Dopo aver superato la cornice di ardesia da dove si gettava l'Anora, Roran percorse una stretta gola piena di cespugli di lamponi, per finire in un'ampia radura fiancheggiata su un lato da un cumulo di massi, dove trovò i primi della carovana già impegnati a organizzare il campo. La foresta risuonava di grida di bimbi.
Sfilatosi lo zaino, Roran prese un'accetta e si mise a ripulire la zona dai cespugli insieme ad altri uomini. Quando ebbero finito, cominciarono a tagliare gli alberi per circondare l'accampamento. L'aroma di resina di pino saturava l'aria. Roran lavorava in fretta; le schegge di legno volavano al ritmo dei suoi colpi.
Il tempo di finire la palizzata, e il campo era stato eretto, con diciassette tende e quattro piccoli falò che illuminavano le tetre espressioni della gente e dei muli. Nessuno voleva andarsene e nessuno voleva restare.
Roran vagò con lo sguardo sulla massa di bambini e anziani che impugnavano le lance e pensò: Troppa esperienza, o troppo poca. I nonni hanno l'esperienza per affrontare orsi e bestie del genere, ma i nipoti saranno in grado di metterla in pratica? Poi notò lo scintillio d'acciaio negli occhi delle donne e si rese conto che, sebbene fossero occupate a cullare un neonato o a curare un braccio graffiato, tenevano gli scudi e le lance sempre a portata di mano. Roran sorrise. Forse... forse c'è ancora una speranza.
Vide Nolfavrell seduto da solo su un tronco abbattuto, intento a fissare la Valle Palancar, e lo raggiunse. Il ragazzino lo guardò serio. «Te ne andrai presto?» domandò. Roran annuì, colpito dal suo atteggiamento e dalla sua determinazione. «Farai del tuo meglio, vero, per uccidere i Ra'zac e vendicare mio padre? Lo farei io, ma la mamma dice che devo proteggere i miei fratelli e le mie sorelle.»
«Ti porterò io stesso le loro teste, se potrò» promise Roran.
Il mento del ragazzino tremò. «Ci conto!»
«Nolfavrell...» Roran s'interruppe per cercare le parole adatte. «Tu sei l'unico qui, a parte me, che ha ucciso un uomo. Questo non significa che siamo meglio o peggio di chiunque altro, ma significa che potrò fare affidamento su di te, se sarete attaccati. Quando domani verrà Katrina, ti assicurerai che sia ben protetta?»
Il petto di Nolfavrell si gonfiò di orgoglio. «La seguirò come un'ombra!» Poi abbassò lo sguardo, rammaricato. «Voglio dire... quando non dovrò badare...»
Roran comprese. «Oh, la tua famiglia viene al primo posto. Ma forse Katrina potrà stare nella tenda con i tuoi fratelli e le tue sorelle.»
«Sì» disse Nolfavrell con un filo di voce. «Sì, potrebbe funzionare. Conta pure su di me.»
«Ti ringrazio.» Roran gli diede una pacca sulla spalla. Avrebbe potuto chiederlo a una persona più grande e capace, ma gli adulti erano troppo occupati con le proprie responsabilità per difendere Katrina come lui desiderava. D'altro canto, Nolfavrell aveva il modo e la tempra per garantire la sua incolumità. Saprà sostituirmi, finché saremo separati. Roran si alzò vedendo avvicinarsi Brigit.
Rivolgendogli un'occhiata spenta, la donna disse: «Vieni, è ora.» Poi abbracciò il figlio e s'incamminò verso le cascate con Roran e gli altri compaesani che tornavano a Carvahall. Alle loro spalle, nel piccolo accampamento, tutti si avvicinarono alla palizzata, sbirciando attraverso i tronchi tagliati con occhi smarriti.
Il volto del nemico
Roran trascorse il resto della giornata a migliorare le difese, sentendo sua la desolazione di Carvahall. JL ViEra come se avessero preso una parte di lui per nasconderla sulla Grande Dorsale. Senza bambini, il villaggio sembrava un accampamento fortificato. Il cambiamento aveva reso tutti cupi e taciturni.
Quando il sole si tuffò fra le guglie frastagliate della Grande Dorsale, Roran risalì la collina verso casa di Horst. Si fermò davanti alla porta principale con la mano sul pomello, ma rimase lì, senza entrare. Perché questo incontro mi spaventa quanto una battaglia?
Alla fine abbandonò la porta principale e girò intorno alla casa per entrare direttamente in cucina dove, con suo sgomento, vide Elain seduta a fare la calza da un lato del tavolo, intenta a parlare con Katrina, seduta di fronte a lei. Entrambe si volsero a guardarlo, e Roran balbettò: «Stai... stai bene?»
Katrina si alzò per andargli incontro. «Sto bene.» Sorrise dolcemente. «È stato solo un momento terribile quando papà... quando...» Abbassò la testa per un istante. «Elain è stata così gentile da offrirmi la stanza di Baldor per stanotte.»
«Sono contento che tu stia meglio» disse Roran e l'abbracciò forte, cercando di infondere tutto il suo amore e la sua adorazione in quel semplice contatto.
Elain avvolse la lana intorno ai ferri. «Coraggio. Il sole è tramontato, ed è ora di andare a letto, Katrina.» Roran la lasciò a malincuore. La ragazza lo baciò sulla guancia e disse: «Ci vediamo domattina.»
Lui fece per seguirla, ma si fermò quando Elain disse in tono aspro: «Roran.» Il suo volto delicato era accigliato e risoluto.
«Sì?»
Elain attese di sentire lo scricchiolio delle scale per essere sicura che Katrina non sentisse. «Spero che tu voglia tener fede a ogni parola che hai detto a quella ragazza, perché altrimenti, convocherò un'assemblea e ti farò esiliare nel giro di una settimana.»
Roran rimase sbalordito. «Ma certo che manterrò le promesse. Io l'amo.»
«Katrina ha appena rinunciato a tutto quello che possedeva e a cui teneva per te.» Elain lo fissava con sguardo inflessibile. «Ho visto uomini professare amore eterno a giovani donne, come giuramenti fatti al vento. Le fanciulle sospirano e piangono e credono di essere speciali, ma per l'uomo non si tratta che di un trastullo momentaneo. Sei sempre stato un uomo d'onore, Roran, ma la lussuria può trasformare la persona più sensibile in un fantoccio rimbambito o in una scaltra, infima volpe. Tu cosa sei? Perché Katrina non ha bisogno di un fantoccio, né di un bugiardo, e nemmeno di amore; ciò di cui ha soprattutto bisogno è un uomo che provveda a lei. Se tu l'abbandoni, diventerà la persona più derelitta di Carvahall, costretta a vivere dell'elemosina degli amici, la nostra prima e unica mendicante. Per il sangue che mi scorre nelle vene, non lo permetterò.»
«Neppure io» protestò Roran. «Dovrei essere senza cuore, o peggio, per fare una cosa del genere.» Elain levò fiera il mento. «Già. Non dimenticare che intendi sposare una donna che ha perso sia la sua dote che l'eredità di sua madre. Capisci cosa significa per Katrina perdere l'eredità? Non avrà argento, né biancheria, né merletti, nessuna delle cose necessarie a mettere su casa. Tutte noi possediamo tali oggetti, tramandati di madre in figlia dal primo giorno in cui mettemmo piede in Alagaésia. Simboleggiano quanto valiamo. Una donna senza eredità è come... è come...» «È come un uomo senza terra o senza mestiere» concluse Roran.
«Giusto. È stato crudele da parte di Sloan diseredare Katrina, ma adesso non possiamo farci più niente. Entrambi non avete soldi né risorse. La vita già è difficile di suo senza questi problemi. Comincerete da zero e con zero in tasca. La prospettiva ti spaventa o ti sembra insopportabile? Perciò, ti chiedo ancora una volta - e non mentirmi, altrimenti voi due ve ne pentirete per il resto dei vostri giorni - ti prenderai cura di lei senza rancore né rimpianti?» «Sì.»
Elain sospirò e versò del sidro in due boccali di terracotta da una caraffa che prese da una mensola. Ne porse uno a Roran e si sedette di nuovo al tavolo. «Allora ti suggerisco di cominciare a ricostruire una casa e un'eredità per Katrina, affinchè lei, e le figlie che un giorno avrete, possano guardare in faccia le donne di Carvahall senza vergogna.» Roran sorseggiò il sidro fresco. «Se vivremo tanto a lungo.»
«Già.» Elain si scostò una ciocca bionda dalla fronte e scosse il capo. «Hai scelto la via più difficile, Roran.» «Dovevo essere sicuro che Katrina lasciasse Carvahall.»
Elain inarcò un sopracciglio. «Allora è stato per questo. Bene, non discuterò le tue ragioni, ma perché diavolo non hai parlato a Sloan del fidanzamento prima di questa mattina? Quando Horst chiese la mia mano a mio padre, donò alla nostra famiglia dodici pecore, una scrofa e otto paia di candelieri di ferro battuto ancora prima di sapere se avrebbe acconsentito. Avresti potuto pensare a qualcosa di meglio che non prendere a pugni il tuo futuro suocero.» Un'amara risata sfuggì dalle labbra di Roran. «Avrei potuto, certo, ma non ho mai trovato il momento adatto, con tutti quegli attacchi.»
«I Ra'zac non hanno attaccato per sei giorni.»
Roran si rabbuiò. «No, ma... è che... Oh, non lo so!» Calò il pugno sul tavolo in un moto di frustrazione. Elain posò la tazza e mise le sue esili mani sulla sua. «Se riuscirai a ricucire questo strappo con Sloan adesso, prima che si accumulino anni di rancore, allora la tua vita con Katrina sarà molto, molto più facile. Domattina va' a casa sua e implora il suo perdono.»
«Non lo implorerò! Non lui.»
«Roran, ascoltami. Dovessi implorare per un mese intero, niente è più prezioso della pace in famiglia. Lo so per esperienza; litigare non serve a niente.»
«Sloan odia la Grande Dorsale. Non vorrà avere niente a che fare con me.»
«Ma devi provarci lo stesso» insistette Elain con foga. «Se anche respingesse le tue scuse, almeno nessuno ti potrà accusare di non aver provato. Se ami Katrina, manda giù l'orgoglio e fa' quel che è giusto per lei. Non farla soffrire per i tuoi errori.» Finì di bere il sidro, usò un cappuccio di latta per spegnere le candele e lasciò Roran seduto nell'oscurità. Passarono lunghi minuti prima che Roran trovasse la forza di alzarsi. Tese una mano e seguì il bordo del piano di lavoro fino a tastare la soglia, poi salì di sopra, continuando a far scorrere le dita sulle pareti per trovare la strada. Nella sua stanza, si spogliò e si gettò sul letto.
Con la braccia strette intorno al cuscino, ascoltò i deboli suoni che echeggiavano nella casa di notte: il raspio di un topo in soffitta e i suoi squittii intermittenti, i gemiti del legno che si raffreddava di notte, il sussurro del vento negli interstizi della finestra, e... e un fruscìo di pantofole nel corridòio davanti alla sua stanza.
Guardò il paletto della sua porta sollevarsi dal gancio, poi la porta si socchiuse con uno scricchiolio di protesta. Silenzio. Una sagoma scura entrò nella stanza, la porta si chiuse, e Roran sentì una pioggia di capelli di seta sfiorargli il viso, poi due labbra delicate come petali di rosa. Sospirò.
Katrina.
Un boato fragoroso strappò Roran dal sonno.
Una luce violenta lo investì mentre cercava di riprendere coscienza, come un tuffatore disperato che tenta di risalire in superficie. Aprì gli occhi e vide uno squarcio nella porta. Sette soldati entrarono dal varco, seguiti dai due Ra'zac, che sembravano riempire la stanza con la loro presenza spettrale. La punta di una spada si posò sulla gola di Roran. Al suo fianco, Katrina gridò e strinse a sé le coperte.
«Alzati!» ordinò un Ra'zac. Roran si mise in piedi lentamente. Il cuore gli batteva tanto da esplodergli nel petto. «Legategli le mani e portatelo via.»
Quando un soldato si avvicinò a Roran con una corda, Katrina gridò di nuovo e si avventò sugli uomini, mordendo e graffiando con furia inaudita. Le sue unghie affilate penetrarono nella carne, lasciando lunghi solchi sanguinanti che accecarono gli uomini.
Roran s'inginocchiò di colpo e afferrò il martello da sotto il letto, poi si rialzò fulmineo e roteò l'arma sopra la testa, ruggendo come un orso. I soldati si gettarono su di lui nel tentativo di bloccarlo, ma invano: Katrina era in pericolo, e lui era invincibile. Gli scudi e gli elmi si deformavano sotto i suoi colpi, le cotte di maglia e le brigantine si frantumavano sotto la sua arma spietata. Due uomini rimasero feriti, e altri tre caddero per non rialzarsi più.
Il trambusto aveva svegliato la casa; Roran udì vagamente Horst e i suoi figli che gridavano in corridòio. I Ra'zac sibilarono, poi si avventarono su Katrina e la sollevarono di peso, dileguandosi in un batter d'occhio. «Roran!» gridò la ragazza.
Facendo appello a tutte le sue energie, Roran caricò i due uomini rimasti per imboccare la porta. Piombò in corridòio e vide i Ra'zac scavalcare una finestra. Roran si precipitò verso di loro e colpì l'ultimo Ra'zac proprio mentre stava per saltare dal davanzale. Con uno scatto repentino, il Ra'zac afferrò il polso di Roran a mezz'aria e trillò di gusto, soffiandogli il suo alito fetido sul viso. «Sssì! Tu ssei quello che vogliamo!»
Roran tentò di liberare il braccio, ma il Ra'zac non mollava. Con la mano libera, tempestò di pugni la testa e le spalle della creatura, che erano dure come ferro. Disperato e furibondo, afferrò l'orlo del cappuccio del Ra'zac e tirò, scoprendogli il volto.
Vide una faccia raccapricciante e deforme che gli gridava addosso. La pelle era nera e lucida come il carapace di uno scarafaggio. La testa era calva. Gli occhi privi di palpebre erano grandi quanto il suo pugno e scintillavano come sfere di lucida ematite; non avevano né iridi né pupille. Al posto del naso, della bocca e del mento sporgeva un becco adunco che terminava con una punta aguzza che schioccava su un'ispida lingua violacea.
Roran strillò e piantò i piedi contro i lati della finestra, lottando per liberarsi da quella mostruosità, ma il Ra'zac lo trascinava inesorabile fuori della casa. Roran vide Katrina in basso, che urlava e si divincolava.
Proprio mentre le ginocchia gli cedevano, comparve Horst alle sue spalle, che lo cinse con le braccia, tenendolo fermo. «Qualcuno prenda una lancia!» gridò il fabbro. Sbuffava come un mantice, le vene del collo gonfie per lo sforzo di reggere Roran. «Ci vorrà ben altro che questa feccia infernale per fermarci!»
Il Ra'zac provò con uno strattone finale a tirare giù Roran, ma vedendo che era inutile, allungò il becco e disse: «Sssei nossstro!» Scattò in avanti con rapidità sorprendente e Roran ululò quando sentì il becco del Ra'zac che gli affondava nel muscolo della spalla destra. Nello stesso momento il suo polso si spezzò. Con una perversa risata gracchiante, il Ra'zac lo lasciò andare e si lasciò cadere, inghiottito dall'oscurità.
Roran e Horst caddero l'uno addosso all'altro nel corridòio. «Hanno preso Katrina» ringhiò Roran. La vista gli si offuscò e nel buio esplosero mille puntini luminosi quando tentò di rialzarsi facendo leva sulla mano sinistra. La destra penzolava inerte. Albriech e Baldor emersero dalla sua stanza, macchiati di sangue. Dietro di loro non restavano che cadaveri. Ora ne ho uccisi otto. Roran recuperò il martello e si avviò barcollante per il corridòio per trovarsi la strada sbarrata da Elain, in camicia da notte bianca.
Lei lo guardò con gli occhi sgranati, poi gli prese il braccio e lo fece sedere su un baùle di legno addossato alla parete. «Devi farti vedere da Gertrude.»
«Ma...»
«Se continui a sanguinare così, morirai.»
Roran si guardò il fianco destro: era inzuppato di sangue. «Dobbiamo salvare Katrina prima...» strinse i denti per il dolore straziante, «... prima che le facciano del male.»
«Ha ragione. Non possiamo aspettare» disse Horst, torreggiando su di loro. «Fascialo come meglio puoi, poi andremo.» Elain serrò le labbra, e corse all'armadio della biancheria. Tornò con diversi pezzi di stoffa che avvolse stretti intorno alla spalla lacerata di Roran e al polso fratturato. Nel frattempo Albriech e Baldor sottrassero armature e spade ai soldati morti. Horst si accontentò di una lancia.
Elain appoggiò le mani al torace del marito e disse: «Siate prudenti.» Guardò i figli. «Tutti voi.»
«Andrà tutto bene, mamma» promise Albriech. Elain abbozzò un sorriso forzato e li baciò sulle guance. Uscirono di corsa dalla casa e puntarono ai margini di Carvahall, dove scoprirono che lo sbarramento di alberi era stato aperto e l'uomo di guardia, Byrd, ucciso. Baldor s'inginocchiò per esaminare il corpo, e con voce strozzata disse: «È stato pugnalato alle spalle.» Roran lo udì a stento, con il fragore del sangue che gli pompava nelle orecchie. In preda alle vertigini, si appoggiò a una casa e ansimò.
«Altolà! Chi siete?»
Dalle loro postazioni lungo il perimetro di Carvahall, le altre sentinelle si radunarono intorno al compagno ucciso, formando un capannello di lanterne schermate. Sottovoce, Horst raccontò loro dell'attacco e del rapimento di Katrina. «Chi viene con noi?» domandò. Dopo un breve scambio di frasi, cinque uomini acconsentirono ad accompagnarli; il resto sarebbe rimasto a sorvegliare la breccia aperta nello sbarramento e a svegliare il villaggio.
Con una spinta, Roran si scostò dal muro della casa e raggiunse la testa del gruppo, che si incamminò furtivo attraverso i campi e giù per la valle, verso l'accampamento dei Ra'zac. Ogni passo era un tormento, ma non gl'importava; niente aveva importanza, tranne Katrina. Inciampò, e Horst lo prese al volo per il gomito, senza dire una parola.
A mezzo miglio di distanza da Carvahall, Ivor individuò una sentinella su una bassa collinetta, che li costrinse a una lunga deviazione. Un centinaio di iarde più avanti il rosso bagliore delle torce si fece visibile. Roran alzò il braccio sano per rallentare l'avanzata, poi si chinò e cominciò a strisciare acquattato nell'erba alta, spaventando una lepre. Gli uomini lo imitarono e lo seguirono fino ai margini di un boschetto di stiance, dove Roran si fermò e separò la cortina di steli per osservare gli ultimi tredici soldati.
Lei dov'è?
Al contrario di quando erano arrivati la prima volta, i soldati erano laceri ed esausti, le armi graffiate e le corazze ammaccate. Quasi tutti ostentavano bende macchiate di bruno sangue rappreso. Gli uomini erano ammassati insieme, di fronte ai due Ra'zac - entrambi incappucciati intorno a un falò da campo.
Uno stava gridando: «... più della metà di noi uccisi da un branco di bifolchi pidocchiosi che non sanno distinguere una picca da una scure, o trovare la punta di una spada nemmeno se ce l'hanno piantata nelle budella, perché voi non avete nemmeno un'oncia del cervello del mio scudiero! Non m'importa se Galbatorix in persona vi lustra gli stivali con la lingua, noi non muoveremo più un dito se non avremo un nuovo comandante.» Gli uomini annuirono. «Uno che sia umano.»
«Sssul ssserio?» sibilò piano un Ra'zac.
«Ne abbiamo abbastanza di prendere ordini da due storpi come voi, con tutti i vostri schiocchi e fischi e sibili... ci date la nausea! E non so cosa avete fatto a Sardson, ma se resterete un'altra notte, vi pianteremo l'acciaio in corpo per vedere se sanguinate come noi. Ma potete lasciare la ragazza, che...»
L'uomo non ebbe possibilità di proseguire, perché il Ra'zac più grosso gli saltò addosso volando sul fuoco, come un corvo gigantesco. Urlando, il soldato crollò sotto il suo peso. Tentò di sguainare la spada, ma il Ra'zac lo colpì due volte alla gola con il becco nascosto, e l'uomo giacque immobile.
«Dobbiamo combattere con quelli?» mormorò Ivor alle spalle di Roran.
I soldati rimasero impietriti dallo spavento, mentre i Ra'zac si abbeveravano al collo del cadavere. Quando le nere creature si alzarono, si strofinarono le mani, e dissero: «Sssì. Ce ne andremo. Voi ressstate, ssse volete. I rinforzi arriveranno a giorni.» I Ra'zac reclinarono indietro la testa e cominciarono a gridare al cielo, uno strido sempre più acuto fino a superare la soglia dell'udito.
Roran alzò lo sguardo. Lì per lì non vide niente, ma poi un terrore senza nome lo afferrò nello scorgere due ombre frastagliate comparire sulla Grande Dorsale, eclissando le stelle. Avanzavano rapide, diventando sempre più grosse fino a oscurare metà del cielo con la loro lugubre presenza. Un vento rancido spazzò la terra, portando con sé miasmi sulfurei che fecero tossire Roran fino a farsi venire i conati.
I soldati ne furono altrettanto ammorbati; le loro maledizioni riecheggiarono nella notte, mentre si premevano maniche e sciarpe sul naso.
Sopra di loro, le ombre si fermarono e cominciarono a discendere a spirale, chiudendo l'accampamento sotto una volta di tenebre minacciose. Le torce languenti tremolarono e rischiarono di spegnersi, ma illuminarono ugualmente le due bestie che atterravano fra le tende.
I loro corpi erano nudi e glabri, come di topi appena nati, la pelle grigia e coriacea, tesa sui toraci e sui ventri nervati. Nell'aspetto ricordavano due cani smunti e affamati, ma le zampe posteriori erano dotate di muscoli possenti in grado di schiantare un macigno. Le teste oblunghe recavano sulla nuca una cresta sottile, cui faceva da contraltare un lungo e diritto becco nero, adatto a infilzare le prede, su cui spiccavano un paio di gelidi occhi bulbosi identici a quelli dei Ra'zac. Dalle spalle e dai dorsi partivano enormi ali che facevano gemere l'aria con i loro battiti imperiosi. Gettandosi a terra, i soldati si strinsero gli uni agli altri, nascondendosi il volto per non vedere i mostri. Una terribile, aliena intelligenza emanava da quelle creature, narrando di una razza molto più antica e molto più potente di quella umana. All'improvviso Roran ebbe paura che la missione potesse fallire. Dietro di lui, Horst sussurrò agli uomini di restare immobili e nascosti, o sarebbero stati uccisi.
I Ra'zac s'inchinarono davanti alle bestie, poi s'infilarono in una tenda e ne uscirono portando Katrina - legata con delle corde - e Sloan. Il macellaio camminava libero.
Roran rimase a bocca aperta, incapace di comprendere come mai Sloan fosse stato catturato. Casa sua non è vicina a quella di Horst. Poi lo folgorò un pensiero. «Ci ha traditi» mormorò con un filo di voce. La mano si strinse lentamente sull'impugnatura del martello nel sentirsi travolto da tutto l'orrore della situazione. «Ha ucciso Byrd e ci ha traditi!» Lacrime di rabbia gli solcarono il viso.
«Roran» mormorò Horst, accovacciandosi al suo fianco. «Non possiamo attaccare adesso; ci ucciderebbero. Roran... mi senti?»
Roran non udiva che un fievole sussurro in lontananza, mentre osservava il Ra'zac più piccolo balzare in groppa a una bestia per poi afferrare Katrina, che l'altro Ra'zac gli porgeva. Sloan aveva l'aria sconvolta e terrorizzata, adesso. Cominciò a protestare con i Ra'zac, scuotendo il capo e indicando il suolo. Alla fine, un Ra'zac lo colpì sulla bocca, scaraventandolo a terra privo di sensi. Montando in groppa alla seconda bestia con il macellaio sotto il braccio, il Ra'zac più grosso dichiarò: «Torneremo quando la sssituazione sssarà di nuovo sssicura. Uccidete il ragazzo, e perderete la vita.» Poi le bestie mostruose piegarono le cosce possenti e spiccarono il volo, tornando a essere ombre contro il firmamento stellato.
Roran si sentiva svuotato di parole ed emozioni. Era distrutto. Non gli restava altro che uccidere i soldati. Si alzò, brandendo il martello per prepararsi alla carica, ma quando fece il primo passo, la spalla ferita gli esplose in un'ondata di dolore che si propagò fino alla testa, il terreno turbinò in un vortice di luce, e lui cadde nell'oblio.
Un cuore trafitto
Dopo aver lasciato l'avamposto di Ceris, il tempo trascorse in una serie di tiepide e lente giornate, passate a remare lungo il lago Eldor e, in seguito, il fiume Gaena. L'acqua mormorava intorno a loro, scorrendo in una galleria di pini verdeggianti che s'inoltrava sempre più nel cuore della Du Weldenvarden.
A Eragon piaceva moltissimo viaggiare con gli elfi. Narì e Lifaen non facevano che sorridere, oppure ridere, o intonare canzoni, specie quando c'era Saphira nei paraggi. Di rado guardavano altrove o parlavano di un altro argomento se non di lei, in sua presenza.
Tuttavia gli elfi non erano umani, nonostante le vaghe somiglianze nell'aspetto. Si muovevano troppo in fretta, con troppa agilità per essere creature fatte di semplice carne e sangue. E quando parlavano, spesso usavano frasi involute e aforismi che lasciavano Eragon più confuso di quando avevano cominciato. Fra uno scoppio d'ilarità e l'altro, Narì e Lifaen rimanevano in silenzio per ore, osservando l'ambiente attorno con un'espressione di raggiante rapimento sul volto. Se Eragon od Orik provavano a parlare con loro durante questi periodi di contemplazione, ricevevano in risposta al massimo una parola o due.
