La superficie della tavoletta grigia s'illuminò di lampi di colore, che si mescolavano per produrre la giusta gamma di sfumature. Quando alla fine i pigmenti cessarono di muoversi, Eragon si ritrovò a guardare una strana copia di quanto aveva voluto riprodurre. La linfa e gli aghi erano resi con vibranti e precisi dettagli, mentre tutto il resto era sfuocato e scuro, come visto attraverso le palpebre socchiuse. Era lontano mille miglia dalla limpidezza universale del fairth di Ilirea che aveva realizzato Oromis.


A un cenno dell'elfo, Eragon gli porse la tavoletta. Oromis la studiò per un minuto, poi disse: «Hai un insolito modo di pensare, Eragon-finiarel. La maggior parte degli umani ha difficoltà a raggiungere la giusta concentrazione per creare un'immagine riconoscibile. Tu, d'altro canto, osservi con attenzione minuziosa tutto quello che ti interessa, ma il tuo fuoco è ristretto. È lo stesso problema che hai con la meditazione. Devi rilassarti, allargare il campo della tua visuale, e lasciarti assorbire da tutto quello che ti circonda senza giudicare che cosa è importante e che cosa no.» Mettendo da parte la lastra, Oromis ne raccolse una seconda da terra e la porse a Eragon. «Riprova...»


«Salve, Cavaliere!»


Sorpreso, Eragon si volse e vide Orik e Arya sbucare fianco a fianco dalla foresta. Il nano sventolò il braccio per salutarlo. La sua barba era rasata di fresco e intrecciata, i capelli tirati indietro in una coda ordinata, e indossava una nuova tunica - dono degli elfiche era rossa e marrone, e ricamata con fili d'oro. Il suo aspetto non conservava alcuna traccia delle miserevoli condizioni della notte precedente.


Eragon, Oromis e Arya si scambiarono il saluto tradizionale, poi, abbandonando l'antica lingua, Oromis chiese: «A cosa devo l'onore di questa visita? Siete entrambi i benvenuti nella mia dimora, ma come potete vedere sono impegnato con Eragon in una lezione, ed è molto importante.»


«Ti porgo le mie scuse per averti importunato, Oromiselda» disse Arya, «ma...»


«La colpa è mia» intervenne Orik. Scoccò una rapida occhiata a Eragon prima di continuare. «Sono stato mandato qui da Rothgar per assicurarmi che Eragon riceva la dovuta istruzione. Non ho dubbi al riguardo, ma sono obbligato ad assistere con i miei stessi occhi, affinchè, quando tornerò a Tronjheim, io possa riferire al re quanto e avvenuto.» Oromis disse: «Ciò che insegno a Eragon non dev'essere divulgato ad altri. I segreti dei Cavalieri riguardano lui soltanto.»


«Comprendo benissimo. Tuttavia viviamo in tempi incerti; la pietra che un tempo era salda e solida, adesso è instabile. Dobbiamo adattarci per sopravvivere. Molto dipende da Eragon, e pertanto noi nani abbiamo il diritto di verificare che il suo addestramento proceda come promesso. Non ritieni che la nostra richiesta sia ragionevole?» «Ben detto, mastro nano» disse Oromis. Si tamburellò le dita fra loro, imperscrutabile come sempre. «Presumo quindi che sia una questione di dovere per te.»


«Dovere e onore.»


«E niente ti farà recedere dalla tua posizione?»


«Temo di no, Oromis-elda» disse Orik.


«E sia. Puoi restare a guardare per tutta la durata di questa lezione. Dopo ti riterrai soddisfatto?» Orik aggrottò la fronte. «Lavorate da molto?»


«Abbiamo appena iniziato.»


«In questo caso sì, mi riterrò soddisfatto. Per il momento, almeno.»


Mentre i due parlavano, Eragon cercava di incrociare lo sguardo di Arya, ma lei aveva occhi soltanto per Oromis. «... Eragon!»


Il giovane trasalì, immerso com'era nelle proprie fantasticherie. «Sì, maestro?»


«Non ti distrarre, Eragon. Voglio che tu faccia un altro fairth. Tieni la mente aperta, come ti ho detto prima.» «Sì, maestro.» Eragon prese la tavoletta, le mani un po' sudate al pensiero che Orik e Arya avrebbero giudicato il suo lavoro. Voleva fare qualcosa di bello per dimostrare che Oromis era un buon maestro. Tuttavia non riusciva a concentrarsi sugli aghi di pino e sulla linfa; Arya lo attirava come una calamita, rubandogli l'attenzione ogni volta che tentava di pensare a qualcos'altro.


Alla fine si rese conto che era inutile resistere all'attrazione. Compose un'immagine di lei nella mente - che gli richiese non più tempo di un battito di cuore, poiché conosceva i suoi lineamenti meglio dei proprie formulò l'incantesimo nell'antica lingua, riversando tutta la sua adorazione, il suo amore, e la sua paura nel flusso della magia. Il risultato lo lasciò esterrefatto.


