Boston il lunedì mattina, partendo da Falls Church dov’era atteso dai genitori appunto per il sabato sera: Ma, si disse, avrebbe potuto guidare tutta la domenica (notte compresa, se necessario, con la carica che gli dava il suo amore per Monique), ed essere a lezione il lunedì mattina.

Quel sabato sera, dunque, si presentò a casa Silver traboccante di speranze e di sogni. Aveva un aspetto elegante nello smoking estivo, e sorrise a Monique, sulla porta, di un sorriso che avrebbe meritato un premio. Incurante del maggiordomo, le porse una dozzina di rose rosse, poi la baciò e le disse che l’amava. «Ma certo. Come tutti, no?» disse lei con tono frivolo. Poi lo condusse dentro, lo presentò alle quattro persone già arrivate come «il giovanotto che ha salvato la nostra Teresa un giorno a Lauderdale», e si scusò. Come Nick avrebbe appreso più tardi, era infatti sua abitudine chiedere a pochi amici scelti di venire in anticipo, riceverli in abbigliamento normale, e poi ricomparire un’oretta dopo, elegantissima, quando gl’invitati erano al completo. Mentre Monique saliva le scale con passo aggraziato, Nick la seguì con lo sguardo di chiara adorazione.

«Non è magnifica?» si sentì chiedere da un cinquantenne abbronzato e dai modi distesi, che gli porgeva un martini. «Una volta sono stato con lei per l’intero fine settimana sul loro yacht,» disse costui, che si chiamava Clayton «mentre Aaron era a Montreal. Be’,» rise «pensavo che mi avesse invitato per svagarsi un tantino, e invece mi sbagliavo: voleva solo un po’ di compagnia, e di uno che, come me, sapesse parlare della Francia e dell’Europa. Venga» continuò, prendendolo a braccetto «che la presento al gruppo degli eletti dell’arrivo anticipato.»

Nick venne trattato con estrema cortesia dagli eletti, ma ne schivò le domande su Monique. Era un ragazzo del Sud, dopo tutto, e, se c’era qualcuno che avrebbe dovuto parlare della loro relazione, questo qualcuno era lei. Rispose perciò in modo cortese ma schivo, limitandosi all’indispensabile.

Una delle due donne al bar, che si presentò come Jane Qualcosa, disse di essere la più vecchia amica di Monica a Palm Beach. (Gli altri la chiamavano tutti Monica, ma per lui era impossibile chiamarla altrimenti che Monique; e, intanto si chiedeva se subodorassero qualcosa o se fossero stati messi al corrente da Monique stessa.) Grassoccia e sguaiata, forte bevitrice e altrettanto forte fumatrice, Jane era più vicina ai quaranta che ai trenta. Un tempo, doveva essere stata anche abbastanza bella, ma aveva vissuto troppo intensamente e troppo presto, ed era una di quelle persone che non sanno conversare senza toccare ogni interlocutore. Nick ne fu innervosito.

Cominciarono ad arrivare gli altri invitati. Jane e Clayton («come in Clayton Poindexter III di Newport e Palm Beach» disse questi; che, richiesto da Nick circa la sua professione, rispose: «SMAS» e spiegò ridendo, vista la sua aria sconcertata: «Senza Mezzi Apparenti di Sostentamento: espressione applicata ai barboni in genere»), che sembravano fungere da padroni di casa in assenza di Monique, presentarono Nick a tutti. Così, nella prima ora di permanenza in casa Silver, lui si trovò a bere tre o quattro martini e a raccontare la storia di Teresa almeno sette volte.

I martini cominciarono a fare effetto. Canticchiando fra sé, ne prese un altro dal vassoio offerto da un domestico. L’alcol gli aveva infuso coraggio, procurandogli una certa qual affabilità e disinvoltura. Mentre conversava sul patio con la “compagna di equitazione” di Monique, un’affascinante venticinquenne di nome Anne, udì uno scroscio di applausi nel salone. «È Monica» disse Anne. «Andiamo a vedere.»

Lo scalone di casa Silver saliva a una piattaforma elevata di un paio di metri rispetto al piano della sala e di qui si biforcava in due rampe diverse che portavano al piano superiore. Monique era sulla piattaforma, in atto di accettare graziosamente l’applauso, vestita di un abito semplice di maglia blu mare, che sembrava tagliato sulla linea del corpo perfetto. Dietro, l’abito aveva uno spacco che le arrivava quasi fin dove arrivavano i suoi lunghi e spettacolari capelli (lo mostrò, girandosi per compiacere la quarantina d’invitati); davanti, due sottili strisce di tessuto scendevano dalle spalle alla vita, coprendo ciascun seno adeguatamente, ma esibendo all’ammirazione una scollatura vertiginosa. Stregato dalla visione della sua regina, Nick le lanciò un appassionato, ma un po’ troppo sonoro «Brava! Brava!». Lei sembrò non udirlo. S’era voltata, ormai, e guardava su per le scale.

Nick impiegò probabilmente un minuto intero per rendersi conto di ciò che stava vedendo. Dalla scala scese un uomo d’aspetto distinto, sui cinquant’anni, in smoking marrone chiaro e con uno spettacoloso anello di zaffiri al mignolo, e quest’uomo abbracciò Monique prendendola per la vita. Monique si sollevò sulla punta dei piedi per baciarlo. Lui sorrise e, ringraziando a gesti gli invitati che applaudivano garbatamente, si diresse con lei nel salone.

E quello chi è?, si domandò Nick, mentre la risposta gli arrivava lampante a dispetto del gin, del vermouth e del senso d’incredulità. Ma è il marito, Aaron. E che ci fa, qui? Perché lei non me l’ha detto? E, subito dopo: Come ha potuto farmi una cosa del genere? Io l’amo e lei mi ama. No, qui c’è qualcosa che non quadra; non è possibile, non è possibile…

Tentò di respirare, e gli parve di sentirsi il petto schiacciato come da una ruspa. D’istinto, si voltò per sottrarsi alla vista della coppia che scendeva a bracceto lo scalone e, nel farlo, versò un po’ di martini sulla spalla di Anne. Si scusò nel più goffo dei modi, poi, scombussolato ormai del tutto, si avviò alla meglio al bar. No, no, pensava intanto, sforzandosi disperatamente di respirare e di calmare il tumulto del cuore. Lei non può farmi questo. Dev’essere un errore. Il suo cervello rifiutava di leggere il messaggio trasmessogli dagli occhi. Ingollò un altro martini, a stento consapevole ormai e di dove fosse e del caos di sensazioni che gli torturavano l’anima.

«Ah, eccolo qui!» disse una voce alle sue spalle: la voce che era venuta a significare per lui la cosa più preziosa e importante della vita, la voce dell’amore: la voce che ora lo atterriva. Si girò, e si vide davanti Monique e Aaron.

«Finalmente, dunque, posso conoscere il giovanotto di cui ho sentito tanto parlare» disse Aaron — affabile, gentile, in tono di pura gratitudine — porgendogli la mano, mentre Monique sorrideva. Dio, com’è bella! Anche adesso che dovrei odiarla… Strinse meccanicamente la mano, accettando in silenzio i ringraziamenti di Aaron per «aver aiutato Teresa in un momento difficile». Poi, senza aprir bocca, spostò lo sguardo su Monique. Lei si rizzò sulla punta dei piedi e lo baciò sulla guancia. Ah, quelle labbra, quelle labbra che continuo a desiderare tanto! Ma perché? Perché? Che cosa ci sta succedendo?

A un tratto si rese conto di avere le lacrime agli occhi. O mio dio, sto per piangere… Imbarazzato oltre misura, si scusò bruscamente e uscì nel patio, le guance ormai rigate di lacrime. Se non mi controllo, qui finisce che mi siedo sull’erba a frignare come un bambino… Confuso, sconcertato, si mise a passeggiare a testa bassa per il giardino, tentando, invano, di ritrovare la respirazione normale.

Sentì una mano toccargli il gomito. Era Jane, l’ultima persona al mondo che in quel momento desiderasse vedere. «Fra qualche minuto verrà da te, ma, prima, lei e Aaron devono completare il giro dei saluti — sai com’è, quando si è padrone di casa a un ricevimento…» Jane accese una sigaretta. Nick sentì che stava per vomitare, si voltò di scatto per chiederle di spegnerla, e perse l’equilibrio.

Fosse l’alcol, fosse l’adrenalina, fosse che non ne poteva proprio più, il fatto è che si sentì girare vertiginosamente la testa. Così, senza volerlo, si appoggiò a Jane per sostenersi. Lei, fraintendendo, gli prese la testa contro la spalla. «Su, su,» disse «non prendertela tanto. Tu e Monique avrete ancora un po’ di tempo da stare insieme. Aaron si fermerà solo un paio di giorni e poi tornerà a Montreal per il suo lavoro. E poi,» aggiunse con brio «se sei bravo anche solo un filo rispetto a quello che dice Monica, sarò ben lieta di prendermi io cura di te mentre lei sta con Aaron.»

Nick la respinse di scatto, vacillando all’indietro come se avesse ricevuto una mazzata in faccia. Il significato di quelle parole gli apparve a poco a poco nella sua pienezza, suscitandogli un misto incontrollabile di rabbia e dolore. Cosa?! Cosa?! Ma allora sa: questa vomitevole puttana sa! E forse lo sanno tutti. Ah sì? Vaffanculo tutto, allora, vaffanculo! Poi, quasi immediatamente, mentre il cervello cominciava a rendersi conto degli eventi della serata: Come si esce di qui? Dov’è l’uscita? Mentre girava intorno alla casa (perché, dentro, non tornava di sicuro), dal profondo di sé udì montare un suono, un suono che saliva incontenibile alla superficie: il gemito del dolore, il grido nudo e ineluttabile dell’animale giunto alla disperazione totale. Millenni di acculturazione hanno fatto sì che accada di rado di udire gridi del genere in bocca a esseri umani. Ma il grido, acuto e inconsueto, che salì nella notte di Palm Beach come la sirena di un’auto della polizia, fu per Nick la prima consolazione. E, mentre gli invitati andavano chiedendosi che cosa fosse mai ciò che avevano sentito, lui montò sulla Pontiac 1977 e si avviò.

Diresse a sud per Fort Lauderdale, il cuore che seguitava a battere all’impazzata, il corpo tremante d’adrenalina, la mente un susseguirsi caotico di immagini sconnese. Fuoco di ciascuna era Monique: Monique in pelliccia di foca d’Alasca, Monique in costume da bagno bianco e rosso, Monique in abito da sera — di quella sera (un sussulto, quando sul margine sinistro dello schermo mentale apparve Aaron che scendeva le scale…). Tutto senza senso, dunque? Un gioco e basta? Nick era troppo giovane per conoscere i lati grigi della vita: era ancora nell’età del tutto bianco o tutto nero, quando ogni cosa è o favolosa o una merda. Monique, dunque, o lo amava appassionatamente e quindi doveva voler abbandonare la sua lussuosa vita per sposarlo, o lo aveva fin qui usato per soddisfare i propri bisogni sessuali e il proprio capriccio. Insomma, concluse, arrivando all’appartamento dello zio a Fort Lauderdale, sono stato uno dei suoi tanti giocattoli. Come le pellicce e i cavalli e gli yacht e i vestiti. Ho contribuito al suo piacere.

Schifato di sé, depresso oltre ogni dire, un’emicrania feroce provocata dai martini, non prese nemmeno il tempo di fare un bagno o di mangiare, ma preparò in fretta i bagagli. Poi caricò le due valigie in macchina e, lasciato alla direzione del complesso lo smoking preso a nolo, uscì dalla città in direzione dell’Interstatale 95. Circa tre chilometri prima di infilarla, accostò e si concesse un breve pianto. Fu tutto: e, da quel momento, nacque quella durezza esteriore che ne avrebbe caratterizzato i dieci anni di vita seguenti. Mai più, si giurò. Non permetterò mai più che una puttana si prenda gioco di me. No, caro mio, niente da fare.

Dieci anni più tardi, all’alba di un mattino di marzo nel suo appartamento di Key West, si sarebbe trovato a giocherellare con un oggetto di metallo dorato sul tavolino da caffè e avrebbe rivissuto il tremendo dolore della vista di Monique col marito a quel tal ricevimento. Tristemente, con un rimpianto da uomo maturo, avrebbe anche ricordato come, giunto alla I-95, avesse voltato a sinistra e a sud verso Miami e le Key, anziché a destra e a nord verso Boston. Allora, non avrebbe saputo spiegarne il perché. Forse, avrebbe detto che, dopo Monique, Harvard sembrava futile, o che, quello che meritava di venir studiato, era la vita, non i libri. Perché, allora, non aveva capito una cosa: che il suo bisogno di ricominciare da zero derivava dalla sua incapacità di guardare in faccia se stesso.

Erano cinque anni che non riviveva il ricordo di Monique dal principio alla fine. Quella mattina, per la prima volta, era riuscito a distanziarsi, pur se di poco, dalle emozioni rievocate, e a vedere l’intera storia con un minimo di prospettiva. Ora riconosceva così che, malgrado non riuscisse ancora a giudicare Monique del tutto priva di colpa, ciò che l’aveva portato a tutto quel dolore era stata la sua cieca passione giovanile. E, se non altro, il ricordo di quell’amore aveva perso il proprio potere di distruzione.

Prese il tridente e andò alla finestra. Forse i pezzi si stanno ricomponendo tutti, finalmente, pensò. Un nuovo tesoro, la muta definitiva dell’ultima angoscia adolescenziale… Pensò a Carol Dawson. Seccante, ma anche affascinante con quella sua veemenza. Da perenne sognatore, se la visualizzò fra le braccia, immaginando il calore e la dolcezza del suo bacio.

3

Carol osservò affascinata il polpo catturare la preda coi lunghi tentacoli. «Immagina cosa sarebbe avere otto braccia» disse Oscar Burcham. «Pensa solo a quale architettura deve avere il cervello per separare tutte le informazioni in arrivo, identificare ogni singolo stimolo e il rispettivo organo di provenienza, e coordinare tutti i tentacoli a fini di difesa o di acquisizione del cibo!»

Ridendo, Carol si volse al compagno. Erano di fronte a una grande finestra di vetro trasparente, all’interno di un edificio illuminato da una luce fioca. «Ah, Oscar, tu non cambi mai!» disse al vecchio dagli occhi vispi. «Soltanto tu puoi concepire tutte queste creature viventi sotto forma di sistemi biologici dotati di architetture. Ma non ti chiedi mai che cosa sentano, che cosa sognino mentre dormono, che cosa pensino della morte e come?»

«Ma sicuro» replicò Oscar con un brillìo ironico negli occhi. «Solo che, quando è già praticamente impossibile descrivere secondo verità i sentimenti degli esseri umani, coi quali pure esiste un linguaggio comune e una capacità di comunicazione evoluta, come vuoi che si faccia per conoscere, o anche solo per stimare, che so, il senso di solitudine dei delfini? Ecco allora che noi, da sentimentali, commettiamo la ridicolaggine di attribuir loro sentimenti umani.» Dopo una pausa di riflessione, continuò: «Sarà dunque più fruttuoso condurre la ricerca scientifica a livelli ai quali siamo in grado di capire le risposte. Alla lunga, secondo me, il conoscere come funzionano, in senso scientifico, queste creature ci offre una miglior probabilità di valutarne i quozienti emotivi; il che non accadrebbe con la conduzione di esperimenti scientifici dagli esiti ininterpretabili».

Carol si chinò a baciarlo con affetto. «Tu prendi sempre molto sul serio qualsiasi parola io dica, Oscar. Anche quando scherzo, badi sempre a ogni mio commento.» Poi, arrestandosi e guardando altrove: «E sei l’unico a farlo».

Oscar arretrò con gesto teatrale e posò ambo le mani sulla spalla di lei: «In qualche punto di questa spalla c’è il proverbiale truciolo del risentimento… Ne sono certo… C’è sempre… Ah, ecco: trovato!». E, guardandola con aria d’intesa: «Non sta mica bene, sai. Una giornalista di successo come te, e anche celebre, diciamolo, che continua a soffrire di ciò che può descriversi solo come insicurezza terminale! Be’, allora: di che si tratta? Di una bella litigata fra te e il tuo capo, stamane?».

«No» rispose Carol mentre attraversavano la sala verso un altro settore dell’acquario. «Cioè, una specie, direi. Sai lui com’è: accentra sempre tutto su di sé. Io sto lavorando a questo grosso servizio, giù a Key West. Dale viene a prendermi all’aeroporto, mi porta a colazione, e mi sciorina per filo e per segno quello che devo fare per una copertura che regga. Ora, non è che io non ne apprezzi i consigli, che sono quasi sempre validi, o l’aiuto nelle faccende tecniche: è il modo con cui mi parla che non mi va giù. Insomma, mi fa sentire come una stupida o press’a poco.»

Oscar la fissò con sguardo assorto. «Carol, mia cara, lui parla così a tutti, me compreso, ma senza il minimo intento offensivo. È semplicemente convinto della sua assoluta superiorità, anche perché nella sua vita non è mai accaduto nulla che potesse fargli cambiare idea. In fin dei conti è diventato milionario coi suoi brevetti prima ancora della laurea al MIT.»

«Ma tutto questo lo so, lo so Oscar» disse Carol, spazientita e delusa. «E tu continui a proteggerlo. Dale e io siamo amanti da quasi un anno. Be’, lui va dicendo a tutti che è tanto fiero di me, che è felice dello stimolo intellettuale che gli offro, e poi, quando siamo insieme, mi tratta da scema. Guarda stamattina, per esempio: ha trovato a ridire perfino su quello che avevo scelto per colazione! Cristo santo: sono candidata al premio Pulitzer, e il tizio che mi vuol sposare ritiene che non sìa capace di ordinarmi da me la colazione!»


Erano davanti a una grande vasca dall’acqua cristallina. In essa nuotava una mezza dozzina di piccole balene, che affioravano ogni tanto per rifornirsi d’aria. «Mia giovane amica,» disse piano Oscar «quando, all’inizio, sei venuta a chiedere il mio parere, io ti ho detto che, a mio avviso, avevate anime incompatibili. E tu, ricordi cosa m’hai risposto?»

«Sì» disse lei con un mezzo sorriso. «Che il primo scienziato dell’IOM, cosa poteva saperne, di anime? E mi rincresce oggi Oscar, come m’è rincresciuto allora. Ma ero così cocciuta… Dale sembrava grande sulla carta e volevo la tua approvazione…»

«Lascia perdere,» la interruppe lui «sai cosa provo per te. Ma non sottovalutare mai uno scienziato. Ce n’è» continuò astrusamente «che vogliono conoscere fatti e concetti per poter giungere alla comprensione della natura ultima e globale delle cose. Anima putativa inclusa…

«Ora, prendi queste balene» continuò, accelerando il ritmo e cambiando abilmente argomento. «Noi ne studiamo il cervello da quasi un decennio, ormai: abbiamo isolato i vari tipi di funzione individuandone le sedi specifiche, e tentato di correlare la struttura a quella del cervello umano — tutto ciò, con un certo successo. È stata separata la funzione del linguaggio, ossia quella che governa il loro verso, e identificata la sede dei comandi fisici per tutte le parti del corpo: di fatto, insomma, abbiamo trovato nel cervello della balena una zona con funzione equivalente a quella che, nel cervello umano, governa le attività principali. Ma resta un problema, o, se preferisci, un mistero.»

Una delle balene arrestò il suo moto circolare e si dispose come in osservazione dei due interlocutori. «Nel cervello delle balene c’è un’ampia fetta alla quale non siamo stati in grado di assegnare una funzione specifica. Anni fa, dopo aver ascoltato i versi delle balene in migrazione, uno scienziato geniale, correlandoli al resto del loro comportamento, ha postulato che quest’ampia e inspiegata fetta di cervello fosse una schiera multidimensionale di memoria. Secondo la sua ipotesi, insomma, le balene immagazzinerebbero in questa schiera interi episodi — includenti cose viste, suoni, e perfino sensazioni —, che poi rivivrebbero durante la migrazione così da alleviarne la noia. E i nostri esperimenti cominciano appunto a confermarlo.»

«Vuoi dire,» fece, incuriosita Carol «che potrebbero mettere in quella schiera la serie completa di impressioni sensorie generate da un evento importante — come il parto, per esempio, — e poi, in questo o quel momento particolarmente noioso della migrazione, tirarne fuori, in certo senso, una riproduzione completa e istantanea? Accidenti, ma è affascinante! Io ho una memoria che è una fonte d’irritazione perenne: sarebbe formidabile se potessi entrarci, di mia volontà, e tirarne fuori quello che voglio — sensazioni comprese!» Poi, ridendo: «D’estate, per esempio, a volte mi è successo di non riuscire a ricordare con precisione il grande piacere che si prova a sciare, e ho provato una sensazione quasi di panico al pensiero di non ritrovarlo magari più, l’inverno seguente».

Oscar fece dei cenni alla balena, che si allontanò. «Bada, però,» disse «già altri hanno pensato che sarebbe fantastico se le nostre memorie fossero complete come quelle di un elaboratore… Ora, supponiamo di avere una memoria completa, multidimensionale, come quella ipotizzata per la balena, e supponiamo pure di conservare la medesima mancanza di controllo d’immissione quale è caratteristica della memoria umana attuale — che, come sai, ci consente di comandare noi, il che cosa e il quando ricordare. Ebbene, in tal caso sorgerebbero dei problemi. Potremmo addirittura diventare non funzionali come specie. Una canzone, un quadro, un odore, il sapore di un dolce, magari, potrebbero costringerti, da un istante all’altro, a fronteggiare di nuovo l’intero arco di emozioni associate alla morte di una persona cara, a rivedere un litigio doloroso fra i nostri genitori, o addirittura a rivivere il trauma della nostra nascita.»

Dopo un momento di silenzio, Oscar proseguì: «No, l’evoluzione ci ha serviti bene. Non potendo sviluppare un meccanismo di controllo immissione per la nostra memoria, essa, per proteggerci, per impedirci di venir demoliti da errori o eventi passati, vi ha inserito un processo di dissolvimento naturale…».

«Carol Dawson, Carol Dawson,» echeggiò l’altoparlante, infrangendo la quiete dell’acquario dell’IOM «è pregata di presentarsi subito nella sala riunioni audiovisive accanto allo studio del direttore.»

Carol strinse Oscar in un abbraccio affettuoso. «È stato un gran piacere, Ozzie, come sempre,» disse, osservandone il sussulto all’impiego del vezzeggiativo «ma pare che abbiano terminato di sviluppare le foto. Tra parentesi, la storia della memoria delle balene mi pare proprio affascinante, perciò intendo tornare a farci sopra un servizio. Un giorno della prossima settimana, magari. Un abbraccio a tua figlia e a tuo nipote.»