Al confronto, Arya era molto più loquace e schietta. A dire il vero, sembrava a disagio davanti a Nari e Lifaen, come se non fosse più sicura di come comportarsi con quelli della sua razza.
Dalla prua della canoa, Lifaen si guardò indietro e disse:
«Dimmi, Eragon-finiarel... Cosa canta il tuo popolo di questi tempi bui? Ricordo le epiche e le ballate che ascoltavo a Ilirea - saghe dei vostri grandi re e nobili - ma è stato tanto, tanto tempo fa, e le memorie sono come fiori avvizziti nella mia mente. Quali nuove opere ha creato la tua gente?»
Eragon aggrottò la fronte nel tentativo di ricordare i titoli delle storie che recitava Brom. Quando Lifaen li udì, scrollò il capo avvilito e disse: «Quante cose sono andate perdute. Non sopravvivono più le ballate di corte, e se quanto dici corrisponde al vero, nemmeno più la vostra storia o la vostra arte, tranne quei pochi racconti di fantasia che Galbatorix permette di tramandare.»
«Una volta Brom ci raccontò della caduta dei Cavalieri» disse Eragon, sulla difensiva. Nella mente gli balenò l'immagine di un cervo che superava d'un balzo un tronco caduto, inviata da Saphira che era andata a caccia. «Ah, che uomo coraggioso.» Lifaen continuò a pagaiare in silenzio per un minuto. «Anche noi cantiamo della caduta dei Cavalieri... ma di rado. La maggior parte di noi erano vivi quando Vrael entrò nel vuoto, e ancora piangiamo le nostre città incendiate... i gigli rossi di Ewayéna, i cristalli di Luthivira... e le nostre famiglie uccise. Il tempo non può lenire il dolore di quelle ferite, nemmeno se passassero un milione di anni e il sole si spegnesse, lasciando il mondo immerso in una notte eterna.»
Orik borbottò a poppa. «Lo stesso vale per i nani. Ricorda, elfo, che abbiamo perso un intero clan per mano di Galbatorix.»
«E noi perdemmo il nostro re, Evandar.»
«Non ne ho mai sentito parlare» disse Eragon, sorpreso.
Lifaen annuì e governò la canoa rasente uno scoglio semisommerso. «Pochi lo sanno. Brom avrebbe potuto parlartene; lui c'era quando venne inferto il colpo fatàle. Prima della morte di Vrael, gli elfi affrontarono Galbatorix sulle pianure di Ilirea, nel nostro ultimo tentativo di sconfiggerlo. Lì Evandar...»
«Dove si trova Ilirea?» domandò Eragon.
«È Urù'baen, ragazzo» rispose Orik. «Un tempo era una città elfica.»
Imperturbabile malgrado l'interruzione, Lifaen continuò. «Come hai detto, Ilirea era una delle nostre città. Venne abbandonata durante la nostra guerra contro i draghi, e in seguito, dopo parecchi secoli, gli umani l'adottarono come propria capitale, dopo che re Palancar venne esiliato.»
«Re Palancar?» esclamò Eragon. «Chi era? È da lui che prese il nome la Valle Palancar?»
Questa volta l'elfo si voltò con un sorrisino divertito. «Hai tante domande quante foglie su un albero, Argetlam.» «Brom era della stessa opinione.»
Lifaen sorrise, restando in silenzio, come se stesse dando ordine ai propri pensieri. «Quando i tuoi antenati arrivarono in Alagaésia, ottocento anni fa, vagabondarono in lungo e in largo, in cerca di un posto adatto per vivere. Alla fine si stabilirono nella Valle Palancar, anche se non si chiamava così, allora, poiché era uno dei pochi luoghi difendibili che non avevamo occupato noi né i nani. Lì il vostro re, Palancar, cominciò a porre le basi di un potente regno. «Nel tentativo di espandere i confini, ci dichiarò guerra, benché noi non gli avessimo offerto alcun pretesto. Tre volte attaccò, e per tre volte annientammo il suo esercito. La nostra forza spaventò i nobili di Palancar, che implorarono il loro sovrano di fare la pace. Lui ignorò il loro consiglio. Allora i nobili ci offrirono un trattato, che firmammo all'insaputa del re.
«Con il nostro aiuto, Palancar fu detronizzato e bandito, ma lui, la sua famiglia e i loro vassalli si rifiutarono di lasciare la valle. Poiché non avevamo desiderio di ucciderli, costruimmo la torre di Ristvak'baen, perché i Cavalieri potessero sorvegliare Palancar e assicurarsi che non provasse più a riprendersi il potere o ad attaccare altri popoli di Alagaésia. «Non passò molto che Palancar fu assassinato da un figlio che non volle aspettare che la natura facesse il suo corso. Da quel momento in poi, la politica di famiglia fu tutto un susseguirsi riducendo il casato di Palancar all'ombra della sua grandezza di un abbandonarono mai quei luoghi, e il sangue dei re ancora scorre a Therinsford e a Carvahall.»
«Capisco» disse Eragon.
Lifaen inarcò un sopracciglio scuro. «Capisci? Significa molto più di quanto credi. Fu questo evento che convinse Anurin, il predecessore di Vrael come capo dei Cavalieri, a consentire agli umani di diventare Cavalieri, allo scopo di scongiurare altri conflitti.»
Orik scoppiò in una rauca risata. «Immagino che si sia sollevato un gran polverone.»
«Fu una decisione impopolare» ammise Lifaen. «Ancora oggi alcuni ne mettono in dubbio l'opportunità. Le tensioni fra Anurin e la regina Dellanir arrivarono a tal punto che Anurin decise di scindersi dal nostro governo e di condurre i Cavalieri a Vroengard, come entità indipendente.»
«Ma se i Cavalieri si separarono dal vostro governo, come potevano garantire la pace, ossia lo scopo per cui erano stati istituiti?» chiese Eragon.
«Non poterono» disse Lifaen. «Non finché la regina Dellanir non comprese che era fondamentale che i Cavalieri fossero indipendenti da qualunque signore o sovrano, e li riammise nella Du Weldenvarden. Ma non accettò mai il fatto che ci fosse un'autorità indipendente dalla sua.»
Eragon si accigliò. «Ma non era soltanto questo, vero?»
«Sì e no. Il compito dei Cavalieri era prevenire gli errori e garantire la pace fra i diversi governi e le razze, ma chi controllava i controllori? Fu questo il vero problema all'origine della loro caduta. Non c'era nessuno in grado di di omicidi, tradimenti e altre depravazioni,
tempo. Tuttavia i suoi discendenti non individuare le lacune nel sistema dei Cavalieri, poiché erano al di sopra di ogni indagine e giudizio, e così perirono.» Eragon continuava a pagaiare - prima da un lato, poi dall'altro - riflettendo sulle parole di Lifaen. Il remo gli vibrava nelle mani quando fendeva l'acqua. «Chi succedette a Dellanir come re o regina?»
«Fu Evandar. Salì al trono nodoso cinquecento anni fa, quando Dellanir abdicò per studiare i misteri della magia, e vi restò fino alla morte. Ora è la sua compagna, Islanzadi, che ci governa.»
«Ma è...» Eragon si fermò con la bocca aperta. Stava per dire impossibile, ma poi si rese conto di quanto ridicola sarebbe suonata la sua affermazione. Chiese invece: «Gli elfi sono immortali?»
Con voce soave, Lifaen rispose: «Un tempo eravamo come voi, delicati ed effimeri come la rugiada del mattino. Ora la nostra vita si allunga senza fine attraverso i secoli. Sì, siamo immortali, anche se restiamo vulnerabili alle ferite della carne.»
«Siete diventati immortali? Come?» L'elfo si rifiutò di rispondere, anche se Eragon insisteva per avere altri dettagli. Alla fine si accontentò di chiedere: «Quanti... quanti anni ha Arya?»
Lifaen posò i suoi occhi scintillanti su di lui, scrutando Eragon con sconcertante acutezza. «Arya? Quale interesse provi per lei?»
«Io...» Eragon si trovò a corto di parole, all'improvviso insicuro di ciò che provava. La sua attrazione per Arya era complicata dal fatto che lei era un'elfa, e che la sua età, qualunque fosse, doveva essere molto più avanzata della sua. Deve considerarmi un bambino. «Non lo so» rispose con sincerità. «Ma ha salvato la mia vita e quella di Saphira, e sono curioso di sapere qualcosa di più su di lei.»
«Mi vergogno» disse Lifaen, soppesando ogni parola «di averti fatto quella domanda. Fra di noi, è ritenuto scortese indagare sulle faccende degli altri... Solo che vorrei consigliarti, e credo che Orik sia d'accordo con me, di tenere a freno il tuo cuore, Argetlam. Non è questo il momento di perderlo, e la collocazione che vorresti dargli non è adeguata.» «Già» grugnì Orik.
Eragon si sentì avvampare, mentre il sangue gli affiorava alle guance scorrendo nelle vene come pece bollente. Prima di poter ribattere, Saphira entrò nella sua mente e disse: E adesso è il momento di tenere a freno la lingua. Le loro intenzioni sono oneste. Non insultarli.
Eragon trasse un profondo respiro e cercò di liberarsi dall'imbarazzo. Sei d'accordo con loro?
Eragon, io credo che tu sia pieno d'amore e che stia cercando qualcuno che ricambi il tuo sentimento. Non c'è nulla da vergognarsi in questo.
Il giovane si sforzò di accettare le sue parole, poi alla fine disse: Torni presto?
Sono già sulla strada.
Riportando la sua attenzione lì dove si trovava, Eragon si accorse che sia l'elfo che il nano lo stavano osservando. «Comprendo la vostra preoccupazione... ma ancora non hai risposto alla mia domanda.»
Lifaen esitò. «Arya è piuttosto giovane. È nata un anno prima della distruzione dei Cavalieri.»
Cento anni! Benché si fosse aspettato una cifra del genere, Eragon rimase ugualmente colpito. Nascose il suo stupore dietro un'espressione vacua, pensando: Potrebbe avere pronipoti più vecchi di me! Rimase in silenzio a rimuginare sulla scoperta per qualche minuto, poi, per distrarsi, disse: «Hai detto che gli umani scoprirono Alagaèsia ottocento anni fa. Ma Brom mi ha detto che arrivarono tre secoli dopo la formazione dei Cavalieri, ossia migliaia di anni fa.» «Duemilasettecentoquattro anni fa, secondo il nostro computo» intervenne Orik. «Brom aveva ragione, se consideri una sola nave con venti guerrieri come l'arrivo degli umani in Alagaèsia. Sbarcarono nel sud, dove si trova adesso il Surda. Ci incontrammo mentre noi eravamo in esplorazione, e ci scambiammo doni, ma poi loro partirono e noi non vedemmo più un umano per quasi due millenni, finché re Palancar non arrivò con un'intera flotta al seguito. Gli umani si erano del tutto dimenticati di noi, tranne che per qualche vaga storia di irsuti uomini-dellemontagne che rapivano i bambini di notte. Bah!»
«Sai da dove veniva Palancar?» chiese Eragon.
Orik aggrottò la fronte e si mangiucchiò la punta di un baffo, poi fece no con la testa. «Le nostre storie dicono solo che la sua patria era nel lontano sud, oltre i Beor, e che il suo esodo fu la conseguenza di una guerra e della carestìe.» Eccitato da un'idea, Eragon esclamò: «Allora forse ci sono altri paesi che potrebbero aiutarci nella guerra contro Galbatorix!»
«Può darsi» disse Orik. «Ma sarebbe difficile trovarli, anche a dorso di drago, e dubito che parleresti la stessa lingua. In ogni caso, chi vorrebbe aiutarci? I Varden hanno ben poco da offrire a un altro paese, ed è già abbastanza arduo muovere un esercito dal Farthen Dùr a Urù'baen, figurati spostare truppe da centinaia, se non migliaia di leghe di distanza.»
«E comunque non possiamo fare a meno di te» disse Lifaen a Eragon.
«Ma io...» Eragon s'interruppe quando Saphira comparve sul fiume, seguita da un furibondo stormo di passeri e merli che volevano tenerla lontana dai loro nidi. Allo stesso tempo, un coro di squittii si levò dalle schiere di scoiattoli nascosti fra i rami.
Lifaen s'illuminò e disse: «Non è splendida? Guardate come le sue squame catturano la luce! Non c'è tesoro al mondo che si possa paragonare a questo spettacolo.» Dall'altra canoa, Nari espresse analoghi apprezzamenti. «Già, magnificamente magnifico» borbottò Orik sotto i baffi. Eragon nascose un sorriso, anche se non poteva dar torto al nano: sembrava che gli elfi non ne avessero mai abbastanza di lodare Saphira.
Non c'è niente di male in qualche complimento, disse Saphira, che ammarò sollevando un ventaglio di spruzzi e tuffò la testa sotto la superficie per evitare un passero in picchiata.
Assolutamente niente, disse Eragon.
Saphira gli scoccò un'occhiata torva da sotto l'acqua. Era sarcasmo, quello?
Eragon ridacchiò e lasciò correre. Guardando l'altra canoa, vide Arya che pagaiava, la schiena dritta, il volto imperscrutabile, illuminata dai raggi del sole che filtravano dai rami muschiosi. Sembrava così cupa e assorta che gli fece venire voglia di consolarla. «Lifaen» disse sotto voce, perché Orik non lo sentisse, «perché Arya è così... infelice? Tu e...»
Le spalle di Lifaen s'irrigidirono sotto la tunica color ruggine e mormorò, così piano che Eragon lo udì a stento: «Siamo onorati di servire Arya Dròttningu. Ha sofferto molto più di quanto tu possa immaginare per il nostro popolo. Esultiamo di gioia per quanto è riuscita a compiere con Saphira, e piangiamo nei nostri sogni per il suo sacrificio... e la sua perdita. Le sue sofferenze sono le nostre, ma non posso rivelartele senza il suo permesso.»
Mentre era seduto presso il falò da campo, accarezzando un sasso coperto di muschio vellutato come pelo di coniglio, Eragon sentì un trambusto nella foresta. Scambiandosi un'occhiata con Saphira e Orik, s'incamminò furtivo verso il suono, con Zar'roc sguainata.
Si fermò sul ciglio di un piccolo burrone e guardò dall'altra parte, dove un girfalco con un'ala spezzata si trascinava in un letto di vischio. Il predatore s'impietrì nel vederlo, poi aprì il becco e lanciò uno strido lacerante. Che terribile fato, non poter più volare, disse Saphira.
Quando arrivò Arya, guardò il girfalco, poi incoccò una freccia all'arco e, con mira perfetta, lo trafisse al cuore. Lì per lì, Eragon pensò che lo avesse fatto per procacciare del cibo, ma l'elfa non accennò nemmeno ad andare a prendere l'uccello o la sua freccia.
«Perché?» domandò.
Con espressione dura, Arya s'infilò l'arco a tracolla e disse: «Era una ferita troppo grave perché potessi guarirla, e sarebbe morto fra stanotte e domattina. È la natura delle cose. Gli ho risparmiato ore di agonia.»
Saphira abbassò la testa e sfiorò Arya sulla spalla con il muso, poi tornò all'accampamento, la coda guizzante che strappava brani di corteccia dagli alberi. Quando Eragon fece per seguirla, si sentì tirare una manica da Orik, e si chinò ad ascoltare il nano che a bassa voce commentò: «Mai chiedere aiuto a un elfo. Potrebbe decidere che è meglio se muori, eh?»
Il canto di Dagshelgr
Benché stanco per le fatiche della giornata precedente, Eragon si costrinse ad alzarsi prima dell'alba nel tentativo di sorprendere uno degli elfi ancora addormentato. Era diventata una specie di gara per lui riuscire a svegliarsi prima degli elfi - se mai dormivano - per coglierli almeno una volta con gli occhi chiusi. Ma quel giorno non andò diversamente dagli altri.
«Buongiorno» lo salutarono Nari e Lifaen dall'alto. Eragon reclinò indietro la testa e vide che i due erano in piedi sul ramo di un pino, a circa cinquanta piedi dal suolo. Volteggiando di ramo in ramo con grazia felina, gli elfi saltarono a terra accanto a lui.
«Eravamo di vedetta» spiegò Lifaen.
«Perché?»
Arya comparve da dietro un tronco e disse: «Per i miei timori. Nella Du Weldenvarden ci sono molti misteri e pericoli, specie per un Cavaliere. Viviamo qui da migliaia di anni, e antichi sortilegi ancora aleggiano in luoghi inaspettati; la magia permea l'aria, l'acqua e la terra. In certi luoghi ha infettato gli animali. A volte strane creature vagano per la foresta, e non tutte sono amichevoli.»
«Sono...» Eragon s'interruppe nel sentir formicolare il gedwéy ignasia. Il martello d'argento appeso al collo che gli aveva donato Gannel divenne bollente sulla sua pelle, e avvertì l'incantesimo dell'amuleto attingere alla sua energia. Qualcuno stava tentando di divinarlo.
È Galbatorix? s'interrogò, spaventato. Afferrò la catena e la tirò fuori dalla tunica, pronto a strapparsela dal collo se fosse diventato troppo debole. Dall'altra parte del campo, Saphira accorse al suo fianco, sostenendolo con la propria energia.
Un istante dopo, il calore abbandonò il martello, che tornò freddo al tatto. Se lo fece rimbalzare sul palmo, poi se lo rimise sotto i vestiti, e Saphira disse: I nostri nemici ci cercano.
Nemici? Non potrebbe essere stato qualcuno del Du Vrangr Gaia?
Credo che Rothgar abbia avvertito Nasuada di aver ordinato a Gannel di darti questa catena fatata... Potrebbe essere stata persino lei a suggerire l'idea.
Arya s'incupì quando Eragon le spiegò che cos'era accaduto. «A questo punto è ancor più importante raggiungere Ellesméra alla svelta, perché tu possa riprendere il tuo addestramento. Gli eventi in Alagaésia stanno precipitando, e temo che non avrai tempo sufficiente per i tuoi studi.»
Eragon avrebbe desiderato discuterne ancora, ma perse l'occasione nella fretta di smontare le tende. Caricate le canoe e spento il fuoco, continuarono a risalire il fiume Gaena.
Erano sull'acqua da appena un'ora quando Eragon notò che il fiume diventava sempre più ampio e profondo. Qualche minuto dopo, giunsero vicino a una cascata che riempiva la Du Weldenvarden con il suo rombo scrosciante. La cataratta era alta un centinaio di piedi e scorreva lungo una parete rocciosa con una cornice sporgente che rendeva impossibile l'arrampicata. «Come facciamo a passare?» Sentiva già gli spruzzi freddi sul viso.
Lifaen indicò la riva sinistra, a una certa distanza dalla cascata, dove l'uso aveva scavato un sentiero sul ripido rilievo. «Dovremo trasportare le canoe e le provviste per mezza lega prima di rimetterci sul fiume.»
I cinque slegarono i fagotti infilati sotto le panche delle canoe e divisero le provviste per infilarle negli zaini. «Uff» sbuffò Eragon sollevando il peso. Era due volte più pesante di quanto era abituato a trasportare di solito a piedi. Potrei portarli in volo oltre la cascata... tutti quanti, si offrì Saphira, strisciando sulla riva fangosa e scrollandosi l'acqua di dosso.
Quando Eragon ripete il suggerimento, Lifaen fece una faccia inorridita. «Non ci sogneremmo mai di usare un drago come bestia da soma. Sarebbe un disonore per te, Saphira, e per Eragon come Shur'rugai, e getterebbe la vergogna sulla nostra ospitalità.»
Saphira sbuffò, esalando una piccola fiammata dalle narici che creò una nube di vapore sulla superficie del fiume. Che sciocchezze. Scavalcando Eragon con una delle possenti zampe, infilò gli artigli negli spallacci degli zaini ammucchiati, e spiccò il volo. Prendetemi, se vi riesce!
Una risata argentina ruppe il silenzio, come il trillo di un usignolo. Sbigottito, Eragon si volse e guardò Arya. Era la prima volta che la sentiva ridere; amò quel suono. L'elfa sorrise a Lifaen. «Hai ancora molto da imparare se pensi di dire a un drago cosa può o non può fare.»
«Ma il disonore... »
«Non c'è disonore se Saphira lo fa di sua spontanea volontà» dichiarò Arya. «E adesso muoviamoci, senza perdere altro tempo.»
Sperando che lo sforzo non gli risvegliasse il dolore alla schiena, Eragon prese la canoa con Lifaen e se la mise in spalla. Fu costretto ad affidarsi all'elfo per seguire la pista, dato che vedeva soltanto il terreno sotto i suoi piedi. Un'ora dopo, arrivarono in cima al dislivello e oltrepassarono le pericolose acque spumeggianti fino a quando il Gaena tornò a essere calmo come uno specchio. Ad aspettarli c'era Saphira, impegnata a catturare pesci nell'acqua bassa, tuffando la testa triangolare nell'acqua come un airone.
Arya la chiamò e disse a lei e a Eragon: «Oltre la prossima ansa si trova il lago Ardwen e sulla sua sponda occidentale Silthrim, una delle nostre città più grandi. Superata quella, ancora una vasta estensione di foresta ci separa da Ellesméra. Incontreremo molti elfi vicino a Silthrim. Tuttavia non voglio che vedano nessuno di voi due finché non avremo parlato con la regina Islanzadi.»
Perché? chiese Saphira, anticipando il pensiero di Eragon.
Con la sua voce musicale, Arya rispose: «La vostra presenza rappresenta un enorme e terribile cambiamento per il nostro regno, e tali cambiamenti sono pericolosi se affrontati senza cautela. La regina dovrà essere la prima a incontrarvi. Soltanto lei possiede l'autorità e la saggezza per sovrintendere a questa transizione.» «Parli con grande stima di lei» commentò Eragon.
A queste parole, Narì e Lifaen si fermarono a guardare Arya con occhi vigili. Il volto di lei si oscurò, poi raddrizzò le spalle e disse fiera: «Il suo è un buon governo... Eragon, so che possiedi un mantello col cappuccio. Finché non saremo lontani da occhi indiscreti, vorrei che tu lo indossassi e tenessi il capo celato, perché nessuno veda le tue orecchie rotonde e capisca che sei umano.» Eragon annuì. «Saphira, tu dovrai nasconderti di giorno e raggiungerci di notte. Ajihad mi ha detto che facevi così nei territori dell'Impero.»
Già, e ne ho odiato ogni istante, ringhiò lei.
«È soltanto per oggi e per domani. Dopo, saremo abbastanza lontani da Silthrim da non doverci più preoccupare d'incontrare qualcuno» promise Arya.
Saphira rivolse il suo sguardo azzurro a Eragon. Quando siamo fuggiti dall'Impero, ho giurato che ti sarei sempre rimasta accanto per proteggerti. Ogni volta che mi allontano, succede sempre qualcosa di brutto: Yazuac, Daret, Dras-Leona, i mercanti di schiavi.
Non a Teirm.
Sai cosa voglio dire E non sopporto l'idea di lasciarti proprio adesso che non puoi difenderti, con quella schiena malandata.
Confido in Arya e negli altri, saranno loro a difendermi. Tu no?
Saphira esitò. Mi fido di Arya. Si volse e s'incamminò lungo la riva del fiume, dove si accucciò per un minuto; poi tornò. D'accordo. Trasmise il suo consenso ad Arya, aggiungendo: Ma non voglio aspettare oltre domani notte, nemmeno se in quel momento vi troverete al centro di Silthrim.
«Capisco» disse Arya. «Ma dovrai stare comunque attenta anche quando volerai col buio, poiché gli elfi hanno la vista acuta anche nelle notti più nere. Se ti avvistano per sbaglio, potrebbero attaccarti con la magia.» Splendido, commentò Saphira.
Mentre Orik e gli elfi caricavano di nuovo le provviste a bordo delle canoe, Eragon e Saphira esplorarono la foresta in cerca di un nascondiglio sicuro. Scelsero un avvallamento asciutto tra alcune rocce franate, ricoperto da un morbido tappeto di aghi di pino. Saphira si acciambellò sul terreno e fece un cenno con la testa. Va' pure. Io starò bene. Eragon le cinse il collo, attento a evitare le punte acuminate; poi si congedò a malincuore, continuando a guardarsi alle spalle. Sulla riva, indossò il mantello col cappuccio prima di riprendere il viaggio.
L'aria era immota quando raggiunsero il lago Ardwen, e la distesa d'acqua era liscia e piatta, uno specchio immacolato che rifletteva alberi e nuvole. L'illusione era così perfetta da dare a Eragon l'impressione di scorgere un altro mondo attraverso una finestra, e che le canoe sarebbero finite per sprofondare nel cielo riflesso. Rabbrividì al pensiero. Nella caligine che offuscava l'orizzonte, numerose imbarcazioni di corteccia di betulla sfrecciavano lungo le sponde, spinte a incredibile velocità dalla forza degli elfi. Eragon nascose la testa fra le spalle e si calò il bordo del cappuccio sul viso.
Il suo legame con Saphira diventava sempre più tenue a mano a mano che si allontanavano, finché soltanto un esile filamento di pensiero non rimase a collegarli. A sera, non riuscì più a percepire la sua presenza, pur sforzando al massimo la mente. All'improvviso, la Du Weldenvarden gli parve molto più solitària e desolata.
Con il calar delle tenebre, un miglio più avanti, comparve un grappolo di luci bianche, disseminate a diverse altezze fra gli alberi. Le luci sfolgoravano con la radiosità argentea della luna piena, misteriose e soprannaturali nella notte. «Quella è Sìlthrim» annunciò Lifaen.
Con un fievole sciabordio, un'imbarcazione scura li incrociò dalla direzione opposta, accompagnata dal "Kvetha Fricai" dell'elio al timone.