Il fairth ritraeva la testa e le spalle di Arya su uno sfondo nero e indistinto. Un raggio di luce la colpiva da destra, e lei guardava l'osservatore con occhi saggi; appariva non come era, ma come lui la pensava: misteriosa, esotica, la più bella donna che avesse mai visto. Ancora una volta era un fairth imperfetto, con troppe zone d'ombra, ma possedeva una tale intensità e una tale passione che turbò Eragon nel profondo. È così che la vedo? Chiunque fosse quella donna, era così saggia, così potente, così affascinante da consumare qualunque uomo di minore fermezza.


Da una grande distanza, sentì Saphira sussurrare: Sta' attento...


«Cos'hai fatto, Eragon?» gli chiese Oromis.


«Io... non lo so.» Eragon esitò quando Oromis tese la mano per prendere il fairth, riluttante a lasciare che gli altri esaminassero il suo lavoro, specie Arya. Dopo una lunga, terrificante pausa, Eragon aprì le dita dalla tavoletta e la lasciò a Oromis.


L'espressione dell'elfo si fece sempre più severa con il passare dei minuti, mentre esaminava il fairth. Poi guardò Eragon, che tremò sotto il peso del suo sguardo. Infine, senza dire una parola, Oromis passò la lastra ad Arya. I capelli le piovvero sul viso quando chinò il capo sulla tavoletta, ma Eragon vide i nervi e le vene gonfiarsi sulle sue mani nello stringere la lastra. Tremava nella sua stretta. «Be', cos'è?» chiese Orik.


Alzando il fairth sopra la testa, Arya lo scagliò sul terreno, fracassando il ritratto in mille pezzi. Poi raddrizzò le spalle e con grande dignità oltrepassò Eragon, percorse la radura e si allontanò nel cuore aggrovigliato della Du Weldenvarden.


Orik raccolse uno dei frammenti di ardesia. Era grigio. L'immagine era svanita quando la lastra si era infranta. Il nano si lisciò la barba. «In tutti gli anni che la conosco, Arya non si è mai arrabbiata così. Mai. Cos'hai fatto, Eragon?» Confuso, Eragon rispose: «Un suo ritratto.» Orik si accigliò, perplesso. «Un ritratto? E perché mai...» «Credo sia meglio che tu te ne vada, a questo punto» disse Oromis. «La lezione è finita, comunque. Torna domani, o il giorno dopo ancora, se vuoi farti un'idea migliore dei progressi di Eragon.»


Il nano guardò Eragon, poi annuì e si spazzolò il terriccio dalle mani. «Sì, credo che lo farò. Ti ringrazio per il tempo che mi hai dedicato, Oromis-elda. L'ho apprezzato molto.» Mentre tornava a Ellesméra, si rivolse a Eragon da sopra una spalla. «Sarò nella sala comune del Palazzo di Tialdari, se vorrai parlarmi.»


Quando Orik se ne fu andato, Oromis si sollevò l'orlo della tunica, s'inginocchiò e cominciò a raccogliere i pezzi della tavoletta. Eragon lo guardava, incapace di muoversi.


«Perché?» chiese nell'antica lingua.


«Può darsi» rispose Oromis «che Arya si sia spaventata.»


«Spaventata? Lei non si spaventa mai.» Nello stesso momento in cui pronunciava quelle parole, Eragon si accorse che non era del tutto vero. Arya era soltanto capace di nascondere la paura meglio degli altri. Cadde in ginocchio, prese un pezzo del fairth e lo mise nel palmo di Oromis. «Perché l'avrei spaventata?» chiese. «Ti prego, dimmelo.» Oromis si alzò e si avvicinò alla sponda del ruscello, dove sparse i frammenti di ardesia sui sassi, lasciando che la polvere grigia gli scorresse via dalle dita. «I fairth mostrano soltanto quello che tu vuoi che mostrino. È possibile mentire, con essi, creare una falsa immagine, ma per farlo è necessaria un'abilità che tu ancora non possiedi. Arya lo sa. E perciò sa anche che il tuo fairth era una fedele rappresentazione dei tuoi sentimenti per lei.»


«Ma perché questo dovrebbe spaventarla?»


Oromis sorrise mesto. «Perché rivela l'intensità della tua infatuazione per lei.» Congiunse le mani, portandosi gli indici alle labbra. «Analizziamo insieme la situazione, Eragon. Sebbene tu sia abbastanza grande da essere considerato un uomo fra la tua gente, ai nostri occhi tu non sei che un bambino.» Eragon si adombrò, ripensando alle parole di Saphira la sera prima. «Di norma, non metterei mai a confronto l'età di un umano con quella di un elfo, ma poiché tu condividi la nostra longevità, devi essere giudicato anche secondo i nostri criteri.


«E sei un Cavaliere. Noi contiamo su di te per sconfiggere Galbatorix; potrebbe essere una catastrofe per ogni abitante di Alagaésia se venissi distratto dai tuoi studi.