La conversazione con Oscar l’aveva tanto appassionata, da farle dimenticare per un momento lo scopo del suo volo mattiniero a Miami. Ora, tornando in macchina dall’acquario all’edificio amministrativo principale dell’IOM, si sentì riprendere da un forte senso di eccitazione. A colazione, Dale si era detto fiducioso che l’elaborazione delle immagini infrarosse avrebbe rivelato qualcosa d’interessante. «Dopo tutto, l’allarme oggetto-estraneo è stato azionato ripetutamente e, dato che le immagini visive non hanno rivelato nulla, ne consegue che, o è stato azionato dalle osservazioni infrarosse, o c’è stato un cattivo funzionamento dell’algoritmo» aveva ragionato. «La seconda possibilità è però assai improbabile, perché il flusso-dati è stato disegnato da me personalmente e provato, dopo la codificazione, dai miei programmatori migliori.»

In sala riunioni, Carol trovò un Dale agitato in maniera piuttosto insolita. Quando fece per porgli una domanda, lui, dopo il sorriso di saluto, la zittì con un’energica scossa del capo, continuando a parlare con due tecnici addetti all’elaborazione delle immagini. «Siamo d’accordo, allora? Voi disponete le immagini in questa sequenza, e io le chiamerò singolarmente usando il telecomando.» I tecnici lasciarono la sala.

«Che colpo, cazzo, che colpo: da non crederci!» esclamò quindi Dale, venendole vicino e afferrandole le braccia. Poi, calmatosi un po’: «Ma andiamo per ordine. Mi sono promesso di non guastarti la festa». E, invitatala ad accomodarsi al grande tavolo davanti allo schermo gigante, lei si sedette accanto e pigiò il telecomando.

Sullo schermo apparve un’istantanea fissa delle tre balene nella zona della scogliera sottostante alla barca. Sulla destra e sotto di esse si distingueva chiaramente la fessura. Allo sguardo di Dale, Carol disse, alzando le spalle: «Va bene, e allora? Ho preso immagini altrettanto buone con la mia subacquea».

Dale tornò a guardare lo schermo e pigiò il telecomando a più riprese. Le scene successive furono zumate sul foro della barriera corallina: zumate sempre più ravvicinate, che finirono per incentrarsi sopra un puntino luminoso nell’angolo inferiore sinistro della fessura. Al nuovo sguardo di Dale, Carol rispose pensosa: «Un ingrandimento così, credo di avercelo anch’io. Però è impossibile dire se il puntolino rappresenti davvero qualcosa o se sia soltanto un sottoprodotto dello sviluppo». Poi, dopo una pausa: «A ben guardare, però, il fatto che la luce sia stata trovata praticamente nel medesimo punto da due tecniche diverse suggerisce che potrebbe anche non trattarsi di una distorsione causata dal processo di elaborazione. E adesso, cosa viene?» concluse, chinandosi in avanti con aria interessata.

Incapace di contenersi più a lungo, Dale saltò in piedi e cominciò ad andare avanti e indietro per la sala. «Adesso,» rispose «viene quello che potrebbe essere il tuo biglietto d’invito alla cena del Pulitzer a New York! Ora ti mostrerò la stessa, precisa sequenza delle immagini, salvo che si tratta di quelle infrarosse, scattate una frazione di secondo dopo. Osserva attentamente, e soprattutto il centro della fessura.»

La prima immagine infrarossa copriva la medesima area della prima immagine visiva, ossia quella sottostante alla barca, ma rappresentava le variazioni termiche. Nel processo di elaborazione, a ogni pixel (singolo elemento visivo dell’immagine) veniva attribuita una temperatura specifica basata sulla radiazione infrarossa osservata nel relativo settore d’inquadratura. Le temperature simili venivano quindi raggruppate insieme dall’elaboratore, che assegnava loro il medesimo colore. Il procedimento aveva così per risultato la creazione di regioni isotermiche (ossia di temperatura all’incirca uguale) collegate visivamente fra loro dal colore. Nella prima immagine infrarossa, dunque, le balene risaltavano in rosso, contro il blu della maggior parte delle piante della barriera corallina, sullo sfondo grigio-fosco della temperatura normalizzata dell’acqua. Carol ci mise un momento per adeguarsi alla nuova immagine (mentre Dale esibiva un sorriso di trionfo), e, prima che potesse focalizzare lo sguardo su due piccole regioni, una rossa e l’altra marrone, nel centro del foro della barriera, lo schermo si scoprì, in pochi secondi di zumate, di un’immagine infrarossa ravvicinata della fessura. Un’immagine che spiegava bene come mai Dale fosse tanto emozionato.

«Te lo dicevo che doveva esserci qualcosa sotto la barca» fece, andando allo schermo e puntando il dito su un oggetto oblungo di color marrone, cilindrico a un capo e affusolato all’altro. Ingrandita dallo zoom, la fessura riempiva quasi completamente lo schermo, né il processo d’ingrandimento aveva sciupato l’ottima qualità dell’immagine infrarossa. All’interno dell’apertura si vedevano tre o quattro colori diversi, ma solo due, il marrone e il rosso, apparivano costanti in una quantità significativa di pixel.

«Vacca merda,» esclamò Carol, alzandosi istintivamente dalla sedia per andare a raggiungere Dale «ma, allora, quello dev’essere il missile scomparso! E ce l’abbiamo avuto sotto i piedi per tutto il tempo!» Poi, afferrata la bacchetta e agitandola verso lo schermo: «Ma questa macchia rossa, cos’è? Pare il gatto del Cheshire di Alice nel paese delle meraviglie».

«Con certezza, non lo so, e probabilmente non è nulla di speciale» rispose Dale. «Ma una mezza idea ce l’ho, e, guarda caso, si basa proprio sul tuo racconto dello strano comportamento delle tre balene. La macchia potrebbe essere la testa di un’altra balena, che, da un punto lontano dalla luce, guarda fuori dalla grotta o da ciò che quella fessura rappresenta. Ecco, guarda un po’: zumando un tantino, si ottiene un’immagine singola di entrambe le regioni isotermiche rosse, e, se ci fai caso, la regione rossa al centro della fessura sembra uguale al rosso delle tue balene-sentinella. E le due regioni rimangono comparabili per temperatura anche aumentando lo zoom. Insomma, non sarà una prova certa, però di sicuro avvalora la mia ipotesi.»

Carol era già molto oltre col pensiero, tutta concentrata sulla sua prossima mossa. La cosa essenziale era il recupero del missile prima che qualcuno avesse saputo della sua posizione: dunque, ritorno a Key West il più presto possibile.

«Un favore, Dale,» disse prendendo borsetta e cartella «puoi farmi portare all’aeroporto, e subito? Voglio richiamare quel tenente Todd per mettergli addosso un po’ di strizza. Così diventerà un po’ più guardingo e noi guadagneremo tempo.»

Una pausa, il cervello impegnato a pensare a un milione di cose tutte insieme. «Da qui, però, non posso farlo perché lo insospettirei… E bisogna che mi procuri una barca per domani… Oh, fra parentesi: immagino che tu abbia una copia di quelle immagini per me, vero?»

«Ma certo» confermò Dale. «Prima, però, siedi buona buona un secondo, perché ho da mostrarti qualcos’altro. Non so ancora se si tratti di un fenomeno reale, ma, se lo è…» Carol fece per protestare, ma qualcosa nell’atteggiamento di lui la indusse a ubbidire. Quando fu seduta, Dale si lanciò in un’esposizione degli algoritmi d’ingrandimento, spiegando come le informazioni delle immagini potessero venir ingrandite in modo da far risaltare tratti speciali e da facilitare l’interpretazione.

«Sì, sì, va bene,» disse Carol dopo un po’ «ma a me serve solo il succo. Che tu e i tuoi ingegneri siate dei califfi, lo so già.»

Dale richiamò sullo schermo la prima immagine infrarossa, quella col primo piano delle tre balene sotto la barca. «Questa immagine ha scarsa granulosità termica. I pixel della regione colorata in rosso, per esempio, non corrispondono tutti esattamente alla medesima temperatura; in realtà, insomma, c’è un divario di circa cinque gradi nell’arco di temperature rappresentato dallo stesso colore. Ora, se ingrandiamo l’immagine in modo che le regioni isotermiche vengano a coprire un arco totale di soli due gradi ciascuna, otteniamo quest’altra immagine.»

La nuova immagine presentava dieci colori diversi. Riconoscervi i tratti individuali era ora assai più difficile, così come assai più difficile ne risultava l’interpretazione a causa dei punti-dato che vi comparivano. Una parte di muso di una delle balene aveva ora un colore diverso da quello del resto dell’animale.

«Il limite di precisione dell’apparecchio, una volta convertiti in temperature i dati grezzi dello spettro, è di circa un grado. Ingrandendo l’immagine di un altro po’, ossia facendo in modo che le regioni isotermiche collegate coprano un arco totale di un solo grado ciascuna, otteniamo un qualcosa di intellegibile. Ora, i colori delle regioni isotermiche sono venti, e siccome il disturbo o errore di ciascun punto-dato è della stessa entità dell’arco della regione isotermica, risulta praticamente impossibile vedere figure di oggetti noti, come le tre balene. Tutto questo preambolo te l’ho fatto per uno scopo: quello di farti render conto che ciò che sto per mostrarti è senza dubbio assai affascinante, ma può anche essere del tutto sbagliato.»

L’immagine seguente fu un primo piano infrarosso del fondale oceanico, in un punto immediatamente al di sopra della trincea seguita a rovescio da Carol nella sua ricerca dell’origine dei solchi. In esso, le familiari linee parallele si scorgevano a malapena, e la fessura era quasi all’estrema sinistra. Ad ambo i lati della trincea, un blu qua e là sparso di verde demarcava le due scogliere. Carol rivolse a Dale uno sguardo interrogativo.

«Questo primo piano ha la medesima granularità — cinque gradi — dell’immagine grande di riferimento, e non presenta nulla di notevole.» Altra immagine. «Lo stesso vale per questo, dove abbiamo portato ancora una volta a dieci il numero dei colori. Ma guarda un po’ questa, invece.» Sullo schermo apparve un’ennesima immagine, assai difficile da seguire e tanto più da interpretare. Le regioni erano collegate qua e là, secondo uno schema apparentemente casuale, da non meno di venti colori diversi, e l’unica cosa regolare erano le scogliere di fondo, su cui vivevano il corallo e altra flora e fauna marine. Ed erano proprio le scogliere di fondo a metter Dale in tanta agitazione.

«Questo è quello che volevo farti vedere» disse, indicando a gesti le scogliere ai due lati della trincea. «Le scogliere hanno ciascuna un colore diverso. Per qualche ignota e inspiegabilissima ragione, ogni area rocciosa di fondo di questa scogliera è verde-pallido, mentre quella della dirimpettaia oltre la trincea, a pochi metri di distanza, è gialla. Una differenza di un grado. Ora, se qualche sezione gialla fosse sparsa di verde-pallido e viceversa, direi che siamo in presenza di dati privi di significato, di pure e semplici impronte di rumore. Ma il verde-pallido da una parte, e il giallo dall’altra, dicono che non è così.»

Carol non riusciva ad afferrare. Vedeva sì che le rocce di una scogliera erano verde-pallido e quelle della dirimpettaia gialle, ma non capiva che significato ciò potesse avere. Scosse la testa: aveva bisogno di altre spiegazioni.

«Ma non capisci?» concluse teatralmente Dale. «Se il dato è giusto, abbiamo trovato una cosa importantissima: o una di queste scogliere contiene una fonte che ne rende la superficie uniformemente più calda, o — e ammetto che suona davvero incredibile — una delle due non è una scogliera, bensì qualcosa di camuffato per tale!»

4

Trovare un parcheggio nel pieno di un giorno feriale vicino alla casa di Amanda Winchester a Key West, era quasi sempre impossibile. La Hemingway Marina aveva sì rivitalizzato il quartiere vecchio in cui Amanda abitava, ma, come al solito, nessuno aveva pensato a spazi di parcheggio in proporzione. Tutte le residenze ottocentesche, ridipinte e ristrutturate, delle vie Eaton e Caroline esibivano cartelli del tipo: NON RESIDENTI, È SEVERAMENTE VIETATO PARCHEGGIARE QUI!, ma invano. La gente che lavorava nei negozi del porto turistico parcheggiava dove le faceva comodo, anche perché il parcheggio del porto costava un occhio.

Dopo un quarto d’ora di vane ricerche, Nick Williams decise di lasciare la macchina davanti a un negozio di scatolami e di farsi a piedi l’isolato che lo separava dalla casa di Amanda. Provava una strana ansia: un po’ era nervoso per l’agitazione, un po’ avvertiva un certo senso di colpa. Amanda era stata la finanziatrice maggiore della spedizione originaria della Santa Rosa, e lui ci aveva passato un bel po’ di tempo insieme dopo il ritrovamento del tesoro. Lei, lui e Jake Lewis s’erano convinti che Homer Ashford e il suo ménage-à-trois fossero riusciti a nasconderne parte e, quindi, a frodarli della giusta quota loro spettante. Amanda e lui si erano dati da fare per trovare prove del furto di Homer, ma, di concrete e incontrovertibili, non ne erano emerse.

All’epoca della collaborazione, i loro rapporti si erano stretti: si vedevano in pratica tutte le settimane, e, per un po’, Nick aveva considerato Amanda una specie di zia o di nonna. Dopo circa un anno, però, aveva smesso di andarla a trovare. All’epoca, lui non se n’era reso conto, ma il vero motivo per il quale aveva preso ad evitarla era che Amanda era troppo emotiva per lui. E troppo personale, anche, con quel suo vezzo di voler sempre sapere come gli andasse la vita.

Quel mattino, comunque, non aveva altra scelta. Amanda era generalmente riconosciuta come l’esperta dei tesori da naufragio delle Key. La sua vita aveva due poli, i tesori e il teatro, e la sua conoscenza degli uni e dell’altro era enciclopedica. Nick non aveva telefonato per avvertirla, perché intendeva discutere del tridente solo se lei avesse gradito vederlo. Fu quindi con una certa trepidazione che suonò il campanello della veranda della sua magnifica casa.

La porta si aprì di una fessura su una giovane donna poco più che ventenne. «Sì?» disse la donna, il viso dall’espressione diffidente incuneato nella fessura.

«Mi chiamo Nick Williams e vorrei vedere la signora Winchester, se è possibile. È in casa?» Una pausa. «Sono un suo vecchio…»

«Mia nonna è molto occupata stamattina» lo interruppe seccamente la ragazza. «Sarà meglio che telefoni per un appuntamento» e fece per richiudere, e piantarlo sulla veranda con la sua sacca sportiva, quando si udì una seconda voce. Un breve mormorio, e la porta si spalancò.

«Oh, santo cielo,» disse Amanda, tendendo le braccia «un giovin signore mi onora di una visita! Qua, Nick, vieni a darmi un bacio.» Con un certo imbarazzo, Nick si fece avanti e abbracciò meccanicamente l’anziana donna.

Poi, scioltosi, cominciò a scusarsi: «Scusa se non mi sono fatto più vedere. Volevo, ma gli impegni…».

«Ma sì, ma sì, Nick, capisco» lo interruppe amabilmente Amanda, gli occhi tanto vispi da smentire la sua età. «Entra, e raccontami un po’ cos’hai fatto di bello in tutto questo tempo. Dio mio, sono già passati due anni da quando abbiamo bevuto insieme quel cognac, dopo il Tram?» Lo guidò in uno studio-soggiorno e lo fece accomodare accanto a sé sul divano. «Sai, Nikki, allora ho pensato che le tue osservazioni sull’attrice che impersonava Blanche DuBois fossero le più acute che avessi ascoltato in tutto il ciclo di recite. Avevi ragione su di lei: Bianche, lei la poteva impersonare solo come alienata, perché non aveva il minimo concetto di appetito sessuale femminile.»

Nick si guardò intorno. La stanza era a stento cambiata negli otto anni trascorsi dalla sua ultima visita. Soffitto altissimo, di almeno quattro metri e mezzo; pareti rivestite di librerie, dalle scaffalature piene di libri dal pavimento al soffitto. Di fronte alla porta, in posizione dominante, un enorme quadro di Amanda e del marito davanti alla loro casa di Capo Cod. Sullo sfondo, vagamente visibile, una Ford 1955 nuova. Amanda appariva di una bellezza radiosa: i trenta passati da poco, un vestito bianco da sera audacemente bordato di rosso ai polsi e al collo. Il marito era in smoking nero: quasi completamente calvo, una corona di corti capelli biondi ingrigiti alle tempie, occhi dolci e affettuosi.

Amanda chiese se volesse un tè, e Nick disse di sì. Quando la nipote Jennifer si fu allontanata, Amanda si girò a prendergli le mani fra le sue. «Sono contenta che tu sia venuto, Nikki: mi mancavi tanto… Ogni tanto sento parlare qua e là di te e della tua barca, ma spesso le notizie di seconda mano sono del tutto inesatte. Be’, che hai fatto in tutto questo tempo? Letture, sempre letture? E un’amica, ce l’hai?»

Nick rise. Amanda era sempre la stessa: le chiacchiere non facevano per lei. «No, non ce l’ho» rispose. «È la solita storia: le intelligenti si rivelano arroganti o emotivamente fatue, o tutt’e due le cose insieme; le sensibili e affettuose non hanno mai letto un libro.» Per qualche ragione, gli balenò in mente Carol Dawson, e così disse quasi, senza riflettere: «Salvo una, magari» ma si trattenne. «Quello che mi ci vorrebbe è una come te» disse invece.

«No, Nikki,» fece, improvvisamente seria, Amanda, incrociando le mani in grembo e restando qualche istante a guardare nel vuoto. «No, nemmeno io sono abbastanza perfetta per te» riprese dolcemente, tornando a guardarlo, la voce sempre più infervorata. «Ricordo bene tutte le tue fantasticherie di giovani dee leggiadre, dove mescolavi le parti migliori di tutte le donne dei tuoi romanzi prediletti ai tuoi sogni di adolescente. Mi è sempre parso che mettessi le donne su un piedestallo: o regine, o principesse. Ma poi, nelle ragazze con cui uscivi, cercavi le debolezze, i segni dell’ordinario, gl’indizi del comune, quasi sperassi di trovarle imperfette, di scoprirne dei punti deboli che giustificassero la tua mancanza d’interesse.»

Arrivò Jennifer con il tè. Nick si sentiva a disagio. Aveva dimenticato che cosa significasse conversare con Amanda, e, ora, quel suo scandagliare nei sentimenti e quelle sue osservazioni non richieste lo irritavano parecchio. Che diamine, mica era venuto per vederla analizzare il suo atteggiamento verso le donne! Cambiò argomento.

«Parlando di tesori,» disse, chinandosi a raccogliere la sacca «ieri ho trovato qualcosa di molto interessante mentre ero fuori per un’immersione, e ho pensato che magari tu, di casi del genere, ne avessi già visti.» Estratto il tridente, glielo porse, e lei, impreparata al peso, quasi lo lasciò cadere.

«Santo cielo!» esclamò Amanda, sollevandolo ad altezza d’occhio, il magro braccio tremante per lo sforzo. «Ma di cosa può essere fatto? È troppo pesante per essere d’oro!»

Nick si chinò a riprenderlo, e glielo resse mentre lei passava le dita sulla levigatissima superficie. «Io, cose così, non ne ho viste mai, Nikki. Inutile tirar fuori libri e fotografie per confronti: la levigatezza della finitura non ha niente a che vedere con le tecniche di lavorazione europee del periodo dei galeoni o di quello seguente. Perciò, dev’essere per forza moderno, ma non sono in grado di dirti altro. E dove mai l’hai pescato?»

Lui le raccontò solo a grandi linee la vicenda, attento come sempre a non lasciarsi sfuggire informazioni chiave — questo, non solo per via del patto con Carol e Troy, ma perché, da buon cercatore di tesori, non si fidava mai veramente di nessuno. Disse, comunque, di ritenere che forse qualcuno aveva nascosto il pezzo, insieme con altri, in vista di un recupero successivo, perché, così, trovavano spiegazione plausibile i solchi presenti sul fondale.

«A me, questo tuo scenario sembra molto inverosimile,» obiettò Amanda «anche se ammetto di essere sorpresa e di non avere spiegazioni migliori. Forse la signorina Dawson ha delle fonti in grado di gettar luce sull’origine di questo coso. Di certo, posso dirti che è quasi impossibile che io mi sbagli: ho visto direttamente, o in foto ingrandite, tutti i pezzi da tesori recuperati nelle Key durante il secolo scorso (se me ne mostrassi uno oggi, te ne potrei probabilmente dire il paese europeo di fabbricazione e il decennio), e, se questo oggetto proviene da una nave affondata, la nave deve essere una nave moderna, quasi sicuramente di dopo la seconda guerra mondiale. Altro aiuto non posso darti.»

Nick ripose il tridente nella sacca e si accinse a congedarsi. «Ancora un minuto, Nikki» disse Amanda quando lo vide alzarsi. «Vieni un po’ qui» continuò, prendendolo per il braccio e guidandolo davanti al quadro. «Walter ti sarebbe stato simpatico, Nikki. Era un sognatore come te, e amava andare in cerca di tesori. Ogni anno passavamo una settimana o due nei Caraibi su uno yacht — apparentemente, per cercare tesori, ma, in genere, solo per condividere l’uno i sogni dell’altra. Ogni tanto, sul fondale, trovavamo oggetti che non capivamo, e così inventavamo congetture fantasiose per spiegarli. Quasi sempre, la spiegazione era assai più banale, e inferiore alle nostre fantasie.»

Nick le stava accanto con la sacca nella destra. Lei si girò verso di lui e, posandogli dolcemente la mano sull’avambraccio sinistro, continuò: «Ma non importava, come non importava che la stragrande maggioranza delle volte tornassimo a mani vuote. Perché il tesoro vero lo trovavamo sempre, ed era il nostro reciproco amore. Ogni volta, così, tornavamo a casa rinnovati, sorridenti, grati che la vita ci avesse concesso di condividere un’altra settimana o dieci giorni in cui immaginare, fantasticare, cercar tesori — insieme».

I suoi occhi esprimevano dolcezza e amore, la sua voce bassa traboccava di passione. «Io non so quando o se tornerai, Nikki, ma c’è qualcosa che desideravo dirti da tempo. Considerala uno sproloquio da vecchia sputasentenze, se vuoi, ma può darsi che questa sia la mia ultima occasione per dirtela. Tu hai tutte le doti che amavo in Walter: intelligenza, fantasia, sensibilità. Ma c’è qualcosa che non va. Sei solo. E per tua scelta. I tesori che sogni, il tuo gusto della vita — sono cose che non dividi con nessuno. E questo, per me, è molto triste.» Tacque per un secondo, lo sguardo di nuovo rivolto al quadro. Poi completò la riflessione come parlando a se stessa. «Perché, quando avrai settant’anni e ti domanderai il significato della tua vita, non saranno le attività solitarie che ricorderai, ma gli episodi di contatto, le volte in cui la tua vita è stata arricchita dall’aver condiviso qualcosa con un amico o una persona cara. È infatti la consapevolezza reciproca di questo miracolo chiamato vita quella che ci permette di accettare la nostra mortalità.»