Arya accostò la sua canoa a quella di Eragon. «Ci fermeremo qui, stanotte.»
Si accamparono a una certa distanza dal lago Ardwen, dove il terreno era abbastanza asciutto per dormirci. Gli sciami di zanzare fameliche costrinsero Arya a evocare un incantesimo protettivo perché potessero mangiare in pace. Dopo cena, rimasero tutti e cinque seduti intorno al fuoco, fissando le fiamme dorate. Eragon appoggiò la testa a un albero e guardò una stella cadente solcare il cielo. Le sue palpebre stavano per chiudersi quando una voce di donna attraversò la foresta giungendo da Sìlthrim, un fievole sussurro che gli solleticò l'orecchio come una lanugine. Aggrottò la fronte e raddrizzò la schiena, per ascoltare meglio.
Come un filo di fumo che si infittisce quando un fuoco appena acceso divampa, così la voce crebbe sempre più d'intensità finché la foresta sospirò di una struggente, incostante melodia che alternava toni bassi e acuti in un selvaggio abbandono. Altre voci si fusero al canto ultraterreno, intrecciando centinaia di variazioni al tema originale. L'aria stessa sembrava vibrare al ritmo della musica tumultuosa.
Eragon si sentì percorrere la spina dorsale da brividi di euforia e terrore, suscitati dagli arcani motivi che gli ottenebravano i sensi, attirandolo nella notte vellutata. Sedotto dalle note misteriose, balzò in piedi e fece per slanciarsi nella foresta in cerca della sorgente di quelle voci, desideroso di danzare fra gli alberi e il muschio, di fare qualsiasi cosa pur di unirsi alla gioia degli elfi. Ma prima che potesse muovere un solo passo, Arya lo afferrò per un braccio e lo fece girare verso di lei. «Eragon! Sgombra la mente!» Lui si divincolò nel vano tentativo di liberarsi dalla sua stretta. «Eyddr eyreya onr!» Svuota le orecchie. All'improvviso ogni rumore cessò; era come se fosse diventato sordo. Smise di dibattersi e si guardò intorno, chiedendosi che cosa fosse successo. Dall'altra parte del falò, vide Lifaen e Nari che lottavano contro Orik, ma non sentì niente.
Eragon guardò la bocca di Arya muoversi mentre parlava, poi il suono tornò nel suo mondo con un pop, anche se non udiva più la musica. «Cosa...?» domandò, frastornato.
«Levatemi le zampe di dosso!» ringhiò Orik. Lifaen e Nari alzarono le mani e indietreggiarono.
«Ti chiedo perdono, Orik-vodhr» disse Lifaen.
Arya guardò verso Silthrim. «Ho contato male i giorni. Non volevo trovarmi vicino a nessuna città durante il Dagshelgr. I nostri festeggiamenti sono pericolosi per i mortali. Cantiamo nell'antica lingua, e le liriche intrecciano sortilegi di passione e struggimento a cui è difficile resistere, persino per noi elfi.»
Nari si agitò, a disagio. «Dovremmo trovarci in un boschetto.»
«Lo so» disse Arya, «ma faremo il nostro dovere e aspetteremo.»
Scosso, Eragon tornò a sedersi accanto al fuoco, desiderando la compagnia di Saphira; era sicuro che lei avrebbe protetto la sua mente dall'influsso della musica. «A che serve il Dagshelgr?» chiese.
Arya si sedette accanto a lui, a gambe incrociate. «Serve a mantenere la foresta sana e fertile. Ogni primavera cantiamo per gli alberi, cantiamo per le piante, e cantiamo per gli animali. Senza di noi, la Du Weldenvarden sarebbe la metà di come la vedi.» Come a conferma delle sue parole, uccelli, cervi, scoiattoli rossi e neri, tassi striati, volpi, conigli, lupi, rane, rospi, tartarughe e ogni altro animale nei pressi, abbandonarono i loro nascondigli per correre selvaggiamente intorno a loro in una cacofonia di versi e strida. «Cercano un compagno o una compagna» spiegò Arya. «In tutta la Du Weldenvarden, in tutte le nostre città, gli elfi intonano questa canzone. Più sono coloro che partecipano, più forte è l'incantesimo, e più prospera sarà la Du Weldenvarden quest'anno.»
Eragon ritrasse una mano di scatto quando un terzetto di porcospini gli trotterellò accanto a una coscia. L'intera foresta riecheggiava di suoni. Sono entrato nel mondo delle fiabe, si disse, cingendosi le ginocchia.
Orik si avvicinò al falò e alzò la voce per superare il frastuono. «Per la mia barba e la mia ascia, non mi farò controllare dalla magia contro la mia volontà. Se questo dovesse accadere di nuovo, Arya, giuro sulla cintura di pietra di Helzvog che tornerò nel Farthen Dùr e dovrete affrontare l'ira del Dùrgrimst Ingietum.»
«Non era mia intenzione farvi sperimentare il Dagshelgr» disse Arya. «Chiedo scusa per il mio errore. Tuttavia, anche se ti proteggo da questo incantesimo, non puoi sfuggire alla magia nella Du Weldenvarden. Essa permea ogni cosa.» «Purché non mi spappoli il cervello.» Orik scosse il capo e accarezzò il manico della sua ascia, scrutando le bestie selvatiche che strisciavano nelle ombre che lambivano il cono di luce del falò.
Nessuno dormì quella notte. Eragon e Orik rimasero svegli per il fracasso tremendo degli animali che continuavano a scorrazzare intorno alle tende; gli elfi perché ascoltavano la canzone. Lifaen e Narì tracciarono cerchi infiniti camminando inquieti, mentre Arya fissava la lontana Silthrim con espressione bramosa, la pelle scura tesa sugli zigomi. Dopo quattro ore di chiasso e movimento, Saphira scese dal cielo, gli occhi che le brillavano di una strana luce. Rabbrividì e inarcò il collo, ansimando con le fauci aperte. La foresta, disse, è viva. E io sono viva. Il sangue mi ribolle come mai prima d'ora. Lo sento bruciare come accade a te quando pensi ad Arya. Ora... capisco! Eragon le posò una mano sulla spalla, sentendo i brividi che la scuotevano; i suoi fianchi vibravano mentre la dragonessa mormorava a bocca chiusa la canzone. Artigliò il terreno con le unghie d'avorio, i muscoli contratti nello sforzo di restare immobile. La punta della coda guizzava, come se Saphira fosse pronta a balzare. Arya si alzò e si spostò dall'altro lato della dragonessa, mettendole una mano sull'altra spalla, e i tre rimasero così nel buio, uniti in una catena vivente.
Allo spuntar dell'alba, la prima cosa che Eragon notò furono i verdi germogli che spuntavano alle estremità dei rami. Si chinò ed esaminò le bacche bianche ai suoi piedi e scoprì che ogni pianta, grande o piccola, era cresciuta durante la notte. La foresta sfolgorava di nuovi, più ricchi colori: tutto era rigoglioso e fresco e pulito. L'aria aveva il profumo di quando è appena piovuto.
Saphira si stiracchiò al fianco di Eragon e disse: La... la febbre è passata; sono di nuovo me stessa. Ho sentito certe cose... Era come se il mondo stesse rinascendo e io partecipassi alla sua creazione con il fuoco dei miei lombi. Come stai? Dentro, voglio dire.
Mi ci vorrà del tempo per comprendere quanto ho sperimentato.
Dato che la musica era cessata, Arya sciolse l'incantesimo di protezione per Eragon e Orik e disse: «Lifaen. Nari. Andate a Silthrim a prendere dei cavalli per noi cinque. Non possiamo camminare fino a Ellesméra. Inoltre avvertite il capitano Damitha che Ceris ha bisogno di rinforzi.»
Narì s'inchinò. «E cosa le diremo quando ci chiederà perché abbiamo abbandonato il nostro posto?» «Ditele che ciò che un tempo sperava e temeva si è avverato; il wyrm si è morso la coda. Lei capirà.» I due elfi partirono per Silthrim dopo aver svuotato le canoe dalle provviste. Tre ore dopo, Eragon sentì uno schiocco secco e alzò lo sguardo, vedendoli tornare per la foresta in groppa a fieri stalloni bianchi, conducendone altri quattro identici. Le magnifiche bestie si muovevano fra gli alberi con grazia e intelligenza straordinarie; i loro mantelli rilucevano di riflessi smeraldini. Nessuno di loro aveva selle o briglie.
«Blòthr, blòthr» mormorò Lifaen, e il suo cavallo si fermò, scalpitando con gli zoccoli scuri.
«Tutti i vostri cavalli sono così eleganti?» chiese Eragon. Si avvicinò con cautela a uno di essi, colpito dalla sua bellezza. Gli animali erano poco più alti di un pony, il che rendeva loro più facile muoversi per la fitta foresta. Non sembravano spaventati da Saphira.
«Non tutti» rise Nari, scrollando gli argentei capelli, «ma la maggior parte sì. Li alleviamo da secoli.» «Come faccio a guidarli?»
Rispose Arya: «Un cavallo elfico risponde ai comandi nell'antica lingua; digli dove vuoi andare e lui ti ci porterà. Non trattarli mai con percosse o parole dure, poiché essi non sono nostri schiavi, ma amici e compagni. Ti portano solo perché vogliono farlo; è un grande privilegio cavalcarli. Io sono riuscita a salvare l'uovo di Saphira da Durza soltanto perché i nostri cavalli percepirono che qualcosa non andava e ci impedirono di finire dritti nell'agguato... Non ti faranno mai cadere, a meno che non tu non scelga di lanciarti, e sono capaci di scegliere la via più sicura e veloce sui terreni accidentati. Le Feldùnost dei nani sono molto simili.»
«Puoi ben dirlo» borbottò Orik. «Una Feldùnost è in grado di condurti su e giù per una rupe senza un solo graffio. Ma come facciamo a trasportare i viveri e le altre cose senza selle? Non posso cavalcare con un pesante zaino in spalla.» Lifaen gli gettò ai piedi una pila di bisacce vuote e indicò il sesto cavallo. «Non lo farai.»
Nari disse a Eragon e Orik le parole da usare per dirigere i cavalli. «Ganga fram per andare avanti, blòthr per fermarlo, hlaupa per lanciarlo al galoppo e ganga aptr per andare indietro. Puoi dargli istruzioni più precise, se conosci l'antica lingua.» Condusse Eragon davanti a un cavallo e disse: «Questo è Folkvir. Tendi la mano.»
Eragon lo fece, e lo stallone sbuffò, dilatando le froge. Folkvir annusò il palmo di Eragon, poi lo toccò col muso e gli permise di accarezzargli il collo muscoloso. «Bene»
disse Nari, soddisfatto. L'elfo fece altrettanto con Orik e un altro cavallo.
Quando Eragon montò su Folkvir, Saphira si avvicinò. Lui la guardò e notò quanto ancora era turbata per la notte passata. Ancora un giorno soltanto, le disse.
Eragon... La dragonessa fece una pausa. Ho pensato molto mentre ero sotto l'influenza dell'incantesimo elfico a qualcosa che ho sempre ritenuto di poca importanza, qualcosa che ora incombe su di me come una montagna di nera paura. Ogni creatura, che sia pura o mostruosa, ha un compagno della sua specie. Ma io no. Rabbrividì e chiuse gli occhi. Io sono sola.
La sua affermazione rammentò a Eragon che non aveva più di otto mesi. Nella maggior parte delle occasioni, la sua giovane età non si sentiva - grazie all'influenza dei suoi istinti e dei ricordi ancestrali - ma in questo campo era ancora più inesperta di lui, con i flebili palpiti di romanticismo che aveva provato a Carvahall e a Tronjheim. Si sentì muovere a compassione, ma la scacciò prima che potesse filtrare attraverso il loro legame mentale. Saphira avrebbe soltanto disprezzato quell'emozione: non poteva risolvere il problema né farla sentire meglio. Invece disse: Galbatorix possiede ancora due uova di drago. Durante il nostro primo colloquio con Rothgar, tu dicesti che avresti voluto recuperarle. Se riusciamo...
Saphira sbuffò amaramente. Potrebbero volerci anni, e se anche riuscissimo a prendere le uova, non è detto che si schiuderebbero, o che sarebbero maschi, o che sarebbero compagni adeguati. Il fato ha condannato la mia razza all'estinzione. Dimenò la coda in un impeto di frustrazione, spezzando un alberello. Sembrava pericolosamente vicina alle lacrime.
Che cosa posso dire? domandò lui, turbato dalla sua angoscia. Non puoi abbandonare la speranza. Hai ancora una probabilità di trovare un compagno, ma devi essere paziente. E se anche le uova di Galbatorix non dovessero andare bene, devono esistere altri draghi da qualche parte nel mondo, come gli umani, gli elfi o perfino gli Urgali. Nel momento in cui avremo assolto a tutti i nostri obblighi, ti aiuterò a cercarli. D'accordo?
D'accordo, accettò lei, tirando su col naso. Reclinò indietro la testa ed esalò una nuvoletta di fumo bianco che si disperse fra i rami. Non avrei dovuto farmi travolgere dalle emozioni.
Sciocchezze. Non sei fatta di pietra. È una cosa assolutamente normale... Ma promettimi di non rimuginarci sopra quando sei da sola.
Lei lo fissò con un occhio di zaffiro. Lo prometto. Lui si sentì rincuorato avvertendo la gratitudine della dragonessa per le sue rassicurazioni e la sua compagnia. Sporgendosi da Folkvir, le posò una mano sulla guancia ruvida e ve la lasciò per un momento. arrivederci, piccolo mio, mormorò lei. Ci vediamo stasera.
Eragon odiava l'idea di separarsi da lei in quello stato. A malincuore si addentrò nella foresta con Orik e gli elfi, dirigendosi a ovest, verso il cuore della Du Weldenvarden. Dopo un'ora passata a riflettere in silenzio sui crucci di Saphira, ne parlò con Arya.
Sottilissime rughe incresparono la fronte dell'elfa. «Questo è uno dei crimini più grandi di Galbatorix. Non so se esiste una soluzione, ma possiamo sperare. Dobbiamo sperare.»
La città fra i pini
Eragon si trovava nella Du Weldenvarden da così tanto tempo che cominciava ad aver voglia di radure, spazi aperti, magari addirittura una montagna, invece delle infinite schiere di alberi intervallate appena da sparuti cespugli. E non provava sollievo nemmeno durante i voli con Saphira poiché gli mostravano soltanto vaste colline verdeggianti che si susseguivano ininterrotte come un verde oceano.
Talvolta i rami erano così fitti che era impossibile capire da quale parte il sole sorgeva o tramontava. La mancanza del sole come riferimento e la monotonia del paesaggio lo facevano sentire smarrito, nonostante tutte le volte che Arya o Lifaen gli avevano indicato i punti cardinali. Se non fosse stato per gli elfi, sapeva che avrebbe potuto vagare per la Du Weldenvarden per il resto della sua vita senza mai trovarne l'uscita.
Quando pioveva, la coltre di nubi e la densità del fogliame li facevano piombare in una fitta tenebra, come se fossero sepolti sottoterra. L'acqua scrosciante si raccoglieva sugli aghi di pino per poi gocciolare dall'alto sulle loro teste come un migliaio di piccole cascate. In quelle occasioni, Arya evocava un globo sfavillante di magia verde che fluttuava sulla sua mano destra, unica fonte di luce nella buia foresta. Si fermavano e si rannicchiavano sotto un albero finché il temporale non cessava, ma anche ore dopo l'acqua intrappolata nella miriade di rami si riversava sul gruppo alla minima sollecitazione.
Più si addentravano nel cuore della Du Weldenvarden, più gli alberi diventavano alti e massicci, sebbene più distanziati per ospitare la maggiore ampiezza dei rami. I tronchi - nudi pilastri marroni che svettavano fino alla volta scanalata e nera di ombre - superavano i duecento piedi, molto più alti di qualsiasi albero della Grande Dorsale o dei Monti Beor. Eragon girò intorno alla base di un tronco e misurò una circonferenza di settanta piedi. Quando lo disse ad Arya, lei annuì. «Significa che siamo vicini a Ellesméra.» L'elfa allungò una mano e la posò su una radice contorta, come a toccare, con familiare delicatezza, la spalla di un amico o di un amante. «Questi alberi sono fra le più antiche creature viventi di Alagaésia. Gli elfi se ne sono innamorati la prima volta che vedemmo la Du Weldenvarden, e abbiamo fatto tutto quanto era in nostro potere per aiutarli a prosperare.» Un debole raggio di luce attraversò la volta smeraldina e bagnò il suo braccio e il suo viso d'oro liquido, facendoli risaltare sullo sfondo scuro. «Abbiamo viaggiato molto insieme, Eragon, ma soltanto adesso stai per entrare nel mio mondo. Cammina piano, poiché la terra e l'aria sono carichi di ricordi, e niente è come sembra... Non volare con Saphira quest'oggi, poiché abbiamo già attivato alcuni degli incantesimi di difesa che proteggono Ellesméra. Non sarebbe prudente lasciare il sentiero.» Eragon chinò la testa e tornò da Saphira, che giaceva raggomitolata su un letto di muschio, divertendosi a soffiare dalle narici nuvolette di fumo che poi guardava dissolversi in aria. Senza tanti preamboli, lei disse: Ormai c'è abbastanza spazio per me sul terreno. Non avrò difficoltà.
Bene. Eragon montò su Folkvir e seguì Orik e gli elfi sempre più nel folto della foresta deserta e silenziosa. Saphira strisciava al suo fianco. La dragonessa azzurra e i cavalli bianchi rilucevano nella cupa penombra. Eragon sostò per qualche minuto, soggiogato dalla solenne bellezza che lo circondava. Tutto emanava un senso di gelida antichità, come se nulla fosse cambiato nel corso dei secoli sotto l'intrico di aghi di pino, e nulla potesse cambiare; il tempo stesso sembrava essere caduto in una specie di torpore da cui non si sarebbe mai svegliato. Nel tardo pomeriggio, dall'oscurità emerse un elfo, illuminato da un raggio di luce che pioveva fra i rami. Indossava una lunga veste fluttuante e un cerchietto d'argento sulla fronte. Il suo volto era vecchio, nobile e sereno. «Eragon» mormorò Arya. «Mostragli il tuo palmo e il tuo anello.»
Togliendosi il guanto Eragon alzò la mano destra a mostrare prima l'anello di Brom e poi il gedwéy ignasia. L'elfo sorrise, chiuse gli occhi e allargò le braccia in segno di benvenuto.
«La via è libera» disse Arya, poi mormorò un dolce comando e il suo cavallo riprese a camminare. Aggirarono l'elfo come l'acqua di un torrente si divide intorno alla base di un macigno - e quando furono tutti passati, l'elfo abbassò le braccia e scomparve, mentre la luce che lo illuminava cessava di esistere.
Chi è? domandò Saphira.
«Gilderien il Saggio» rispose Arya, «Principe del Casato di Miolandra, depositario della Bianca Fiamma di Vàndil, e guardiano di Ellesméra fin dai tempi della Du Fyrn Skulblaka, la nostra guerra contro i draghi. Nessuno può entrare nella città senza il suo permesso.»
Un quarto di miglio più avanti, la foresta si diradò e nella volta di rami comparvero squarci da cui filtravano raggi di sole simili a sbarre di un cancello di luce. Proseguirono sotto due alberi nodosi, inclinati l'uno verso l'altro, e si fermarono ai margini di una radura deserta.
Il suolo era ricoperto da un tappeto di fiori: rose, campanule, gigli, tutti gli effimeri tesori della primavera scintillavano come cumuli di rubini, zaffiri e opali. Il loro profumo inebriante attirava sciami di bombi. A destra, un ruscello gorgogliava dietro una siepe di arbusti, mentre due scoiattoli si rincorrevano intorno a una roccia. Al principio Eragon pensò che fosse un luogo ideale per i cervi, ma continuando a osservare, cominciò a scorgere sentieri nascosti fra gli alberi e i cespugli; una calda luce soffusa dove normalmente avrebbero dovuto esserci ombre scure; strane conformazioni nella disposizione dei rami e dei fiori, così sottili che si vedevano appena: tutti indizi del fatto che quanto vedeva non era del tutto naturale. Batte le palpebre, e la sua visione cambiò all'improvviso, come se si fosse posto davanti agli occhi una lente che rendeva riconoscibili le sagome. Sì, quelli erano sentieri. E sì, quelli erano fiori. Ma ciò che aveva scambiato per gruppi di alberi contorti erano in realtà eleganti costruzioni che crescevano direttamente dai pini.
Il tronco di un albero aveva un rigonfiamento intorno alla base che formava una casa di due piani, prima di affondare le radici nel terriccio. Entrambi i piani erano esagonali, anche se quello superiore era grande la metà del primo, dando alla casa un aspetto terrazzato. I tetti e le pareti erano rivestiti di falde di legno intrecciate, addossate a sei robuste nervature in rilievo. Muschio e licheni gialli orlavano le grondaie e pendevano sulle finestre che si affacciavano su ciascun lato. La porta d'ingresso era una misteriosa sagoma nera incassata sotto un arco intagliato di simboli. Un'altra casa era annidata fra tre pini, uniti a essa mediante una serie di rami ricurvi. Rinforzata da questi bastioni aerei, la casa si ergeva per ben cinque piani, leggera ed eterea; al suo fianco si apriva un pergolato fatto di salice e sanguinella, con numerose lanterne senza fiamma a foggia di galle.
Ogni edificio si integrava perfettamente con l'ambiente circostante, fondendosi con la foresta senza linee di demarcazione evidenti, tanto che era impossibile dire dove finisse l'artificio e cominciasse la natura: i due erano in perfetto equilibrio. Invece di dominare l'ambiente, gli elfi avevano scelto di accettare il mondo com'era e di adattarsi a esso.
Alla fine, gli abitanti di Ellesméra si rivelarono con un debole movimento che Eragon colse con la coda dell'occhio, non più di un fruscìo di aghi nella brezza. Poi vide mani, un volto pallido, un piede che calzava un sandalo, un braccio alzato. Uno dopo l'altro, con aria circospetta, gli elfi si palesarono, gli occhi a mandorla fissi su Saphira, Arya ed Eragon.
Le donne portavano i capelli sciolti, che ricadevano sulle loro spalle in morbide onde d'argento e d'ebano intrecciate di fiori freschi. Tutte possedevano una delicata, eterea bellezza che dissimulava la loro forza straordinaria; sembravano prive di qualsiasi difetto. Gli uomini erano altrettanto attraenti, con zigomi alti, nasi diritti e palpebre pesanti. Sia i maschi che le femmine indossavano rustiche tuniche verdi e marroni, bordate con i colori dell'autunno: arancio, ruggine e oro.
Questo è davvero il Popolo Leggiadro, pensò Eragon, e si toccò le labbra in segno di saluto.
Come un sol uomo, gli elfi si inchinarono. Poi sorrisero e levarono risate di gioia sfrenata. Dal centro della folla, una donna intonò:
Gala O Wyrda brunhvitr, Abr Berundal vandr-fódhr, Burthro laufsblàdar ekar undir, Eom kona dauthleikr... Eragon si tappò le orecchie con le mani, temendo che la melodia fosse un incantesimo simile a quello che aveva udito a Sìlthrim, ma Arya scosse il capo e gli scostò le mani dal volto. «Non è magia.» Poi si rivolse al cavallo. «Ganga.» Lo stallone nitrì e trottò via. «Congedate i vostri cavalli. Non abbiamo più bisogno di loro ed essi meritano di riposarsi nelle nostre stalle.»
La canzone crebbe d'intensità mentre Arya avanzava lungo un sentiero lastricato di frammenti di tormalina verde, che serpeggiava fra i cespugli di malvone e le case e gli alberi per poi attraversare un ruscello. Gli elfi danzavano intorno al gruppo, girando su se stessi e ridendo come bambini giocosi; di tanto in tanto qualcuno saltava su un ramo per correre sopra le loro teste. Lodavano Saphira con nomi quali Lungartiglio oppure Figlia dell'Aria e del Fuoco o anche la Possente.
Eragon sorrideva estasiato. Potrei restare a vivere qui, si disse, pervaso da un grande senso di pace. Nascosto nel cuore della Du Weldenvarden, con tanto spazio aperto e tanti anfratti sicuri, dimentico del resto del mondo... Sì, gli piaceva molto Ellesméra, molto più di qualsiasi città dei nani. Indicò una costruzione situata in un pino e chiese ad Arya: «Come fate?»
«Cantiamo alla foresta nell'antica lingua e le diamo la nostra forza per crescere nelle forme che desideriamo. Tutti i nostri manufatti sono realizzati così.»
Il sentiero terminava davanti a un fitto intrico di radici che formavano una serie di nudi gradini. Salirono verso un portale incassato in una parete di giovani alberelli. Il cuore di Eragon accelerò quando i battenti si spalancarono, all'apparenza da soli, per rivelare un'enorme sala alberata. Centinaia di rami si intrecciavano a formare un soffitto a nido d'ape; lungo ciascuna delle due pareti erano disposti dodici scranni.
Su di essi erano seduti ventiquattro elfi, fra dame e signori.
D'aspetto nobile e saggio, con volti lisci senza traccia di età e occhi sagaci che scintillavano di eccitazione, gli elfi si protesero con le mani strette sui braccioli degli scranni, e fissarono il gruppo di Eragon con evidente stupore e speranza. Diversamente dagli altri elfi, portavano spade alla cintura - le impugnature tempestate di berilli e granati - e cerchietti sulla fronte.
In fondo spiccava un padiglione bianco che ospitava un trono di radici nodose, su cui era seduta la regina Islanzadi. Bella come un tramonto d'autunno, altera e orgogliosa, con due scure sopracciglia oblique come ali spiegate, labbra rosse e lucenti come bacche di agrifoglio e capelli neri come la notte cinti da un diadema di diamanti. La sua veste era cremisi. Intorno ai fianchi portava una cintura di filigrana d'oro, e sulle spalle un mantello di velluto che ricadeva in terra in morbide pieghe. Malgrado il suo aspetto imperioso, la regina sembrava fragile, come se nascondesse un grande dolore.