Nick era andato da Amanda impreparato a un incontro emotivo. Aveva pensato di fermarsi per una breve visita, di chiederle del tridente, e di congedarsi subito dopo. Ora si rendeva conto di averla trattata con estrema insensibilità in tutti quegli anni. Lei gli aveva offerto un’amicizia sincera, e lui l’aveva rifiutata con sprezzo, levandosela dalla vita quando la sua collaborazione aveva cessato di servirgli. Il pensiero di quanto fosse stato egoista gli diede un sussulto.

Discendendo a passo lento la strada, lo sguardo vagante qua e là ad ammirare la grazia delle vecchie case di oltre un secolo prima tirò un sospiro. Troppe emozioni, per un mattino! Prima Monique, poi Amanda. E, a quanto pare, non sarà il tridente a risolvere tutti i miei problemi. Curioso, come le cose vengano sempre a mazzi…

Forse… sì, forse Amanda aveva detto delle gran verità, si sorprese a riflettere. Da un po’ di tempo si sentiva solo, in effetti. E chissà che tale sensazione di solitudine non facesse appunto tutt’uno con la crescente consapevolezza della mortalità, col tramonto di quella fase della vita che Thomas Wolfe aveva così ben delineato col suo “Giovani eravamo infatti, e sapevamo che, morire, non avremmo potuto mai”… Arrivò alla fine del marciapiede con una sensazione di grande stanchezza addosso, e s’infilò nel parcheggio del negozio.

La vide prima che lei vedesse lui. Era in piedi accanto al volante della sua macchina nuova fiammante, un coupé Mercedes rosso; aveva un sacchetto marrone da spesa a un braccio e guardava l’interno dell’auto accanto — la sua Pontiac 1990. Sentì l’adrenalina montargli nel sangue, sotto l’effetto della collera e del sospetto. Lei si accorse di lui quando cominciò a parlare: «Ma guarda che sorpresa: Greta! Immagino sia un caso che ci troviamo in questo quartiere tutt’e due nello stesso momento…».

«Ja, Nick, mi pareva che fosse proprio la tua macchina. Come stai?» Posò il sacchetto sul cofano della Mercedes e gli si fece incontro con fare amichevole, come se non avesse colto il sarcasmo o avesse deciso di passarci sopra. Indossava una casacca gialla senza maniche e un paio di pantaloncini azzurri attillati, e aveva i capelli raccolti in due treccine.

«Non fare l’innocente con me, fräulein: lo so che non sei venuta qua per fare la spesa!» sbottò Nick con foga eccessiva, al limite dell’urlo. Poi, usando il braccio libero per accentuare il commento e bloccare l’avanzata di lei: «Questa non è una delle fermate del tuo percorso, quindi sei venuta per trovare me. Allora, che vuoi?». Lasciò cadere il braccio. Una coppia di passanti si era fermata a osservare il diverbio.

Greta lo fissò un momento con quei suoi occhi cristallini. Non portava trucco, sicché, rughe a parte, sembrava una bambina. «Sempre così infuriato, Nick? Dopo tanti anni?» Gli venne vicino, sorridendogli con aria d’intesa. «Ricordo una sera di quasi cinque anni fa in cui non lo eri poi tanto» disse scherzosa. «Una sera in cui sei stato felice di vedermi. Mi hai chiesto se potevi avermi per una notte, senza impegno per nessuno dei due, e io ho detto di sì. E sei stato uno schianto.»

Per un istante, Nick rivide la notte piovosa in cui l’aveva fermata mentre stava lasciando il porto. Una notte in cui aveva provato il bisogno disperato di avere un contatto umano qualsiasi. «Quello è stato il giorno dopo il funerale di mio padre,» disse bruscamente «e comunque non significava un cazzo.» Stornò lo sguardo per sottrarsi a quello penetrante di lei.

«Io ho avuto un’impressione diversa» continuò Greta, nel medesimo tono scherzoso ma privo di qualunque altro sentimento. «Ti ho sentito dentro di me, ho provato il gusto dei tuoi baci, sicché adesso non mi puoi dire che…»

«Senti, si può sapere cosa vuoi?» la interruppe, irritatissimo, Nick. «Non ho nessuna intenzione di stare qui tutta la mattina a discutere con te di una stupida notte di cinque anni fa. So che sei qui per una ragione: me la vuoi dire sì o no?»

Greta arretrò di un passo, irrigidendosi. «Sei un uomo molto difficile, Nick. Potrebbe essere così divertente lavorare insieme, se non fossi un tale… come dite voi… rompiballe.» Tacque per un momento. «Sono qui per Homer. Ha una proposta da farti. Vuol vedere quello che hai trovato ieri e magari discutere di una collaborazione.»

«Avevo capito giusto, allora?» sogghignò trionfalmente Nick. «Sei stata mandata apposta, e ora quel bastardo vuol discutere di una collaborazione. Ah no, cara mia, col cazzo che mi avrete! M’avete fregato una volta, e ne cresce. Di’ al tuo capo, o amante, o quel che è, che la sua proposta può ficcarsela nel culo! E ora, se vuoi scusarmi…»

Le girò intorno per aprire la sua macchina, ma la forte mano di lei gli bloccò l’avambraccio. «Stai commettendo un errore, Nick,» disse, trapanandolo con lo sguardo «un errore madornale. Non puoi permetterti di far da solo. Quello che hai trovato è probabilmente senza valore, ma, se lo avesse, perché non lasciare che sia lui a metterci i soldi?» Gli occhi da camaleonte mutarono nuovamente d’espressione. «E sarebbe tanto divertente tornare a lavorare insieme…»

Nick salì in macchina e avviò il motore. «Niente da fare, Greta: perdi il tuo tempo, e io devo andare.» Uscì dal parcheggio a marcia indietro, e infilò la strada. Il tesoro era tornato in cima ai suoi pensieri. Momentaneamente depresso da ciò che Amanda gli aveva detto del tridente, avvertiva ora un senso di potenza, perché se Homer voleva vedere l’oggetto… Però, com’è che ne è già al corrente?, si domandò. Chi è stato a parlare? O siamo stati visti da qualcuno?

5

Quando il capitano Winters tornò in ufficio, dopo una riunione di lavoro con la sezione pubbliche relazioni, trova la sua segretaria Dora scopertamente intenta alla lettura del giornale di Key West. «Ehm,» fece lei per attirarne l’attenzione «il Vernon Winters che stasera recita alla Key West Playhouse nella Notte dell’iguana, è forse qualcuno che conosco? O ce ne sono due nella stessa città?»

Winters rise. Dora gli era simpatica. Quasi sessantenne, nera, oltre dodici volte nonna, era una delle poche segretarie della base che andasse veramente orgogliosa del proprio lavoro, e trattava tutti, lui compreso, come figli suoi. «Perché non me l’ha detto?» esclamò, fingendosi offesa. «E se mi scappava, eh? L’anno scorso le avevo pur detto che doveva farci sapere quando recitava, no?»

Lui le batté affettuosamente sulla mano. «Volevo, Dora, ma mi è sfuggito di mente. Le mie attività teatrali, lo sa anche lei, non rientrano precisamente fra quelle predilette dalla Marina, sicché non vado in giro a battere la grancassa. Ma, tra un paio di settimane, le farò avere dei biglietti per lei e suo marito.» Guardò la pila di messaggi sulla scrivania. «Tutta ’sta roba, in poco più di due ore che sono stato via? Altro che pioggia: qui vien giù a rovesci!»

«Ce ne sono due che dovrebbero essere urgenti» disse Dora, guardando l’orologio. «Una certa signorina Dawson del Miami Herald chiamerà fra cinque minuti circa, e quel tenente Todd non ha smesso di chiamare per tutta la mattina. Dice che la deve assolutamente vedere prima di pranzo, altrimenti non può prepararsi come si deve per la riunione di questo pomeriggio. A quanto pare, ha lasciato un lungo messaggio sul videotel, rubrica Segretissimo, e ce l’ha con me perché non ho voluto interrompere la sua riunione per comunicarglielo. È davvero così importante?»

Il capitano Winters si strinse nelle spalle e aprì la porta dell’ufficio. Todd… Chissà che vuole, pensò. Certo, forse era meglio che controllassi il videotel prima di correre dal capo. «I messaggi, li ha inseriti tutti nell’elaboratore?» chiese prima di richiuderla. Dora assentì. «Bene: allora parlerò con la signorina Dawson, quando chiamerà, e dica a Todd che lo vedrò fra un quarto d’ora.» Sedette alla scrivania e accese l’elaboratore. Attivata la voce Posta, vide che c’erano tre messaggi nuovi, uno dei quali sotto la rubrica SEGRETISSIMO. Identificatosi, batté il codice segretissimo e cominciò a leggere il messaggio del tenente Todd.

Squillò il telefono. Dopo qualche secondo, Dora gli comunicò che era la signorina Dawson. Prima di cominciare, lui concordò che il colloquio avvenisse per video e potesse essere registrato. Carol — che lui riconobbe all’istante dalle sue occasionali apparizioni televisive —, dopo avergli detto di parlare dal salone telecomunicazioni dell’aeroporto internazionale di Miami, non si perse in preamboli.

«Comandante Winters, secondo notizie ufficiose in nostro possesso, la Marina sarebbe impegnata nella ricerca di qualcosa d’importante, e di segreto, nel Golfo del Messico, tra Key West e le Everglades. Queste notizie sono state smentite dai vostri addetti stampa e da un certo tenente Todd, che ci hanno rinviato per ogni informazione a lei. Sempre secondo la nostra fonte — che da nostra successiva verifica si è rivelata veritiera in ambo i casi —, circola oggi nel Golfo un gran numero di navi tecnologiche, e c’è da parte vostra il tentativo di ottenere il noleggio, da parte dell’Istituto Oceanografico di Miami, di sofisticati telescopi oceanici. Mi sa dire qualcosa in merito?»

«Ma sicuro, signorina Dawson» rispose, sfoggiando il suo miglior sorriso d’attore, Winters, che s’era preparato con cura la risposta nella riunione del mattino con l’ammiraglio. «È davvero sbalorditivo come corrano le voci, soprattutto quando c’è chi sospetta la Marina di atti nefandi.» Un risolino ironico, poi: «L’attività di cui lei parla consiste semplicemente in preparativi per manovre ordinarie da tenersi la prossima settimana. Alcuni marinai delle navi tecnologiche hanno bisogno di un po’ di pratica per rinfrescare le nozioni arrugginite. Quanto ai telescopi dell’IOM, intendevamo usarli appunto durante le manovre per provarne la capacità in materia di valutazione delle minacce sottomarine». Guardando dritto alla telecamera, concluse quindi: «Ecco tutto, signorina Dawson: come vede, non c’è proprio nulla di speciale».

Carol lo osservò sul monitor dell’aeroporto. S’era aspettata un tipo tutto autorità sussiegosa, e invece vedeva un uomo dall’espressione dolce, che appariva in possesso di una sensibilità del tutto inconsueta in un ufficiale di carriera. D’un tratto, le venne un’idea, e si avvicinò alla telecamera. «Comandante Winters,» disse in tono affabile «mi consenta di farle una domanda ipotetica. Se la Marina stesse sperimentando un nuovo tipo di missile e uno di tali missili si perdesse in volo, andando magari a minacciare centri abitati, non sarebbe probabile che essa, giustificandosi con le esigenze della sicurezza nazionale, negasse un evento del genere?»

Per una fuggevole frazione di secondo, negli occhi del capitano Winters l’espressione di serena dolcezza lasciò il posto allo shock. «È difficile rispondere a una domanda ipotetica come questa» intonò quindi formalmente, riacquistando subito il controllo. «Posso dirle, però, che la politica della Marina è quella di tenere l’opinione pubblica al corrente delle proprie attività. L’unico caso in cui interverrebbe una qualche forma di censura è quello di informazioni suscettibili di costituire una minaccia grave per la sicurezza nazionale.»

Il colloquio si concluse rapidamente. Carol aveva ottenuto il suo scopo. Maledizione, imprecò fra sé il capitano Winters, mentre Dora gli annunciava l’arrivo del tenente Todd. Questa, me la sarei dovuta aspettare. Ma lei, come fa a sapere? Che sia riuscita a fregare Todd o qualche altro ufficiale? O è stato qualcuno di Washington, a spifferare tutto?

Aprì la porta dell’ufficio, e il tenente Todd si precipitò dentro quasi d’assalto. Con lui c’era un altro giovane tenente: un tipo alto, spalle grosse e baffoni, che Todd presentò come il tenente Ramirez del servizio informazioni della Marina. «Ha letto il mio messaggio? Che ne pensa? Mio Dio, è quasi incredibile che i russi abbiano fatto una cosa del genere. Mai li avrei fatti così scaltri.» Gridava, quasi, nell’andare agitato su e giù per la stanza.

Winters osservò tutta quella agitazione. Questo giovane tenente ha una gran fretta di arrivare da qualche parte: sprizza impazienza da tutti i pori. Ma che accidenti va dicendo dei russi? E che ci fa, qui, ’sto Maciste messicano?

«Si accomodino, prego» disse, indicando le due poltrone davanti alla scrivania. Poi, serio, a Todd: «E lei cominci a spiegarmi perché si è portato dietro il tenente Ramirez. Il regolamento lo conosce, ed è stato ribadito a tutti proprio la settimana scorsa: gli unici autorizzati a comunicare informazioni strettamente necessarie sono gli ufficiali di grado equivalente a capitano di fregata o superiore».

Todd si difese all’istante dal rimprovero. «Signor comandante, ritengo che siamo di fronte a un incidente internazionale tanto grave, che un intervento dei progetti speciali e dell’ingegneria dei sistemi, da solo, non basta. Stamane, alle 8,30, ho lasciato detto al suo videotel che mi chiamasse all’ASAP, perché il progetto Freccia Spezzata aveva registrato nuovi e importanti sviluppi. Alle 10, non essendo ancora riuscito a parlarle nonostante tutta una serie di telefonate, ho pensato, con preoccupazione, che stessimo perdendo del tempo prezioso, e così mi sono messo in contatto con Ramirez perché potesse mettersi all’opera coi suoi uomini.»

Qui, si alzò. «Signor comandante,» riprese, in tono sempre più concitato «forse nel mio messaggio non sono stato sufficientemente chiaro. Ebbene, abbiamo indizi concreti che il Panther è stato volutamente indirizzato fuori rotta subito dopo l’attivazione dell’APRS! Una ricerca manuale speciale dei dati telemetrici intermittenti ci ha confermato che i ricevitori d’impulso-comando sono impazziti per un periodo di due secondi immediatamente prima della deviazione di rotta del missile.»

«Tenente Todd, si calmi, e torni a sedere» ordinò Winters, doppiamente irritato e dalla noncuranza con cui Todd trattava l’infrazione al regolamento, e dalla aperta accusa da lui mossagli di negligenza nella risposta ai suoi messaggi. Ora, la sua giornata era cominciata con un incontro coll’ammiraglio comandante la base, che aveva voluto un rapporto completo sull’affare Freccia Spezzata, e quindi lui non aveva potuto essere in ufficio, salvo che per un salto di un paio di minuti, se non dopo la riunione al settore pubbliche relazioni.

«Adesso mi risparmi l’isterìa e le sue deduzioni personali,» disse, scandendo le parole, dopo che Todd si fu riaccomodato «e mi esponga i fatti, e solo i fatti, con calma e senza partito preso. Le accuse da lei mosse qualche momento fa sono molto, molto gravi. A mio avviso, se lei si è lasciato trascinare dalla troppa fretta a conclusioni non comprovate, possono sussistere dubbi sulla sua attitudine a continuare a fare l’ufficiale. Quindi, cominci dal principio.»

Un lampo d’ira negli occhi, il tenente aprì il taccuino. Quando parlò, lo fece con voce monocorde, dal tono controllato perché non trasparisse traccia di emozioni. «Alle 3,45 precise di stamane sono stato svegliato dal guardiamarina Andrews, che ha lavorato per quasi tutta la notte sui dati telemetrici da noi raccolti dalla stazione di Canaveral e dalla nave d’inseguimento presso Bimini. Il suo compito era quello di esaminare la sequenza prestabilita di eventi del Panther e di stabilire, possibilmente sulla base dei dati telemetrici sparsi, se a bordo del missile si fossero verificati fatti anomali proprio poco prima dell’uscita di rotta. In questo modo, pensavamo di poter avere una possibilità di isolare la causa del problema.

«Il suo compito, dunque, era fondamentalmente quello dell’investigatore. Come sa, il sistema-dati è vincolato all’ampiezza della banda di frequenza della tratta in discesa, ampiezza che è limitata. Ciò significa che le sequenze di dati telemetrici arrivano un po’ sfalsate e che, pertanto, molti valori relativi al governo del missile nel momento dell’uscita di traiettoria sono giunti a terra solo diversi minuti più tardi, ossia dopo tale uscita e dopo che le stazioni di tracciamento avevano perso e ripreso il contatto un paio di volte.

«Il guardiamarina Andrews mi ha mostrato come nei dati intermittenti si trovassero quattro misurazioni discrete effettuate dal contaricezione di controllo — che è semplicemente una memoria ausiliaria inserita nel programma, la quale scatta di un’unità a ogni nuovo ordine ricevuto correttamente dal missile. Sulle prime, non riuscivamo a credere ai nostri occhi, e abbiamo pensato che ci fosse stato un qualche errore umano o magari delle stesse carte di decommutazione. Ma, entro le 7, dopo aver entrambi controllato i valori inviati dall’uno e dall’altro sito di tracciamento, abbiamo constatato che il canale era proprio quello giusto. Insomma, comandante, nell’1,7 secondi dopo l’attivazione dell’APRS il contraricezioni di controllo ha registrato la bellezza di oltre trecento nuovi messaggi, dopodiché il missile ha deviato dalla traiettoria di bersaglio prevista.»

Mentre Todd parlava, il capitano Winters prendeva nota su un piccolo taccuino a spirale. Un altro mezzo minuto circa per concludere, poi alzò lo sguardo a guardare i due tenenti: «La serie di dati su cui vorreste basare la vostra accusa all’Unione Sovietica e mettere in allarme il servizio informazioni della Marina, è dunque tutta qui?» disse, in tono carico di sarcasmo. «O c’è dell’altro?»

Todd apparve confuso. «E lei ritiene che sia più probabile che i russi conoscessero il codice del comando-prova, e abbiano trasmesso trecento messaggi in meno di due secondi, nell’istante giusto e da un punto al largo della costa della Florida, non che sia stato un difetto del sistema del programma 4,2 a far scattare impropriamente il contraricezioni di controllo?» continuò Winters, alzando sempre più il tono, «ma, santo cielo, tenente: adoperi il cervello! La pianti di vedere il babàu la notte. Siamo nel 1994! In una situazione internazionale praticamente priva di tensioni, come può pensare che i russi siano tanto colossalmente scemi da mettere a repentaglio la distensione deviando un missile da crociera della Marina — e in corso di prova, per giunta! E anche ammettendo che fossero in grado di pilotarlo in un luogo specifico, di recuperarlo e di carpirne i segreti di funzionamento mediante smontaggio, perché mai correrebbero un rischio così enorme per un vantaggio relativamente esiguo?»

I due tenenti rimasero in silenzio durante l’intera sparata. Verso la fine, Ramirez cominciò a mostrare un certo imbarazzato disagio, mentre Todd, persa ormai la puerile sicurezza “di sé, stringeva inconsapevolmente le mani facendo crocchiare le giunture delle dita. Dopo una lunga pausa, Winters riprese, in tono fermo ma ormai parzialmente privo dell’esasperazione iniziale:

«Ieri abbiamo assegnato dei compiti specifici, tenente, che andavano presentati oggi. Riguardi il programma 4,2, e accerti, in particolare, se vi siano stati errori nell’interfaccia col controllo-test e se questi errori siano emersi nel corso della prova modulare o integrativa. Forse nella procedura parziale del contaricezioni di controllo c’era qualche intoppo, che il nuovo dispositivo di sgancio non ha saputo eliminare. In quanto al rapporto di questo pomeriggio, veda di portarmi un elenco di possibili cause di mancato funzionamento che possano spiegare i dati telemetrici — cause che non siano ordini inviati da una potenza straniera. E veda anche di elencarmi ciò che intende fare per analizzare le dette cause in vista di ridurne il numero».

Ramirez si alzò per congedarsi. «Date le circostanze, comandante, ritengo che la mia presenza qui sia un tantino… hem… fuori luogo. Ora, visto che ho già dato istruzioni a un paio dei miei uomini e avviato indagini — urgentissime, naturalmente — per accertare se vi sia, o vi sia stata di recente in zona, qualche attività militare o civile russa, direi che, dopo questo colloquio, sarà il caso che sospenda ogni…»

«Non necessariamente,» lo interruppe il capitano Winters «perché, a questo punto, la cosa più difficile, per lei, sarebbe appunto il dare spiegazioni.» Poi, guardando ambedue i giovani ufficiali ridotti alla tremarella, continuò: «E, per quanto giudichi che abbiate agito entrambi con troppa fretta e al di fuori del regolamento, non intendo mostrarmi vendicativo col farvi rapporto. Lei, tenente Ramirez, continuerà pertanto a raccogliere informazioni, che possono sempre dare il loro frutto. Solamente, veda di non eccedere. In quanto alla responsabilità, me l’assumo io».

Ramirez si avviò alla porta. Manifestamente grato di essersela cavata così, disse con sincerità: «Grazie, comandante. Per un minuto ho pensato di esser lì per farmela addosso. Lei mi ha dato una lezione preziosa».

Winters ricambiò il saluto militare e fece segno a Todd, che apparentemente si accingeva a congedarsi a sua volta, di tornare a sedere. Poi andò a piantarsi davanti al Renoir e, mentre sembrava studiarlo, disse, senza voltarsi: «Tenente Todd, ha detto forse qualcosa di un missile a quella giornalista, la signorina Dawson, o è stata lei a tirare in ballo un missile durante la conversazione?».

«Signornò, non si è parlato di niente del genere» rispose deciso Todd. «Anzi, è stata lei a tenersi sul vago quando io le ho chiesto di che cosa, precisamente, avesse sentito parlare.»

«Allora, o dispone di informazioni interne, o ha una gran fortuna» rispose in tono assente il capitano, quasi parlando a se stesso. Si avvicinò ancor più al quadro e immaginò di udire il piano suonato dalla minore delle due ragazze. Una sonata di Mozart, quel giorno… Ma non era il momento giusto per restare in ascolto. Questo giovanotto ha bisogno di una bella lezione, pensò nel voltarsi.