Accanto alla mano sinistra c'era un trespolo ricurvo che terminava con una croce cesellata. Su di esso se ne stava appollaiato un corvo dal candido piumaggio, che spostava impaziente il peso da una zampa all'altra. Tese il collo e scrutò Eragon con straordinaria intelligenza, poi emise un lungo verso rauco e gridò: «Wyrda!» Eragon rabbrividì per la potenza di quell'unica parola gracchiante.
La porta si chiuse dietro i sei, non appena entrarono nella sala avvicinandosi alla regina. Arya s'inginocchiò sul pavimento coperto di muschio e chinò la testa per prima, poi Eragon, Orik, Lifaen e Nari la imitarono. Perfino Saphira, che non si era mai inchinata davanti a nessuno, nemmeno davanti ad Ajihad o a Rothgar, abbassò la testa. Islanzadi si alzò e scese dal trono; lo strascico del mantello fluttuò sulle radici del podio. Si fermò davanti ad Arya, le posò le mani tremanti sulle spalle e disse, con un profondo vibrato: «Alzati.» Arya obbedì, e la regina scrutò il suo volto con tensione crescente, come se stesse cercando di decifrare un testo oscuro.
Alla fine Islanzadi le gettò le braccia al collo, gridando: «Ti ho trattata ingiustamente, figlia mia!»
La regina Islanzadi
Eragon s'inginocchiò al cospetto della regina degli elfi e dei suoi consiglieri in quella sala meravigliosa fatta di tronchi di alberi viventi, in una terra quasi mitica, e l'unica cosa che riusciva a pensare, sbalordito, era: Arya è una principessa! In un certo senso, i conti tornavano - l'elfa aveva sempre avuto una certa aria regale - ma il suo rammarico era profondo, poiché era un'altra barriera fra loro, se mai fosse riuscito ad abbattere le altre. La scoperta gli riempì la bocca col sapore della cenere. Rammentò la profezìa di Angela, secondo cui avrebbe amato una donna di nobile stirpe, e che non era in grado di prevedere se sarebbe andata a finire bene o male.
Percepì anche la sorpresa di Saphira, poi il suo divertimento. La dragonessa disse: A quanto pare abbiamo viaggiato in compagnia di sangue reale senza saperlo.
Perché non ce l'ha detto?
Perché probabilmente questo l'avrebbe messa in pericolo.
«Islanzadi Dròttning» disse Arya in tono formale.
La regina si ritrasse come se l'avessero schiaffeggiata, poi ripetè nell'antica lingua: «Figlia mia, ti ho tratta ingiustamente.» Si coprì il volto. «Da quando sei scomparsa, non ho quasi mangiato o dormito. Ero angosciata per la tua sorte, e temevo di non rivederti mai più. Che terribile, terribile sbaglio ho commesso... Potrai perdonarmi?» Gli elfi riuniti bisbigliarono turbati.
Arya rispose dopo quella che parve un'eternità. «Per settant'anni ho vissuto e amato, combattuto e ucciso senza mai parlarti, madre mia. Benché le nostre vite siano lunghe, questo non è certo un breve periodo.»
Islanzadi si ricompose e alzò il fiero mento, percorso da un lieve tremito. «Non posso disfare il passato, Arya, anche se lo desidero con tutto il cuore.»
«E io non posso dimenticare quanto ho subito.»
«E non devi.» Islanzadi afferrò le mani della figlia. «Arya, io ti voglio bene. Tu sei tutta la mia famiglia. Vai se devi, ma a meno che tu non voglia rinnegarmi, vorrei riconciliarmi con te.»
Per un terribile momento parve che Arya non volesse rispondere, o peggio, che intendesse rifiutare l'offerta. Eragon la vide esitare e scoccare occhiate fugaci ai presenti. Poi l'elfa abbassò gli occhi e disse: «No, madre. Non me ne andrò.» Islanzadi accennò un sorriso incerto, poi abbracciò di nuovo la figlia. Questa volta Arya ricambiò il gesto, e sui volti degli elfi si dipinsero sorrisi soddisfatti.
Il corvo bianco saltellò sul trespolo, gracchiando: «E sul portale venne inciso a ricordare quel che sarà il motto familiare, Che tra noi ci si possa sempre amare!»
«Zitto, Blagden» intimò Islanzadi al corvo. «Tieni per te le tue rime strampalate.» Liberandosi dall'abbraccio, la regina si rivolse a Eragon e Saphira. «Vi prego di scusarmi per essere stata scortese e avervi ignorati, voi che siete i nostri ospiti più importanti.»
Eragon si toccò le labbra e poi torse la mano destra portandola al petto, come gli aveva insegnato Arya. «Islanzadi Dròttning. Atra esterni ono thelduin.» Non c'erano dubbi su chi dovesse parlare per primo.
Gli occhi neri di Islanzadi si spalancarono. «Atra du evarìnya ono varda.»
«Un atra mor'ranr lifa unin hjarta onr» rispose Eragon, completando il rituale. Capì che gli elfi erano rimasti di stucco nel vedere che conosceva bene le loro usanze. Nella mente, ascoltò Saphira che ripeteva il saluto alla regina. Quando finì, Islanzadi domandò: «Drago, qual è il tuo nome?»
Saphira.
Un lampo di riconoscimento comparve sul volto della regina, ma non fece alcun commento. «Benvenuta a Ellesméra, Saphira. E il tuo, Cavaliere?»
«Eragon Ammazzaspettri, maestà.» Questa volta, gli elfi seduti alle loro spalle mormorarono in maniera più che evidente; perfino Islanzadi parve sorpresa.
«Un nome potente» disse in tono pacato, «che di rado imponiamo ai nostri figli... Benvenuto a Ellesméra, Eragon Ammazzaspettri. Ti aspettavamo da tempo.» Poi si rivolse a Orik, lo salutò e infine tornò a sedersi sul trono, drappeggiandosi lo strascico del mantello di velluto sul braccio. «La tua presenza qui, Eragon, dopo così breve tempo dalla scomparsa dell'uovo di Saphira, come anche l'anello che porti al dito e la spada al tuo fianco, mi fanno supporre che Brom sia morto e che il tuo addestramento con lui sia rimasto incompleto. Avrei piacere di ascoltare innanzitutto la tua storia, compresa la morte di Brom e le circostanze che ti hanno fatto incontrare mia figlia. Poi, nano, vorrò conoscere i motivi della tua missione qui, e infine tu, Arya, mi racconterai le tue peripezìe, fin dall'agguato nella Du Weldenvarden.»
Non era la prima volta che Eragon narrava le proprie avventure, e non ebbe difficoltà a ripeterle davanti alla regina. Nelle rare occasioni in cui la memoria lo tradiva, interveniva Saphira a fornire dettagliate descrizioni degli eventi. Più di una volta, lasciò che fosse lei a raccontare. Quando ebbero finito, Eragon estrasse la pergamena di Nasuada dallo zaino e la consegnò a Islanzadi.
La regina prese la pergamena, ruppe il sigillo di cera rossa e, dopo aver finito di leggere la missiva sospirò, chiudendo gli occhi per qualche istante. «Ora comprendo quanto sia stata grande la mia follia. Mi sarei risparmiata molte sofferenze se non avessi ritirato i miei guerrieri e ignorato i messaggèri di Ajihad, dopo aver saputo che Arya era caduta in un'imboscata. Non avrei mai dovuto incolpare i Varden della sua morte. Per essere tanto vecchia, sono ancora troppo stolta...»
Seguì un lungo silenzio, poiché ovviamente nessuno osava assentire o dissentire. Facendo appello a tutto il suo coraggio, Eragon disse: «Dato che Arya è tornata sana e salva, vorresti concedere di nuovo il tuo aiuto ai Varden? Nasuada non può farcela da sola, e io mi sono votato alla
sua causa.»
«La mia controversia con i Varden è sabbia nel vento» disse Islanzadi. «Non temere. Li aiuteremo come facevamo un tempo, anzi, di più, grazie a te e alla loro vittoria sugli Urgali.» Tese la mano aperta. «Vorresti darmi l'anello di Brom, Eragon?» Senza esitare, lui si sfilò l'anello e lo porse alla regina, che lo prese con le dita affusolate. «Non avresti dovuto portarlo, Eragon, poiché non era destinato a te. Tuttavia, grazie all'aiuto che hai reso ai Varden e alla mia famiglia, ora ti nomino Amico degli Elfi e ti concedo questo anello, Aren, affinchè tutti gli elfi, ovunque tu vada, sappiano che sei degno di fiducia e di aiuto.»
Eragon la ringraziò e si rimise l'anello al dito, profondamente consapevole dello sguardo della regina, che lo fissava in maniera inquietante, come volesse sondargli l'anima. Aveva la sensazione che lei sapesse tutto quello che lui avrebbe potuto dire o fare. La regina dichiarò: «Sono anni che nella Du Weldenvarden non abbiamo notizie di gesta simili a quelle che hai compiuto. Noi siamo abituati a uno stile di vita più lento rispetto al resto di Alagaèsia, e mi preoccupa che siano accadute così tante cose senza che una sola parola raggiungesse le mie orecchie.»
«Cosa hai deciso in merito al mio addestramento?» Eragon scoccò un'occhiata furtiva agli elfi seduti, chiedendosi se uno di loro potesse essere Togira Ikonoka, la presenza che lo aveva raggiunto mentalmente e liberato dall'influenza nefasta di Durza dopo la battaglia del Farthen Dùr, e che lo aveva incoraggiato ad andare a Ellesméra. «Comincerà a tempo debito. Purtroppo, temo che istruirti sia vano, finché la tua infermità persiste. A meno che tu non riesca a vincere la magia dello Spettro, non sarai altro che un debole fantoccio. Potrai ancora esserci utile, ma solo come ombra della speranza che abbiamo nutrito per secoli.» Islanzadi parlò senza astio, eppure le sue parole colpirono Eragon come un maglio. Sapeva che la regina aveva ragione. «Non è certo colpa tua se ti trovi in queste condizioni, e mi addolora dar voce a questi pensieri, ma devi comprendere la gravita della tua invalidità... Mi rincresce.» Poi Islanzadi si rivolse a Orik. «È passato molto tempo dall'ultima volta che la tua razza è entrata nei nostri palazzi, nano. Eragon-finiarel ha spiegato i motivi della tua presenza, ma tu hai qualcosa da aggiungere?»
«Soltanto i più cordiali e rispettosi saluti da parte del mio re, Rothgar, e la preghiera, ormai superflua, di riprendere i contatti con i Varden. Inoltre, sono qui per assicurarmi che il patto che Brom ha stretto fra voi e gli umani venga rispettato.»
«Noi rispettiamo sempre le promesse, che vengano pronunciate in questa o nell'antica lingua. Accetto i saluti di Rothgar che ricambio di buon grado.» Alla fine - Eragon era sicuro che la regina desiderava farlo da quando avevano messo piede nella sala - Islanzadi chiese ad Arya: «Ora, figlia mia, dimmi. Cosa ti è accaduto?»
Arya cominciò a raccontare, con voce lenta e monocorde, prima della sua cattura, poi della lunga prigionia e delle torture patite a Gil'ead. Saphira ed Eragon avevano evitato di proposito i dettagli delle violenze da lei subite, ma Arya sembrava non avere difficoltà a parlarne. Quelle descrizioni impassibili suscitarono in Eragon la stessa rabbia di quando aveva visto le sue ferite la prima volta. Gli elfi rimasero in assoluto silenzio durante tutto il racconto, anche se le mani si contraevano sulle impugnature delle spade e i lineamenti si alteravano in espressioni tese di gelida collera. Una lacrima solitària scese lungo la guancia di Islanzadi.
Un nobile elfo si alzò e avanzò flessuoso lungo il corridòio muschioso fra gli scranni. «So di parlare a nome di tutti, Arya Dròttningu, quando dico che il mio cuore è straziato dal dolore per quanto hai patito. È un crimine che travalica ogni scusa, ogni giustificazione e ogni perdono, e Galbatorix dovrà pagare per questo. Inoltre ti siamo debitori per non aver rivelato allo Spettro dove si trovano le nostre città. Pochi di noi avrebbero sopportato tanto, per così lungo tempo.»
«Ti ringrazio, Dàthedr-vor.»
Islanzadi riprese la parola, e la sua voce risuonò argentina come una campana. «Fermiamoci qui. I nostri ospiti esausti attendono in piedi, e abbiamo parlato soltanto di argomenti spiacevoli. Non permetterò che questa occasione venga sciupata dalle ferite del passato.» Un sorriso glorioso illuminò la sua espressione. «Mia figlia è tornata, un drago e il suo Cavaliere sono comparsi, e voglio vedervi celebrare tutti come si conviene!» Si eresse in tutta la sua statura, magnifica nella tunica cremisi, e batte le mani. A quel suono, gli scranni e il padiglione furono inondati da una pioggia di gigli e di rose, che caddero dall'alto fluttuando come fiocchi di neve colorati, riempiendo la sala con le loro inebrianti fragranze.
Non ha usato l'antica lingua, pensò Eragon.
Mentre tutti gli altri erano intenti ad ammirare la pioggia di petali, soltanto lui si accorse che Islanzadi aveva sfiorato la spalla di Arya per sussurrarle piano: «Non avresti mai sofferto tanto se avessi seguito il mio consiglio. Avevo ragione a oppormi alla tua decisione di accettare lo yawé.»
«Spettava a me prendere quella decisione.»
La regina fece una pausa, poi annuì e tese il braccio. «Blagden.» Con un frullo d'ali, il corvo volò dal suo trespolo e atterrò sulla sua spalla sinistra. L'assemblea s'inchinò al passaggio di Islanzadi che incedeva altera verso il fondo della sala. Aprì il portale alle centinaia di elfi che attendevano all'esterno, e fece un breve discorso nell'antica lingua che Eragon non capì. Gli elfi scoppiarono in un boato di applausi, poi si dispersero in fretta.
«Cos'ha detto?» mormorò Eragon a Nari.
Nari sorrise. «Di aprire i nostri barili più pregiati e di accendere i fuochi, perché stanotte sarà una notte di festeggiamenti e canti. Vieni!» L'elfo prese Eragon per mano e lo condusse dietro la regina, che si era incamminata per il sentiero fra i pini e le siepi di felci. Mentre erano chiusi nella sala, il sole era calato, imbevendo la foresta di una luce ambrata che colava dagli alberi e dalle piante come olio lucente.
Ti rendi conto, vero, disse Saphira, che il re di cui ha parlato Lifaen, Evandar, doveva essere il padre di Arya? Per poco Eragon non inciampò. Hai ragione... E questo significa che è stato ucciso o da Galbatorix o dai Rinnegati. I cerchi si chiudono.
Si fermarono in cima a una collinetta, dove una squadra di elfi aveva approntato un lungo tavolo e delle sedie. Tutto intorno la foresta brulicava di attività. Con l'approssimarsi della sera, in tutta Ellesméra comparvero fuochi dal vivace bagliore, compreso un falò vicino al tavolo.
Qualcuno porse a Eragon un calice fatto con lo stesso strano legno che aveva notato a Ceris. Bevve il chiaro liquore e trasalì nel sentirsi bruciare la gola. Aveva il sapore del sidro aromatico mescolato all'idromele. La pozione gli fece formicolare i polpastrelli e le orecchie, e gli donò un meraviglioso senso di lucidità. «Cos'è?» chiese a Narì. Nari rise. «Faelnirv. Lo distilliamo da bacche di sambuco macinate e raggi di luna filati. Se necessario, un uomo forte può sopravvivere in viaggio per tre giorni bevendo soltanto questo.»
Saphira, dovresti assaggiarlo. La dragonessa annusò il calice, poi aprì la bocca e gli permise di versare il resto del faelnirv nella gola. Sgranò gli occhi e dimenò la coda.
Che delizia! Ce n'è ancora?
Prima che Eragon avesse modo di rispondere, arrivò Orik con aria imbronciata. «Figlia della regina» borbottò, scuotendo il capo. «Vorrei poterlo dire a Rothgar e a Nasuada. Dovrebbero saperlo.»
Islanzadi prese posto su una sedia dall'alto schienale e battè di nuovo le mani. Dall'interno della città arrivò un quartetto di elfi con strumenti musicali. Due avevano arpe di legno di ciliegio, il terzo una siringa di canne, e la quarta nient'altro che la voce, che subito mise all'opera per una canzone gioiosa che solleticò le loro orecchie. Eragon riusciva a capire appena una parola su tre, ma quel poco che comprese lo fece sorridere. Era la storia di un cervo che non riusciva ad abbeverarsi a uno stagno perché una gazza continuava a infastidirlo.
Mentre ascoltava, lasciò vagare lo sguardo fino a posarlo su una gracile fanciulla che si aggirava furtiva alle spalle della regina. Aguzzò la vista e si accorse che i suoi capelli ispidi non erano argentati, come quelli di molti elfi, bensì sbiancati dall'età, e che il suo volto era rugoso come una mela vizza. Non era un'elfa, né una nana, né - Eragon ne ebbe un'acuta percezione - umana. Lei gli sorrise, e lui intravvide una chiostra di denti aguzzi.
Quando la cantante terminò, siringhe e flauti sostituirono la sua voce nel silenzio, ed Eragon si ritrovò assalito da decine di elfi che volevano conoscere lui, ma soprattutto Saphira.
Gli elfi si presentarono con un lieve inchino, portandosi l'indice e il medio alle labbra. Eragon ricambiò insieme all'infinita schiera di saluti nell'antica lingua. Tutti rivolsero al giovane alcune cortesi domande sulle sue avventure, ma riservarono a Saphira gran parte della conversazione.
Lì per lì Eragon fu lieto di lasciar parlare Saphira, dato che era la prima volta che qualcuno mostrava un interesse spiccato a conversare soltanto con lei; ma dopo un po' cominciò a irritarsi di essere ignorato, abituato com'era ad avere gente che lo ascoltava quando parlava. Sorrise fra sé, sconcertato al pensiero di essere diventato troppo dipendente dall'attenzione degli altri da quando si era unito ai Varden, e si sforzò di godersi i festeggiamenti. Poco dopo, l'aroma del cibo si diffuse nella radura e comparvero alcuni elfi con vassoi colmi di ogni prelibatezza. Oltre a grandi pagnotte calde e pile di frittelle al miele, le pietanze erano composte interamente da frutta, verdura e bacche. Queste ultime dominavano in quasi ogni portata, dalla zuppa di mirtilli alla salsa di lamponi alla gelatina di more. Una grande zuppiera di fettine di mele cosparse di sciroppo e spruzzate di fragoline di bosco troneggiava accanto a un pasticcio di funghi ripieno di spinaci, timo e uvetta.
Non c'era alcun tipo di carne, nemmeno pesce o pollame, cosa che ancora lasciava perplesso Eragon. A Carvahall e in tutto l'Impero, la carne era simbolo di lusso e agiatezza. Più oro possedevi, più spesso potevi permetterti bistecche e vitello. Perfino i nobili di rango inferiore mangiavano carne a ogni pasto. Se fosse mancata, avrebbe indicato penuria nei loro forzieri. Ma gli elfi non seguivano questa filosofia, malgrado la loro evidente ricchezza e la facilità con cui potevano cacciare grazie alla magia.
Gli elfi si disposero lungo il tavolo con un entusiasmo che sorprese Eragon. Presto furono tutti seduti: Islanzadi a capotavola insieme a Blagden, il corvo; Dàthedr alla sua sinistra; Arya ed Eragon alla sua destra; Orik di fronte a loro; e poi tutti gli altri, compresi Nari e Lifaen. Non c'era nessuna sedia all'altro capotavola; soltanto un enorme vassoio intagliato per Saphira.
A mano a mano che il pranzo si prolungava, Eragon si sentì trascinato in un nebuloso turbine di chiacchiere e ilarità; era così preso dai festeggiamenti da perdere il senso del tempo, consapevole soltanto delle risa e delle parole sconosciute che gli cinguettavano intorno e dal calore che il faelnirv gli lasciava nello stomaco. Il canto dell'arpa gli accarezzava lieve le orecchie, suscitandogli brividi di eccitazione lungo la schiena. Di tanto in tanto, si scopriva attratto dallo sguardo obliquo e indolente della vecchiabambina, che continuava a fissarlo anche mentre mangiava. Durante una pausa nella conversazione, Eragon si rivolse ad Arya, che non aveva pronunciato più di una decina di parole. Non disse niente, ma si limitò a guardarla, chiedendosi chi fosse in realtà.
Arya si riscosse. «Nemmeno Ajihad lo sapeva.»
«Cosa?»
«Al di fuori della Du Weldenvarden, non ho mai rivelato a nessuno la mia identità. Brom ne era a conoscenza - ci siamo incontrati qui la prima volta - ma lo pregai di mantenere il segreto.»
Eragon si domandò se gli stesse dando spiegazioni per senso del dovere o perché si sentiva in colpa di aver ingannato lui e Saphira. «Brom una volta mi disse che ciò che gli elfi non dicono spesso è più importante di quello che dicono.» «Ci conosceva bene.»
«Ma perché? Sarebbe stato grave se qualcuno avesse saputo?»
Questa volta Arya esitò. «Quando lasciai Ellesméra, non avevo alcun desiderio di ricordare il mio rango. Né mi sembrava rilevante ai fini della mia missione con i Varden e i nani. Non aveva niente a che vedere con chi sono diventata... con chi sono.» Scoccò un'occhiata alla regina.
«Almeno a me e a Saphira avresti potuto dirlo.»
Arya sembrò irritarsi per il tono di rimprovero nella sua voce. «Non avevo ragione di supporre che la mia posizione rispetto a Islanzadi fosse migliorata, e dirvelo non avrebbe cambiato niente. I miei pensieri restano miei e basta, Eragon.» Il giovane arrossì per il significato implicito nella frase: perché mai lei - una principessa elfica con incarichi diplomatici, più vecchia di quanto potevano esserlo suo padre e suo nonno, chiunque fossero - doveva confidarsi con lui, un umano di appena sedici anni?
«Se non altro» mormorò lui, «hai fatto pace con tua madre.»
Lei gli rivolse uno strano sorriso. «Avevo scelta?»
In quel momento, Blagden saltò dalla spalla di Islanzadi e trotterellò al centro del tavolo, facendo guizzare la testa a destra e a sinistra in una parodia di inchino. Si fermò davanti a Saphira, diede in un colpetto di tosse rauca, e gracchiò: I draghi, come le brocche,
Hanno ventri bombati.
I draghi, come i fiaschi,
Hanno colli allungati.
Ma i primi due portano birra da bere,
Gli altri sanno solo mangiare!
Gli elfi rimasero impietriti e mortificati, aspettando la reazione di Saphira. Dopo un lungo silenzio, la dragonessa alzò gli occhi dal pasticcio di mele cotogne ed esalò uno sbuffo di fumo che avvolse Blagden. Specie i pennuti, disse, proiettando i suoi pensieri affinchè tutti sentissero. Gli elfi si rilassarono con una sonora risata, mentre Blagden ondeggiava, gracchiando indignato e sbattendo le ali per dissipare il fumo. «Chiedo scusa per i versi impertinenti di Blagden» disse Islanzadi. «Ha sempre avuto la lingua tagliente, per quanto abbiamo provato a smussarla.» Scuse accettate, rispose Saphira con calma, e tornò al suo pasticcio. «Da dove viene?» chiese Eragon, desideroso di tornare a termini più cordiali con Arya, ma spinto anche da sincera curiosità. «Blagden» disse Arya «una volta salvò la vita di mio padre. Evandar stava combattendo contro un Urgali quando inciampò e perse la spada. Ma prima che l'Urgali avesse il tempo di colpire, un corvo si avventò su di lui e gli cavò gli occhi. Nessuno sa perché l'uccello compì quel gesto, ma la distrazione consentì a Evandar di recuperare il controllo e vincere la battaglia. Mio padre è sempre stato molto generoso: così ringraziò il corvo benedicendolo con un incantesimo di intelligenza e lunga vita. Tuttavia la magia ebbe due effetti che non aveva previsto: Blagden perse il colore del piumaggio e ottenne la facoltà di predire alcuni eventi.»
«Può vedere il futuro?» chiese Eragon, allibito. «Vedere? No. Diciamo che a volte può percepire cosa sta per accadere. A ogni buon conto, parla sempre per enigmi, la maggior parte dei quali sono soltanto un mucchio di sciocchezze. Ma ricorda, se Blagden viene da te e ti dice qualcosa che non è un indovinello o una battuta di spirito, allora sarà meglio che tu faccia tesoro delle sue parole.» Una volta concluso il pasto, Islanzadi si alzò - imitata subito dagli altri in un frastuono di sedie - e disse: «S'è fatto tardi. Sono stanca e desidero tornare nella mia alcova. Saphira, Eragon, accompagnatemi, così vi mostrerò dove potrete dormire per stanotte.» La regina fece un cenno con la mano ad Arya, poi lasciò la tavola. Arya la seguì.
Quando Eragon aggirò il tavolo insieme a Saphira, si fermò davanti alla vecchia-bambina, rapito dai suoi occhi felini. Ogni dettaglio del suo aspetto, dagli occhi e dai capelli ispidi ai candidi denti aguzzi, suscitò in Eragon un ricordo. «Sei una gatta mannara, non è vero?» Lei battè le palpebre una volta, poi scoprì i denti in un sorriso pericoloso. «Ho conosciuto uno della tua specie, Solembum. L'ho incontrato a Teirm e nel Farthen Dùr.»
Il suo ghigno si allargò. «Già. Un tipo in gamba. Gli umani mi annoiano, ma lui trova divertente viaggiare con Angela l'indovina.» Poi il suo sguardo si posò su Saphira, ed emise un borbottio di gola simile alle fusa per mostrare apprezzamento.
Come ti chiami? chiese Saphira.
«I nomi sono qualcosa di molto potente qui nella Du Weldenvarden, cara la mia dragonessa. Tuttavia... fra gli elfi, sono conosciuta come l'Osservatrice, oppure Zampalesta, o anche la Danzatrice dei Sogni, ma voi potete chiamarmi Maud.» Scrollò la criniera di ispide ciocche bianche. «Fareste meglio a raggiungere la regina, fanciullini; non ha simpatia per gli sciocchi o i pelandroni.»
«È stato un piacere conoscerti, Maud» disse Eragon con un inchino. Anche Saphira fece un cenno con la testa. Eragon guardò Orik, chiedendosi dove avrebbero alloggiato il nano, poi si affrettò a seguire Islanzadi. Raggiunsero la regina proprio mentre lei arrivava alla base di un albero. Il tronco era solcato da una delicata scala a chiocciola che risaliva a spirale verso una serie di stanze globulari sostenute sulla cima dell'albero da un ventaglio di rami.
Islanzadi alzò una mano elegante e indicò il nido. «Tu dovrai volare fin lassù, Saphira. Le nostre scale non sono state costruite pensando ai draghi.» Poi si rivolse a Eragon. «Questi sono gli alloggi destinati al capo dei Cavalieri dei Draghi in visita a Ellesméra. Li concedo a te adesso, poiché sei il legittimo erede di quel titolo... È la tua eredità.» Eragon non fece nemmeno in tempo a ringraziarla, perché la regina si voltò e si allontanò insieme ad Arya, che lo guardò per un lungo momento prima di venire inghiottita dalla città.
Andiamo a vedere come ci hanno sistemati? disse Saphira, e spiccò il volo, risalendo verso la cima dell'albero e girando intorno al tronco, con la punta di un'ala perpendicolare al suolo. Quando Eragon posò il piede sul primo scalino, capì che Islanzadi aveva detto il vero: la scala era un tutt'uno con l'albero. La corteccia era liscia e piatta per tutti i piedi elfici che l'avevano calpestata, ma faceva ancora parte del tronco, come le intricate colonnine a tortiglione della balaustra e il curvo corrimano che gli scivolava sotto il palmo.
Poiché la scala era stata costruita tenendo a mente la forza degli elfi, era più ripida di quanto Eragon fosse abituato, e ben presto cominciarono a bruciargli le cosce e i polpacci. La salita fu così faticosa che quando raggiunse la cima dopo aver varcato una botola sul pavimento di una delle stanze - si appoggiò le mani sulle ginocchia, piegato in due per riprendere fiato. Quando si riebbe, si raddrizzò ed esaminò l'ambiente.
Si trovava in un vestibolo circolare con un piedistallo al centro, su cui si ergeva una scultura raffigurante due braccia e due mani che si levavano al cielo avvolgendosi su se stesse senza toccarsi. Tre porte scorrevoli separavano il vestibolo da altrettante stanze: un'austera sala da pranzo che poteva contenere al massimo dieci persone, un camerino con un'ampia cavità al centro del pavimento che Eragon non capì a cosa servisse, e infine una camera da letto che si affacciava sull'immensa distesa della Du Weldenvarden.
Eragon sganciò una lanterna dal soffitto ed entrò nella camera da letto, proiettando una serie di ombre che saltavano e vorticavano come danzatori impazziti. Sulla parete esterna era stata ricavata un'apertura a forma di goccia, abbastanza grande da far passare un drago. Nella stanza c'erano un letto, disposto in modo da poter guardare il cielo e la luna stando distesi; un caminetto fatto di legno grigio, duro e freddo come l'acciaio al tatto, come se il legno fosse stato pressato fino a ottenere una densità inimmaginabile; e un'enorme pedana, rivestita di morbide coperte, dove avrebbe dormito Saphira.
Proprio in quel momento, la dragonessa piombò dal cielo per atterrare davanti all'apertura, le squame sfavillanti come una costellazione di astri azzurri. Dietro di lei, gli ultimi raggi di sole screziavano la foresta, tingendo le colline di una soffusa luce ambrata che faceva scintillare gli aghi di pino come fossero incandescenti e scacciava le ombre verso l'orizzonte violetto. Da quell'altezza, la città appariva come una serie di squarci nel fitto fogliame della foresta, isole di quiete in un oceano in movimento. Per la prima volta vedevano l'intera superficie di Ellesméra, che si estendeva per parecchie miglia a ovest e a nord.
Rispetto i Cavalieri ancora di più se così era solito vivere Vrael, disse Eragon. È molto più semplice di come mi aspettavo. L'intera struttura ondeggiò per una lieve raffica di vento.
Saphira annusò le coperte. Ma dobbiamo ancora vedere Vroengard, gli rammentò lei, anche se in fondo era d'accordo. Quando Eragon chiuse la porta della camera da letto, notò qualcosa in un angolo che in principio gli era sfuggito: una scala a chiocciola che si attoreigliava intorno a una canna fumaria di legno scuro. Tenendo la lanterna sospesa davanti a sé, cominciò a salire con cautela, un passo alla volta. A un'altezza di venti piedi, emerse in uno studio arredato con una scrivania - coperta di calami, inchiostro e carta, ma niente pergamena - e un altro posatoio imbottito per draghi. Anche lì, la parete di fondo aveva un varco di accesso.
Saphira, vieni a vedere.
Come faccio? disse lei.
Da fuori. Eragon sentì la corteccia gemere e scricchiolare sotto gli artigli, mentre Saphira si arrampicava dalla camera da letto fino allo studio. Soddisfatta? disse lui al suo arrivo. Saphira gli scoccò un'occhiata di zaffiro fiammeggiante, poi si accinse a esaminare le pareti e la mobilia.
Mi chiedo, disse lei, come fa uno a ripararsi dal freddo se tutte le stanze sono esposte agli elementi.
Non lo so. Eragon esaminò le pareti su entrambi i lati dell'apertura, facendo scorrere le mani su astratti disegni ricavati nell'albero grazie alle canzoni degli elfi. Si fermò quando avvertì una scanalatura verticale nella corteccia. La tirò, e una membrana diafana si srotolò dalla parete. Tendendola attraverso il varco, trovò una seconda scanalatura dove inserire il bordo del tessuto. Non appena l'ebbe chiusa, l'aria si fece più densa e notevolmente più calda. Ecco la risposta, disse. Lasciò andare la membrana, che si richiuse con uno schiocco nel suo alloggiamento.
Quando tornarono nella stanza da letto, Eragon disfece lo zaino, mentre Saphira si raggomitolava sulla pedana. Il giovane ripose con cura lo scudo, i bracciali, gli schinieri, la calotta e l'elmo, poi si sfilò la tunica e si tolse la cotta di maglia foderata di cuoio. Si sedette a torso nudo sul letto e studiò le maglie oliate, colpito dalla loro somiglianza con le squame di Saphira.
Ce l'abbiamo fatta, disse, assorto.
Un lungo viaggio... ma sì, ce l'abbiamo fatta. Siamo stati fortunati a non aver incontrato ostacoli sul cammino. Lui annuì. Ora scopriremo se ne è valsa la pena. A volte mi chiedo se non avremmo impiegato meglio il nostro tempo aiutando i Varden.
Eragon! Sai benissimo che devi approfondire la tua istruzione. Brom avrebbe voluto così. Per giunta, valeva la pena di fare tutto questo viaggio anche solo per vedere Ellesméra e Islanzadi.
Può darsi. Poi chiese: Che ne pensi di tutta quanta la situazione? Saphira schiuse appena le labbra sui denti aguzzi. Non lo so. Gli elfi hanno più segreti di Brom, e con la magia sanno fare cose che non avrei mai pensato possibili. Non ho idea di quali metodi usino per far crescere gli alberi con queste forme, o come Islanzadi abbia evocato la pioggia di fiori. Va oltre la mia comprensione.
Eragon si sentì sollevato nello scoprire che non era il solo a sentirsi intimidito. E Arya?
Che cosa vorresti dire?
Sai, ora che sappiamo chi è in realtà.
Non è cambiata lei, ma la percezione che tu hai di lei. Saphira emise una risatina gutturale che risuonò come pietre che sbatacchiano le une contro le altre, e appoggiò la testa sulle zampe davanti.
Ormai le stelle brillavano in cielo, e i bubbolii delle civette riecheggiavano per tutta Ellesméra. Il mondo era calmo e silenzioso mentre sprofondava nella notte liquida.
Eragon si infilò sotto le lenzuola lanuginose e allungò una mano per schermare la lanterna, poi si fermò, la mano a un soffio dal gancio. Era nella capitale degli elfi, a cento piedi da terra, disteso nel letto che un tempo era appartenuto a Vrael.
Era un pensiero sconvolgente.
Si alzò, prese la lanterna con una mano e Zar'roc con l'altra, e sorprese Saphira strisciando nel suo giaciglio e rannicchiandosi contro il suo fianco tiepido. Lei mormorò e lo coprì con un'ala vellutata, mentre il giovane spegneva la luce e chiudeva gli occhi.
Insieme si addormentarono profondamente nel cuore di Ellesméra.
Brandelli di memoria
Eragon si destò all'alba, fresco e riposato. Battè piano la mano sulle costole di Saphira, e lei sollevò l'ala. Eragon si passò una mano tra i capelli e si alzò per dirigersi all'apertura nella parete, dove si appoggiò a uno stipite, sentendo la corteccia ruvida contro la sua spalla. Sotto di lui, la foresta scintillava come un campo di diamanti, mentre ogni albero rifletteva la luce del mattino con milioni di goccioline di rugiada.
Trasalì di sorpresa quando Saphira lo superò di slancio, tuffandosi verso le chiome degli alberi, avvitandosi su se stessa come una trivella, prima di risalire e tracciare cerchi in aria, ruggendo di gioia. Buongiorno, piccolo mio. Lui sorrise, felice che lei fosse felice.
Eragon aprì la porta scorrevole della camera da letto e trovò due vassoi di cibo - perlopiù frutta - che erano stati lasciati sulla soglia durante la notte. Vicino ai vassoi c'era un cumulo di indumenti, con sopra un biglietto. Eragon ebbe difficoltà a decifrare la scrittura fluente, dato che era oltre un mese che non leggeva e aveva dimenticato alcune lettere, ma alla fine riuscì a capire.
Salute a voi, Saphira Bjartskular ed Eragon Ammazzaspettri.
Io, Bellaen del Casato di Miolandra, mi prostro e chiedo venia a te, Saphira, per questo misero pasto. Gli elfi non cacciano, e non si trova carne a Ellesméra, come in nessuna delle nostre città. Se desideri, potrai fare come facevano i draghi di un tempo, e andare a caccia nella Du Weldenvarden. Ti chiediamo soltanto di utilizzare le tue capacità predatorie nella foresta, affinchè la nostra aria e la nostra acqua restino incontaminate dal sangue. Eragon, questi abiti sono per te. Sono stati tessuti da Niduen della casa di Islanzadi, e sono il suo regalo per te. Che la fortuna vi assista,
che la pace regni nei vostri cuori,
e che le stelle vi proteggano.
Bellaen du Hljddhr
Quando Eragon riferì il messaggio a Saphira, lei disse: Non importa; non avrò bisogno di mangiare per parecchio tempo dopo la cena di ieri. Tuttavia divorò un paio di torte ai semi aromatici. Tanto per non sembrare scortese, spiegò. Dopo che Eragon ebbe finito di fare colazione, issò il fagotto di indumenti sul letto e lo aprì: scoprì due lunghe tuniche color ruggine bordate di verde acido, un paio di gambali color crema da legarsi ai polpacci, e tre paia di calze così morbide che quando se le fece scorrere fra le dita parvero liquide. La qualità dei tessuti era tale da far impallidire le filatrici di Carvahall e da far sembrare rozzi gli abiti dei nani che indossava.
Eragon fu contento dei nuovi vestiti. La sua tunica e i suoi calzoni erano logorati dal viaggio e dall'esposizione alla pioggia e al sole. S'infilò una delle lussuose tuniche e ne assaporò la serica leggerezza.
Si era appena allacciato gli stivali quando qualcuno bussò alla porta. «Avanti» disse, allungando una mano verso Zar'roc.
Orik fece capolino nella stanza, poi entrò con cautela, saggiando il pavimento a ogni passo. Alzò lo sguardo al soffitto. «Una grotta mi ci vuole, altro che questo nido di uccelli. Come hai passato la notte, Eragon? E tu, Saphira?» «Abbastanza bene. E tu?» disse Eragon.
«Ho dormito come un sasso.» Il nano ridacchiò tra sé, poi abbassò il mento e giocherellò con la testa della sua ascia. «Vedo che avete mangiato, perciò vi chiedo di accompagnarmi. Arya, la regina e un certo numero di elfi vi aspettano ai piedi dell'albero.» Scrutò Eragon con uno sguardo stizzito. «C'è qualcosa che bolle in pentola. Non ci hanno ancora detto tutto. Non so cosa vogliono da voi, ma dev'essere importante. Islanzadi è tesa come un lupo in trappola... ho pensato fosse il caso di avvisarti.»
Eragon lo ringraziò, poi i due scesero per le scale, mentre Saphira planava sul terreno sottostante. Furono accolti da Islanzadi, avvolta in un mantello di piume di cigno che la faceva assomigliare a un uccello cardinale sepolto dalla neve. Lei li salutò e disse: «Seguitemi.»
Il suo passo imperioso li condusse ai margini di Ellesméra, dove le case erano rade e i sentieri poco battuti. Ai piedi di un poggio alberato, Islanzadi si fermò e pronunciò con voce terribile: «Prima di proseguire oltre, voi tre dovrete giurare nell'antica lingua che non parlerete mai a estraneo di quanto state per vedere, non senza il permesso della sottoscritta, o di mia figlia, o di chiunque possa succederci al trono.»
«Perché dovrei giurare?» chiese Orik.
Già, perché? fece Saphira. Non ti fidi di noi?
«Qui non si tratta di fiducia, ma di sicurezza. Dobbiamo proteggere i nostri segreti a tutti i costi. È il nostro maggiore vantaggio su Galbatorix. Se sarete vincolati dall'antica lingua, non rivelerete mai volontariamente il nostro segreto. Tu sei venuto ad assistere all'addestramento di Eragon, Orik-vodhr, ma se non mi dai la tua parola adesso, sarà meglio che torni nel Farthen Dùr.»
Alla fine Orik disse: «Sono convinto che non hai cattive intenzioni contro i nani o i Varden, altrimenti non acconsentirei mai. E confido nell'onore del tuo casato e del tuo popolo, sapendo che questo non è un imbroglio per ingannarci. Dimmi cosa vuoi che dica.»
Mentre la regina insegnava a Orik la corretta pronuncia della frase desiderata, Eragon chiese a Saphira: Devo farlo? Abbiamo scelta? Eragon rammentò che Arya aveva detto la stessa cosa il giorno prima, e finalmente cominciò a capire che cosa aveva voluto dire: la regina non lasciava spazio a manovre diversive.
Quando Orik ebbe finito, Islanzadi rivolse un'occhiata interrogativa a Eragon. Lui esitò, poi pronunciò il giuramento, come anche Saphira. «Vi ringrazio» disse Islanzadi. «Ora possiamo proseguire.»
In cima al poggio, gli alberi lasciavano il posto a un tappeto di trifoglio rosso che si stendeva per diverse iarde fino ai margini di una rupe rocciosa. La rupe era larga una lega e precipitava per mille piedi nella foresta sottostante, che si allargava fino a raggiungere l'orizzonte. Si aveva la sensazione di trovarsi ai confini del mondo, affacciati su una sconfinata distesa di foresta.
Conosco questo posto, si disse Eragon, ripescando nella memoria brandelli della sua visione di Togira Ikonoka. Thud. L'aria fu scossa dal riverbero di un tonfo. Thud. Un altro colpo sordo fece battere i denti di Eragon. Thud. Si infilò le dita nelle orecchie, cercando di proteggerle dalle fitte procurate dalla pressione. Gli elfi restavano immobili. Thud. Il trifoglio ondeggiò sotto un improvviso refolo di vento.
Thud. Dall'orlo della rupe comparve un enorme drago dorato, con un Cavaliere sul dorso.
Persuasione
Roran guardò Horst con ferocia. Si trovavano nella stanza di Baldor. Roran era seduto sul letto, e ascoltava il fabbro che diceva: «Cosa ti aspettavi che facessi? Non potevamo più attaccare, dal momento che eri svenuto. E comunque gli uomini non se la sentivano di combattere. Non puoi biasimarli. Per poco non ci restavo secco, quando ho visto quei mostri.» Horst scosse la selvaggia massa di capelli. «Siamo stati catapultati in una di quelle vecchie leggende, Roran, e non mi piace per niente.» Roran mantenne l'espressione furente. «Senti, puoi uccidere i soldati, se ti va, ma devi prima recuperare le forze. Non ti mancheranno i volontari; la gente si fida di te in battaglia, specie dopo quanto ha visto la scorsa notte.» Quando Roran continuò nel suo ostinato silenzio, Horst sospirò e gli batte la mano sulla spalla sana. Poi uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Roran non battè ciglio. Fino a quel momento, soltanto tre cose avevano contato per lui: la sua famiglia, la sua casa nella Valle Palancar e Katrina. La sua famiglia era stata decimata l'anno prima. La fattoria distrutta e bruciata, anche se gli restava sempre la terra.
E adesso aveva perso Katrina.
Un singhiozzo soffocato sfuggì dalla morsa di ferro che gli serrava la gola. Si trovava ad affrontare un dilemma che gli dilaniava l'anima: l'unico modo per salvare Katrina era inseguire i Ra'zac e lasciare la Valle Palancar, ma non potèva abbandonare Carvahall ai soldati. E non poteva dimenticare Katrina.
Il mio cuore o la mia casa, pensò amareggiato. Nessuno aveva valore senza l'altro. Uccidere i soldati sarebbe servito soltanto a non far tornare i Ra'zac, e quindi Katrina. E comunque il massacro sarebbe stato inutile se stavano arrivando i rinforzi, perché avrebbe significato in ogni caso la fine di Carvahall.
Roran strinse i denti quando lo trafisse un nuovo accesso di dolore alla spalla. Chiuse gli occhi. Spero che divorino Sloan come hanno fatto con Quimby. Nessun destino era abbastanza orribile per quel traditore. Roran lo maledisse augurandogli le peggiori sciagure che conosceva.
Se anche fossi lìbero di lasciare Carvahall, come farei a trovare i Ra'zac? Chi può sapere dove vivono? Chi oserebbe dare informazioni sui servi di Galbatorix? La disperazione prese il sopravvento mentre cercava una soluzione al problema. Immaginò di trovarsi in una delle grandi città dell'Impero, alla vana ricerca, fra edifici sporchi e orde di stranieri, di un barlume, un anelito, un assaggio del suo amore.
Un fiume di lacrime gli sgorgò dagli occhi, mentre si piegava in due, gemendo per la sofferenza e la paura. Si dondolava avanti e indietro, cieco a tutto, se non alla desolazione del mondo...
Un incalcolabile periodo di tempo ridusse i singhiozzi di Roran a deboli rantoli di protesta. Si asciugò gli occhi e si costrinse a trarre un lungo, tremante respiro. Fece una smorfia. Aveva la sensazione che i suoi polmoni fossero pieni di schegge di vetro.
Devo pensare, si disse.
Si appoggiò alla parete, e a poco a poco - per pura forza di volontà - cominciò a domare le sue selvagge emozioni per sottometterle all'unica cosa che poteva salvarlo dalla pazzia: la ragione. Il collo e le spalle gli dolevano per la violenza dello sforzo.
Una volta recuperato il controllo, Roran mise ordine fra i suoi pensieri, come un abile artigiano che dispone con cura i suoi strumenti. Dev'esserci una soluzione nascosta fra le cose che so, se soltanto riuscirò ad avere abbastanza immaginazione.
Non poteva inseguire i Ra'zac per aria, e questo era un dato di fatto. Qualcuno avrebbe dovuto dirgli dove rintracciarli, e fra tutte le persone a cui avrebbe potuto chiedere, i Varden probabilmente erano quelli che ne sapevano di più. Il problema era che trovarli sarebbe stato difficile quanto trovare i profanatori, e lui non poteva perdere tempo a cercarli. Anche se... Una vocina nella sua mente insisteva a ricordargli le storie che raccontavano i cacciatori di pellicce e i mercanti sul fatto che il Surda appoggiava in segreto i Varden.
Il Surda. Il paese si trovava a sud dell'Impero, o almeno così aveva sentito dire, dato che Roran non aveva mai visto una mappa di Alagaésia. In condizioni ideali, ci sarebbero volute parecchie settimane per raggiungerlo a cavallo, molte di più se avesse dovuto evitare i soldati. Ovviamente sarebbe stato più rapido navigare lungo la costa verso sud, ma questo avrebbe significato raggiungere il fiume Toark per proseguire fino a Teirm e trovare una nave. Ci sarebbe voluto troppo tempo. E restava sempre il problema dei soldati.
«Quanti sarebbe, avrebbe, potrebbe...» mormorò, aprendo e chiudendo più volte il pugno sinistro. A nord di Teirm, l'unico porto che conosceva era Narda, ma per raggiungerlo avrebbe dovuto valicare l'intera Grande Dorsale, un'impresa mai compiuta, nemmeno dai cacciatori di pellicce.
Roran imprecò sottovoce. Il progetto era irrealizzabile. Dovrei cercare di salvare Carvahall, non di abbandonarla. Il problema era che, in cuor suo, il villaggio e tutti i suoi abitanti erano già condannati. Di nuovo gli spuntarono le lacrime. Tutti i suoi abitanti...
E se... se tutti gli abitanti di Carvahall mi accompagnassero a Narda e da lì nel Sur dal In questo modo, avrebbe realizzato entrambi i suoi desideri a un tempo.
L'audacia dell'idea lo sconvolse.
Era un'eresia, una blasfemia, pensare di poter convincere i contadini ad abbandonare le loro fattorie o gli artigiani le loro botteghe... eppure... eppure qual era l'alternativa se non la schiavitù o la morte? I Varden erano l'unico popolo che ospitava i fuggiaschi dell'Impero, e Roran era sicuro che i ribelli avrebbero accolto con gioia un intero villaggio di forze fresche, che per di più avevano già dimostrato il loro valore in battaglia. Inoltre, portando il villaggio da loro, si sarebbe conquistato la fiducia dei Varden, che gli avrebbero così rivelato dove si trovavano i Ra'zac. Forse potranno spiegarmi perché Galbatorix mi vuole catturare a tutti i costi.
La riuscita del piano, però, dipendeva dalla sua attuazione prima dell'arrivo di nuove truppe a Carvahall. Gli restavano perciò soltanto un paio di giorni al massimo per organizzare la partenza di più di trecento persone. Un'impresa spaventosa.
Roran sapeva che la semplice ragione non sarebbe servita a persuadere nessuno; gli serviva un fervore profetico per infiammare gli animi della gente, per far sentire loro nel profondo del cuore che era necessario rinunciare alle pastoie delle loro vite e delle loro identità. Né sarebbe servito instillare soltanto paura, perché sapeva che la paura spesso induce coloro che si trovano in pericolo a opporre maggiore resistenza. Doveva piuttosto infondere un senso di missione, di destino, per convincere i compaesani che unirsi ai Varden e combattere Galbatorix era l'azione più nobile del mondo. Ci voleva una passione che la fatica non avrebbe potuto rallentare, la sofferenza trattenere o la morte estinguere.
Nella mente, Roran vide Katrina davanti a lui, pallida e spettrale con i suoi occhi ambrati. Rammentò il tepore della sua pelle, la fragranza dei suoi capelli, la sensazione che gli aveva dato stare con lei nel segreto del buio. Poi, in una lunga coda dietro di lei, comparvero la sua famiglia, i suoi amici, e tutti quelli che conosceva a Carvahall, sia i vivi che i morti. Se non fosse stato per Eragon, e per me, i Ra'zac non sarebbero mai venuti. Devo salvare il villaggio dalle grìnfie dell'Impero, così come devo salvare Katrina da quei profanatori.
Spronato dalla potenza della visione, Roran si alzò dal letto; la spalla protestò inviandogli una nuova fitta di dolore. Barcollò e si appoggiò alla parete. Recupererò mai l'uso del braccio destro? Aspettò che il dolore calasse. Ma questo non successe. Allora digrignò i denti, si costrinse a raddrizzare la schiena e uscì dalla stanza.
Elain stava piegando degli asciugamani nel corridòio e lanciò un'esclamazione sorpresa. «Roran! Che ci fai...» «Vieni» ringhiò lui, oltrepassandola.
Con espressione preoccupata, Baldor si affacciò da una porta. «Roran, non dovresti andartene in giro. Hai perso troppo sangue. Coraggio, ti aiuto a...»
«Vieni.»
Roran sentì che lo seguivano mentre scendeva le scale verso l'ingresso, dove c'erano Horst e Albriech che parlavano tra di loro. I due alzarono lo sguardo, allibiti.
«Venite.»
Roran ignorò la pioggia di domande che gli si riversarono addosso, aprì la porta d'ingresso e uscì nel crepuscolo. Sopra di lui torreggiava un'imponente massa di nubi orlata di oro e di porpora.
In testa al gruppetto, Roran marciò spedito verso il perimetro
di Carvahall ripetendo il suo ordine ogni volta che incontrava un uomo o una donna, strappò dal fango una pertica su cui era montata una torcia, girò sui tacchi e ripercorse lo stesso tragitto fino al centro del villaggio. Lì si fermò e conficcò la pertica nel terreno, poi alzò il braccio sinistro e ruggì: «VENITE!»