«Lei fuma, tenente?» chiese, offrendo una sigaretta a Todd e infilandosene una in bocca. Il giovane ufficiale fece di no con la testa. «Io, invece, sì,» continuò, accendendosi la Pall Mall «anche se ci sono mille ragioni per cui non dovrei. Ma non lo faccio quasi mai in vicinanza di persone che non fumano. Per delicatezza.»

Andò a guardare dalla finestra esalando lentamente il fumo dalla bocca. Todd sembrava sconcertato. «Però, in questo momento, non è strano?, lo sto facendo, e proprio per delicatezza» continuò. «Per delicatezza nei suoi confronti, tenente Todd. Perché, vede,» e qui si girò con fare teatrale «dopo una fumata sono più calmo. E posso perciò dominare meglio la mia collera.»

E, venendo a piantarsi in faccia a Todd: «Perché, mio caro giovanotto, a me, questa faccenda, mi ha proprio mandato fuori dai gangheri! Una parte di me vorrebbe darle una lezione esemplare, come sarebbe quella di mandarla sotto processo per infrazione al regolamento. Lei è troppo temerario, troppo sicuro delle sue deduzioni, e quindi troppo pericoloso. Se alcune delle cose da lei dette qui se le fosse lasciate sfuggire con quella giornalista, adesso saremmo all’apriti cielo. Ma…» continuò tornando dietro la scrivania e spegnendo la sigaretta nel posacenere «ma e stata sempre mia convinzione che una persona non vada crocifissa per un singolo sbaglio.»

Poi, sedutosi, concluse, allungandosi contro lo schienale: «Così, detto fra noi, tenente, lei ora con me è come se fosse in libertà vigilata. Dunque, non voglio più sentir parlare di incidenti internazionali, perché questo è solo un semplice caso di mancato funzionamento durante una prova. Faccia il suo lavoro sino in fondo e meticolosamente, e stia certo che, se lo farà bene, la sua parte sarà tenuta nel debito conto. Il sistema non è cieco né alla sua ambizione né al suo talento. Ma se ripartirà in quarta senza motivo su questa faccenda, mi farò personalmente un dovere di stroncarle la carriera».

Todd capì che quello era il congedo. Era ancora infuriato, soprattutto con se stesso, ma si guardò bene dal lasciarlo trasparire. Il capitano di fregata Winters, per lui, era un vecchio stronzo di scarsa competenza, e il doverne subire il sermoncino era quanto mai detestabile. Ma, per il momento, non c’è che da inghiottire il rospo, si disse, lasciando l’ufficio.

6

La spia della segreteria telefonica stava lampeggiando, quando Nick rincasò dopo l’incontro con Amanda e lo scontro con Greta. Riposta la sacca col tridente nello sgabuzzino, accese la macchina. Sullo schermo da tre pollici apparve Julianne. Nick ebbe un sorriso: qualunque fosse il messaggio, e per minimo che fosse, lei lo lasciava sempre in video!

«Spiacente, Nick, ma i tuoi clienti di Tampa per domani e domenica hanno appena telefonato per annullare. Dicono che hanno sentito un bollettino meteorologico che prevede tempeste. Male del tutto non ti va, comunque, perché la caparra resta a te di diritto.» Un silenzio di un paio di secondi, poi: «Ah, fra parentesi: Linda, Corinne e io andiamo da Sloppy Joe, stasera, a sentire Angie Leatherwood. Perché non ci fai un salto anche tu a darci un salutino? Magari ti offro da bere…».

Oh, cazzo!, imprecò Nick dentro di sé. I soldi mi servivano. E anche a Troy. Batté automaticamente il nome di Troy sulla piccola tastiera accanto al telefono e attese che lui alzasse il ricevitore e accendesse il video.

«Oh, ciao, professore! Che ci fai ai tropici in una così bella giornata?» Di buonumore, al solito: Nick non riusciva a capire come si potesse esserlo tanto e costantemente.

«Ho un sacco di brutte notizie, amico mio» rispose Nick. «Prima, Amanda Winchester dice che il nostro tridente è moderno e quasi certamente non fa parte di un antico tesoro. Io non ne sono tanto convinto, ma certo la cosa non sembra promettente. Seconda, e probabilmente più importante nell’immediato, il nostro nolo è stato annullato, per cui niente lavoro per il fine settimana.»

«Orc… Questo sì che è un bel problema» disse Troy, accigliandosi. Per un momento, sembrò non saper che dire, ma poi tornò il Troy consueto, tutto sorriso e gaiezza: «Be’, professore, avrei un’idea. Visto che siamo tutt’e due senza niente da fare per il pomeriggio, perché non vieni qui, al sanatorio Jefferson, che ci facciamo un po’ di patatine e birra? Anche perché avrei da farti vedere una cosa» concluse, con un brillìo ironico negli occhi.

In altre circostanze, Nick avrebbe quasi certamente declinato l’invito per rimanere a casa a leggersi Madame Bovary. Ma la mattina era stata così colma di emozioni, che sentiva di aver bisogno di un po’ di spensieratezza. Sorrise fra sé. Troy era un uomo assai divertente, e un pomeriggio di alcol e spassi suonava allettante. Inoltre, in quattro mesi che l’aveva come dipendente, non avevano ancora trovato il tempo di socializzare. Perché era vero che avevano passato molte ore a lavorare insieme sulla barca, però lui, Nick, nel suo appartamento non era ancora mai stato. «D’accordo,» si udì rispondere «accettato. Io porto il cibo e tu metti la birra. Sarò lì fra una mezz’ora circa.»

Troy arrivò a sua volta proprio mentre lui fermava la macchina davanti alla villetta bifamiliare dalle strutture in legno. La villetta sorgeva in uno dei quartieri più vecchi di Key West. Troy doveva essere andato a piedi a un negozio dei paraggi, perché aveva in mano un grosso sacchetto di carta marrone contenente tre confezioni da sei birre ciascuna. «Questo dovrebbe bastarci per il pomeriggio» disse con una strizzatina d’occhio, salutando Nick e guidandolo su per la scala alla propria porta. Su di essa, attaccato col nastro adesivo, c’era un foglio che diceva: PROF — TORNO SUBITO — TROY. Staccatolo, allungò la mano su una piccola mensola sovrastante la porta a cercare la chiave.

Nick non si era mai domandato che aspetto potesse avere l’appartamento di Troy, ma di sicuro non avrebbe immaginato di vedervi un soggiorno del genere. Il soggiorno era ordinato con precisione geometrica, e ammobiliato in uno stile che poteva solo definirsi “del tempo che fu”. La variopinta serie di vecchi divani e poltrone provenienti da garage e soffitte dei dintorni (nessuno in tinta, perché il colore non aveva importanza per Troy, che concepiva mobili e arredi come unità funzionali, non come elementi decorativi) era disposta a rettangolo, con al centro un lungo tavolo da caffè, in legno, sul quale stavano, in bell’ordine, pile di riviste di elettronica e audiovisivi. Dominava il soggiorno un sistema stereo d’avanguardia, con quattro alte casse negli angoli che dirigevano il suono al centro della stanza. Non appena furono entrati, Troy andò al lettore CD in cima al complesso stereo e lo accese. Il soggiorno si riempì di una voce femminile nera meravigliosamente corposa, su uno sfondo di piano e chitarra.

«È il nuovo album di Angie» disse Troy, porgendo a Nick una birra aperta (era andato in cucina e al frigorifero, mentre lui rimaneva a osservare la stanza). «Secondo il suo agente, sarà oro. Love Letters non è andato alle stelle, ma lei, comunque, ci ha fatto più di un quarto di milione — senza contare i soldi del giro di concerti.»

«Ricordo che mi hai detto di conoscerla» disse Nick, bevendo un lungo sorso. Intanto, era andato a fermarsi davanti a una scatola accanto al complesso stereo, nella quale stavano ben ordinati sessanta o settanta dischi. In cima alla pila, sulla copertina di un album aperto, spiccava l’immagine di una bella giovane nera su uno sfondo di luce soffusa. La donna portava un lungo vestito scuro da ricevimento. Memories of Enchanting Nights era il titolo dell’album. «C’è forse qualcosa di più, nella storia della signorina Leatherwood; qualcosa che ancora non mi hai detto?» chiese Nick alzando gli occhi a guardare Troy. «Donna spettacolosa, se vuoi il mio parere.»

Troy lo raggiunse e programmò il lettore per il pezzo 8. «Credevo non me l’avresti chiesto mai» sogghignò espansivamente. «Ma la risposta migliore te la darà probabilmente la canzone.» Nick sedette su una delle inconsuete poltrone e ascoltò una dolce ballata, dal ritmo facile e piacevole, intitolata Let Me Take Care of You, Baby. Raccontava la storia di un amante di talento che sapeva far ridere la cantante a casa o a letto. I due erano compatibili, amici, ma lui non poteva impegnarsi perché non era ancora arrivato. Così, nell’ultima strofa della canzone, la donna lo invitava a inghiottire il suo orgoglio e a lasciar fare a lei.

Nick guardò Troy strabuzzando gli occhi e scuotendo la testa. «Jefferson, sei troppo forte» disse. «Non so mai quando dici la verità e quando spandi stronzate a piene mani!»

Troy si alzò ridendo dal divano. «Ma, professore, è proprio questo il lato interessante!» Poi, prendendogli la lattina vuota, continuò con un sorriso, fissandolo negli occhi: «Per te è difficile credere che il tuo buffo primo ufficiale nero abbia magari qualche dimensione nascosta, eh?».

Giratosi, andò in cucina, e Nick lo udì aprire altre lattine e versare patatine in una ciotola. «Be’, sto sempre aspettando» gli diede la voce. «Me la dài o no questa notizia da prima pagina?»

«Angie e io ci conosciamo da cinque anni» rispose Troy dalla cucina. «Abbiamo cominciato a uscire insieme che lei aveva solo diciannove anni, e non sapeva niente della vita. Una sera che siamo stati qui, poco dopo che ci sono venuto ad abitare, ci siamo messi ad ascoltare un album di Whitney Houston, e Angie ha cominciato a cantare.»

Tornò in soggiorno e posò la ciotola di patatine assortite sul tavolinetto da caffè in legno, sedendosi quindi nella poltrona accanto alla sua. «Il resto, come dicono a Hollywood, è storia.» Agitando le braccia, continuò: «L’ho presentata al proprietario di un locale notturno di qui. Nel giro di un anno, lei aveva un contratto, io un problema. Era la mia donna, ma non potevo tollerare di esserle inferiore finanziariamente». Cosa per lui inconsueta, rimase quindi calmo e silenzioso per qualche secondo. «È proprio una merda quando ai sentimenti per l’unica donna che si sia veramente amata viene a frapporsi l’orgoglio.»

Sorpreso a scoprirsi commosso da questa confessione intima, Nick si sporse dalla poltrona e gli posò leggermente la mano sulla spalla, in segno di comprensione. Troy cambiò subito argomento. «E che mi dici di te, professore? Quanti cuori infranti tieni appesi nell’armadio? Ho visto, sai, il modo con cui ti guardano Julianne e Corinne e anche Greta. Com’è che non ti sei mai sposato?»

Nick rise e tracannò la sua birra. «Cristo, questo dev’essere proprio il mio giorno fortunato. Ma lo sai che sei la seconda persona, oggi, che mi chiede della mia vita amorosa? E la prima è stata una settantenne.»

Un’altra sorsata, e continuò: «A proposito di Greta, mi sono imbattuto in lei proprio stamattina — e non per caso: lei era là ad aspettarmi mentre ero da Amanda. Sapeva che ieri abbiamo trovato qualcosa e voleva parlare di un patto di collaborazione. Tu, ne sai niente?».

«Eccome se lo so» rispose Troy con naturalezza.

«Dev’essere stata incaricata da Homer di spiarci, perché ieri sera, quando ho finito con la barca, lei si è presentata sul molo per farmi cantare. Ti ha visto andartene con la sacca sportiva e deve aver immaginato, o saputo, che avevamo trovato qualcosa. Io, però, non le ho detto nulla, ma neanche ho negato, perché, come ricorderai, Carol e io eravamo stati visti alla capitaneria, con tutto quel fiorfiore di attrezzature, da Ellen.»

«Già, lo so,» disse Nick «né, del resto, mi aspettavo io stesso di poter tenere la faccenda nascosta in eterno. Soltanto, vorrei che potessimo trovare qualche altro pezzo di tesoro, se ne esiste uno, prima che quei ficcanaso comincino a tallonarci…»

Per un po’, continuarono a bere in silenzio. Poi Troy disse, con un sorriso malizioso: «Tu, però, hai schivato la domanda sulle donne. Com’è che uno come te, bello, istruito, apparentemente non omosessuale, non ha una donna fissa?».

Nick rifletté un momento, studiando la faccia amichevole, schietta, di Troy, poi decise di lanciarsi. «Con precisione, non saprei nemmeno io, Troy,» rispose serio «ma penso sia perché forse sono io stesso a respingerle tutte quante. Trovo sempre qualcosa di storto in modo da avere una scusa…» Qui, gli balenò un’idea. «Forse è un modo di mettermi in pari. Tu parlavi di cuori infranti nel mio armadio: ebbene, il più infranto di tutti è il mio. Me l’ha mandato in mille pezzi, quand’ero ragazzo, una donna che, probabilmente, di me non sì ricorda nemmeno più.»

Troy si alzò dalla poltrona per andare al lettore CD e cambiar musica. «Eccoci dunque entrambi a lottare con l’infinita complessità della specie femminile» disse in tono frivolo. «Rimanga pure matta e misteriosa e meravigliosa! Fra parentesi, professore, l’argomento l’ho tirato in ballo per metterti in guardia» continuò, col suo ghigno caratteristico. «Perché, mi sbaglierò, ma quella giornalista ti ha nel mirino. È una che ama le sfide, quella, e tu, finora, hai mandato solo segnali negativi — a dire poco.»

Nick balzò dalla poltrona come una molla. «Mi vado a prendere un’altra birra, brav’uomo. Fino a questo momento pensavo di star parlando a una persona dotata di intuito e intelletto, ma ora scopro di parlare invece a uno stupido nero che pensa che “testa di cazzo” sia un vezzeggiativo…» Nell’avviarsi alla cucina, si fermò un istante per prendere qualche patatina. «Fra parentesi,» gridò a Troy fra una masticata e l’altra «al telefono mi avevi detto che intendevi mostrarmi una cosa. Alludevi all’album di Angie Leatherwood o a che altro?»

Troy gli andò incontro nel corridoio mentre lui tornava con la birra. «A un’altra cosa» rispose serio. «Ma prima ho voluto parlarti un po’ perché… be’, non so bene. Forse, per farmi coraggio, per convincermi che non mi avresti preso in giro.»

«Ma di che stai parlando?» fece Nick, un po’ confuso.

«Sta qua dentro» disse Troy, picchiando con le nocche su una porta chiusa in fondo al corridoio, in direzione opposta al soggiorno. «È la mia creatura. Ci lavoro ormai da due anni, la maggior parte del tempo da solo (anche se ho avuto un certo aiuto da Lanny, il fratellino artista di Angie), e ora vorrei che la provassi tu.» Poi, con un sorriso: «Sarai il mio primo sperimentatore-alfa».

«Ma che cavolo… lo non ci capisco un tubo. Che razza di cosa sarebbe uno sperimentatore-alfa?» esclamò Nick, corrugando la fronte nel tentativo di comprendere. Le due birre a stomaco vuoto gli avevano già messo addosso un vago, inaspettato ronzìo.

«Ho inventato un gioco elettronico» scandì Troy, perché capisse bene. «Un gioco a cui lavoro da quasi due anni e tu sarai il primo estraneo a giocarci.»

Nick fece una smorfia come se avesse appena mangiato dell’uva asperrima. «Moi?» esclamò. «Tu vuoi che io giochi a un gioco elettronico? Che io, che ho una coordinazione mano-occhio quasi nulla già da sobrio, mi segga a sparare ad alieni, o a sganciar bombe, o a tirar palline a velocità frenetica, come solo un adolescente potrebbe divertirsi a fare? Ma ti ha dato di volta il cervello, per caso? Jefferson, io sono Nick Williams, quello che tu chiami Professore: l’uomo che, quando si vuole divertire, si siede a leggere un libro

«Bene, bravo!» fece Troy, ridendo di cuore alla sparata. «Come sperimentatore-alfa, sei perfetto. Il mio gioco non è di quelli da sala-giochi che servono a provare i riflessi — anche se, in qualche punto, richiede anche lui una certa prontezza —, ma un gioco d’avventura. È un po’ come un romanzo, salvo che è il giocatore a decidere il finale. E siccome miro a un pubblico ampio, ci ho ficcato un sacco di trucchi tecnologici inediti. E mi piacerebbe tanto vedere la tua reazione.»

Prendendo l’alzata di spalle di Nick per un sì, aprì la porta di quella che avrebbe dovuto essere la camera da letto padronale, e che invece si rivelò uno stanzone pieno zeppo di un quasi fantasmagorico complesso di apparecchiature elettroniche. Lì per lì, Nick ebbe un’impressione di caos totale. Poi, dopo aver scosso la testa e sbattuto le palpebre un paio di volte, distinse un certo ordine nelle congerie di microscopi, monitor, cavi, elaboratori e pezzi sparsi. In un punto dello stanzone, davanti a uno schermo gigante, c’era una sedia e, fra questa e quello, un tavolo basso con sopra una tastiera. Troy lo invitò a prendere posto.

«Il mio gioco si chiama Avventura aliena,» esordì tutto agitato «e comincerà non appena avrò inserito i dischetti e tu sarai pronto alla tastiera. Prima di cominciare, però, bisogna, che ti dica alcune cose.» Inginocchiatoglisi accanto, indicò la tastiera. «Mentre giochi, devi sempre tener a mente tre tasti chiave. Primo, la X, che ferma l’orologio. L’orologio continua ad andare dall’istante in cui cominci la partita, e, mentre va, tu consumi risorse vitali. Per fermarlo senza pagare penalità, in modo da aver il tempo di riflettere un po’, c’è un solo modo: quello, appunto, di pigiare la X.

«Più importante ancora della X è la S, che è quella che ti permette di bloccare, o, come diresti tu, di salvare la partita. Per adesso tu certo non puoi capire ciò che dico, perché non hai mai giocato a giochi elettronici complessi, ma credimi sulla parola quando dico che devi assolutamente imparare a bloccare regolarmente la partita. Quando batti la S, tutti i parametri della partita che stai giocando vengono scritti in una speciale bancadati che ha un identificatore unico. Questo identificatore tu puoi richiamarlo in qualunque momento, e la partita ricomincerà nel punto esatto in cui l’avevi bloccata. È una specie di salvavita, insomma. Se scegli una strada rischiosa e il tuo personaggio finisce per lasciarci la pelle, questo salvavita ti consente di non dover ricominciare tutto daccapo.»

Nick era sbalordito. Il Troy che aveva accanto era diverso da quello che conosceva. Certo, la sua capacità di aggiustare tutti o quasi gli apparecchi elettronici di bordo non aveva mancato di sorprenderlo e anche di impressionarlo non poco, ma mai avrebbe immaginato che, una volta a terra, si dedicasse ad aggeggiare con apparecchi simili in maniera assai più creativa. E ora quello stesso nero sorridente l’aveva fatto sedere davanti a uno schermo gigante e gli teneva pazientemente lezione come a un bambino, e lui smaniava di conoscere il seguito.

«Da ultimo,» disse Troy, chiedendogli con gli occhi se fin lì ci fosse «c’è la H, o tasto di soccorso. Quando hai esaurito la fantasia e non sai cosa fare, lo premi, e la partita ti fornirà gli spunti su come procedere. Attento, però: mentre ricevi soccorso, l’orologio continua a correre. E, in certi punti — come durante una battaglia, per esempio —, premerlo può essere disastroso, perché, nel tempo in cui la partita elabora la tua richiesta di aiuto, tu sarai praticamente indifeso. La H ha dunque il suo uso ottimale quando ti trovi in un momento favorevole e tenti di elaborare una strategia globale.»

Sempre accosciato accanto, Troy gli porse un taccuino a spirale e lo invitò ad aprirlo. La prima pagina diceva «Dizionario dei comandi». Le altre contenevano una voce ciascuna, scritta a mano in maniera leggibile, che spiegava il tipo di comando relativo alla lettera-tasto cui era intitolata la pagina. «Qui c’è il resto dei comandi, che sono cinquanta in tutto» disse Troy. «Inutile che li impari a memoria, perché ci sarò io ad aiutarti. Ma vedrai che, a mano a mano che giochi, ne imparerai lo stesso alcuni. La maggioranza di quelli importanti viene attivata da una battuta singola sulla tastiera; per alcuni, invece, ce ne vogliono due diverse.»

Nick sfogliò il taccuino. Notò così che la L corrispondeva al comando “Look”, ma che occorreva un numero per avere lo strumento del guardare. L seguita da 1, per esempio, significava “guardare coi propri occhi”; L8, “guardare con uno spettrometro ultravioletto” (che accidenti era, poi…). Confuso e conquistato, rivolse lo sguardo a Troy, che si affaccendava nella regolazione finale di certi apparecchi.

Troy tornò accanto alla sedia e, guardandolo, disse: «Penso che tu sia pronto, domande?».

«Una soltanto, mio sire e duca» rispose Nick con burlesca umiltà: «Lice ch’io abbia, di grazia, un’altra birra, avanti ch’io rischi la mia virilità in qualche bizzarro mondo di vostra creazione?».


A dire il vero, Nick non era ancora pronto per il gioco. Anche dopo che Troy ebbe inserito tre CD, ci furono altri preliminari prima che il gioco potesse cominciare. In risposta a domande che apparvero sullo schermo gigante, Nick dovette battere nome, razza, età e sesso ciò che lo indusse a guardare l’amico con aria interrogativa. «Niente domande a questo punto» fece Troy. «Ti sarà tutto chiaro fra poco.»

Lo schermo si riempì di un bel pianeta ad anelli, che sembrava l’immagine di un Saturno visto da un artista con predilezione per il color porpora. La prospettiva era vista dal polo del pianeta, per cui gli anelli risultavano disposti come i cerchi concentrici di un bersaglio da freccette. Gli anelli emettevano a intermittenza dei piccoli lampeggi, simboleggianti la prossimità del sole, di una stella o di una qualche sorgente luminosa, all’osservatore. L’immagine era davvero bella. Per tre o quattro secondi, mentre nella stanza si diffondeva un dolce sottofondo di musica classica, al pianeta ad anelli si sovrappose il titolo del gioco, in lettere maiuscole: Avventura aliena, di Troy Jefferson. Nick trattenne l’impulso di ridere, quando uno degli altoparlanti diffuse la voce di Troy, chiaramente seria e compresa di sé.

La voce registrata di Troy spiegò le regole iniziali del gioco. Il protagonista dell’avventura si trovava in una stazione spaziale in orbita polare attorno a Gunna, sommo pianeta di un altro sistema solare il cui corpo centrale era la stella di tipo-G da noi chiamata Tau Ceti, distante solo una decina di anni luce dalla Terra. «Tau Ceti ha otto corpi primari nel proprio sistema:» disse la voce di Troy «sei pianeti e due lune.

«Il commissariato della stazione può fornire carte del sistema,» continuò la voce di Troy «ma per alcune zone esistono solo carte approssimative. La tua avventura comincia con te addormentato nella tua cabina a bordo della stazione, sul tuo ricevitore personale suona un allarme…»

La voce svanì per lasciar posto allo squillo d’allarme. L’inquadratura dello schermo gigante rappresentava l’interno di una cabina spaziale, quasi certamente preso da uno dei tanti film fantascientifici di successo. Nell’angolo superiore destro dello schermo, un orologio digitale scattava di una unità ogni quattro secondi circa. Nick rivolse a Troy lo sguardo di chi non sa che fare, e Troy gli suggerì di battere la L. Nel giro di secondi, Nick apprese così di poter usare i tasti direzionali per guardare questo o quell’oggetto della cabina. A ogni battuta di tasto direzionale, l’immagine sullo schermo cambiava in modo da corrispondere al punto d’osservazione. Nick notò un’immagine confusa sul piccolo televisore della cabina, e Troy gli suggerì di stare ad osservarla finché non fosse divenuta netta.

Quando l’immagine del televisore fu finalmente a fuoco, Nick poté vedere una giovane donna vestita di una lunghissima veste rosso-vivo che arrivava fin quasi al pavimento. La donna stava, un po’ incongruamente, in una stanzetta disadorna munita di letto singolo, tavolino e sedia. Da una finestra solitaria, vicina al soffitto e dietro il tavolino, filtrava un po’ di luce. Nel vetro della finestra erano infisse grosse sbarre verticali.

La telecamera zumò sul suo viso. Nick si sporse in avanti sulla sedia. «Ma… ma è Julianne!» fece sbalordito, nell’istante in cui la donna cominciava a parlare.

«Capitano Nick Williams,» disse, con sua grande sorpresa, Julianne «tu e io non ci conosciamo, ma la tua fama di uomo valoroso e giusto non ha eguali nella Federazione. Io sono la principessa Heather di Othen. Andando al gran ballo inaugurale del viceré Toom, sono stata rapita da certi villeni e portata nella loro fortezza del pianeta Accutar. Costoro hanno fatto sapere a mio padre, re Merson, che verrò rilasciata solo se egli cederà loro tutti gli asteroidi ricchi di minerali della regione di Endelva.

«Questo, Nick, mio padre non deve assolutamente farlo,» continuò gravemente la principessa, mentre la telecamera zumava sul suo volto «perché priverebbe il nostro popolo della sua unica sorgente di hanna, che è la chiave della nostra immortalità. Le mie fonti mi dicono che mio padre va già consumandosi sotto il peso del tragico dilemma in cui si trova. Mia sorella Samantha è fuggita da Othen con una divisione-chiave dei nostri migliori soldati e un’enorme scorta di hanna, ma non è chiaro se intenda venire a liberare me o ribellarsi contro la signorìa di mio padre nel caso in cui decida di cedere gli asteroidi di Endelva in cambio della mia vita. Da sempre, infatti, Samantha è una creatura del tutto imprevedibile.

«Ieri, i villeni hanno inviato un ultimatum a mio padre: ha tempo un mese per decidere, dopodiché verrò decapitata. Capitano Williams, ti prego: aiutami. Non voglio morire. Se vieni a salvarmi, dividerò con te il trono di Othen e il segreto della nostra immortalità, e vivremo in eterno come re e regina.»

La trasmissione s’interruppe bruscamente e l’immagine svanì per lasciare di nuovo il posto all’interno della cabina spaziale. Nick resistette all’impulso di applaudire, rimanendo immobile a sedere. Troy era riuscito, chissà come, a fare di Julianne una principessa Heather assai credibile. Ma come avrà fatto a ficcarci il mio nome?, si domandò. Avrebbe voluto porre delle domande, ma lo schermo gigante lampeggiò un avvertimento; il tempo passava e il protagonista dell’avventura non agiva ancora. Nick trovò la X e l’orologio digitale sullo schermo si fermò. «E adesso, cosa faccio?» chiese a Troy.

Con l’aiuto occasionale di questo, si equipaggiò per un viaggio, trovò la strada del porto spaziale, e s’imbarcò su una piccola navetta. Troy lo avvertì che, se non dedicava un po’ di tempo a esaminare le altre attrezzature della stazione spaziale, avrebbe avuto scarse possibilità di sopravvivenza, nello “spazio aperto”; ma lui non se ne diede per inteso e partì in tromba. Il gioco era davvero appassionante. I comandi della tastiera regolavano velocità e direzione, e poiché l’immagine sullo schermo vi corrispondeva perfettamente, lui aveva l’impressione di stare veramente alla guida di un veicolo in volo nello spazio. Nel dirigere verso l’obiettivo, un pianeta di nome Gunna, vide sul monitor molti altri veicoli, nessuno dei quali, però, in avvicinamento al suo. Ma, appena al di qua della sfera d’influenza di Gunna, gli arrivò rapidamente incontro un velivolo dal muso aghiforme, che, senza preavviso, gli sparò addosso una raffica di missili, ai quali lui non poté sottrarsi. Lo schermo si riempì di fuoco: la navetta era esplosa. Il monitor s’annerì, e al suo centro rimase solo la scritta FINE PARTITA.

«Un’altra birra?» chiese Nick, sorpreso di scoprirsi dispiaciuto per la morte del proprio personaggio.

«E come no, capitano!» rispose Troy.

Passarono insieme in cucina. Troy aprì il frigorifero e ne tolse altre due birre, porgendone una a Nick, che continuava a pensare al gioco. «Se ricordo bene,» disse Nick ad alta voce «la pianta della stazione spaziale indicava quattro settori, e io ne ho visitati solamente due. Ti spiacerebbe dirmi cos’erano gli altri due?»

«Mensa e biblioteca» rispose Troy, felice di quel perdurare d’interesse. «La mensa non è troppo importante,» aggiunse ridendo «anche se, non t’ho mai visto andare da qualche parte senza prima aver mangiato… La biblioteca, invece…»

«Non dirmelo» lo interruppe Nick. «Voglio arrivarci da solo! In biblioteca avrei potuto documentarmi sui villeni e gli othenariani, o come accidenti si chiamano, che possono vivere in eterno, e apprendere cosa fosse, precisamente, un viceré di Toom.» Scuotendo la testa, continuò: «Ah… Troy, devo proprio confessare che sono sbalordito. E davvero non riesco a capire come tu abbia fatto a creare una cosa così — della quale, per giunta, immagino che avrò visto finora solo la superficie».

«Vuol dire che sei pronto a continuare, professore?» fece Troy, con un gran sorriso di soddisfazione per l’elogio avuto. «Permetti un consiglio, però. Quando sarai in biblioteca, da’ un’occhiata all’Enciclopedia dei veicoli spaziali, così da metterti in grado, perlomeno, di riconoscere le navi nemiche, quando ti capiteranno sullo schermo. Altrimenti, alle parti eccitanti del gioco non ci arrivi.»


Il pomeriggio passò in fretta. Nick trovò splendidamente distensiva l’evasione nel fantasioso mondo del gioco di Troy: proprio il tonico che gli ci voleva dopo i ricordi di Monique. Troy, rendendosi conto del suo divertimento, ringalluzzì tutto: provò un empito di fervore creativo, e sentì rinascere in sé la convinzione che Avventura aliena sarebbe stata il suo biglietto d’ingresso nel mondo del successo.

Nella sua vana ricerca della principessa Heather, Nick morì un altro paio di volte. La prima, quando atterrò su un pianeta, non segnato dalla carta, di nome Thenia. Qui, un nero dalla testa di lucertola venne a dirgli che se ne andasse, perché su quel pianeta c’erano solo guai. Ignorando il consiglio, lui si allontanò dalla navetta con un fuoristrada, ciò che lo portò a schivare di misura un’eruzione vulcanica, ma a finir intrappolato e inghiottito da un gigantesco budino melmoso trasudante dal terreno in prossimità del luogo d’atterraggio della navetta.

In un’altra reincarnazione, incontrò Samantha, la sorella della principessa Heather, interpretata in un paio di scene da Corinne, l’amica del cuore di Julianne. Troy aveva dato a Corinne l’aspetto di Susie Q, la famosa pornodiva dei primi anni Novanta, e gran parte delle inquadrature sullo schermo proveniva appunto da Piacere al limite del dolore, il suo classico dell’osceno. Un’abile interfacciatura di fotogrammi nuovi e fotogrammi del film dava l’illusione di esser dentro il film con Susie Q, e di riceverne prestazioni sessuali irrifiutabili.

Samantha, alias Susie Q, prima sedusse Nick, poi lo trafisse a morte con uno stiletto mentre giaceva nudo e in attesa sul letto. A questo punto, i due uomini stavano bevendo l’ultima confezione di sei birre, sicché la combinazione di scene pornografiche e alcol aveva fatto degenerare la conversazione nell’osceno. «Cazzo,» esclamò Nick, pregando Troy di ripassare la scena in cui una nuda Samantha/Susie Q veniva zumata in atto di prendergli in bocca il pene eretto «mai in vita mia, ma proprio mai, ho sentito di un videogioco nel quale quasi quasi ti fanno un pompino! Tu, caro mio, hai proprio un cervello bacato. Sei un genio, questo sì, però di un bacato al cento per cento. Ma come Cristo t’è saltato in testa di metterci dentro delle scene di sesso?»

«Oh bella,» rise Troy, mettendogli il braccio attorno alle spalle mentre tornavano barcollando in soggiorno «ma perché il gioco si chiama “Vendere”! E qui, su Programmi elettronici da gioco» e prese la relativa rivista dal tavolo «c’è scritto che il settantadue per cento — dico: il settantadue per cento, amico — della clientela dei videogiochi è costituito da maschi dai 16 ai 24 anni. E lo sai che cosa piace a questa clientela oltre ai videogiochi e alla fantascienza? Il sesso, caro mio. E non te lo vedi, forse, lo stupidotto adolescente che si ritira in camera a giocare una partita per farsi una sega? Iii-aah!» Troy si abbatté su una poltrona tambureggiandosi il petto.

«Tu sei proprio suonato, Jefferson» disse Nick osservando l’esibizione alla Tarzan. «Ma proprio da manicomio: come faccio a fidarmi a stare solo con te sulla barca, d’ora in poi? Voglio dire, immagina gli annunci sui giornali “Avventura aliena: un incontro con Susie Q, la regina del porno, in un castello sotterraneo sull’asteroide Vitt”. E, a proposito: come accidenti hai fatto a inserire tutti quegli spezzoni di film?»

«Con un fracco di ricerche e di duro lavoro, professore» rispose Troy, cominciando a calmarsi un poco. «Lanny e tre suoi amici si sono sorbiti almeno un migliaio d’ore di visionamento per trovarmi gli spezzoni giusti. E niente di tutto ciò sarebbe stato possibile, naturalmente, senza i nuovi metodi d’immagazzinamento-dati. Oggi possiamo immagazzinare un’ottima versione digitale di ogni film mai fatto negli Stati Uniti in uno spazio non molto superiore a quello di questa villetta bifamiliare. Io ho semplicemente sfruttato al meglio le capacità della banca-dati.»

Nick schiacciò una lattina di birra fra le mani. «Favoloso, niente da dire. Ma, in quanto alla faccenda del sesso, non saprei. E perché vuoi che il giocatore dichiari la sua razza all’inizio del gioco? Non pensi che potrebbe offendere qualcuno? Nel gioco, non ho visto niente che fosse basato su questo tipo d’informazione.»

Benché ubriaco, Troy diventò momentaneamente serio, anzi quasi sobrio. «Il sesso e la razza fanno entrambi parte della vita, caro mio» disse deciso. «Ora, sarà anche vero che la gente gioca ai videogiochi principalmente per divertimento, e che preferisce non dover affrontare certi argomenti mentre si diverte, però io credo che una certa licenza creativa me la si debba concedere. La razza è con noi quotidianamente, e, ignorandola, non si fa, secondo me, che aggravare il problema.»

Poi, illuminandosi, continuò: «Ehi, professore, hai notato che l’uomo lucertola di Thenia era nero? Tu hai proceduto ignorandone l’avvertimento: ma, e se fosse stato bianco? Saresti forse tornato alla navetta? Ebbene, quando a giocare è un nero, l’uomo lucertola di Thenia è bianco. Fa parte dello spettacolo, ecco tutto. E lo scenario contiene appunto una ventina di variazioni a seconda della razza inserita».

All’espressione manifestamente incredula di Nick, Troy disse, alzandosi per tornare con lui nella stanza dove avevano giocato: «Dico sul serio. Ora ti mostro che succede se inserisci “Maschio” e “Nero”».

Punto dalla curiosità, Nick lo seguì. Troy accese e lui inserì i dati biografici cambiando la razza da bianca in nera. Stavolta, quando l’immagine sul televisore della cabina spaziale fu a fuoco, la principessa Heather risultò nera — e impersonata da Angie Leatherwood! «Che mi pigli un colpo secco!» esclamò Nick, rivolto a un Troy raggiante. «Signor Jefferson, lei è proprio un califfo.» Dopodiché lasciò la stanza fischiettando e scuotendo la testa, mentre Troy spegneva la macchina e lo seguiva.

«Bene,» disse Nick, una volta che furono tornati in soggiorno e che si furono accomodati sul divano: «un’ultima domanda sul gioco, e poi basta, per il momento. Come hai fatto a inserirci il mio nome? Mi è sembrata la cosa più sbalorditiva.»

«L’idea originaria è stata di Lanny, e gli è venuta da un film su un fonoiatra. Lui ha preso tutti i personaggi minori e gli ha fatto passare una giornata a pronunciare tutti i suoni vocalici e consonantici tipici di una prova sperimentale. Dopodiché abbiamo semplicemente messo insieme i suoni per mezzo di quelle che si chiamano tecniche audioanalitiche continuative.» Ridendo (si sentiva in effervescenza per tutti quei complimenti), continuò: «C’è un punto debole, però: il nostro interprete sa solo leggere parole inglesi delle più semplici, per cui, volendo vendere all’estero, dovremo probabilmente eliminare questa caratteristica».

«Be’, ho esaurito i superlativi» disse Nick, alzandosi. «Fra parentesi: di tipi come te, ce n’è altri? fratelli, sorelle, roba così, insomma? Perché qui mi sa che sarà meglio che metta in guardia il resto del mondo.»

«No, adesso ci sono soltanto io» rispose Troy, il volto fuggevolmente attraversato da uno sguardo perduto in lontananza. «Avevo un fratello, Jamie, maggiore di me di sei anni, al quale ero molto legato, ma è morto in un incidente di macchina quando avevo quattordici anni.»

Seguì un imbarazzato silenzio. «Mi spiace» disse Nick, di nuovo toccato dalla franchezza di Troy. Troy si strinse nelle spalle, lottando con l’improvviso ricordo.

Nick cambiò argomento. Parlarono della barca, e di Homer e del suo equipaggio, per diversi minuti. Poi, a un tratto, Nick guardò l’orologio. «Oh, Cristo!» esclamò. «Sono le quattro passate, e alle quattro dovevamo incontrare Carol Dawson, no?»

«Dovevamo altroché» fece Troy, balzando dalla poltrona. «Bei soci che siamo» ghignò «a passare tutto un pomeriggio a bere birra e a giocare!» Dopo una reciproca pacca, gettarono le lattine vuote nella spazzatura e lasciarono la casa per la macchina di Nick.

7

Seduta nella sala comunicazioni del Marriott, Carol appariva chiaramente irritata. Tambureggiando con le dita sul tavolo, ascoltava il “libero” del telefono. Un clic, finalmente, poi la voce di Nick: «Al momento, sono fuori casa, ma se…». Pigiando di furia il tasto, completò lei stessa la frase, sfogando un po’ di frustrazione col sarcasmo: «Ma se volete lasciare nome, numero e ora di chiamata, verrete richiamati al mio ritorno. Merda. M-E-R-D-A. Lo sapevo che avrei dovuto chiamare prima di partire da Miami!».

Compose un altro numero. Rispose Bernice, che la mise in comunicazione-video col dottor Dale Michaels. «Ci crederesti che non riesco a pescare quello stupido bastardo?» esordì, saltando i convenevoli. «Non è sulla sua barca, non è a casa e nessuno sa dove sia. Tanto valeva che rimanessi a Miami a farmi un sonnellino!»

A Dale, di Nick e Troy, non aveva detto gran cosa, e il poco che aveva detto di Nick era stato tutt’altro che riguardoso. «Be’, e che ti aspettavi?» rispose Dale. «Hai voluto tu uscire con dei dilettanti per copertura. E perché, poi, lui dovrebbe farsi trovare prima dell’appuntamento? I tipi del suo genere usano stare a letto con la dama del giorno finché non gli pare che sia giunta l’ora di salutare il mondo» concluse, ridacchiando fra sé.

Carol si sentì stranamente irritata da questo sprezzante commento sulla vita amorosa di Nick. Fu lì lì per replicare, ma si trattenne. «Senti, Dale,» disse invece «questa linea telefonica è assolutamente sicura? Perché avrei un paio di cose delicate da discutere con te.»

«Ma certo» sorrise lui. «Ho dei sensori che lampeggiano alla minima interruzione immotivata in qualsiasi punto della linea — a partire dal tuo.»

«Bene» disse Carol, estraendo il taccuino e percorrendo con lo sguardo un elenco scritto a mano. «Per quanto risulta ad Arnie Webber» disse, alzando gli occhi alla telecamera «non esistono divieti al recupero di cose appartenenti al governo degli Stati Uniti, purché i pezzi recuperati vengano restituiti al legittimo proprietario a brevissima distanza dal ritrovamento. Perciò, tirando su il missile, non commetterei tecnicamente alcun illecito.» E spuntò il primo punto dell’elenco.

«Nel volo da Miami, però, ho riflettuto a una cosa, Dale: che qui si tratta, in fin dei conti, di un missile teleguidato, che potrebbe anche esplodere. Sono matta, a preoccuparmi? O questo coso è stato reso inoffensivo o altro, dopo tanti giorni di sabbia e acqua salata?»

«A volte, Carol, sei proprio impagabile!» rise Dale. «Il nuovo missile, ne sono abbastanza sicuro, è stato progettato perché operi o via aria o via acqua, per cui non credo che la sabbia possa averne danneggiate le parti fondamentali in così poco tempo. Comunque, il fatto che non sia ancora esploso mi fa pensare che probabilmente non sia stato armato in partenza, eccetto forse che con un piccolo congegno distruttore che può, ma può anche non essere andato fuori uso. Recuperandolo, ti assumi un rischio calcolato, e io resto del parere che faresti meglio a limitarti a fotografarlo e a dare quindi in pasto la storia al pubblico. Tirarlo su per esibirlo mi sembra più una bravata che un lavoro da giornalista. Ed è pericoloso.»

«Come ti ho detto in macchina,» replicò brusca Carol «hai diritto a pensarla come ti pare. La Marina potrebbe sostenere che le mie foto sono truccate, mentre con un missile fisicamente presente e chiaramente visibile al pubblico televisivo di una nazione intera, non potrà dire neanche tanto così. Insomma, voglio il massimo impatto per questa storia.»

Spuntata un’altra voce dall’elenco, continuò: «Ah, sì… Stamane ho dimenticato di dirti che ho conosciuto un altro padrone di barca, quaggiù: un tipo un po’ da brividi, a dire la verità, più vecchio dell’altro e grasso, di nome Homer, che è sembrato riconoscermi all’istante. Uno ricco, yacht di qui a là, e tutte quelle cose lì. Strano equipaggio, anche».

«Non si chiama mica Ashford, di cognome, per caso? Homer Ashford?» la interruppe Dale.

Carol annuì. «Perché lo conosci?» chiese.

«Ma sicuro» rispose Dale. «Era il capo della spedizione che ha trovato il tesoro della Santa Rosa, nel 1986. E lo conosci pure tu, anche se chiaramente non te ne ricordi. Lui e la moglie sono stati invitati al banchetto di premiazione dell’IOM ai primi del ’93.» Dopo un istante di riflessione, continuò: «Sì, ora ricordo: è stato quando sei arrivata tardissimo per via della minaccia che avevi ricevuto da Juan Salvador. Mi stupisce, però, che tu abbia dimenticato quei due. La moglie, specialmente: quella grassona che credeva tu fossi il pigiama del gatto!».

Pian piano, nella mente di Carol si riaccese, sempre più netto, il ricordo di una bizzarra serata risalente a poco dopo l’inizio della sua relazione con Dale. In un servizio sul traffico di cocaina pubblicato sull’Herald, aveva sostenuto che le indagini della polizia venivano ostacolate di proposito dall’assessore cubano Juan Salvador. Il mezzogiorno seguente, una fonte solitamente affidabile aveva telefonato al direttore del giornale per dirgli che il senor Salvador aveva appena «stipulato un contratto» per la vita di Carol. L’Herald le aveva perciò assegnato una guardia del corpo, raccomandandole di cambiare la routine quotidiana in modo da rendersi difficilmente localizzabile.

La sera del banchetto dell’IOM, lei era stordita. Dopo sole tre ore di presenza della guardia del corpo al suo fianco, si sentiva già confinata e limitata nei movimenti. La minaccia, però, l’aveva spaventata sul serio, sicché, nel corso del banchetto, aveva scrutato ogni faccia alla ricerca di quella del possibile assassino, aspettandosi da un momento all’altro che qualcuno facesse una mossa. Quattordici mesi dopo, seduta nella sala comunicazioni, ricordò vagamente di aver riconosciuto Homer (vestito in smoking) e una grassona allegra che l’aveva seguita per una ventina di minuti. Di nuovo ’sta memoria, maledizione, pensò. Avrei dovuto riconoscerlo subito. Che scema!

«Sì, ora ricordo» disse a Dale. «Ma come mai erano al banchetto di premiazione dell’IOM?»

«Perché la serata era in onore dei nostri principali benefattori,» rispose Dale «e Homer ed Ellen sono stati dei grossi finanziatori del nostro progetto di sorveglianza sottomarina». Dirò di più: lui ha sperimentato molti nostri progetti nella sua installazione di Key West, fornendoci dati di prim’ordine: la miglior compilazione di risposte sentinella/intruso mai effettuata! Pensa che è stato lui a mostrarci come si poteva ingannare l’MQ-6 e…»

«Va bene, va bene,» interruppe Carol, consapevole di avere una soglia di tolleranza ancora estremamente bassa «grazie delle informazioni. Adesso, visto che sono le quattro meno un quarto, vado al porto a incontrare Nick Williams e a mettermi d’accordo per domani. In caso di novità, ti chiamerò stasera a casa.»