La sua voce riecheggiò in tutto il paese. Roran continuava a chiamare, mentre dalle case e dai vicoli bui la gente si riversava nello spiazzo per radunarsi intorno a lui. Per lo più erano curiosi, altri entusiasti, altri intimoriti, e alcuni arrabbiati. Loring arrivò con i tre figli al seguito, e dalla direzione opposta giunsero Brigit, Delwin, e Fisk con sua moglie, Isold. Morn e Tara lasciarono la taverna e si unirono alla folla di spettatori.
Quando vide che quasi tutta Carvahall era di fronte a lui, Roran fece silenzio, serrando il pugno sinistro fino a conficcarsi le unghie nel palmo. Katrina. Alzò la mano, l'aprì e mostrò a tutti le lacrime di sangue che gli gocciolavano lungo il braccio. «Questo» disse «è il mio dolore. Guardate bene, perché sarà anche il vostro, se non fermeremo la sventura che si è abbattuta su di noi. I vostri amici e i vostri parenti saranno ridotti in catene, destinati alla schiavitù in terre straniere, o uccisi davanti ai vostri occhi, sgozzati dalle lame spietate dei soldati. Galbatorix farà spargere sale sulla nostra terra perché non produca più frutti. Questo ho visto. Questo io so.» Cominciò a camminare in tondo, come un lupo in gabbia, guardando ciascuno con occhi fiammeggianti. Aveva conquistato la loro attenzione. Adesso doveva scuoterli e condurli dove voleva.
«Mio padre è stato ucciso dai profanatori. Mio cugino è fuggito. La mia fattoria è stata rasa al suolo. E la mia promessa sposa è stata rapita dal suo stesso padre, che ha ucciso Byrd e ci ha traditi tutti! Quimby divorato, il granaio del villaggio bruciato insieme alle case di Delwin e Fisk. Parr, Wyglif, Ged, Bardrick, Farold, Hale, Garner, Kelby, Melkolf, Albem ed Elmund: tutti morti. Molti di voi, come me, sono stati feriti e non sono più in grado di mantenere le proprie famiglie. Non bastava che dovessimo sgobbare ogni giorno della nostra vita per strappare un misero sostentamento alla terra, soggetti ai capricci della natura? Non bastava che dovessimo pagare le tasse onerose di Galbatorix senza vederci adesso costretti a subire questi insensati tormenti?» Roran scoppiò in una risata isterica, ululando al cielo e ascoltando la follia nella propria voce. Nessuno si mosse.
«Ora conosco la vera natura dell'Impero e di Galbatorix: essi sono il male. Galbatorix è una piaga purulenta sulla faccia della terra. Ha distrutto i Cavalieri e cancellato la pace e la prosperità. I suoi servi sono demoni ripugnanti generati da chissà quale nero abisso. Ma Galbatorix si contenta di schiacciarci sotto il suo tallone? No! Lui vuole avvelenare tutta Alagaésia, soffocarci sotto una coltre di miseria. I nostri figli e i loro discendenti dovranno vivere all'ombra delle sue tenebre fino alla fine dei tempi, ridotti in schiavitù come vermi, come insetti da torturare a suo piacimento. A meno che...»
Roran scrutò gli occhi sgranati dei compaesani, consapevole di tenerli tutti col fiato sospeso. Nessuno aveva mai avuto il coraggio di dire quello che lui stava proclamando a gran voce. Abbassò il tono in un sussurro roco. «A meno che non decidiamo di opporci al male.
«Abbiamo combattuto contro i soldati e contro i Ra'zac, ma questo non avrà alcun significato se moriremo soli e dimenticati... o verremo condotti via in catene. Non possiamo restare qui, e non permetterò che Galbatorix distrugga tutto quello per cui vale la pena di vivere. Preferirei farmi cavare gli occhi e mozzare le mani piuttosto che vedere il suo trionfo! Io scelgo di combattere! Io scelgo di uscire dalla mia tomba e di lasciare che i miei nemici ci si seppelliscano dentro!
«Io scelgo di lasciare Carvahall.
«Attraverserò la Grande Dorsale fino a Narda, dove prenderò una nave fino al Surda. Lì mi unirò ai Varden, che da decenni combattono per liberarci dall'oppressione.» La curiosità e la sorpresa dei contadini si trasformarono in sgomento a quell'idea. «Ma non vorrei andare da solo. Venite con me. Venite con me e cogliete l'occasione di plasmare una nuova vita per voi stessi. Liberatevi dai vincoli che vi tengono inchiodati qui.» Roran puntò il dito verso la folla, facendolo scorrere da un individuo all'altro. «Fra cento anni a partire da adesso, quali nomi affioreranno sulle labbra dei bardi? Horst... Brigit... Kiselt... Thane; canteranno le nostre gesta. Canteranno La leggenda di Carvahall, poiché saremo stati l'unico villaggio abbastanza coraggioso da sfidare l'Impero.»
Lacrime di orgoglio colmarono gli occhi di Roran. «Cosa c'è di più nobile che cancellare la turpe macchia di Galbatorix dalle terre d'Alagaésia? Non vivremo più nel terrore che le nostre fattorie vengano distrutte, o di essere uccisi e divorati. Il grano che mieteremo sarà nostro, e quello che avanzerà lo manderemo in omaggio a un re giusto e misericordioso. I fiumi e i torrenti abbonderanno d'oro. Saremo per sempre felici e contenti!
«È il nostro destino!»
Roran alzò la mano davanti alla faccia e lentamente chiuse le dita sulle mezzelune sanguinanti. Rimase immobile, chino sotto il peso della spalla ferita e delle decine di sguardi, in attesa di una risposta al suo discorso. Nessuno parlò. Alla fine si rese conto che volevano che continuasse; volevano sentire ancora parlare della causa e del futuro che aveva tracciato.
Katrina.
Mentre le tenebre s'infittivano intorno al cono di luce della torcia, Roran raddrizzò le spalle e riprese a parlare. Non nascose niente, ma s'impegnò con tutte le sue forze per far capire loro i suoi pensieri e i suoi sentimenti, perché potessero condividere il senso di missione che lo spingeva. «La nostra epoca volge al termine. Dobbiamo compiere un nuovo passo e unirci ai Varden, se vogliamo vivere liberi, insieme ai nostri figli.» Parlava alternando toni dolci e rabbiosi, ma sempre con grande fervore, per tenere avvinto il suo pubblico.
Quando ebbe esaurito la sua scorta di immagini, Roran guardò i volti dei suoi amici e vicini, e disse: «Partirò fra due giorni. Venite con me, se volete, ma io andrò in ogni caso.» Chinò il capo e si allontanò dalla torcia. La luna calante si affacciò da dietro un banco di nubi. Una leggera brezza si levò a spazzare il villaggio. Un segnavento di ferro cigolò su un tetto nel seguire la direzione del refolo.
Dalla folla si staccò Brigit, che entrò nel cono di luce, tenendosi l'orlo della veste sollevato per non inciampare. Con espressione rapita, si sistemò lo scialle. «Oggi abbiamo visto un...» S'interruppe, scrollò il capo ed emise una risatina imbarazzata. «Mi è difficile parlare dopo Roran. Non mi piace il suo piano, ma lo ritengo necessario, anche se per ragioni diverse: voglio trovare i Ra'zac e vendicare la morte di mio marito. Andrò con lui. E porterò con me i miei figli.» E fece un passo indietro.
Passò un lungo minuto di silenzio, poi si fecero avanti Delwin e sua moglie Lenna, tenendosi abbracciati. Lenna guardò Brigit e disse: «Ti capisco, sorella. Anche noi vogliamo vendetta, ma più di tutto vogliamo che gli altri nostri figli sopravvivano. Per questa ragione andremo.» Molte altre vedove di mariti uccisi si fecero avanti ed espressero la volontà di partire.
I contadini mormorarono tra di loro, poi tacquero e restarono immobili. Nessun altro sembrava disposto ad affrontare l'argomento: era troppo. Roran li capiva. Anche lui stava ancora cercando di elaborare le implicazioni. Alla fine, Horst si avvicinò alla torcia e fissò le fiamme con uno sguardo severo. «Non serve parlare oltre... Ci occorre tempo per pensare. Ognuno di noi deve decidere da solo. Domani... domani sarà un altro giorno. Forse allora le cose saranno più chiare.» Scosse il capo e levò la torcia, poi la capovolse e la spense nel terreno, lasciando gli altri a ritrovare la strada di casa al chiaro di luna.
Roran si unì ad Albriech e Baldor, che camminavano dietro i genitori a una certa distanza, per lasciarli parlare indisturbati. Nessuno dei due fratelli guardò Roran. Turbato dalla loro mancanza di espressione, Roran domandò: «Credete che verrà qualcun altro? Sono stato abbastanza convincente?»
Albriech latrò una risata. «Abbastanza convincente!»
«Roran» disse Baldor con voce strana, «stanotte avresti convinto un Urgali a mettersi a fare il contadino!» «No!»
«Quando hai finito, ero pronto ad afferrare una lancia e a correre sulla Dorsale insieme a te. E non sarei stato il solo. La domanda non è chi verrà, ma chi non lo farà. Quello che hai detto... non ho mai sentito niente del genere prima d'ora.» Roran aggrottò la fronte. Il suo obiettivo era stato quello di persuadere il villaggio ad abbracciare il suo piano, non a seguirlo ciecamente. Se è questo che vogliono, si disse con una scrollata di spalle. Eppure la prospettiva lo aveva colto impreparato. Qualche tempo prima si sarebbe sentito turbato, ma adesso era disposto ad accettare qualunque cosa lo aiutasse a salvare Katrina e i suoi compaesani.
Baldor si avvicinò al fratello. «Papà perderà la maggior parte dei suoi attrezzi.» Albriech annuì con aria solenne. Roran sapeva che i fabbri si costruivano da soli gli strumenti necessari, e che quegli strumenti formavano un lascito che veniva tramandato di padre in figlio, o di padrone in apprendista. La ricchezza e la maestria di un fabbro si misuravano in base al numero dei suoi attrezzi. Per Horst abbandonare i suoi sarebbe stato... Non sarebbe stato più duro che per chiunque altro, pensò Roran. Il suo unico rammarico era che questo avrebbe significato privare Albriech e Baldor della loro eredità.
Quando arrivarono a casa, Roran si ritirò in camera di Baldor e si sdraiò sul letto. Attraverso le pareti, sentiva le voci di Horst ed Elain che parlavano piano. Si addormentò pensando che simili conversazioni si stavano svolgendo in ogni casa di Carvahall, decidendo il suo - e il loro
destino.
Preparativi
La mattina dopo il suo discorso, Roran guardò fuori dalla finestra e vide dodici uomini uscire da Carvahall, diretti verso le Cascate di Igualda. Sbadigliò e scese in cucina zoppicando.
Horst era seduto al tavolo, da solo, intento a rigirarsi un boccale di birra fra le mani, «'giorno» disse. Roran rispose con un cenno, staccò un pezzo di pane dalla pagnotta che c'era sul bancone e si sedette dall'altro lato del tavolo. Notò gli occhi iniettati di sangue e la barba incolta di Horst, e capì che il fabbro era rimasto sveglio tutta la notte. «Sai perché quel gruppo sta salendo...»
«Devono parlare con le famiglie» tagliò corto Horst. «È dall'alba che la gente continua ad andare sulla Grande Dorsale.» Sbatte il boccale sul tavolo con un sonoro crack. «Tu non hai idea di cosa hai fatto, Roran, chiedendoci di partire. Tutto il villaggio è in subbuglio. Ci hai messi con le spalle al muro, e con un'unica via di uscita: la tua. Certi ti odiano per questo. Be', un discreto numero di compaesani già ti odiava prima per essere stato la causa di tanta sventura.»
Il pane nella bocca di Roran prese il sapore della segatura e lui si sentì pervadere dal risentimento. È stato Eragon a portare qui la pietra, non io. «E gli altri?»
Horst bevve un sorso di birra e sogghignò. «Gli altri ti adorano. Non avrei mai creduto di vedere il giorno in cui il figlio di Garrow avrebbe infiammato il mio cuore con le sue parole, ma l'hai fatto, ragazzo, ah, se l'hai fatto!» Indicò la stanza con un ampio gesto della mano. «Vedi tutto questo? L'ho costruito per Elain e i nostri figli. Mi ci sono voluti sette anni per finirla! Vedi quella trave sulla porta? Mi sono rotto tre dita per metterla a posto. E sai una cosa? Sto per abbandonare tutto a causa di quello che hai detto ieri sera.»
Roran rimase in silenzio; era quello che voleva. Lasciare Carvahall era la cosa giusta da fare, e poiché si sarebbe dedicato anima e corpo a quell'impresa, non vedeva ragione di tormentarsi con sensi di colpa e rimpianti. La decisione è stata presa. Accetterò le conseguenze senza lamentarmi, anche se saranno durissime, perché questo è l'unico modo per sfuggire all'Impero.
«Ma» disse Horst, appoggiandosi su un gomito per rivolgere gli ardenti occhi neri su di lui, «ricorda che se la realtà non corrisponderà ai sogni di gloria che hai evocato, dovrai pagarne lo scotto. Se dai alle persone una speranza e poi gliela sottrai, ti distruggeranno.»
La prospettiva non turbava affatto Roran. Se riusciremo a raggiungere il Surda, saremo accolti come eroi dai ribelli. Quando capì che il fabbro aveva concluso, Roran gli chiese: «Dov'è Elain?»
Horst si accigliò per l'improvviso cambio d'argomento. «Fuori, sul retro.» Si alzò e si lisciò la tunica sulle spalle possenti. «Devo smantellare la fucina e decidere quali attrezzi portarmi dietro. Nasconderò o distruggerò il resto. L'Impero non approfitterà del mio lavoro.»
«Ti aiuto.» Roran spinse indietro la sedia.
«No» ribatte Horst in tono brusco. «Questo è un lavoro che posso fare soltanto con Albriech e Baldor. La fucina è tutta la mia vita, e la loro... E comunque, non mi saresti di grande aiuto con quel braccio. Resta qui. Puoi sempre dare una mano a Elain.»
Quando il fabbro se ne andò, Roran aprì la porta posteriore della cucina e trovò Elain che parlava con Gertrude vicino alla grande catasta di legna che Horst teneva alimentata tutto l'anno. La guaritrice si avvicinò a Roran e gli mise una mano sulla fronte. «Ah, temevo che ti venisse la febbre dopo tutti gli strapazzi di ieri. La tua famiglia ha una fibra straordinaria. Ancora ricordo come rimasi di stucco quando Eragon cominciò a camminare con quelle gambe tutte piagate dopo appena due giorni di letto.» Roran s'irrigidì sentendo nominare il cugino, ma lei parve non farci caso. «Vediamo coma va la spalla, d'accordo?»
Roran piegò il capo in avanti perché Gertrude potesse sciogliergli dietro al collo il nodo della benda che gli sosteneva il braccio. Abbassò adagio l'avambraccio destro immobilizzato con una stecca - fino a raddrizzare completamente l'arto. Gertrude infilò le dita nell'impiastro che gli aveva applicato sulla ferita e le tolse.
«Oh, santo cielo» disse lei.
Subito si diffuse un fetore acre e rancido. Roran strinse i denti per la nausea, poi abbassò lo sguardo verso la spalla. La pelle sotto l'impiastro era diventata bianca e spugnosa, come una gigantesca voglia del colore di una larva. Il morso era stato suturato mentre ancora era svenuto, perciò non vide altro che una linea rosa frastagliata incrostata di sangue. Per via del gonfiore e dell'infiammazione, il filo dei punti era affondato nella carne, che stillava gocce di siero. Gertrude fece schioccare la lingua mentre lo ispezionava, poi rifece la fasciatura e guardò Roran negli occhi. «Va abbastanza bene, ma i tessuti potrebbero infettarsi. Non so ancora dirlo con precisione. Se dovesse accadere, dovremo cauterizzare la ferita.»
Roran annuì. «Una volta guarito, il braccio tornerà come prima?»
«Purché il muscolo si rimargini a dovere. E dipende anche da quale uso vuoi farne. Tu...»
«Riuscirò a combattere?»
«Se vuoi combattere» disse Gertrude in tono sommesso, «ti suggerisco di usare la mano sinistra.» Gli diede un buffetto su una guancia, poi si avviò in fretta verso la sua capanna.
Il mio braccio. Roran fissò l'arto immobilizzato come se non gli appartenesse più. Fino a quel momento, non si era mai reso conto di quanto la sua identità fosse legata alle condizioni del suo corpo. Una ferita alla carne provocava una ferita alla psiche, e viceversa. Roran andava fiero del proprio fisico, e nel vederlo straziato ebbe paura, specie perché il danno era permanente. Se anche avesse recuperato l'uso del braccio, avrebbe per sempre portato una grossa cicatrice come memoria della ferita.
Prendendolo per mano, Elain lo ricondusse in casa, dove sminuzzò della menta in un bollitore che poi mise sulla stufa. «L'ami davvero, non è così?»
«Cosa?» Roran la guardò, confuso.
Elain si mise una mano sul pancione. «Katrina.» Sorrise. «Non sono cieca. Ho visto cos'hai fatto per lei, e sono orgogliosa di te. Non sono molti gli uomini che avrebbero fatto altrettanto.»
«Non conta niente, se non posso liberarla.»
Il bollitore cominciò a fischiare. «Lo farai, ne sono sicura... in un modo o nell'altro.» Elain versò l'infuso. «Sarà meglio cominciare a prepararci per il viaggio. Per prima cosa, mi occuperò della cucina. Tu, nel frattempo, va' di sopra e prendi tutta la biancheria e gli indumenti che pensi possano tornarci utili.»
«E dove li metto?» chiese Roran.
«In sala da pranzo andrà bene.»
Poiché le montagne erano troppo ripide e la foresta troppo fitta per i carri, Roran si rese conto che le provviste si dovevano limitare a quanto ciascuno poteva portare in spalla, o caricare sui due cavalli di Horst, anche se uno doveva restare abbastanza libero da lasciare spazio a Elain, quando il cammino le fosse diventato troppo difficoltoso, viste le sue condizioni.
A peggiorare la situazione, c'era il fatto che molte famiglie di Carvahall non avevano abbastanza animali da soma per trasportare sia le provviste che i bambini, i vecchi e i malati impossibilitati a tenere il passo a piedi. Tutti avrebbero dovuto condividere le risorse. Ma la domanda era: con chi? Ancora non sapevano chi sarebbe partito con loro, a parte Brigit e Delwin.
Quando Elain terminò di impacchettare tutti gli oggetti che riteneva necessari - soprattutto viveri e coperte - mandò Roran a chiedere se qualcuno aveva bisogno di altro spazio o, in caso contrario, se poteva chiederlo lei, perché aveva ancora tanti oggetti che avrebbe desiderato portare, ma che avrebbe altrimenti abbandonato.
Malgrado la gente che si affannava per le strade, Carvahall era immersa in un'immobilità forzata, una calma innaturale che smentiva le attività febbrili che fervevano all'interno delle case. Quasi tutti tacevano e camminavano a capo chino, immersi nei propri pensieri.
Quando Roran arrivò a casa di Orval, dovette picchiare il batacchio per quasi un minuto prima che il contadino andasse ad aprirgli. «Oh, sei tu, Fortemartello.» Orval uscì sul portico. «Scusami se ti ho fatto aspettare, ma ero occupato. In che cosa posso aiutarti?» Si batte la lunga pipa nera sul palmo, poi cominciò a rigirarsela nervosamente fra le dita. Dentro la casa, Roran sentì sedie spostate sul pavimento, e pentole e stoviglie che cozzavano fra loro. Roran spiegò in poche parole l'offerta di Elain e la sua richiesta. Orval alzò gli occhi al cielo e socchiuse le palpebre. «Credo di avere abbastanza spazio per la mia roba. Chiedi in giro, e se ancora vi serve spazio, ho una coppia di buoi che possono trasportare qualcosa in più.»
«Perciò tu verrai?»
Orval spostò il peso da un piede all'altro, con malcelato disagio. «Be', non ho detto questo. Ci stiamo solo... preparando, nel caso di un altro attacco.»
Perplesso, Roran si diresse a casa di Kiselt. Ben presto scoprì che nessuno voleva rivelare se aveva deciso di partire o meno, anche se i preparativi avvenivano alla luce del giorno.
Tutti trattavano Roran con una deferenza che il giovane trovò inquietante. Si manifestava in piccoli gesti: mormorii di cordoglio per la sua sventura, rispettosi silenzi quando parlava, cenni di assenso quando affermava qualcosa. Era come se le sue gesta avessero accresciuto la sua statura e intimidito le persone che conosceva fin da bambino, finendo per stabilire una grande distanza fra loro.
Sono marchiato, si disse, arrancando nel fango. Si fermò sull'orlo di una pozzanghera e si chinò per esaminare il suo riflesso, chiedendosi se poteva distinguere cosa lo rendeva così diverso.
Vide un uomo in abiti laceri e macchiati di sangue, con la schiena curva e un braccio appeso al collo. Il collo e le guance erano adombrati da una barba in crescita, mentre i capelli erano una matassa di ciocche aggrovigliate che gli circondavano la testa come un'aureola. Ma la cosa più spaventosa di tutte erano gli occhi, infossati nelle orbite, che gli davano l'aspetto di un fantasma. Da dentro quei due abissi torbidi, il suo sguardo ardeva come acciaio fuso, colmo di dolore, rabbia e ossessione.
Un sorriso malsano gli affiorò sulle labbra, rendendo il suo viso ancora più sconvolgente. Gli piaceva quello che vedeva. Era lo specchio di ciò che provava. Ora capiva com'era riuscito a convincere i compaesani. Scoprì i denti. Posso usare questa immagine. Posso usarla per distruggere i Ra'zac.
Rialzò la testa e s'incamminò, soddisfatto di sé. Proprio in quel momento arrivò Thane, trafelato, e gli afferrò il braccio sinistro in una stretta calorosa. «Fortemartello! Non sai quanto sono felice di vederti.»
«Sul serio?» Roran si chiese se per caso il mondo non si fosse rivoltato durante la notte.
Thane annuì con vigore. «Da quando abbiamo attaccato i soldati, tutto mi è parso privo di speranza. Mi addolora ammetterlo, ma era così. Mi batteva sempre il cuore, come se stessi per cadere in un pozzo senza fondo; mi tremavano le mani; mi sentivo malissimo. Credevo che qualcuno mi avesse avvelenato! Era peggio della morte. Ma quello che hai detto ieri mi ha guarito all'istante e mi ha lasciato intravvedere di nuovo uno scopo, un significato nel mondo! Io... io non so nemmeno spiegarti l'orrore da cui mi hai salvato. Ti sono debitore. Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa, non esitare a chiedere e io ti aiuterò.»
Commosso, Roran ricambiò la stretta del contadino e disse: «Grazie, Thane. Ti ringrazio.» Thane chinò il capo con le lacrime agli occhi, poi allentò la stretta e lasciò Roran solo in mezzo alla strada.
Che cosa ho fatto?
L'esodo
Una cortina di aria densa e fumosa avvolse Roran non appena ebbe messo piede nei Sette Covoni, la taverna di Morn. Si fermò sotto le corna dell'Urgali inchiodate sulla porta e aspettò che gli occhi si abituassero alla scarsa illuminazione. «C'è nessuno?» chiamò.
La porta che dava sulle stanze sul retro si spalancò di colpo, e Tara piombò nella sala, seguita a ruota da Morn. Entrambi lo guardarono torvi. Tara si piantò le mani carnose sui fianchi e chiese brusca: «Che ci fai qui?» Roran la fissò per un momento, cercando di indovinare la causa di tanta animosità. «Avete deciso se mi accompagnerete sulla Grande Dorsale?»
«Non sono affari tuoi» ribattè Tara.
Oh, sì che lo sono, pensò Roran, ma si trattenne dall'esprimerlo a voce. Invece disse: «Quali che siano le vostre intenzioni, se avete deciso per il sì, Elain gradirebbe sapere se avete spazio nei vostri bagagli per qualche altro oggetto, o se per caso serve a voi dello spazio in più. Lei ha...»
«Spazio in più!» tuonò Morn. Indicò la parete alle sue spalle, dove attendeva una fila di botti di quercia. «Impacchettati nella paglia ho dodici barili della birra più chiara, che ho tenuto alla temperatura perfetta per gli ultimi cinque mesi. Sono l'ultima partita di Quimby! Che dovrei farci, secondo te? E le mie botti di birra forte e scura? Se le lascio qui, i soldati le finiranno nel giro di una settimana, oppure le spaccheranno e verseranno la birra sul terreno, dove le uniche creature che ne godranno saranno bruchi e vermi. Ah!» Morn si lasciò cadere su una sedia, torcendosi le mani e scuotendo la testa. «Dodici anni di lavoro! Dalla morte di mio padre, ho continuato a mandare avanti la taverna come faceva lui, giorno dopo giorno. Ma poi tu ed Eragon siete arrivati a rovinare tutto. Io...» S'interruppe, respirando a fatica, e si asciugò il volto contratto con la manica.
«Su, su, vieni qui.» Tara gli cinse le spalle con il braccio e puntò l'indice contro Roran. «Chi ti ha dato il diritto di sconvolgere Carvahall con le tue chiacchiere assurde? Se partiamo, come farà il mio povero marito a guadagnarsi da vivere? Non può portarsi dietro il mestiere, come Horst o Gedric. Non può chinarsi nei campi a zappare come voi! Impossibile! Se ne andranno tutti, e noi moriremo di fame. E se anche partissimo, moriremmo di fame lo stesso. Ci hai rovinati!»
Lo sguardo di Roran passò dalla faccia arrossata e furibonda della donna a quella sconsolata di Morn, poi si volse e aprì la porta. Si fermò sulla soglia, e in tono sommesso disse: «Vi ho sempre considerati amici. Non voglio che l'Impero vi uccida.» Si strinse la giacca intorno alle spalle e uscì dalla taverna, meditabondo.