«Ciao,» disse Dale Michaels, in un vano tentativo di apparire sofisticato «e sta’ attenta, ti prego.»

Carol riattaccò con un sospiro. Era il caso di dedicare un paio di minuti a riflettere sulle prospettive della storia fra Dale e lei? O sulla loro mancanza, magari — a seconda… Pensando a tutte le cose che doveva fare, chiuse il taccuino e si alzò. No, non è il momento. Adesso non ho tempo di pensare a Dale. Appena questa mia vita da matta mi darà una pausa di respiro…


Al suo rientro nella capitaneria, Carol fremeva decisamente di collera. Avvicinatasi al banco informazioni col fuoco negli occhi, aggredì Julianne senza tanti complimenti: «Signorina: un quarto d’ora fa le ho detto che avevo un appuntamento qui, per le quattro, con Nick Williams e Troy Jefferson. Come può constatare, sono le quattro e mezzo passate».

E puntò il dito verso l’orologio digitale, tendendo il braccio con tale imperiosa energia, da obbligare Julianne alla verifica. «E ora che abbiamo stabilito, ciascuna per proprio conto, che il signor Williams non è a casa,» continuò «vuol darmi il numero di telefono del signor Jefferson, o devo fare una scenata?»

Julianne, alla quale Carol era già antipatica di per sé, dinnanzi a questo atteggiamento di superiorità non cedette di un palmo. «Come le ho già detto, signorina Dawson.» rispose in tono cortese, ma con una punta di sarcasmo «il regolamento ci vieta di dare il numero di telefono dei proprietari indipendenti di barche o dei loro equipaggi. È una questione di riservatezza. Ora, se lei avesse preso un nolo attraverso la capitaneria, sarebbe certo nostro compito venirle in aiuto» continuò, assaporando il suo momento di gloria. «Ma siccome, come ho detto prima, a noi non risulta che…»

«Maledizione, questo lo so!» replicò furente Carol, sbattendole davanti sul bancone la busta di fotografie che aveva con sé. «Non sono mica scema! Gliel’ho detto una volta e glielo ripeto: dovevo incontrarli qui alle quattro. Ora, se lei non mi vuole aiutare, esigo di parlare col suo superiore, il vicedirettore o chi per esso.»

«Benissimo» disse Julianne, scoccandole un’occhiata sprezzante. «Se vuole accomodarsi laggiù, vedrò se riesco a rintracciare…»

«Io non voglio accomodarmi in nessun posto, ma vedere il suo superiore e subito!» urlò esasperata Carol. «Adesso prenda quel telefono e…»

«Qualcosa non va? Posso essere d’aiuto?» Carol si girò di scatto, e si vide alle spalle Homer Ashford. Sulla destra, verso la porta che dava sui moli, Greta e un donnone intente a parlare a bassa voce. (È Ellen: ora ricordo, pensò Carol.) Ellen le sorrise: Greta la passò da parte a parte con lo sguardo.

«Oh, salve, capitano Homer» disse Julianne tutta zuccherosa. «Gentile da parte sua, ma penso che non serva. La signorina Dawson, qui, ha affermato di non accettare la mia spiegazione circa il regolamento del porto, e così aspetterà che…»

«Può servire sì, invece» interruppe Carol in tono di sfida. «Avevo un appuntamento qui, per le quattro, con Nick Williams e Troy Jefferson. Non si sono visti. Non è che lei conosca il numero di telefono di Troy, per caso?»

Il capitano Homer la guardò con aria diffidente e, dopo un’occhiata a Ellen e Greta, rispose: «Be’, rivederla qui è davvero una sorpresa, signorina Dawson. Parlavamo di lei proprio stamane, sa?, e ci auguravamo che il suo giorno di vacanza a Key West fosse stato piacevole». Poi, dopo una pausa effetto: «Ma il rivederla qui il giorno appresso mi induce a chiedermene il perché. Se ho sentito bene, ha bisogno di vedere Williams e Jefferson per una questione di estrema urgenza. Non è che c’entri qualcosa tutto quell’equipaggiamento da lei portato qui ieri? O magari quella borsa grigia che Williams costudisce da ieri sera?»

Ah, hah, pensò Carol, vedendosi venire ai lati Greta ed Ellen. Eccomi circondata. Il capitano Homer fece per prendere la busta sigillata sul bancone di Julianne, ma lei lo fermò.

«Se non le spiace, capitano Ashford,» disse decisa, togliendogli la mano dalla busta delle foto e infilandosela sotto il braccio «gradirei parlarle in privato.» Concluse, abbassando la voce. Poi, dopo un cenno del capo alle due donne: «Possiamo andare nel parcheggio e scambiare quattro chiacchiere?».

Homer la fissò un istante coi suoi occhietti bramosi, poi, aprendosi nel medesimo ghigno ripugnante e lascivo che lei gli aveva visto sull’Ambrosia, rispose: «Ma certo, mia cara».

E, avvicinandosi con lei alla porta, gridò a Greta e ad Ellen: «Aspettate qui. Questione di un minuto».

Salirono i gradini verso il parcheggio. Giunti in cima, Carol gli si rivolse con aria cospiratoria: «Ho capito che lei ha intuito perché sono qui. Avrei preferito di no, perché pensavo che il servizio sarebbe venuto meglio se tutti fossero rimasti all’oscuro; chiaramente, lei è più furbo di me». Homer sogghignò fatuamente. «Vorrei però chiederle di tenersi la cosa il più possibile per sé. Ne parli pure a sua moglie e a Greta, ma, per favore, a nessun altro. L’Herald vuole che sia una sorpresa.»

Homer parve sconcertato. Carol si chinò a sussurrargli nell’orecchio: «L’intero, dico: l’intero inserto domenicale della quarta settimana di aprile; non è incredibile? Titolo provvisorio “Sogni di ricchezza”. Storie di persone come lei, come Mel Fisher, come i quattro floridani che hanno vinto oltre un milione di dollari ciascuno alla lotteria. Dei cambiamenti subiti dalla vita all’arrivo inaspettato e improvviso della ricchezza. Io faccio tutta la serie, cominciando dal ritrovamento di tesori perché è quello di maggior interesse generale».

Il capitano Homer vacillava dall’emozione, e Carol capì che aveva abbassato la guardia. «Ieri ho voluto semplicemente dare una prima occhiata alla sua barca, per vedere come viveva, quali angolature dare alle foto. M’è venuta un po’ di tremarella, a vedermi riconoscere così presto; ma, nella mia lista, al primo posto per l’uscita in barca c’era già Williams.» Poi, ridendo: «La mia attrezzatura cercatesori, che è dell’IOM, l’ha fregato in pieno, e adesso è convinto che io sia una vera cercatrice di tesori. Così, ieri, gli ho fatto l’intervista — tutta, praticamente, salvo che per un paio di cose che intendevo finire, appunto, oggi».

A quel “fregato in pieno”, riferito a Nick Williams, Homer Ashford si sentì squillare dentro un campanello d’allarme. Quella giornalista la raccontava un po’ troppo bene… Certo, la storia era plausibile, ma restava da chiarire un punto, un grosso punto… «E cos’è che Williams si porta dietro in quella sacca?» chiese.

«Oh, ma niente!» rise lei con leggerezza, avvertendo la sua diffidenza. «O quasi, almeno. Ieri pomeriggio abbiamo tirato su un vecchio coso senza valore tanto perché potessi fotografare il recupero per il servizio, e io gli ho detto di andare a farselo stimare. Lui pensa che io sia un tipo stravagante, e si tiene il coso nella borsa perché lo imbarazzerebbe di farsi vedere mentre lo porta in giro» concluse, con una leggera gomitata d’intesa alle costole del capitano.

Questi scosse la testa. Una parte di lui si rendeva conto che quella era una bugia raccontata. Ma reggeva, però, né si capiva dove potesse stare l’inganno… «Così, immagino che, quando avrà finito con gli altri due, vorrà parlare con noi…» disse quindi, aggrottando le sopracciglia.

Nello stesso momento, all’insaputa di Carol, Nick e Troy entravano nel parcheggio, sempre brilli e un po’ storditi. «Ossignore, ossignore» esclamò Troy avvistando Carol e Homer in conversazione. «La vista mi fa brutti scherzi: mi trasmette al cervello un’immagine della Bella e la Bestia! La signorina Carol Dawson in compagnia del nostro amato Capitan Ciccione… Di che staranno parlando, secondo te?»

«Non lo so,» rispose Nick, adombrandosi di colpo «ma accidenti a me se non me lo faccio dire subito! Se ci sta pigliando per i fondelli facendo il doppiogioco…» Fermò di scatto e fece per saltar fuori, ma Troy allungò un braccio a trattenerlo.

«Senti, perché non lasci fare a me, per stavolta?» disse. «Buttarla sul ridere può essere il sistema migliore.»

Nick rifletté un momento. «Forse hai ragione» disse. «Va’ prima tu.»


Troy si fece vedere proprio nel momento in cui la conversazione fra Carol e il capitano Homer volgeva al termine. «Uhéee, salve, angelo!» gridò da quaranta metri di distanza. «Che succede?»

Carol levò la mano in segno di saluto, ma non si girò. «Allora, 2748 Columbia, appena dopo il Pelican Resort, domani sera alle otto e mezzo?»

«Sì» rispose Homer Ashford, che, dopo un cenno del capo all’indirizzo di Troy, si avviò. «La aspetteremo pronti. Si porti parecchio nastro, perché è una storia lunga.» Poi, con un chiocciolio tutto suo: «E preveda di restare per una festicciola, dopo».

Troy arrivò accanto a Carol quando lui era già a metà dei gradini.

«Salve, capitano Homer. Arrivederci, capitano Homer» disse sommessamente, continuando a recitare la parte del comico. Poi si chinò a baciare Carol sulla guancia. «E ciao a te, angelo…»

«Acc…» fece Carol, ritraendo la guancia «puzzi come una birreria! Per forza che vi ho cercato invano in tutta la città!» Vedendo Nick in arrivo, con la sacca sportiva in mano, continuò, alzando la voce: «Ma che piacevole sorpresa, signor Williams! Davvero gentili, lei e il suo compare, qui, a lasciare gli sgabelli del bar il tempo necessario a venire all’appuntamento».

Un’occhiata all’orologio, e, in tono traboccante di sarcasmo: «E come siamo bravi a osservare il codice mondano del giungere in ritardo, accipicchia! Mi dica, mi dica: se si deve aspettare un quarto d’ora per un professore vero, quanto si aspetta per uno fasullo?»

«Basta con le stronzate, Miss Arroganza» sbottò iroso Nick alla punzecchiatura. Poi, giunto all’altezza di Troy e di Carol, continuò, dopo un sospirone: «Qualche cosina da dirle, l’abbiamo pure noi. Si può sapere che ci faceva a parlare con quel cazzone di Ashford?».

A quel tono carico di minaccia, Carol indietreggiò. «Ma sentitelo, il tipico macho!» disse. «Quello che scarica sempre la colpa sulla donna. “Ehi, tu, puttana” — dice — “scorda che in ritardo sono io, scorda che sono un bastardo arrogante, è stata colpa tua…”»

«Ehi, ehi… hei!» intercedette Troy, Carol e Nick si fissavano furenti, e già stavano per parlare entrambi, quando lui pensò bene di tornare a interrompere. «Bambini, bambini, su, per favore! Ho qualcosa di importante da dire.» Al loro sguardo, alzò le braccia a chiedere silenzio. Quindi, irrigidendosi in posa, finse di sermoneggiare: «Ottantasette anni orsono, i padri nostri generarono su codesto continente una nazione nuova…».

La prima a esplodere fu Carol. «Troy,» rise a dispetto della collera «tu sei proprio un’altra cosa. E sei anche ridicolo.»

Un Troy sogghignante disse a Nick, dandogli una pacca sulla spalla: «Come sono andato, professore? Sarei un Lincoln credibile? Potrebbe, un bravo ragazzo negro come me, recitare Lincoln per i bianchi?».

Nick sorrise suo malgrado, e lasciò correre lo sguardo lungo l’asfalto mentre Troy continuava a cianciare. Alla fine delle ciance: «Mi spiace del ritardo,» disse Nick in tono conciliante e misurato «non ci siamo resi conto del tempo. Ecco il tridente».

Consapevole dello sforzo che doveva essergli costato lo scusarsi, Carol rispose garbatamente con un breve sorriso e un gesto delle mani. «Lo tenga lei ancora un po’» disse, dopo un istante di silenzio. «Adesso abbiamo un sacco di altre cose di cui parlare.» Si guardò in giro. «Ma, forse, questi non sono né il luogo né il momento adatti.»

Sia Nick sia Troy la guardarono con aria interrogativa. «Ho delle novità emozionanti,» spiegò «alcune delle quali stanno nella vostra copia di foto che ho sviluppato stamattina. Il succo è che il telescopio ha captato un segnale infrarosso in uscita dalla fessura e proveniente da un grosso oggetto o da più oggetti.» Poi, rivolta a Nick: «Può trattarsi di altri pezzi di tesoro, ma, dalle immagini, non è possibile stabilirlo».

Nick allungò la mano verso la busta, ma Carol si ritrasse. «Non qui e non ora; troppi occhi e troppe orecchie, credetemi. Quello che dobbiamo fare adesso è concordare un piano. Voi due potete portarmi fuori domattina presto ed esser preparati a recuperare oggetti magari anche sul quintale? S’intende che pagherò un nuovo noleggio.»

«Un quintale: fiuu!» esclamò Nick. «Non vedo l’ora di guardare le foto.» Poi, ritrovando in fretta la sobrietà: «Dovremo farci prestare una draga e…».

«E io ho sempre il telescopio: possiamo usarlo» aggiunse Carol. «Sono quasi le cinque, ormai» disse, dopo uno sguardo all’orologio. «Quanto vi ci vorrà per i preparativi?»

«Tre, quattro ore al massimo» rispose Nick, dopo un rapido calcolo. «Con l’aiuto di Troy, naturalmente» aggiunse.

«Felice di darvelo, amici miei» disse Troy. «E, già che Angie ha riservato un tavolo speciale per me allo Sloppy Joe per il suo spettacolo delle dieci e mezzo di stasera, perché non ci troviamo là per concordare i particolari di domani?»

«Angie Leatherwood è amica tua?» disse Carol, manifestamente colpita. «Non la vedo da quando è diventata una celebrità.» Un secondo silenzio, e consegnò la busta a Nick. «Guardatele in privato. Sono state scattate tutte proprio sotto la barca, nel punto della nostra immersione. Alcune, ovviamente, sono primi piani di altre. Vi ci vorrà un po’ per adeguare gli occhi a tutti i colori, ma quello che a noi interessa è l’oggetto o gli oggetti marrone.» Sia Nick sia Troy non vedevano chiaramente l’ora di averle sotto gli occhi. Carol li accompagnò alla macchina di Nick. «Allora, a stasera verso le dieci e un quarto allo Sloppy Joe» disse, voltandosi per andare alla propria auto.

«Ah, Carol, scusi un istante» la fermò Nick. Lei attese paziente che lui, d’un tratto impacciato, trovasse il modo di porre la domanda in modo cortese. «Le spiacerebbe dirci come mai parlava col capitano Homer?» gli venne finalmente.

Carol spese un minuto a guardare l’uno e l’altro, poi disse ridendo: «Mi è capitato fra i piedi mentre ero là dentro a tentare di telefonare a voi due. Voleva sapere del pezzo recuperato ieri, e io l’ho messo fuori strada rifilandogli che sto facendo un servizio su tutti i membri dell’equipaggio che otto anni fa ha trovato il tesoro della Santa Rosa!».

Nick lanciò a Troy uno sguardo di finto disgusto. «Visto, Jefferson?» disse quindi con eccessiva enfasi. «Te l’avevo detto che c’era una spiegazione perfettamente naturale.» Poi, tutti e due, la salutarono a gesti mentre si avviava.

8

«Tenente Todd,» disse, esasperato, il capitano Winters «comincio a pensare che la Marina degli Stati Uniti abbia sopravvalutato la sua intelligenza o la sua esperienza — o entrambe. Io proprio non riesco a capire come lei possa persistere anche solo nel considerare la possibilità che il Panther sia stato comandato fuori traiettoria dai russi — e, a maggior ragione, alla luce delle informazioni da lei presentate questo pomeriggio!»

«Ma resta pur sempre un’ipotesi possibile, signor comandante» insistette, caparbio, il giovane ufficiale. «E lei stesso, durante il rapporto, ha detto che una buona analisi delle cause di mancato funzionamento non esclude ogni altra ragionevole possibilità.»

I due uomini erano nell’ufficio del capitano Winters. Questi andò a guardare dalla finestra. Fuori, era ormai quasi buio. Atmosfera pesante, immobile, carica di umidità. A sud, sull’oceano, s’annunciavano tempeste. La base era quasi vuota. Dopo un po’, Winters guardò l’orologio, tirò un sospiro e, tornando verso il giovane ufficiale, riprese con un vago sorriso sulle labbra:

«E così ho appunto detto, tenente… mi compiaccio della sua attenzione. Ma la parola-chiave, qui, è “ragionevole”. Esaminiamo i fatti. Le ho o non le ho sentito dire che la sua unità di analisi telemetrica ha scoperto, questo pomeriggio, che i comandi rifiutati dal contaricezioni di bordo sono aumentati via via di numero durante il volo, e ciò già al largo del New Brunswick? E che, apparentemente, durante la discesa del missile lungo la costa atlantica, il numero dei messaggi-comando rifiutati è stato di oltre mille? Bene, allora: se diamo per buono il suo scenario, tutto questo come lo spiega? Forse sostenendo che i russi avrebbero dislocato un’intera flotta navale lungo il sentiero di volo solo per confondere e catturare un singolo missile sperimentale della Marina?»

Poi, piantato ormai davanti al giovane tenente, che era più alto di lui: «O ritiene forse,» continuò sarcastico, senza dargli il tempo di rispondere «che i russi dispongano di una nuova arma segreta capace di volare parallelamente a un missile viaggiante a Mach 6 e di parlargli in volo? Andiamo, via, tenente: su quali basi “ragionevoli” continua a considerare possibile questa sua strampalata ipotesi russa?»

«Sul fatto, signor comandante, che, a questo punto, fra le possibili spiegazioni del comportamento del missile, non ce n’è una sola che regga» rispose il tenente Todd, non cedendo di un pollice. «Lei ora afferma di credere che si tratti di un problema di componenti di programmazione; ma i nostri migliori programmatori non riescono a capire come l’unica indicazione esteriore di una grave disfunzione a livello di sistema componentistico possano essere quei due, e solo quei due, contaricezioni impazziti. Hanno controllato tutti i dati diagnostici interni giunti a terra per via telemetrica, e non hanno trovato difetti dentro il sistema. Inoltre, il controllo prelancio rivela che le componenti di programmazione funzionavano tutte perfettamente a secondi dall’inizio del volo.

«Sappiamo, poi, un’altra cosa. Ramirez ha appreso da Washington che, nelle ultime quarantott’ore, si sono verificati strani movimenti nella flotta sottomarina russa al largo della Florida. Ora, io non sto dicendo che l’ipotesi russa, come la chiama lei, sia la risposta, ma soltanto che, fin quando non avremo una spiegazione più soddisfacente per un malfunzionamento in grado di far scattare entrambi i contaricezioni, è ragionevole nutrire l’ipotesi che, forse, il Panther sia stato effettivamente comandato fuori traiettoria.»

Winters scosse la testa. «E va bene, tenente» finì per dire. «Non le ordinerò di cancellare la sua ipotesi dalla lista: ma le ordino di dedicare il fine settimana a trovare il missile finito nell’oceano, e di identificare il problema — delle componenti fisiche e/o di programmazione — che può aver causato o l’anomalia dei contaricezioni o il mutamento di traiettoria, o tutt’e due. Perché una spiegazione non comportante operazioni russe su larga scala ci deve essere.»

Todd fece un passo di lato per scansarlo e lasciare l’ufficio. «Un minuto ancora, tenente, solo uno» fece Winters, stringendo gli occhi. «Non sarà necessario che le ricordi chi verrà giudicato responsabile se questa faccenda dei russi trapelasse, vero?»

«No, comandante… Signornò» fu la risposta.

«Allora si dia da fare,» disse Winters «e mi tenga informato di eventuali sviluppi.»


Il capitano Winters aveva fretta. Subito dopo uscito Todd, aveva chiamato il teatro per dire a Melvin Burton che sarebbe arrivato in ritardo. Infilata la macchina in un drive-in, ingollò un hamburger con patatine e diresse per il quartiere del porto.

Arrivò in teatro che la maggior parte degli altri attori era già in costume di scena. Sulla porta trovò Melvin ad accoglierlo: «Presto, comandante, non abbiamo tempo da perdere. Il trucco dev’essere come si deve, la prima volta». Consultò nervosamente l’orologio. «Lei è sul pulpito fra quarantadue minuti esatti.» Winters entrò nel camerino maschile, si tolse la divisa e indossò i severi paramenti neri e bianchi di pastore episcopale. Fuori nel corridoio, Melvin faceva a memoria un suo controllo finale andando avanti e indietro.

Al levar del sipario, il capitano Winters era sul pulpito — con la forte tremarella tipica delle prime. Guardò oltre le tre file di fedeli in scena, verso il pubblico che riempiva la sala, e vide la moglie Betty e il figlio Hap in seconda fila. Fece loro un rapido sorriso, mentre si spegneva l’applauso. Poi, il nervosismo ormai svanito, si lanciò nel sermone di Shannon.

Il breve prologo filò via in fretta. Poi le luci si attenuarono nuovamente per quindici secondi, ci fu il cambio automatico della scena, e Shannon/Winters entrò nella stanza d’albergo in Messico mormorando tra sé frasi della sua lettera. Sedette sul letto, poi, udendo un rumore nell’angolo, alzò gli occhi. Era Charlotte/Tiffani: la splendida chioma biondo-ramata sciolta sulle spalle, camicia da notte leggera di seta azzurra, scollatura a V sino alla vita ben riempita da seni grandi e fermi. «Larry, oh Larry, siamo soli, finalmente!» la sentì dire, mentre veniva a sederglisi accanto sul letto. Il profumo di lei gli riempì le narici. La mano di lei gli si posò sulla nuca, le labbra di lei premettero contro le sue, insistenti, dure, esploratrici. Lui si ritrasse: le labbra, poi il corpo di lei lo seguirono. Lui cadde all’indietro sul letto. Lei gli strisciò sopra, continuando a baciarlo, i seni premuti contro il suo petto palpitante. Lui la circondò con le braccia, stringendola dapprima piano, poi sempre più forte.

Per diversi secondi, fu un accendersi e spegnersi delle luci. Charlotte/Tiffani si sciolse da Winters per stenderglisi accanto sul letto. Lui ne udì il respiro affannato. «Charlotte» risuonò una voce. Un bussare imperioso alla porta, poi di nuovo: «Charlotte: lo so che sei lì». La porta si spalancò. I due amanti si tirarono su a sedere. Le luci si spensero e calò il sipario. Gli applausi echeggiarono forti e sostenuti.

Il capitanto Vernon Winters spinse la porta e uscì barcollando sul vicolo dell’ingresso-artisti. La porta, sovrastata da una singola lampadina avvolta in un nugolo d’insetti, dava su un piccolo pianerottolo di legno staccato di tre scalini dall’asfalto. Winters li discese e si fermò accanto al muro di mattoni rossi del teatro. Estrasse una sigaretta e l’accese.

Il fumo salì in volute su per il muro. Un bagliore di lampi lontani, un silenzio, poi il brontolìo del tuono. Aspirò a fondo una seconda volta, sforzandosi intanto di capire che cosa avesse provato in quei cinque o dieci secondi con Tiffani. Mi domando se se ne siano accorti, pensava. Sarà stato lampante per tutti? Nel cambiarsi per il primo atto vero e proprio, aveva notato i chiari segni sui boxer. Esalò altro fumo, e sussultò. E quella ragazzina! Dio mio, lei lo sa di sicuro: lo deve aver sentito, quando mi stava sopra.

Suo malgrado, ricatturò per un istante l’eccitazione provata quando Tiffani gli si era premuta addosso. Gli si mozzò il respiro, e cominciò ad avvertire i primi segni del senso di colpa. Oh Signore, ma cosa sono? Un vecchio sporcaccione, ecco cosa! Chissà perché, gli tornò in mente Joanna Carr, una certa sera di quasi venticinque anni prima. E ricordò il momento in cui l’aveva presa…

«Comandante» disse una voce. Si girò. Sul pianerottolo c’era Tiffani, in magliettina e jeans, i lunghi capelli sciolti. «Comandante,» ripeté con un misterioso sorriso, scendendo i gradini verso di lui «mi darebbe una sigaretta?»

Confuso, stupefatto, senza parole, lui infilò automaticamente la mano in tasca e tirò fuori il pacchetto di Pall Mall. La ragazza prese una sigaretta, ne batté la punta contro l’unghia e se la infilò in bocca. Destandosi finalmente, lui tirò fuori il suo accendino da quattro soldi. Lei mise le mani a coppa sopra le sue, tremanti, e aspirò con vigore.

Winters la osservò affascinato aspirare il fumo nei polmoni. Ne studiò la bocca, il biancore del collo, il torace sollevato in quel suo accarezzare il fumo, e, con la medesima rapita attenzione, il riabbassarsi del diaframma e il fuoriuscire del fumo dalle labbra a boccuccia.

Rimasero là a fumare in silenzio. Sull’oceano balenò un’altra vampata di lampi, seguita da un altro brontolìo di tuono. Ogni volta che Tiffani portava la sigaretta alle labbra, Winters ne seguiva, ipnotizzato, ogni movimento. Lei inalava a fondo, con decisione, aspirando forte dalla sigaretta per dare al proprio corpo la tanto desiderata nicotina, e lui avvertiva vagamente dentro di sé un caos di pensieri.

È bella: tanto, tanto bella. Giovane e fresca e piena di vita. E quei capelli: oh, potermene avvolgere il collo… Ma non è una bambina: è una giovane donna. Dunque, deve sentire quello che provo, il fascino che esercita su di me… Fuma come me, con concentrazione totale. Accarezzando…

«Amo le notti di temporale» disse Tiffani rompendo il silenzio, mentre un nuovo lampo illuminava, in lontananza, il cielo. Gli venne più vicina, poi inclinò la testa per osservare, oltre un gruppo d’alberi che le ostruiva la vista, la formazione nuvolosa entro la quale saettavano i lampi. Lo sfiorò appena, ma questo bastò a elettrizzarlo.

Si sentì la bocca secca, il corpo soffuso di desiderio — di un desiderio che stentava a riconoscere e che gli impediva di rispondere al suo commento. Rimase così a fissare l’addensarsi del temporale, e tirò l’ultima boccata di sigaretta.

La tirò anche lei dalla sua, che gettò a terra. Poi si volse a guardarlo, e i loro occhi s’incontrarono, mentre dalle labbra di lei uscivano le ultime bave di fumo. Lei gli lanciò un breve, seducente soffio con la bocca, che gli scatenò una vampa di desiderio. Lui si dominò, comunque, e rientrò con lei, senza parlare, in teatro.


L’applauso continuava. Il capitano Winters guidò all’inchino finale le interpreti di Maxine e Hannah, una a ciascun fianco, secondo quanto era stato deciso prima dell’inizio dello spettacolo. L’applauso crebbe d’intensità. Winters fissò di nuovo i posti vuoti, dove avevano seduto, prima dell’intervallo, Betty e Hap. «Charlotte Goodall!» gridò una voce in sala, e lui improvvisò. Ricondotte le due interpreti alla fila schierata degli attori, la risalì fino a Tiffani. Lì per lì, lei non comprese; poi, il viso aperto in un raggiante sorriso, gli diede la mano.

Le mani avvinte, lui la ricondusse al proscenio per quello che doveva essere il suo momento. All’udir montare di nuovo l’applauso, Tiffani si sentì salire le lacrime agli occhi; e, mentre lui si faceva da parte, lei s’inchinò graziosamente al pubblico. Al termine dell’inchino, gli riprese la mano in una stretta deliziosa, e indietreggiò fino a reinserirsi nella fila dei compagni.

Melvin, Marc e Amanda vennero tutti dietro le quinte mentre gli attori si cambiavano e furono complimenti entusiastici per tutti. Melvin sembrava addirittura in estasi: durante le prove aveva nutrito dei dubbi — confessò —, ma ora… ora tutti erano stati bravissimi, e, riguardo alla scena in camera da letto con Tiffani — confidò a Winters, uscendo letteralmente a passo di danza dal camerino —, essa era stata «superba — come meglio non si sarebbe potuto.»

Winters si sentiva sopraffatto da una miriade di emozioni. Da un lato, era contento della sua prova e dell’accoglienza del pubblico, dall’altro oppresso da sentimenti più personali. Cos’era accaduto a Betty e Hap, perché se ne andassero nell’intervallo? Dentro di sé immaginò Betty che assisteva alla sua scena d’amore con Tiffani, e, per un istante, si convinse, con spavento, che lei si fosse accorta, dalla platea, che lui non stava affatto recitando, bensì vivendo nel proprio corpo l’eccitazione sessuale del personaggio.

Quello che era successo con Tiffani, non riusciva proprio a capirlo — né poteva anche solo pensarci, senza avvertire un senso di colpa. Nel reinfilarsi la divisa della Marina, si concesse di tornare a gustare i baci di lei sul letto e, di riprovare le tensione sessuale creatasi fra loro durante la fumata comune nel vicolo. Ma, oltre la consapevolezza della propria eccitazione, si rifiutò di andare. Il senso di colpa aveva un effetto depressivo e, in quella notte di prima riuscita, lui, di sentirsi depresso, non aveva proprio voglia.

Quando uscì dal camerino comune maschile, trovò Tiffani ad aspettarlo. I capelli di nuovo raccolti in treccine, il viso sgombro di trucco, era tornata a sembrare bambina. «Comandante» disse, quasi servile «vorrebbe concedermi un favore?» Al suo sorriso di assenso, lei gli fece segno di seguirla nel corridoio adiacente al retroscena.

Qui, Winters trovò un uomo dai capelli rossi, all’incirca della sua età, che fumava nervoso una sigaretta andando su e giù. L’uomo, che si sentiva chiaramente a disagio e fuori posto, aveva accanto una bruna vistosa sulla trentina, che gli sussurrava qualcosa masticando della gomma. Alla vista di Winters in uniforme, l’uomo si rasserenò visibilmente.

«Lieto di conoscerla, signor comandante» disse a Winters, quando Tiffani lo ebbe presentato come suo padre. «Io non m’intendo molto di questo mestiere dell’attore, ma certe volte mi preoccupo che possa nuocere a mia figlia.» Un ammicco alla moglie, la matrigna di Tiffani, poi, abbassando la voce: «Sa, comandante, con tutta questa fauna di spostati, checche e perdiballe in genere, uno non ci sta mai attento abbastanza. Ma poi Tiff mi ha detto che nel cast c’era un vero ufficiale di Marina, comandante autentico, e io, sulle prime, non ci ho creduto».

Tiffani e la moglie cercavano intanto, con piccoli segni, di far capire al signor Thomas che stava parlando troppo. «Ora, anch’io sono della Marina,» continuò lui, mentre Winters rimaneva in silenzio «e da quasi venticinque anni, ormai. Arruolato da ragazzo, diciott’anni appena. Due anni dopo, conoscevo la madre di Tiff…»

«Papà» lo interruppe Tiffani «mi avevi promesso che non mi avresti messa in imbarazzo. Lui ha altro da fare, probabilmente; perciò, ti prego, fa’ la tua richiesta e basta.»

Lui, Winters, tutto si sarebbe aspettato, meno che di incontrare il padre e la matrigna di Tiffani. A dir il vero, anzi, mai aveva pensato ai genitori di lei, sebbene ora, mentre ascoltava il signor Thomas, la cosa gli sembrasse normale, essendo Tiffani, in fin dei conti, solo una studentessa di scuola superiore. Ma certo, pensò, abita ancora con i genitori. Il signor Thomas aveva assunto un’aria molto seria, che, lì per lì, gli provocò un principio di panico. Ma no, ma no, che vado a pensare: è troppo presto perché lei abbia già detto loro qualcosa, rifletté rapidamente.

«Mia moglie e io giochiamo a bridge» stava dicendo il signor Thomas «in coppia, e partecipiamo a tornei. Ora, proprio questo fine settimana ce n’è uno, regionale, a Miami, sicché partiremo domattina per tornare solo domenica notte.»

Winters ascoltava confuso e disorientato: perché mai avrebbe dovuto interessargli il modo in cui i Thomas passavano il tempo libero? Finalmente, il signor Thomas venne al punto: «Così, abbiamo telefonato alla cugina di Mae a Marathon per chiederle se poteva venire a prendere mia figlia al termine dello spettacolo di domani sera. Ma siccome questo avrebbe costretto Tiff a rinunciare alla festa degli attori, abbiamo pensato, su proposta di mia figlia, che magari potesse accompagnarla a casa lei, dalla festa, e» aggiunse il signor Thomas con un sorriso «tenerla paternamente d’occhio durante la mia assenza».

Winters guardò istintivamente Tiffani. Per pochi millisecondi, le colse negli occhi uno sguardo esperto che lo trafisse come una palla di fuoco; poi lei tornò la bambina che supplica il padre di lasciarla andare a una festa.

«Sarò senz’altro lieto di farle questo favore, signor Thomas» rispose Winters, recitando la parte alla perfezione. «Tanto più» — qualche piccola pacca alla ragazza — «che lei, la festa, se la merita proprio, dopo tutto il lavoro che ha fatto.» Una pausa, quindi: «Ma avrei un paio di domande, prima. Ci sarà sicuramente champagne, e la festa durerà probabilmente fino a tardissimo. Tiffani, ha un’ora di coprifuoco? E a proposito dello…».

«Faccia a suo giudizio, comandante» tagliò corto il signor Thomas. «Mae e io ci fidiamo ciecamente di lei.» Strettagli la mano con un «Grazie mille, allora» aggiunse, mentre si girava per avviarsi: «Ah, dimenticavo: è stato formidabile — anche se mi ha un po’ preoccupato, sa? — quando si è messo a pomiciare con mia figlia. Certo che la checca che ha scritto ’sto dramma doveva essere un tipo strambo mica male…».

La matrigna di Tiffani farfugliò un grazie tra una masticata e l’altra della sua gomma, e Tiffani disse «Arrivederci a domani» mentre se ne andava coi genitori. Winters infilò la mano in tasca alla ricerca di un’altra sigaretta.


Quando arrivò a casa verso le undici, Betty e Hap dormivano entrambi, come lui si aspettava. Superata con un passo leggero la porta del figlio, si fermò davanti a quella di Betty. Nella sua fondamentale delicatezza, pesò per qualche secondo il sonno della moglie contro la propria necessità di chiarimento, e decise di entrare a svegliarla. Quando sedette, al buio, sulle sponde del letto di lei, ebbe la sorpresa di scoprirsi nervoso.

Betty dormiva sulla schiena, col lenzuolo e una leggerissima coperta ordinatamente allineati e tirati fino a cinque centimetri dalle spalle. La scosse piano. «Betty, cara, sono io. Vorrei parlarti.» Lei si agitò nel sonno, e lui tornò a scuoterla. «Sono Vernon» disse piano.

Betty si tirò su a sedere e accese la lampada sul comodino. La luce illuminò un quadretto col volto di Gesù: un volto molto più saggio della trentina d’anni che dimostrava, barbuto, dall’espressione seria, su una testa soffusa di una sorte di alone. «Oh, santo cielo,» disse Betty, accigliandosi e stropicciandosi gli occhi «che c’è? È successo qualcosa?» Già non particolarmente bella di per sé, negli ultimi dieci anni aveva cessato di curare il proprio aspetto, e messo su una decina di chili di troppo.

«No,» rispose lui «avevo solo voglia di parlare. Di sapere perché tu e Hap ve ne siete andati subito dopo l’intervallo.»

Betty lo guardò dritto negli occhi, da donna senza malizia, anzi senza capacità di cogliere le sfumature. La vita, per lei, era semplice e chiara: se si credeva sinceramente in Dio e in Gesù Cristo, non si avevano dubbi. Su niente. «Sai, Vernon,» cominciò «mi sono spesso chiesta perché scegli di recitare in drammi tanto inconsueti. Ma non me ne sono mai lamentata, anche perché sembrano l’unica cosa che sappia emozionarti in senso positivo dopo la Libia e quel terribile incidente sulla spiaggia.»

Si accigliò, e per un istante sembrò come rannuvolarsi. Poi continuò nel suo solito tono prosaico: «Soltanto, Hap non è più un bambino, ma sta diventando un giovanotto: e ascoltare suo padre, pur se in teatro, tacciare Dio di “vecchio petulante” e “delinquente senile” non contribuisce certo a rafforzare la sua fede». Poi, stornando lo sguardo: «Secondo, e altrettanto grave motivo di turbamento per lui, ho trovato che fosse il vederti palpeggiare quella ragazzina. Insomma,» concluse, tornando a fissarlo «ho ritenuto che il dramma non avesse valori, morale, o altro, che giustificassero una nostra ulteriore presenza in sala».

Winters sentì montare la collera, ma, come sempre, lottò per dominarla. Come invidiava a Betty la fede incrollabile, la capacità di vedere chiaramente Dio in ogni attività quotidiana! Lui, invece, si sentiva disgiunto dal Dio dell’infanzia, né le sue infruttuose ricerche personali erano fino a quel punto approdate a una più chiara percezione di Lui. Un paio di cose sapeva per certo: che il suo Dio avrebbe riso coi personaggi di Tennessee Williams e avuto compassione di loro. E che i bombardamenti di bambini non gli avrebbero fatto piacere.

Anziché discutere con Betty, le diede un bacio fraterno sulla guancia e lei spense la luce. Per un momento, si chiese: Quand’è stata l’ultima volta: tre settimane fa? No, non riusciva a ricordare né la data, né se fosse stato piacevole o meno. Loro “folleggiavano”, come diceva Betty, quando lei, rendendosi conto del bisogno di lui, vinceva la sua generale mancanza d’interesse. Il che è probabilmente più o meno normale, per coppie della nostra età, pensò lui, come a difendersi, nello spogliarsi in camera sua.

Ma il sonno non voleva venire. Mentre giaceva quieto nel buio sotto il lenzuolo, continuava ad avvertire quel senso di eccitazione intensa che l’aveva preso, prima durante la recita, poi, di nuovo, nel vicolo.

Un’eccitazione accompagnata da immagini. Chiudendo gli occhi, rivide le morbide, civettuole labbra di Tiffani soffiare l’ultimo fumo rimasto nei polmoni. E la sua bocca conservava il sapore dei baci appassionati di lei impostigli durante la scena in camera da letto. E l’occhiata particolare del padre quando gli aveva chiesto di badare a lei alla festa, se l’era solo immaginata?

Cambiò più volte di posizione, nel tentativo di scacciare le immagini dalla mente insieme col nervosismo che lo teneva sveglio, ma invano. Alla fine, mentre giaceva sulla schiena, si rese conto che, volendo, un modo per sciogliere quel genere di tensione c’era. Lì per lì provò un senso di colpa, anzi d’imbarazzo, ma le immagini di Tiffani non gli davano requia.

Si toccò. Le immagini della giornata si acuirono e cominciarono a espandersi in fantasie. Lei gli stava sopra nel letto, proprio come nel dramma, e lui rispondeva ai suoi baci. Per un breve secondo, ebbe paura e si frenò. Ma un disperato empito di desiderio travolse la sua ultima inibizione, e tornò adolescente, solo con la sua fertile fantasia.

La scena cambiò. Ora giaceva nudo su un letto enorme, in una lussuosa stanza dall’alto soffitto. Tiffani usciva dal bagno illuminato, nuda anch’essa, i lunghi capelli ramati sciolti sulle spalle e sopra i capezzoli. Tirava languidamente un’ultima boccata e posava la sigaretta nel portacenere accanto al letto, gli occhi fissi nei suoi, mentre lentamente, quasi amorosamente espelleva dalla bocca l’ultimo fumo. Poi saliva sul letto accanto a lui, facendogli sentire la morbidezza della propria pelle e sollecitandogli collo e torace coi lunghi capelli.

Ora lei lo baciava dolcemente ma con passione, tenendogli le mani dietro la nuca e giocando seducente con la lingua fra le sue labbra. Poi gli scivolava in posizione accanto e gli premeva il bacino contro il suo. Lui si sentì erigere. Lei gli prese in mano il pene e premette leggermente, facendolo ergere del tutto. Dopo aver premuto di nuovo, sollevò con grazia il corpo e lo infilò profondamente in sé. Lui sentì un magico calore umido ed esplose quasi subito.

La potenza e l’intensità di tale fantasia lo sconvolsero. Una voce, dentro di lui, gli gridò di stare attento, minacciando tremende conseguenze se avesse consentito alla sua fantasia di divenire troppo reale. Ma, mentre giaceva svuotato e solo nella sua casa suburbana, spinse da parte senso di colpa e paure e si concesse il piacere senz’uguali del sonno post-orgasmico.

9

Lo Sloppy Joe era un’istituzione, a Key West. Il bar prediletto di Hemingway e della sua variopinta compagnia aveva saputo adattarsi in fretta alla sfaccettata evoluzione della città di cui era divenuto il simbolo. Molti abitanti della città vecchia avevano quasi avuto un colpo, quando il bar aveva rinunciato alla storica sede centrale per trasferirsi nel vasto complesso commerciale intorno al nuovo porto turistico. Anch’essi, però, dopo la riapertura del locale in un grande salone ben ventilato e munito di pedana d’orchestra e di ottima acustica, erano stati loro malgrado costretti ad ammettere che le lampade di Tiffany, i lunghi banconi in legno del bar, gli specchi stretti dal pavimento al soffitto e i memorabilia di cent’anni di Key West erano stati disposti con gusto, e in maniera tale da conservare lo spirito del bar di una volta.

Che Angie Leatherwood si esibisse come vedette allo Sloppy Joe durante i suoi brevi e infrequenti ritorni nella città natia, era più che naturale. Il proprietario, un cinquantenne newyorkese trapiantato di nome Tony Palazzo, era stato a suo tempo convinto dalla loquela di Troy a concederle un’audizione quando aveva diciannove anni. Dopo cinque minuti d’ascolto, aveva esclamato, punteggiando le proprie osservazioni di gesti vivacissimi: «Non solo mi porti una ragazza nera bella da levare il fiato: ma me ne porti una che è bella e che canta anche come un usignolo. Mamma mia, la vita è proprio ingiusta! Mia figlia Carla ammazzerebbe, pur di cantare così!». Tony era diventato il maggiore fan di Angie, e ne aveva promosso la carriera senza badare minimamente al proprio tornaconto. E Angie, non dimentica di ciò che lui aveva fatto per lei, cantava sempre allo Sloppy Joe quando si trovava in città. Era fatta così.

Il tavolo di Troy era davanti e al centro, a circa tre metri dalla pedana. Nick e Troy vi erano già seduti e avevano già consumato un giro di bicchieri quando arrivò Carol. Mancavano circa cinque minuti alle dieci e mezzo. Lei si scusò mormorando qualcosa circa i vantaggi del parcheggiare in Siberia. Non appena si fu seduta, Nick estrasse la busta delle foto e sia lui che Troy le dissero di averle trovate affascinanti. Nick passò subito a far domande, mentre Troy chiamava il cameriere. Quando questi tornò con le nuove bevande, Nick e Carol erano ormai in piena conversazione. Discutevano degli oggetti della fessura, e Nick aveva appena detto che uno di essi sembrava un missile moderno. Ma erano le dieci e trenta, e un lampeggiare intermittente delle luci annunciò l’inizio dello spettacolo.

Angie Leatherwood era un’artista consumata. Al pari di molti dei migliori intrattenitori, non dimenticava mai che pubblico equivaleva a clientela, e che era il pubblico a creare la sua immagine e ad accrescerne la mistica. Cominciò con la canzone che dava il titolo al suo ultimo album: Memories of Enchanting Nights e passò quindi a un pot-pourri di canzoni di Whitney Houston, in segno di omaggio alla geniale cantante il cui talento era stato all’origine del suo desiderio di abbracciare la stessa carriera. Poi dimostrò la propria versatilità mescolando quattro canzoni dal ritmo diverso — un reggae giamaicano, una dolce ballata del suo primo album Love Letters, un’imitazione quasi perfetta di Diana Ross in una vecchia canzone dei Supremes, Where Did Our Love Go?, e un ritmico, struggente elogio del padre cieco intitolato The Man with Vision.