Si fermò a bere al pozzo di Fisk, dove Brigit gli andò incontro. Lei lo vide affannarsi a girare la manovella con una mano sola; gli scostò il braccio sano e issò il secchio dell'acqua, che gli passò senza bere. Lui sorseggiò il liquido fresco e disse: «Sono lieto che venga anche tu.» Le restituì il secchio.
Brigit lo squadrò con occhi inflessibili. «Riconosco la forza che ti spinge, Roran, perché è la stessa che spinge me: entrambi vogliamo trovare i Ra'zac. Ma quando l'avremo fatto, esigerò da te il risarcimento per la morte di Quimby. Non dimenticarlo mai.» Lasciò cadere il secchio nel pozzo, senza frenare la manovella che girava vorticosamente. Un istante dopo, il pozzo risuonò di un tonfo sordo.
Roran sorrise nel vederla andar via. Era più compiaciuto che avvilito per la sua dichiarazione: sapeva che se anche tutto il resto di Carvahall avesse rinunciato alla causa o fosse morto, Brigit sarebbe rimasta ad aiutarlo a inseguire i Ra'zac. Dopo - se mai ci fosse stato un dopo avrebbe dovuto pagare il suo prezzo o ucciderla. Era l'unico modo per risolvere questioni del genere.
Al calar della sera, Horst e i figli erano tornati a casa, con due piccoli fagotti di tela cerata. «Tutto qui?» chiese Elain. Horst fece un brusco cenno di assenso, poi posò i fagotti sul tavolo della cucina e li aprì, rivelando quattro martelli, tre tenaglie, una morsa, un mantice di media grandezza e un'incudine da tre libbre.
Mentre tutti e cinque cenavano intorno al tavolo,
Albriech e Baldor raccontarono di aver visto parecchie persone fare preparativi di nascosto. Roran ascoltava con attenzione, cercando di tenere a mente chi aveva prestato i muli a chi, chi non dava cenni di voler partire, e chi poteva avere bisogno di aiuto.
«Il problema più grosso» disse Baldor «è il cibo. Non possiamo trasportarne molto, e sarà difficile cacciare sulla Grande Dorsale per sfamare due o trecento persone.»
«Mmm.» Horst agitò l'indice, la bocca piena di fagioli, poi deglutì. «No, cacciare non basterà. Dovremo portare il bestiame con noi. Nell'insieme, abbiamo abbastanza pecore e capre da sfamarci tutti per un mese e più.» Roran alzò il coltello. «E i lupi?»
«Mi preoccupa di più riuscire a impedire alle bestie di perdersi per la foresta» disse Horst. «Tenerle a bada sarà un'impresa.»
Roran passò il giorno dopo ad aiutare chiunque ne avesse bisogno, parlando poco e mostrando a tutti che lavorava per il bene del villaggio. A tarda notte, crollò a letto sfinito, ma pieno di speranza.
I raggi dell'alba penetrarono nei sogni di Roran e lo destarono con un senso di aspettativa incombente. Si alzò e scese in punta di piedi; uscì sotto il portico a contemplare le montagne avvolte dalla nebbia, assorto nel silenzio del mattino. Il suo fiato formava nuvolette nell'aria, ma lui aveva caldo, perché il suo cuore trepidava di timore e aspettative. Dopo una magra colazione, Horst portò i cavalli davanti alla casa, dove Roran aiutò Albriech e Baldor a caricarli di bisacce e altri pacchi di provviste. Poi Roran s'infilò lo zaino, facendo una smorfia quando lo spallaccio strusciò sulla ferita.
Horst chiuse la porta di casa. Indugiò qualche istante con la mano sul pomello d'acciaio, poi prese la mano di Elain e disse: «Andiamo.»
Mentre camminavano per Carvahall, Roran vide meste famiglie radunarsi davanti alle case con i loro bagagli e le greggi belanti. Vide pecore e cani con fagotti legati sui dorsi, bambini in lacrime seduti sui muli, e slitte improvvisate legate dietro ai cavalli con gabbie di galline svolazzanti appese ai lati. Vide il frutto del suo successo, e non sapeva se ridere o piangere.
Si fermarono ai confini settentrionali di Carvahall, aspettando di vedere chi si sarebbe unito a loro. Passò un minuto, poi arrivò Brigit, accompagnata da Nolfavrell e dai fratellini più piccoli. Brigit salutò Horst ed Elain, e si fermò al loro fianco.
Ridley e la sua famiglia arrivarono dall'esterno della cinta di alberi, guidando un centinaio di pecore dal versante est della Valle Palancar. «Ho pensato che era meglio portarle via da Carvahall» gridò Ridley per farsi sentire nonostante i lamenti del gregge.
«Hai pensato bene!» rispose Horst.
Poi arrivarono Delwin, Lenna e i loro cinque figli; Orval con la famiglia; Loring e i figli; Calitha e Thane, che rivolse a Roran un ampio sorriso; e infine il clan di Kiselt. Le donne rimaste vedove di recente, come Nolla, si strinsero intorno a Brigit. Ancor prima che il sole arrivasse a dissipare la nebbia sulle cime dei monti, la maggior parte del villaggio si era radunata presso lo sbarramento di alberi. Ma non tutti.
Morn, Tara e molti altri non si vedevano ancora, e quando arrivò Ivor, era senza bagagli. «Tu resti» osservò Roran, aggirando uno sparuto gruppo di capre che Gertrude stava cercando di trattenere.
«Sì» disse Ivor, pronunciando il monosillabo in tono mesto. Rabbrividì, si strinse le braccia intorno al corpo e rivolse lo sguardo al sole nascente, alzando il viso per coglierne i primi caldi raggi. «Svart non ne vuole sapere di partire. È testardo peggio di un mulo e si rifiuta di salire sulla Grande Dorsale. Qualcuno deve badare a lui, e io non ho figli, perciò...» Si strinse nelle spalle. «Dubito comunque che avrei mai lasciato la fattoria.»
«Cosa farete quando arriveranno i soldati?»
«Gli daremo una lezione che non si scorderanno.»
Roran emise una risata rauca e batte la mano sul braccio di Ivor, facendo del suo meglio per ignorare il destino che entrambi sapevano attendere chi sarebbe rimasto.
Ethlbert, un allampanato uomo di mezza età, marciò verso l'adunanza e gridò: «Siete un branco di idioti!» Con un cupo mormorio, la gente si volse a guardare il suo accusatore. «Sono rimasto zitto davanti a questa frenesia che vi è presa, ma ora vi dico che non seguirò quel pazzo ciarlatano! Se non vi foste fatti accecare delle sue parole, vedreste che vi sta portando verso la rovina! Ebbene, io non partirò! Correrò il rischio, e passerò oltre i soldati di nascosto per rifugiarmi a Therinsford. Almeno quelli sono come noi, non i barbari che troverete nel Surda!» Sputò in terra, poi girò sui tacchi e si allontanò a grandi passi.
Temendo che Ethlbert potesse convincere altri a rinunciare, Roran scrutò la folla e rimase sollevato nel vedere soltanto volti imbronciati e teste scrollate. A ogni buon conto, non voleva indugiare oltre e dare tempo ai compaesani di cambiare idea. Sotto voce, chiese a Horst: «Quanto ancora dobbiamo aspettare?»
«Albriech, tu e Baldor correte a vedere se viene qualcun altro. Altrimenti, partiamo.» I fratelli si allontanarono di corsa in direzioni opposte.
Mezz'ora dopo, Baldor tornò con Fisk, Isold e il cavallo preso in prestito. Lasciando il fianco del marito, Isold corse verso Horst, facendosi largo a spintoni, ignara del fatto che i capelli le erano sfuggiti dalla crocchia e svolazzavano da tutte le parti. Si fermò, ansimando per riprendere fiato. «Mi dispiace tanto per il ritardo, ma Fisk non si decideva a chiudere bottega. Non sapeva quali pialle o scalpelli portarsi.» Proruppe in una risatina acuta che aveva dell'isterico. «Era come vedere un gatto circondato da topolini che non sa decidere quale acchiappare per primo. Quello, no, quell'altro.»
Un sorriso mesto affiorò sulle labbra di Horst. «Lo capisco perfettamente.»
Roran allungò il collo in cerca di Albriech, ma il giovane non tornava ancora. Digrignò i denti. «Ma che fine ha fatto?» Horst gli batte sulla spalla. «Laggiù, mi pare di vederlo.»
Albriech avanzava fra le case con tre barilotti di birra legati sulla schiena, e un'espressione afflitta così comica da far scoppiare a ridere Baldor e qualche altro. Ai lati di Albriech camminavano Morn e Tara, barcollanti sotto il peso degli enormi zaini, come anche il mulo e le due capre che si trascinavano dietro per la cavezza. Con grande stupore di Roran, gli animali erano carichi di altri barili.
«Non reggeranno più di un miglio» disse Roran, infuriandosi per la testardaggine della coppia. «E non hanno abbastanza viveri. Si aspettano che li sfamiamo noi, oppure...»
«Io non mi preoccuperei del cibo» lo interruppe Horst, ridacchiando sotto i baffi. «La birra di Morn ci servirà a tenere alto il morale, e vale molto più di qualche razione extra. Fidati.»
Non appena Albriech si fu liberato dai barili, Roran chiese a lui e al fratello: «Tutti qui?» Alla risposta affermativa di entrambi, Roran imprecò e si batte il pugno contro la coscia. Escludendo Ivor, altre tre famiglie erano decise a restare nella Valle Palancar: quella di Ethlbert, quella di Parr e quella di Knute. Non posso costrìngerli a venire. Sospirò. «D'accordo. Non ha senso aspettare ancora.»
Un brusìo di eccitazione si diffuse fra i presenti: il momento era arrivato. Horst e altri cinque uomini aprirono la cinta di alberi e gettarono delle tavole sulla trincea perché i paesani e gli animali ci passassero sopra.
Horst fece un cenno con la mano. «Credo che dovresti andare tu per primo, Roran.»
«Aspetta!» Fisk si fece avanti e, con palese orgoglio, porse a Roran un bastone lungo sei piedi, fatto di legno di cratego annerito, con una massa di radici in cima e una punta smussata di acciaio alla base. «L'ho fatto stanotte» disse il carpentiere. «Ho pensato che ne avresti avuto bisogno.»
Roran fece scorrere la mano sinistra sul legno, ammirandone la levigatezza. «Non avrei potuto chiedere niente di meglio. È un capolavoro... Ti ringrazio.» Fisk sorrise e si fece da parte.
Consapevole delle decine di occhi che lo fissavano, Roran si volse verso le montagne e le Cascate di Igualda. La ferita gli pulsava sotto lo spallaccio di cuoio. Dietro di lui giacevano le ossa di suo padre e tutto quello che conosceva. Davanti a lui i picchi frastagliati svettavano contro il cielo, come a sbarrargli la strada verso il raggiungimento della sua meta. Ma non si sarebbe sottratto. E non avrebbe guardato indietro.
Katrina.
Alzando il mento, Roran mosse il primo passo. Il bastone picchiò sulle tavole di legno mentre attraversava la trincea e usciva da Carvahall, guidando i suoi compaesani nella selvaggia natura della Grande Dorsale.
La rupe di Tel'naeìr
Fulgido come un sole abbagliante, il drago si librava davanti a Eragon e agli altri, radunati sulla rupe di Tel'naeir, investendoli con folate di vento sollevate dalle sue ali possenti. Il suo corpo sembrava sprigionare vampe di fuoco, mentre l'alba lucente illuminava le sue squame dorate che riflettevano sprazzi di luce abbagliante sul terreno e sugli alberi. Era molto più grande di Saphira, abbastanza da avere almeno parecchie centinaia di anni; il collo, gli arti e la coda erano in proporzione più massicci. Sul suo dorso era seduto il Cavaliere, i suoi abiti di un bianco abbacinante contro lo splendore delle squame.
Eragon cadde in ginocchio, con il volto alzato. Non sono solo... Timore reverenziale e sollievo lo pervasero. Non sarebbe più stato l'unico a sopportare il peso della responsabilità dei Varden e di Galbatorix. Davanti a lui c'era uno dei guardiani del remoto passato, risorto dagli abissi del tempo per guidarlo, un simbolo vivente, l'incarnazione delle leggende con cui era cresciuto. Davanti a lui c'era il suo maestro. Davanti a lui c'era una leggenda! Quando il drago virò per atterrare, Eragon trasalì: la zampa anteriore sinistra della creatura era stata mozzata da un colpo terribile, lasciando un inerte moncone bianco laddove un tempo c'era un arto possente. Gli si riempirono gli occhi di lacrime.
Un turbine di rametti secchi e di foglie si levò in cima alla rocca, quando il drago si posò sul tappeto di trifoglio e chiuse le ali. Il Cavaliere smontò con cautela usando la zampa destra del drago, quella sana, e si avvicinò a Eragon con le mani giunte. Era un elfo dai capelli argentei, vecchio oltre ogni dire, anche se l'unico segno di età era l'espressione di grande compassione e tristezza sul suo volto.
«Osthato Chetowà» mormorò Eragon. «Il Saggio Dolente. .. Come tu mi hai chiesto, sono venuto.» Con un sussulto, si ricordò delle buone maniere, e si toccò le labbra. «Atra esterni ono thelduin.»
Il Cavaliere sorrise. Gli posò le mani sulle spalle e lo invitò a rialzarsi, fissandolo con una tale tenerezza che Eragon non riusciva a distogliere lo sguardo; si sentiva consumato dagli sconfinati abissi degli occhi dell'elfo. «Oromis è il mio nome, Eragon Ammazzaspettri.»
«Lo sapevi» mormorò Islanzadi, con un'espressione ferita che presto si trasformò in una vampa di collera. «Sapevi dell'esistenza di Eragon e non mi hai detto niente? Perché mi hai tradita, Shur 'rugai?»
Oromis spostò lo sguardo da Eragon sulla regina. «Ho taciuto perché non sapevo se Eragon o Arya sarebbero vissuti abbastanza a lungo da arrivare fin qui. Non volevo darti una fragile speranza che avrebbe potuto infrangersi da un momento all'altro.»
Islanzadi si volse di scatto, con uno svolazzo del mantello di piume di cigno. «Non avevi il diritto di nascondermi questa notizia! Avrei potuto mandare dei guerrieri a proteggere Arya, Eragon e Saphira nel Farthen Dùr, e scortarli qui sani e salvi.»
Oromis sorrise mesto. «Non ti ho tenuto nascosto niente, Islanzadi, se non quello che avevi già deciso di non vedere. Se avessi divinato il territorio, com'era tuo dovere, avresti scoperto la fonte del caos che devasta Alagaésia, e appreso la verità su Arya ed Eragon. Che tu abbia potuto dimenticare i Varden e i nani, nel tuo dolore, è comprensibile, ma Brom? Vinr Àlfakyn? L'ultimo degli Amici degli Elfi? Hai chiuso il tuo cuore al mondo, Islanzadi, e ti sei rifugiata sul tuo trono nodoso. Non potevo rischiare di farti ancora più male procurandoti un altro lutto.»
La collera di Islanzadi sbollì, lasciandole il volto pallido e le spalle curve. «Sono mortificata» mormorò. Una folata d'aria umida e bollente investì Eragon quando il drago dorato si chinò per esaminarlo con occhi scintillanti. Finalmente ci incontriamo, Eragon Ammazzaspettri. Io sono Glaedr. La voce del drago - un maschio, senza ombra di dubbio - rimbombò nella mente di Eragon con il fragore di una valanga di montagna.
Eragon non potè far altro che portarsi le dita alle labbra e dire: «Sono onorato.»
Poi Glaedr spostò la sua attenzione su Saphira. La dragonessa rimase perfettamente immobile, con il collo rigido e inarcato, mentre Glaedr le annusava la guancia e il profilo dell'ala. Eragon vide i muscoli contratti di Saphira percorsi da un involontario tremore. Hai l'odore degli umani, disse Glaedr, e tutto quello che sai della tua razza è dovuto soltanto a quanto il tuo istinto ti ha insegnato, ma in te c'è il cuore di un vero drago.
Durante questo scambio silenzioso, Orik si presentò a Oromis. «In tutta sincerità, questo va ben oltre quanto avrei mai osato sperare. Rappresenti una lieta sorpresa in questi tempi bui, Cavaliere.» Si batte il pugno sul cuore. «Se non è troppo arrogante, vorrei chiederti un favore in nome del mio re e del mio clan, com'era usanza fra i nostri popoli.» Oromis annuì. «E io te lo concederò, se mi è possibile.»
«Allora dimmi: perché sei rimasto nascosto per tutti questi anni? Avevamo un grande bisogno di te, Argetlam.» «Ah» fece Oromis. «Esistono molti dispiaceri a questo mondo, e uno dei più grandi è non poter aiutare coloro che soffrono. Non potevo rischiare di abbandonare questo rifugio, perché se fossi morto prima che un uovo di Galbatorix si schiudesse, non sarebbe rimasto nessuno a tramandare i nostri segreti al nuovo Cavaliere, e sarebbe stato ancor più arduo sconfiggere il tiranno.»
«Era questo il motivo?» esclamò Orik, indignato. «Queste sono le parole di un codardo! Le uova avrebbero potuto non schiudersi mai.»
Calò un silenzio di tomba, interrotto soltanto da un cupo ringhio proveniente dalle zanne di Glaedr. «Se non fossi mio ospite» tuonò Islanzadi, «ti avrei colpito io stessa per questo insulto.»
Oromis tese le braccia. «Nessuna offesa. È una reazione comprensibile. Ma devi capire, Orik, che Glaedr e io non possiamo combattere. Glaedr ha la sua mutilazione, e anch'io...» si toccò un lato della testa, «anch'io sono menomato. I Rinnegati hanno spezzato qualcosa dentro di me, mentre ero loro prigioniero, e pur essendo ancora in grado di insegnare e apprendere, non posso più controllare la magia, a parte qualche incantesimo minore. I poteri mi sfuggono, per quanto io mi sforzi. Sarei più che inutile in battaglia; sarei un anello debole, un peso, qualcuno da catturare facilmente e usare contro di voi. Perciò mi sono sottratto all'influenza di Galbatorix, anche se desideravo combatterlo con tutto me stesso.»
«Lo Storpio Che è Sano» mormorò Eragon.
«Perdonami» disse Orik, con espressione contrita.
«Non c'è nulla da perdonare.» Oromis posò una mano sulla spalla di Eragon. «Islanzadi Dròttning, col tuo permesso...» «Andate» disse la regina con un filo di voce. «Andate e portate a compimento l'opera.»
Glaedr si accucciò sul terreno, e Oromis si arrampicò sulla sua zampa per poi montare in sella. «Venite, Eragon e Saphira. Abbiamo tante cose da dirci.» Il drago dorato spiccò il volo dalla rupe e girò in circolo, sollevando una corrente d'aria. Eragon e Orik si strinsero gli avambracci con aria solenne. «Fa' onore al tuo clan» disse il nano. Mentre saliva in groppa a Saphira, Eragon ebbe la sensazione di imbarcarsi per un lungo viaggio, e che avrebbe dovuto dire addio a coloro che restavano indietro. Tuttavia si limitò a guardare Arya e a sorridere, lasciando che fossero la gioia e la meraviglia a parlare per lui. Lei aggrottò la fronte, come preoccupata, ma lui era già in alto, trasportato verso il cielo dalla bramosìa del volo di Saphira.
I due draghi seguirono la bianca rupe verso nord per diverse miglia, accompagnati soltanto dal rumore delle loro ali. Saphira volava fianco a fianco con Glaedr. Il suo entusiasmo ribolliva nella mente di Eragon, acutizzando anche le sue emozioni.
Atterrarono in un'altra radura situata ai margini della rupe, appena prima che la parete di roccia nuda tornasse a sprofondare nella terra. Un sentiero brullo conduceva dal precipizio ai gradini di un basso capanno, cresciuto fra i tronchi di quattro alberi, uno dei quali si biforcava su un torrente che emergeva dagli oscuri recessi della foresta. Glaedr non poteva entrare nel rifugio; semmai, il capanno sarebbe entrato sotto il suo torace.
«Benvenuti a casa mia» disse Oromis nello smontare di sella con straordinaria agilità. «Io vivo qui, ai margini della rupe di Tel'naeir, perché questo luogo mi offre l'opportunità di pensare e studiare in pace. La mia mente funziona meglio, lontano da Ellesméra e dalle distrazioni degli altri individui.»
Scomparve all'interno del capanno, poi tornò con due sgabelli e boccali d'acqua pura e fresca. Fra un sorso e l'altro, Eragon ammirò il vasto panorama della Du Welden-varden nel tentativo di nascondere l'emozione e il nervosismo che provava, aspettando che l'elfo parlasse. Sono in presenza di un altro Cavaliere! Al suo fianco, Saphira si accucciò con gli occhi fissi su Glaedr, vangando distrattamente il terriccio con gli artigli.
La pausa nella conversazione si allungava sempre di più. Passarono dieci minuti, mezz'ora e poi un'ora. A un certo punto, Eragon cominciò a misurare lo scorrere del tempo in base ai progressi del sole. Al principio la sua mente era affollata di quesiti e pensieri, ma alla fine questi cedettero a una serena rassegnazione. Si limitò a godersi la giornata. Soltanto allora Oromis disse: «Conosci il valore della pazienza. Bene.»
Ci volle qualche istante perché Eragon recuperasse la voce. «Non puoi fare la posta a un cervo se vai di fretta.» Oromis posò il suo boccale. «Giusto. Fammi vedere le tue mani. Sai, le mani dicono molto di una persona.» Eragon si tolse i guanti e lasciò che l'elfo gli prendesse i polsi con le dita lunghe e scarne. Oromis esaminò i calli di Eragon e disse: «Correggimi se sbaglio. Hai impugnato falci e forconi molto più spesso di una spada, anche se sei abituato a maneggiare l'arco.»
«Giusto.»
«E hai scritto o disegnato assai poco.»
«Brom mi ha insegnato a leggere a Teirm.»
«Mmm. A parte la scelta degli attrezzi, mi sembra evidente che tendi a gettarti a capofitto nelle situazioni senza badare alla tua incolumità.»
«Cosa te lo fa credere, Oromis-elda?» chiese Eragon, usando l'appellativo più rispettoso e formale. «Non elda» lo corresse Oromis. «Puoi chiamarmi maestro in questa lingua, oppure ebrithil nell'antica lingua, sarà sufficiente. Porgerai la stessa cortesia a Glaedr. Noi siamo i tuoi insegnanti; e voi i nostri allievi. Vi comporterete con rispetto e deferenza.» Oromis usò un tono gentile, ma con l'autorità di chi si aspetta obbedienza incondizionata. «Sì, maestro Oromis.»
«Vale lo stesso per te, Saphira.»
Eragon percepì quanto fosse difficile per Saphira rinunciare al suo orgoglio abbastanza da dire Sì, maestro. Oromis annuì. «Ora a noi. Chiunque abbia una tale collezione di cicatrici è stato perseguitato dalla sfortuna o combatte come un demonio, oppure insegue deliberatamente il pericolo. Combatti come un demonio?»
«No.»
«Né mi sembri perseguitato dalla sfortuna, anzi, tutt'altro. Questo lascia spazio a un'unica spiegazione. A meno che non la pensi diversamente.»
Eragon ripercorse le esperienze avute a casa e durante i suoi viaggi, nel tentativo di catalogare il proprio comportamento. «Direi piuttosto che quando mi prefiggo un obiettivo, voglio realizzarlo a tutti i costi... specie se qualcuno che amo si trova in pericolo.» Il suo sguardo guizzò dalla parte di Saphira.
«Ti piace dunque intraprendere strade pericolose?»
«Mi piacciono le sfide.»
«Quindi provi il desiderio di cimentarti nelle avversità per mettere alla prova le tue capacità.»
«Mi piace vincere le sfide, ma ho affrontato abbastanza traversie da sapere che è sciocco rendere le cose più difficili di quanto già non siano. È quanto posso fare per sopravvivere.»
«Eppure hai scelto di inseguire i Ra'zac, quando sarebbe stato più facile restare nella Valle Palancar. E sei venuto qui.» «Era la cosa giusta da fare... maestro.»
Per lunghi minuti regnò il silenzio. Eragon provò a immaginare che cosa stesse pensando l'elfo, ma non riusciva a decifrare alcuna emozione sulla maschera impassibile del suo volto. Alla fine, Oromis si riscosse. «Per caso, ti hanno dato un monile di qualche tipo a Tarnag? Un gioiello, un ornamento, magari una moneta?»
«Sì.» Eragon s'infilò la mano nella tunica ed estrasse la catena con il piccolo martello d'argento. «L'ha fatto Gannel per me su ordine di Rothgar, per impedire a chiunque di divinare me o Saphira. Temevano che Galbatorix potesse scoprire il mio volto... Come lo sapevi?»
«Perché» disse Oromis «non riuscivo più a percepirti.»
«Qualcuno ha tentato di divinarmi vicino a Silthrim una settimana fa. Eri tu?»
Oromis fece no con la testa. «Dopo la prima volta che ti ho divinato con Arya, non ho più avuto bisogno di ricorrere a un metodo così incivile per trovarti. Potevo toccare la tua mente con la mia, come ho fatto quando eri ferito nel Farthen Dùr.» Prendendo l'amuleto, mormorò alcune frasi nell'antica lingua, poi glielo restituì. «Non contiene altri incantesimi occultati. Tienilo sempre con te; è un dono prezioso.» Unì i polpastrelli, le unghie chiare e rotonde come squame di pesce, e contemplò l'orizzonte. «Perché sei qui, Eragon?»
«Per completare il mio addestramento.»
«E cosa pensi che voglia dire?»