Scroscianti applausi salutarono la fine di ogni pezzo. Lo Sloppy Joe era zeppo, posti in piedi lungo i trenta metri di bancone-bar compresi. Sette supertelevisori diversi, sparsi per il vasto locale, portavano l’immagine di Angie agli spettatori più lontani dalla pedana. Tutti costoro erano la sua gente, i suoi amici. Un paio di volte, gli applausi e i brava, nella loro interminabilità, la misero quasi in imbarazzo. Al tavolo di Troy, non si parlò quasi durante lo spettacolo. Il terzetto sottolineò qualche canzone prediletta (quella di Carol era The Greatest Love of All, di Whitney Houston), ma non ebbe tempo per conversare. Angie dedicò la penultima canzone: Let Me Take Care of You Baby, al suo “amico più caro” (pedata di Nick a Troy sotto il tavolo), e poi concluse col motivo più popolare di Love Letters. Il pubblico le tributò un’ovazione in piedi e chiese a gran voce il bis. Mentre stava anche lui in piedi, Nick si sentì girare un po’ la testa in conseguenza dei due bicchieri di liquore forte, e avvertì insieme una commozione vaga, forse provocata dalle associazioni subliminali che le canzoni d’amore di Angie avevano saputo suscitare.

Angie tornò sulla pedana. Quando il chiasso si fu calmato, fu possibile udirne la voce morbida e carezzevole. «Come tutti sapete, Key West è per me un luogo molto speciale. È il luogo dove sono cresciuta e sono andata a scuola; il luogo dove mi riporta la maggior parte dei ricordi.» Qui si arrestò un istante a scrutare il pubblico. «Molte sono le canzoni che ridestano i ricordi e i sentimenti che vi sono legati. Ma, di tutte, la mia preferita è il tema conduttore della commedia musicale Cats. E a te, Key West, la dedico.»

Applausi sparsi, mentre i sintetizzatori musicali d’accompagnamento suonavano l’introduzione a Memories. Il pubblico rimase in piedi mentre la melliflua voce di Angie si lanciava nella bella canzone; e, fin dalle prime battute, Nick fu trasportato istantaneamente al Kennedy Center di Washington D.C., nel giugno dell’84, dove era andato ad assistere a una replica di Cats insieme con i genitori. Era finalmente tornato a casa per spiegare loro come mai non avesse potuto tornare a Harvard dopo le vacanze primaverili in Florida, ma, per quanto avesse tentato, non era riuscito a raccontare la storia a un padre deluso e a una madre dal cuore spezzato. Ogni volta, aveva cominciato con un «È stato per via di una donna…» e poi era ammutolito.

Era stato un triste ritorno. Mentre stava a Falls Church, a suo padre erano stati trovati nel colon, e asportati, i primi polipi maligni. I medici avevano ottimisticamente parlato di parecchi anni di vita, pur sottolineando la frequente insorgenza del cancro in simili casi e il formarsi di metastasi ad altre parti del corpo. In un lungo colloquio col padre improvvisamente infragilito, Nick aveva promesso di laurearsi a Miami. Questo, però, aveva dato ben poco piacere al vecchio, che aveva sognato di vedere il figlio laurearsi ad Harvard.

La rappresentazione di Cats al Kennedy Center non era parsa granché divertente a Nick. Verso metà spettacolo, si era sorpreso a domandarsi quanti del pubblico conoscessero davvero l’autore del materiale di fondo delle canzoni, quel poeta T.S. Eliot che non solo ammirava e apprezzava le caratteristicità feline, ma aveva aperto una sua poesia con una descrizione della sera come «largodistesa contro il cielo, come una paziente anestetizzata sul tavolaccio». Ma, quando la vecchia gatta dalla bellezza ormai avvizzita era venuta al centro della scena e aveva cominciato a cantare la canzone dei suoi “giorni al sole”, si era sentito commuovere al pari del resto del pubblico. Per ragioni a lui incomprensibili, aveva visto Monique nella parte della gatta, in anni futuri. E là a Washington aveva pianto lacrime silenziose, subito celate ai genitori, quando la voce dolorosamente pura della soprano aveva raggiunto l’apice della canzone.

«Toccami… È così facile lasciarmi… tutta sola coi ricordi… dei miei giorni al sole… Se mi tocchi… capirai che cosa sia la felicità…»

La voce di Angie allo Sloppy Joe non era altrettanto penetrante di quella della soprano di Washington, ma aveva la medesima intensità: un’intensità che evocava tutta la tristezza di una persona per la quale tutte le gioie della vita stiano nel passato. Gli occhi di Nick si riempirono di lacrime ai margini, e una traboccò a rigargli la guancia.

Dal punto in cui stava, Carol poteva vedere la guancia di Nick illuminata dal riflesso delle luci di scena. Colse così la lacrima, quella finestra di vulnerabilità, e fu presa anch’essa dalla commozione. Per la prima volta provò un’emozione profonda, anzi quasi un affetto per quell’uomo distante, solitario, ma stranamente attraente.

Ah, Carol, come sarebbe stato probabilmente diverso se, per una volta nella vita, non avessi agito d’impulso! Se gli avessi consentito di vivere il suo momento di solitudine o di strazio o di tenerezza o di ciò che comunque provasse, avresti potuto rievocare questo momento più tardi, in circostanze più serene, con qualche vantaggio. E la condivisione di tale momento avrebbe potuto finire per diventar parte di un legame fra voi. Ma tu dovevi invece battergli sulla spalla prima ancora della fine della canzone, prima ancora che lui si fosse reso conto di piangere, e spezzargli cosi la sua preziosa comunione col proprio io. Fosti, così, un’intrusa. E, come spesso accade, provocasti l’effetto opposto: lui vide nel tuo sorriso derisione, non comprensione, e come una tartaruga spaventata si ritrasse in sé per il resto della serata, deciso a respingere come insincera qualunque futura profferta di amicizia.

Troy non poté cogliere lo scambio fra Carol e Nick. Quando si girò per tornare a sedere dopo l’applauso finale, fu perciò sorpreso di vedere le spalle di Nick irrigidite nella posa manifesta dell’ostilità. «Non è stata stupenda, angelo?» disse a Carol. «E tu che ne dici, professore? È la prima volta che la senti cantare?»

Nick assentì. «È stata grande» disse quasi controvoglia. «E io ho sete. È possibile avere da bere, in questo posto?»

Troy fu leggermente offeso. «Be’, scusa tanto» disse. «Spiacente che lo spettacolo sia stato tanto lungo.» Poi, mentre gesticolava nel tentativo di richiamare l’attenzione di un cameriere, disse a Carol in tono conversevole: «Cos’è che gli ha preso, angelo?».

Carol rispose con una stretta di spalle. Poi, nel tentativo di rasserenare l’atmosfera, si chinò verso Nick e gli batté leggermente sull’avambraccio posato sul tavolo, dicendo: «Ehi, Nick, t’ha morso un cane rabbioso?».

Nick ritrasse di scatto il braccio mormorando qualcosa d’incomprensibile, e si estraniò dalla conversazione. Quando vide Angie avvicinarsi al tavolo, si alzò automaticamente, imitato da Carol e Troy. «È stata fantastica» disse Carol, un po’ troppo forte, non appena Angie fu a portata di voce.

«Grazie… Salve» rispose Angie, prendendo la sedia che Troy le aveva scostata. Qualche istante per ringraziare garbatamente degli elogi i clienti dei tavoli circostanti, poi sedette con un sorriso. «Lei dev’essere Carol Dawson» disse con fare naturale, chinandosi verso la giornalista.

Angie era anche più bella di quanto non apparisse nella foto di copertina del disco. Aveva una pella marrone-scuro, non nera. Il trucco, compreso il rossetto rosa-pallido, era ridotto al minimo, così da far risaltare meglio le sue grazie naturali, fra cui era una dentatura perfetta, che il sorriso rivelava di un bianco smagliante. Dietro la bellezza c’era anche la donna: una donna che irradiava un calore naturale cui nessuna fotografia poteva render giustizia, e che attraeva immediata simpatia.

«E lei dev’essere Nick Williams» continuò Angie, porgendo la mano a Nick, che stava ancora in piedi, l’aria incerta e a disagio, quando Troy s’era ormai seduto. «In questi ultimi giorni Troy mi ha tanto parlato di lei, che mi pare di essere già sua amica. A sentir lui, lei avrebbe letto ogni romanzo degno di lettura che sia mai stato scritto.»

«È un’esagerazione bella e buona, s’intende» disse Nick, manifestamente lieto di essere stato riconosciuto e sembrando sciogliersi un po’. Sedutosi, fece per aggiungere ancora qualcosa, quando Carol intervenne a togliergli la parola di bocca.

«Quella bella canzone sul cieco, l’ha scritta lei personalmente?» chiese, senza dar tempo ad Angie di sistemarsi. «Mi è sembrata una confessione personale, in effetti.»

«Sì» rispose garbatamente Angie, senza mostrare la minima irritazione per l’assalto di Carol. «Il grosso del mio materiale proviene da altre fonti, ma ogni tanto scrivo anch’io qualche canzone. Quando mi capita un soggetto che mi sta a cuore.» Un breve sorriso a Troy, e continuò: «Mio padre è un uomo straordinario, affettuoso, cieco dalla nascita ma dotato di un’incredibile comprensione del mondo a ogni livello. Senza la sua pazienza e la sua guida, non avrei probabilmente avuto mai il coraggio di cantare fin da piccola, perché ero troppo timida e impacciata. Ma lui ci persuase tutti quanti, fin da piccini, di essere, per un verso o per l’altro, qualcosa di speciale. Ci diceva che Dio aveva dato a ognuno di noi qualcosa di insolito, di unicamente nostro, e che una delle grandi gioie della vita era la scoperta e lo sviluppo di questa dote speciale».

«È quella Let Me Take Care of You, Baby, l’ha scritta veramente per Troy?» intervenne Nick senza lasciarla finire, distruggendo così la tenera atmosfera creata da Angie con l’affettuosa descrizione del padre. Troy, vedendolo seduto in punta di sedia, e così agitato e turbato, si domandò di nuovo che cosa mai fosse successo in quello scambio con Carol per metterlo in un tale stato di tensione.

«Credo proprio di sì» rispose Angie, guardando Troy con un sorriso di tristezza. «Anche se, in origine, avrebbe dovuto essere un motivo scherzoso, una specie di brioso commento al gioco dell’amore.» Tacque per un istante. «Però parla di un problema reale. A volte è duro essere una donna di successo, perché interferisce…»

«Amen, amen» interruppe Carol, senza lasciarle il tempo di sviluppare il proprio pensiero perché questo era uno dei suoi argomenti preferiti e che lei non perdeva occasione per ribadire. «La maggior parte degli uomini non sopporta che una donna abbia un successo anche minimo, figurarsi uno come il suo!» Poi, fissando apertamente Nick, continuò: «Ancora oggi, nel 1994, vigono regole non scritte che vanno seguite. Se una vuole una relazione permanente con un uomo, deve tener conto di tre non: Non dargli l’impressione di esser più brava di lui, non esser la prima a prendere l’iniziativa sessuale, e, soprattutto, non far più soldi di lui. Queste sono infatti le tre aree-chiave della fragilità dell’ego maschile. E se una donna mina l’ego di un uomo, magari anche solo scherzando, con quello ha chiuso».

«Sembri proprio un’esperta» replicò, sarcastico, Nick. Poi, con ostilità manifesta: «Io mi domando se a qualcuna di voi, femmine liberate, sia mai passato per il cervello che non è il vostro successo a respingere gli uomini, bensì il modo con cui lo gestite. La vostra riuscita nella vita non significa un cazzo sul piano personale. La maggioranza delle donne ambiziose e aggressive da me conosciute,» continuò, guardando apertamente Carol «sono tipe che fanno di tutto per trasformare i rapporti maschio-femmina in una specie di competizione, né permettono all’uomo, nemmeno per un attimo, di nutrire l’illusione di vivere in una società patriarcale. Alcune di loro, secondo me, evirano di proposito…»

«Ecco: ci siamo!» colse trionfante la palla al balzo Carol, dando di gomito ad Angie, sorridente ma anche un po’ imbarazzata dall’astio che emergeva dal diverbio. «Ha detto la parola magica? Ogni volta che una donna si permette di discutere e di non accettare come vangelo una qualche profonda verità maschile, ecco che tenta di “castrare” o di “evirare”…»

«Be’, ragazzi, adesso basta» intervenne deciso Troy, scuotendo la testa. «Cambiamo argomento. Io avevo pensato che voi due poteste magari godere di una serata in compagnia, ma se cominciamo così…»

«Il problema» continuò Carol, rivolta ad Angie e ignorando l’invito di Troy «è che gli uomini hanno paura, perché la comparsa di donne non più disposte ad andar scalze e incinte ne minaccia l’egemonia sul mondo occidentale. Se penso che, quand’ero a Stanford…»

Si arrestò allo scricchiolìo di una sedia spostata. «Con tutto il rispetto, signorina Leatherwood,» disse Nick, in piedi, le mani strette sullo schienale della sedia «credo proprio di dovermi scusare. La sua musica è stata per me un vero piacere, ma preferisco non sottoporla a ulteriori scortesie. Le auguro ogni fortuna per la sua carriera e spero che qualche volta vorrà passare un po’ di tempo in barca con Troy e me.» Poi, rivolto a Troy: «Ci vediamo domattina alle otto al porto». Infine, guardando Carol: «Anche tu, se hai sempre voglia di venire. Così ci racconterai dei perdiballe di Stanford quando saremo in mezzo al Golfo».

Senza aspettare risposta, raccolse la busta e si aprì la strada tra la massa dei clienti verso l’uscita. Quando fu quasi alla porta, si sentì chiamare: «Nick, ehi, Nick! Da questa parte!». Era Julianne, che gli faceva segno da un tavolo vicino, pieno di bicchieri e posacenere. Insieme con Corinne e Linda, era circondata da una mezza dozzina di uomini, ma stava allargando il cerchio per farvi entrare una sedia libera per lui. Nick accolse l’invito.


Mezz’ora dopo, era ubriaco fradicio. E, fra Julianne che ogni tanto gli sfiorava la gamba, i giganteschi seni di Corinne (ora coperti, ma che ricordava dal videogioco del pomeriggio) e la vista intermittente di Carol attraverso la cortina di fumo di sigaretta, si sentiva anche eccitato. Accidenti a te, Williams, hai di nuovo rovinato tutto!, si era detto nel sedere con la compagnia di Julianne. Avevi l’occasione ideale per far colpo su di lei, anzi magari per sedurla, e… Mezz’ora dopo, e dopo tanti bicchieri, i suoi pensieri ricordavano invece piuttosto la volpe di Esopo. Tanto, è troppo aggressiva, per me. Famosa. Intraprendente fino all’invadenza. E, sotto, sotto, troppo dura, probabilmente. E fredda a letto. Un’altra rompicoglioni, insomma. Salvo che continuava a guardarla dall’altra parte della sala.

Le sedie in più che erano state portate per l’esibizione di Angie, vennero sgombrate per fare spazio per la danza. Un discjockey orchestrò il resto della serata da una cabina accanto alla pedana; la clientela poteva ballare al ritmo di una quantità di selezioni musicali moderne, guardare chiassosi videoclip sui grandi schermi, o semplicemente parlare, perché la musica non era eccessivamente alta. La maggioranza delle persone attorno a Nick era gente del porto turistico. Durante un intervallo tra un disco e l’altro, Linda Quinlan si chinò sul tavolo verso Nick, che aveva appena ingollato un’ennesima tequila. «E dài, Nick, confidaci il tuo segreto» disse. «Cos’è che avete trovato ieri, tu e Troy?»

«Niente di speciale» rispose Nick, memore del patto ma sorpreso di avere una gran voglia di parlarne.

«Le voci dicono diversamente» intervenne uno della compagnia. «Lo sanno tutti che stamattina sei andato da Amanda Winchester con qualcosa. Dài, dicci cos’è. Non avrai mica trovato un’altra nave carica di tesori?»

«Può darsi,» rispose Nick, con un ghigno da ubriaco «dico solo: può darsi.» Ebbe un altro forte impulso di raccontare tutto mostrando le foto, ma si trattenne. «Non ne posso parlare» troncò.

In quel momento, due giovani tarchiati, due tipi della Marina in divisa da ufficiali e coi capelli a spazzola, stavano dirigendo dritti verso il suo tavolo dopo essersi staccati dall’estremità opposta della pista da ballo. Uno dei due, dalla carnagione scura, era di sicuro un oriundo messicano. La coppia avanzava con passo sicuro, anzi baldanzoso, e il suo arrivo al tavolo zittì la conversazione. Il tenente bianco posò la mano sulla spalla di Julianne. «Ecco qua la Marina, bambolona bella» esordì con sfrontatezza. «Perché tu e la tua amica» continuò indicando Corinne, dietro la quale stava Ramirez «non venite a ballare con noi?»

«No, grazie» rifiutò con un garbato sorriso Julianne. Todd la squadrò. Barcollava lievemente, e i suoi occhi rivelavano chiaro che ne aveva bevuto uno di troppo.

«Vuoi dire che preferisci stare qui seduta con ‘su’ stronzi locali invece di ballare con futuri ammiragli?» Julianne sentì la mano di lui stringerle la spalla, e guardò gli altri fingendo di ignorarlo.

Todd, cui non garbavano le ripulse, staccò la mano dalla spalla di Julianne per puntare il dito verso i seni di Corinne. «Cristo, Ramirez, avevi ragione: sono proprio mostruosi! Non ti andrebbe di pappartene uno?» I due tenenti uscirono in una risata volgare, che fece fremere d’imbarazzo Corinne.

A questo punto, l’amico fisso di Linda Quinlan decise di alzarsi. A parte Nick, era l’unico degli uomini al tavolo che avesse all’incirca la corporatura di Todd e Ramirez. «Sentite, ragazzi,» disse in tono conciliante «la signora ha rifiutato con gentilezza. Non è dunque il caso di insultare lei o i suoi amici…»

«Ma lo senti, Ramirez?» interruppe Todd. «Sto’ bellimbusto ci accusa di aver insultato qualcuno! E da quando ammirare dei bei poponi è un insulto?» Ridacchiò della propria sagacia, e respinse la mano di Ramirez che voleva portarlo via.

Nick, ormai ubriaco, teneva a freno la voglia di esplodere ormai da ore. «Togliti dai piedi, stronzo» disse, piano ma deciso, dalla sedia accanto a quella di Julianne.

«Stronzo a chi, testa di cazzo?» replicò truculento il tenente Todd. Poi, rivolto a Ramirez. «Credo proprio che mi vedrò costretto a tambureggiargli un po’ la testa, a ’sto impertinente d’un bastardo.»

Ma fu battuto sul tempo da Nick che, alzatosi di scatto, gli tirò un tremendo pugno in piena faccia, facendolo capitombolare all’indietro su un altro tavolo coperto di bicchieri. Il tavolo si schiantò, Todd finì sul pavimento, e Nick gli si avventò sopra. Ramirez, allora, lo tirò indietro e, quando Nick si girò per colpire anche lui, gli diede una spinta che gli fece cedere le gambe già traballanti. Nick finì così addosso a Julianne, schiantando un secondo tavolo.

All’altro lato della sala, Carol, Angie e Troy videro la scena e riconobbero Nick fra i protagonisti. «Alé» disse Troy, balzando in piedi per correre in aiuto dell’amico. Carol fece lo stesso. Il tempo di attraversare la sala, e trovarono già in azione i buttafuori del locale. Nel frattempo, Nick e Julianne stavano ancora tentando di districarsi mentre Todd si rimetteva lentamente in piedi.

Durante lo scontro, la busta era finita sul pavimento e da essa erano fuoriuscite parzialmente delle fotografie. Ramirez, che l’aveva raccolta, attirato dai vivaci colori le stava ora guardando. Nella prima si vedeva chiaramente il primo piano del missile bruno nella fessura. «Ehi, guarda un po’ qui» disse allo scosso Todd. «Di cosa credi si tratti?»

Carol agì fulmineamente. Afferrò a volo busta e foto nel passare davanti a Ramirez e, senza dargli tempo di parlare, strillò: «Oh, Nick, no, non un’altra volta! Ma come hai fatto a ubriacarti di nuovo?». Poi, inginocchiandoglisi accanto e reggendogli la testa con la mano libera, continuò, mentre lui la fissava esterrefatto: «Oh, caro, eppure mi avevi promesso che avresti smesso».

E, sotto gli occhi sbalorditi di tutti, lo baciò sulla bocca per impedirgli di parlare. Troy rimase di sasso. «Troy» si sentì gridare da lei un istante dopo, mentre Nick tentava di raccogliere i sentimenti. «Troy, dove sei? Vieni a darmi una mano!» Troy si precipitò ad aiutarla a rimettere in piedi l’amico. «Adesso lo portiamo a casa» annunciò lei agli astanti. E, un braccio lei e uno Troy, il terzetto si avviò faticosamente verso la porta. Nel vestibolo trovarono il direttore del locale, e Carol gli disse che sarebbe passata l’indomani a regolare i conti. Poi, aiutata da Troy, trascinò fuori Nick quasi di peso.

Mentre si allontanavano dallo Sloppy Joe, si girò e vide che parte della clientela li aveva seguiti fin sulla porta. Davanti al gruppo, un’espressione perplessa in viso, stavano Ramirez e Todd, questi ancora intento a massaggiarsi la guancia. «Dov’è che si va, angelo?» chiese Troy una volta fuori portata di udito. «Non sappiamo nemmeno dove ha parcheggiato la macchina.»

«Non fa niente» rispose Carol. «L’importante è allontanarsi dal locale.»

Svoltarono faticosamente a destra, infilando il vicolo parallelo, e posteriore, al teatro nel quale, un’ora prima, si era conclusa la Notte dell’iguana. Appena dopo il teatro trovarono un piccolo spazio verde sulla sinistra. Carol gli si fermò a margine, proprio in faccia a un gruppo d’alberi, e si guardò alle spalle per vedere se fossero seguiti. Poi, con un sospiro, allentò la presa su Nick, facendo inconsapevolmente vento al viso sudato con la busta sottratta a Ramirez.

Nick aveva quasi riacquistato la lucidità. Liberatosi della presa di Troy, farfugliò a Carol, tentando di abbracciarla: «Non avevo idea che provassi questo per me».

«Io non provo un accidente!» esclamò secca lei, respingendone le braccia e arretrando verso lo spazio verde. Nick non capì e la seguì. «Fermati!» gli gridò inviperita lei. «Fermati, ubriaco bastardo!»

Tentò di fermarlo con le mani, ma lui non se ne diede per inteso. Poi, un attimo prima che intervenisse Troy a fermarlo gli allungò un ceffone con la mano libera dalla busta. Sgomento, Nick perse l’equilibrio e cadde sull’erba a pancia sotto.

Sempre furibonda, Carol gli si chinò sopra e lo rivoltò con forza sulla schiena. «Non ti azzardare mai più a usare la forza con me, mai più. In nessuna circostanza!» gli gridò. Poi gli buttò la busta sullo stomaco e si drizzò di scatto. Uno sguardo a Troy, e si avviò a grandi passi, scuotendo la testa dal ribrezzo, giù per il vicolo.

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