Eragon si agitò, a disagio. «Imparare altro sulla magia e sulle tecniche di combattimento. Brom non ha potuto finire di insegnarmi tutto quel che sapeva.»
«La magia, l'arte della scherma, e tutte le altre tecniche sono inutili se non sai come e quando applicarle. Questo ti insegnerò. Tuttavia, come ha dimostrato Galbatorix, il potere senza rigore morale è la forza più pericolosa del mondo. Il mio principale compito, pertanto, sarà aiutare voi, Eragon e Saphira, a comprendere quali principi debbano guidarvi, perché non facciate le scelte giuste per le ragioni sbagliate. Dovrete apprendere di più su voi stessi, chi siete e che cosa siete in grado di fare. Ecco perché siete qui.»
Quando cominciamo? domandò Saphira.
Oromis fece per rispondere, quando il suo corpo s'irrigidì e il boccale gli cadde di mano. Divenne rosso in volto e le sue dita si trasformarono in artigli che stringevano la veste come lappole. Il cambiamento fu spaventoso e repentino, ma Eragon non ebbe nemmeno il tempo di muovere un dito che l'elfo si era già calmato, anche se il suo corpo tradiva un'estrema debolezza.
Preoccupato, Eragon si arrischiò a chiedere: «Stai bene?»
Oromis sollevò un angolo della bocca in un sorriso ironico. «Meno di quanto vorrei. Noi elfi ci illudiamo di essere immortali, ma nemmeno noi possiamo sfuggire a certe malattie della carne. Con la nostra magia possiamo soltanto rallentarle. No, non temere... non è contagiosa, ma non posso guarirmi.» Sospirò. «Ho passato decenni a evocare su di me piccoli, deboli incantesimi che, strato dopo strato, raddoppiano l'effetto dei sortilegi che ormai sono fuori dalla mia portata. Mi sono protetto con essi per poter vivere abbastanza a lungo da vedere la nascita dell'ultimo drago e per contribuire alla resurrezione dei Cavalieri dalle rovine dei nostri errori.»
«Per quanto...»
Oromis inarcò un sopracciglio obliquo. «Per quanto vivrò ancora? Abbiamo tempo, ma per noi è poco e prezioso, specie se i Varden decidono di chiamarti in loro aiuto. Di conseguenza, per rispondere alla tua domanda, Saphira, cominceremo la vostra istruzione seduta stante, e ci alleneremo più in fretta di quanto abbia mai fatto o farà qualsiasi altro Cavaliere, perché sarò costretto a condensare secoli di conoscenze in mesi e settimane.»
«Tu sai» disse Eragon, lottando per vincere l'imbarazzo e la vergogna che gli avvampavano le guance «della mia... della mia infermità.» Pronunciò l'ultima parola a fatica, odiandola con tutto se stesso. «Sono storpio come te.» Negli occhi di Oromis balenò un lampo di compassione, ma la sua voce suonò severa. «Eragon, tu sei storpio soltanto se ti consideri tale. Capisco come ti senti, ma devi restare ottimista, perché un atteggiamento negativo è più limitante di qualunque ferita fisica. Ti parlo per esperienza personale. L'autocommiserazione non aiuterà né te né Saphira. Io e gli altri stregoni studieremo la tua menomazione per vedere di trovare un modo di alleviarla, ma nel frattempo, il tuo addestramento procederà come se niente fosse.»
Eragon si sentì torcere le viscere, e assaggiò il sapore della bile nel capire che cosa avrebbe significato per lui. Oromis non può davvero volere che io sopporti ancora quel tormento! «Il dolore è intollerabile» balbettò, in preda al panico. «Mi ucciderà. Io...»
«No, Eragon, non ti ucciderà. Conosco bene la tua sofferenza. Tuttavia abbiamo entrambi un dovere da compiere, tu nei riguardi dei Varden e io nei tuoi. Non possiamo eluderlo per paura del semplice dolore. La posta in gioco è troppo alta, e non possiamo permetterci di fallire.» Eragon non potè far altro che scuotere il capo, mentre il panico minacciava di sopraffarlo. Cercò di negare le parole di Oromis, ma la verità era adamantina. «Eragon. Devi accettare questo onere in piena coscienza. Non hai niente o nessuno per cui valga la pena di sacrificarsi?»
Il suo primo pensiero fu per Saphira, ma non faceva questo per lei. E non per Nasuada. E nemmeno per Arya. Che cosa lo spingeva, allora? Quando aveva giurato fedeltà a Nasuada, lo aveva fatto per il bene di Roran e dei popoli sottomessi all'Impero. Ma valevano tanto da indurlo a sottoporsi a quel supplizio? Sì, decise. Sì, perché io sono l'unico che possa aiutarli, e perché non sarò mai libero dall'ombra di Galbatorix finché non lo saranno anche loro. E perché è il mio unico scopo nella vita. Che cos'altro potrei fare? Rabbrividì nel pronunciare la frase solenne: «Accetto in nome di coloro per cui combatto: i popoli di Alagaésia, di tutte le razze, che hanno subito le brutalità di Galbatorix. Non m'importa del dolore. Giuro che mi allenerò più duramente di qualunque allievo tu abbia mai avuto.» Oromis annuì con aria grave. «Non chiedo niente di meno.» Guardò Glaedr per un momento, poi disse: «Alzati e togliti la tunica. Fammi vedere di cosa sei fatto.»
Aspetta, disse Saphira. Maestro, Brom sapeva della tua esistenza qui? Eragon si fermò, colpito da quella possibilità. «Naturalmente» disse Oromis. «Da ragazzo fu mio allievo a Ilirea. Sono lieto che gli abbiate dato una degna sepoltura, perché ha avuto una vita difficile e sono pochi coloro che si sono dimostrati gentili con lui. Spero che abbia trovato la pace prima di entrare nel vuoto.»
Eragon aggrottò la fronte. «Conoscevi anche Morzan?»
«Fu mio apprendista prima di Brom.»
«E Galbatorix?»
«Io fui uno degli Anziani che gli negarono un altro drago dopo che il suo primo rimase ucciso, ma no, non ebbi mai la sventura di insegnargli. Si incaricò personalmente di rintracciare e uccidere tutti i suoi mentori.» Eragon smaniava dalla voglia di fare altre domande, ma sapeva che era meglio aspettare, così si alzò e si slacciò il collo della tunica. A quanto pare, disse a Saphira, i segreti di Brom non finiscono mai di sorprenderei. Rabbrividì nel sentire l'aria fredda sulla pelle, poi drizzò le spalle e gonfiò il petto.
Oromis gli girò intorno, fermandosi con un'esclamazione attonita davanti alla cicatrice che gli solcava la schiena. «Perché Arya o qualcuno dei guaritori dei Varden non ti ha rimosso questo marchio? Non dovresti portarlo.» «Arya lo propose, ma...» Eragon s'interruppe, incapace di esprimere ciò che sentiva. Alla fine, disse semplicemente: «Fa parte di me, adesso, come la cicatrice di Murtagh era parte di lui.»
«La cicatrice di Murtagh?»
«Murtagh aveva un marchio simile. Gli fu inflitto dal padre, Morzan, che gli scagliò addosso Zar'roc quando era ancora un bambino.»
Oromis lo guardò serio per lunghi istanti, prima di annuire e ricominciare a camminare. «I tuoi muscoli sono abbastanza sviluppati, e non pendi da un fianco come la maggior parte degli spadaccini. Sei ambidestro?»
«Non proprio, ma ho dovuto imparare a combattere con la sinistra quando mi sono rotto il polso destro a Teirm.» «Bene. Questo ci farà risparmiare del tempo. Unisci le mani dietro la schiena e sollevale il più in alto possibile.» Eragon obbedì, ma la postura gli faceva dolere le spalle e a stento riusciva a far incontrare le mani. «Ora fletti il busto in avanti, tenendo le ginocchia dritte, e prova a toccare il terreno.» Questo fu ancora più difficile per Eragon, che si ritrovò curvo come un gobbo, con le braccia penzoloni oltre la testa, mentre i tendini delle ginocchia gli bruciavano da morire. Le sue dita erano ancora a un palmo dal suolo. «Se non altro ti sai allungare senza farti male. Non avrei mai sperato tanto. Sei in grado di eseguire un certo numero di esercizi di flessibilità senza strapparti. Bene.»
Poi Oromis si rivolse a Saphira. «Vorrei conoscere anche le tue capacità, dragonessa.» Le impartì una serie di comandi complessi che coinvolsero ogni muscolo della sua sinuosa lunghezza, per culminare in una sequenza di acrobazìe aeree quali Eragon non aveva mai visto. Soltanto un paio di cose superavano le sue capacità, come una rovesciata aerea con avvitamento.
Quando atterrò, fu Glaedr che disse: Ho paura che abbiamo viziato i Cavalieri. Se i nostri discendenti fossero stati costretti a sopravvivere allo stato selvatico, come lo sei stata tu o come lo furono i nostri antenati, forse allora avrebbero posseduto le tue capacità.
«No» ribatte Oromis. «Se anche Saphira fosse stata allevata a Vroengard seguendo i metodi tradizionali, sarebbe stata in ogni caso una volatrice straordinaria. Ho visto di rado un drago così naturalmente adatto al cielo.» Saphira battè le palpebre, poi arruffò le ali e si dedicò alla pulizia di un'unghia in maniera tale da nascondersi il muso. «Avrai modo di migliorare, come tutti noi, ma poco, molto poco.» L'elfo si sedette, con la schiena perfettamente diritta. Per le successive cinque ore, secondo la stima di Eragon, Oromis indagò ogni aspetto delle cognizioni di Eragon e di Saphira, dalla botanica alla lavorazione del legno, dalla metallurgia alla medicina, soffermandosi in particolar modo sulle loro conoscenze di storia e dell'antica lingua. L'interrogazione confortò Eragon, perché gli ricordava come Brom era solito esaminarlo durante i loro lunghi spostamenti verso Teirm e Dras-Leona.
Quando si interruppero per il pranzo, Oromis invitò Eragon in casa, lasciando i due draghi da soli. L'alloggio dell'elfo era spoglio, a parte gli oggetti necessari all'alimentazione, all'igiene e alla vita intellettuale. Due pareti erano disseminate di nicchie che ospitavano centinaia di rotoli di pergamena. Vicino al tavolo erano appesi un fodero dorato - dello stesso colore delle squame di Glaedr - e una spada dalla lama color bronzo iridescente.
Sul riquadro interno della porta, incassato nel cuore del legno, c'era un pannello alto una spanna e largo due, che raffigurava una splendida città ricca di torri, addossata a una scarpata e illuminata dalla luce rossa di una luna nascente. La faccia butterata della luna era tagliata a metà dall'orizzonte e sembrava poggiare sul suolo come una cupola screziata grande quanto una montagna. L'immagine era così nitida e ricca di dettagli che sulle prime Eragon la scambiò per una finestra magica; fu solo quando si accorse che l'immagine era assolutamente statica che riuscì ad accettarla come opera d'arte.
«Che luogo è?» domandò.
I lineamenti affilati di Oromis si contrassero per un istante. «Farai bene a mandare a memoria quel panorama, Eragon, poiché in esso risiede l'origine della tua miseria. Quella che vedi era un tempo la nostra città, Ilirea. Fu bruciata e abbandonata durante la Du Fyrn Skulblaka, e divenne la capitale del regno di Broddring, mentre adesso è la città nera di Urù'baen. Ho fatto questo fairth la notte in cui io e gli altri fummo costretti a fuggire prima dell'arrivo di Galbatorix.» «Tu hai dipinto questo... fairth?»
«No, niente del genere. Un fairth è un'immagine fissata per magia su una lastra di ardesia levigata, preparata in anticipo con strati di pigmenti. Il panorama su quella porta raffigura esattamente com'era Ilirea nel momento in cui pronunciai l'incantesimo.»
«E» disse Eragon, incapace di arrestare il flusso di domande «cos'era il regno di Broddring?»
Oromis sgranò gli occhi, allibito. «Non lo sai?» Eragon fece di no con la testa. «Come fai a non saperlo? Certo, considerando come hai vissuto fino a qualche tempo fa e la paura che Galbatorix incute nella tua gente, posso ben capire che tu sia stato cresciuto nelle tenebre dell'ignoranza della tua cultura. Ma non posso credere che Brom sia stato tanto negligente da trascurare argomenti che persino gli elfi o i nani più giovani conoscono. I bambini dei Varden saprebbero dirmi molte più cose sul passato.»
«Brom era più preoccupato di salvarmi la vita che di insegnarmi cose su gente ormai morta» ribattè Eragon. Dopo qualche istante di profondo silenzio, Oromis disse: «Perdonami. Non era mia intenzione dubitare del giudizio di Brom. Le mie parole sono state dettate dall'impazienza; abbiamo così poco tempo, e più cose nuove devi imparare, meno occasioni avremo di approfondire le altre durante la tua permanenza qui.» Aprì una serie di credenze, celate nella parete curva, e prese alcuni panini dolci e una ciotola di frutta. Posò il cibo sul tavolo e fece una breve pausa a occhi chiusi prima di cominciare a mangiare. «Il regno di Broddring era il paese degli umani prima della caduta dei Cavalieri. Dopo aver ucciso Vreal, Galbatorix volò a Ilirea con i Rinnegati e depose il re Angrenost, impadronendosi del trono e dei titoli. Il regno di Broddring formò quindi il nucleo delle conquiste di Galbatorix. In seguito, annesse Vroengard e le altre terre a est e a sud, creando l'impero che tu conosci. Tecnicamente, il regno di Broddring ancora esiste, anche se, a questo punto, dubito che rappresenti più di un nome sui decreti reali.»
Temendo di infastidire l'elfo con altre domande, Eragon si concentrò sul cibo. Il suo volto però dovette tradirlo, perché Oromis disse: «Mi ricordi Brom quando lo scelsi come mio apprendista. Era più giovane di te, aveva appena dieci anni, ma la sua curiosità era altrettanto grande. Per un anno non sentii altro da lui se non come, cosa, quando, e soprattutto, perché. Non trattenerti dal chiedere quel che il tuo cuore ti suggerisce.»
«Sono tante le cose che vorrei sapere» mormorò Eragon. «Chi sei? Da dove vieni? Da dove veniva Brom? Com'era Morzan? Come, cosa, quando, perché? E vorrei sapere tutto su Vroengard e sui Cavalieri. Forse allora avrò più chiaro il mio cammino.»
Calò il silenzio mentre Oromis piluccava una mora, staccandone un pallino succoso alla volta. Quando l'ultimo granello sparì fra le sue labbra tinte di viola, si strofinò le mani - o "si lucido i palmi", per usare le parole di Garrow e disse: «Su di me sappi questo: sono nato qualche secolo fa nella città di Luthìvira, che si trova nei boschi che orlano il lago Tùdosten. All'età di vent'anni, come tutti i bambini elfici, fui condotto davanti alle uova che i draghi avevano dato ai Cavalieri, e Glaedr nacque per me. Fummo addestrati, e per quasi un secolo viaggiammo per il mondo, facendo la volontà di Vrael. Alla fine arrivò il giorno in cui fu opportuno per noi ritirarci, per tramandare la nostra esperienza alla nuova generazione, e ci stabilimmo a Ilirea per insegnare ai nuovi Cavalieri, uno o due alla volta, finché Galbatorix non ci distrusse.»
«E Brom?»
«Brom veniva da una famiglia di miniaturisti di Kuasta. Sua madre si chiamava Nelda e suo padre Holcomb. La Grande Dorsale isolava così tanto Kuasta dal resto di Alagaésia che la città era diventata un luogo molto particolare, pieno di strane usanze e superstizioni. Pensa che quando Brom era ancora nuovo di Ilirea, bussava per tre volte sullo stipite di una porta prima di entrare o uscire da una stanza. Gli studenti umani lo deridevano per queste sue abitudini, finché non smise di farlo, insieme ad altre cose.
«Morzan fu il mio più grande fallimento. Brom lo idolatrava. Lo seguiva come un'ombra, non lo contraddiceva mai, e non credeva di poterlo mai superare in nessuna impresa. Morzan - mi vergogno ad ammetterlo, perché avrei potuto impedirlo - ne era consapevole e sfruttava la devozione di Brom in cento modi diversi. Divenne così arrogante e crudele che pensai di separarlo da Brom. Ma prima di poterlo fare, Morzan aiutò Galbatorix a rubare un cucciolo di drago, Shruikan, per rimpiazzare quello che aveva perso, e a ucciderne il Cavaliere. Morzan e Galbatorix allora fuggirono insieme, segnando la nostra condanna.
«Non puoi nemmeno lontanamente immaginare gli effetti del tradimento di Morzan su Brom se prima non comprendi quando profondo fosse il suo attaccamento a lui. E quando alla fine Galbatorix rivelò le sue intenzioni e i Rinnegati uccisero il drago di Brom, lui concentrò tutta la sua rabbia e il suo dolore su colui che riteneva responsabile della distruzione del suo mondo: Morzan.»
Oromis fece una pausa, con espressione grave. «Sai perché perdere il tuo drago, o viceversa, di solito uccide quello che sopravvive?»
«Posso immaginarlo» disse Eragon, tremando al solo pensiero.
«Il dolore è un colpo già abbastanza forte, anche se non sempre determinante, ma il vero danno è provocato dalla perdita di parte della tua mente. Parte della tua identità muore. Quando questo accadde a Brom, temetti che perdesse il senno. Poi fui catturato, ma riuscii a fuggire, e allora portai Brom a Ellesméra per sicurezza, ma lui si rifiutò di rimanere, e volle marciare con il nostro esercito nelle pianure di Ilirea, dove re Evandar fu ucciso.
«Il caos era indescrivibile. Galbatorix era impegnato a consolidare il suo potere, i nani erano in ritirata, il sudest era sconvolto dalla guerra mentre gli umani si ribellavano e combattevano per creare il Surda, e noi avevamo appena perso il nostro re. Spinto dal desiderio di vendetta, Brom cercò di sfruttare la confusione a proprio vantaggio. Riunì molti di coloro che erano stati esiliati, liberò alcuni che erano stati imprigionati, e con loro formò i Varden. Li guidò lui stesso per diversi anni, poi affidò l'incarico a un altro per essere libero di perseguire il proprio vero obiettivo, la distruzione di Morzan. Brom uccise personalmente tre Rinnegati, compreso Morzan, e fu responsabile della morte di altri cinque. Non ha avuto una vita facile o felice, ma era un buon Cavaliere e un buon uomo, e io sono onorato di averlo conosciuto.» «Non ho mai sentito il suo nome collegato alla morte dei Rinnegati» obiettò Eragon.
«Galbatorix non voleva rendere pubblico il fatto che esisteva ancora qualcuno in grado di sconfiggere i suoi servi. Gran parte del suo potere risiede nell'apparenza di invulnerabilità.»
Ancora una volta, Eragon si trovò costretto a rivedere l'idea che aveva di Brom: dal cantastorie di paese che Eragon aveva conosciuto da bambino al guerriero e stregone con cui aveva viaggiato al Cavaliere che aveva scoperto essere in realtà, e infine adesso l'agitatore di masse, la guida rivoluzionaria e l'assassino. Era difficile conciliare tanti ruoli diversi. Ho come la sensazione di non averlo conosciuto affatto. Vorrei tanto aver avuto il tempo di parlare con lui di tutto questo almeno una volta. «Era un buon uomo» convenne Eragon.
Guardò fuori da una delle finestre rotonde che si affacciavano sull'orlo della rocca e consentivano al calore pomeridiano di diffondersi nella stanza. Osservò Saphira, notando come si comportava con Glaedr, timida e vezzosa al tempo stesso. Un attimo prima si girava per esaminare le caratteristiche della radura, quello dopo arruffava le ali e faceva piccoli gesti per stuzzicare il drago, come dondolare la testa da un lato e dall'altro, o far guizzare la punta della coda quasi fosse pronta a balzare su un cervo. A Eragon sembrava una gattinà che cerchi di convincere un vecchio gatto a giocare con lei. Ma Glaedr restava impassibile.
Saphira, la chiamò. Lei rispose con un distratto baluginio di pensiero, senza quasi riconoscerlo. Saphira, rispondimi. Che cosa c'è?
So che sei eccitata, ma non renderti ridicola.
Tu ti sei reso ridicolo un sacco di volte, ribatte lei.
La sua risposta fu così inaspettata che lo lasciò di stucco.
Era quel tipo di crudele commento che usavano spesso gli umani, ma non si sarebbe mai aspettato di sentirlo da lei. Alla fine riuscì a dire: Già, ma questo non cambia le cose. Lei grugnì e gli chiuse la mente, anche se Eragon percepiva ancora strascichi di emozioni.
Il giovane tornò in sé per scoprire gli occhi grigi di Oromis fissi su di lui. Erano così perspicaci che Eragon era sicuro che Oromis avesse capìto che cosa era successo. Abbozzò un sorriso e fece un cenno verso Saphira. «Anche se siamo intimamente legati, non so mai predire cosa farà. Più imparo a conoscerla, più mi rendo conto di quanto siamo diversi.» Allora Oromis pronunciò una frase che colpì Eragon in tutta la sua straordinaria saggezza. «Coloro che amiamo spesso ci sono più estranei degli altri.» L'elfo fece una pausa. «Saphira è molto giovane, come te. A me e Glaedr ci sono voluti decenni per capirci a vicenda. Il legame di un Cavaliere con il suo drago è come qualunque altra relazione... ossia, un progresso continuo. Ti fidi di lei?»
«Con tutta l'anima.»
«E lei si fida di te?»
«Sì.»
«Allora assecondala. Tu sei stato allevato come un orfano. Lei è cresciuta credendo di essere l'unico individuo incorrotto della sua intera razza. E adesso ha visto che si sbagliava. Non sorprenderti se ci vorrà qualche mese prima che smetta di tormentare Glaedr e riporti la sua attenzione su di te.»
Eragon si rigirò una mora fra le dita; la fame gli era passata. «Perché gli elfi non mangiano carne?» «Perché dovremmo?» Oromis prese una fragola e la voltò perché la luce colpisse la sua buccia bucherellata e illuminasse la sottile peluria che la rivestiva. «Tutto quello che ci serve lo cantiamo dalle piante, compreso il cibo. Sarebbe barbaro far soffrire gli animali soltanto per avere qualche altra pietanza sulle nostre mense... La nostra scelta ti sarà più chiara ben presto.»
Eragon aggrottò la fronte. Aveva sempre mangiato carne e non lo solleticava la prospettiva di mangiare soltanto frutta e verdura finché restava a Ellesméra. «Non vi manca il gusto?»
«Non ti può mancare qualcosa che non hai mai avuto.» «E Glaedr? Non può vivere soltanto d'erba.» «No, ma non occorre nemmeno infliggere dolore inutile. Ciascuno di noi fa del suo meglio con quanto gli è stato dato. Non puoi ripudiare ciò che sei.»
«E Islanzadi? Il suo mantello era fatto di piume di cigno.» «Piume perdute dagli animali e raccolte nel corso di molti anni. Nessun uccello è stato ucciso per farle da ornamento.» Finirono di mangiare, ed Eragon aiutò Oromis a strofinare dispensa, gli domandò: «Hai fatto il bagno stamattina?» La domanda sconcertò Eragon, che tuttavia rispose che no, non l'aveva fatto. «Ti prego allora di farlo domattina. E per tutti i giorni a venire.»
«Tutti i giorni! L'acqua è troppo fredda. Mi verrà la febbre.»
Oromis lo guardò con occhi strani. «Allora riscaldala.» Fu il turno di Eragon di guardarlo di traverso. «Non sono abbastanza forte da riscaldare un intero torrente con la magia» protestò.
La casa riecheggiò delle risa di Oromis. Fuori, Glaedr voltò la testa verso la finestra per guardare l'elfo, poi riprese la sua posizione. «Immagino che tu abbia ispezionato i tuoi alloggi ieri sera.» Eragon annuì. «E non hai visto quella piccola stanza con una conca nel pavimento?» «Credevo che servisse a lavare i panni.»
«Serve a lavare te. Nella parete accanto alla cavità ci sono due cannelli nascosti. Aprili, e potrai fare il bagno nell'acqua della temperatura che preferisci. Inoltre» aggiunse, facendo un cenno verso il mento di Eragon, «finché sei mio allievo, mi aspetto che tu porti il volto rasato fintantoché non potrai farti crescere una vera barba, se così sceglierai, e non sembrare un albero con metà foglie cadute. Gli elfi non si radono, ma io possiedo un rasoio e uno specchio che ho trovato, e te li manderò.»
Fremendo per l'orgoglio ferito, Eragon annuì. Tornarono fuori, dove Oromis guardò Glaedr e il drago disse: Abbiamo deciso un programma di studi per Saphira e te.
L'elfo disse: «Comincerete...»
... un'ora dopo l'alba, domattina, al tempo del Giglio Rosso. Tornate qui allora.
«E porta la sella che Brom ha fatto per Saphira» continuò Oromis. «Nel frattempo, fai ciò che vuoi. Ellesméra offre molte meraviglie a uno straniero, se desideri vederle.»
«Lo terrò a mente» disse Eragon, con un inchino del capo. «Prima di andare, maestro, vorrei ringraziarti per avermi aiutato a Tronjheim, dopo che ho ucciso Durza. Dubito che ce l'avrei fatta senza il tuo intervento. Sono in debito con te.»
Siamo entrambi in debito, aggiunse Saphira.
Oromis sorrise e chinò il capo.
i piatti con la sabbia. Mentre l'elfo li riponeva in una
La vita segreta delle formiche
Nel momento in cui Oromis e Glaedr non si videro più, Saphira esclamò: Eragon, un altro drago! Ma è magnifico! Lui le diede una pacca sulla spalla. È meraviglioso. Volando alti sulla Du Weldenvarden, l'unico segno di vita che videro nella foresta era un occasionale pennacchio di fumo che risaliva dalla chioma di un albero e presto si dissipava nell'aria.