«Quindi» proseguì Oromis «come avrebbe dovuto reagire Arya davanti al tuo fairth? È più che evidente che tu la consideri in una luce romantica, ma, per quanto non abbia dubbi che Arya ti sia affezionata, una relazione fra voi due è impossibile, a causa della tua giovane età, della tua cultura, della tua razza e delle tue responsabilità. Il tuo interesse ha posto Arya in una posizione imbarazzante. Non osa affrontarti a cuore aperto, per paura di distrarti dal tuo addestramento. Ma come figlia della regina, non può nemmeno ignorarti e rischiare di offendere un Cavaliere, specie uno da cui tanto dipende... Anche se fossi un compagno adatto, Arya si asterrebbe dall'incoraggiarti, affinchè tu possa dedicare tutte le tue energie al compito che ti attende. Sacrificherebbe la propria felicità per il bene supremo.» La voce di Oromis si fece più profonda. «Devi capire, Eragon, che eliminare Galbatorix è più importante di qualsiasi persona. Nient'altro conta.» Fece una pausa, il suo sguardo si addolcì, poi aggiunse: «Date le circostanze, è così strano che Arya abbia paura che i tuoi sentimenti per lei possano mettere a repentaglio tutto quello per cui abbiamo lavorato?» Eragon scosse il capo. Si vergognava del proprio comportamento, che aveva messo a disagio Arya e si era dimostrato sventato e infantile. Avrei potuto evitare tutto questo pasticcio se mi fossi saputo controllare.


Sfiorandogli una spalla, Oromis lo guidò nel capanno. «Non pensare che io sia privo di compassione, Eragon. Prima o poi, nella vita, tutti sperimentano ardori come i tuoi. Fa parte della crescita. So anche che ti è difficile rinunciare ai consueti piaceri della vita, ma è necessario, per vincere.»


«Sì, maestro.»


Si sedettero al tavolo della cucina, e Oromis cominciò a disporre il materiale per scrivere perché Eragon si esercitasse con la Liduen Kvaedhi. «Sarebbe irragionevole da parte mia aspettarmi che tu dimentichi la tua infatuazione per Arya, ma mi aspetto che tu le impedisca di interferire di nuovo con i miei insegnamenti. Me lo prometti?» «Sì, maestro, te lo prometto.»


«E quanto ad Arya? Secondo te qual è la cosa più onorevole da fare in merito alla situazione?»


Eragon esitò. «Non voglio perdere la sua amicizia.»


«No.»


«Perciò... andrò da lei, le porgerò le mie scuse, e le garantirò che un episodio del genere non si ripeterà mai più.» Gli fu difficile pronunciare quelle parole, ma quando lo ebbe fatto, provò sollievo, come se aver riconosciuto il proprio errore lo avesse liberato.


Oromis parve compiaciuto. «Già questo dimostra che sei maturato.»


I fogli di carta erano lisci al tatto mentre Eragon li appiattiva sul tavolo. Fissò la bianca distesa, poi intinse un calamo nell'inchiostro e cominciò a trascrivere una colonna di glifi. Ogni linea intricata era come un raggio notturno sulla carta, un abisso nero in cui avrebbe desiderato perdersi per tentare di dimenticare i suoi confusi sentimenti.

L'Obliatore

Il mattino seguente, Eragon andò in cerca di Arya per scusarsi. La cercò per oltre un'ora, senza esito. Era come se fosse svanita in uno dei tanti anfratti nascosti di Ellesméra. La intravvide per un attimo mentre sostava davanti all'ingresso del Palazzo di Tialdari e la chiamò, ma lei sgusciò via prima che lui avesse il tempo di raggiungerla. Mi sta evitando, si rese conto, alla fine.


Col passare dei giorni, Eragon si dedicò alle lezioni di Oromis con uno zelo che l'anziano Cavaliere trovò encomiabile, impegnandosi negli studi al fine di distrarsi dal pensiero di Arya.


Notte e giorno si sforzava di fare del suo meglio. Mandò a memoria le parole del fare, del legare e dell'evocare; apprese i veri nomi delle piante e degli animali; studiò i pericoli della transmutazione; imparò a richiamare il vento e il mare; e si impegnò a sviluppare le miriadi di altre capacità necessarie a comprendere le forze del mondo. Negli incantesimi che riguardavano grandi energie - come la luce, il calore e il magnetismo - eccelleva, poiché possedeva il talento per giudicare con precisione quanta forza richiedesse una determinata azione e se superasse quella del suo corpo. Di tanto in tanto, Orik veniva ad assistere, restando in disparte senza commentare, mentre Oromis insegnava a Eragon, oppure Eragon si esercitava da solo in un incantesimo particolarmente difficile.


Oromis gli propose diverse sfide. Lo costrinse a cucinare con la magia, per insegnarli un più sottile controllo della negromanzia; i primi tentativi di Eragon ebbero come risultato una poltiglia bruciacchiata. L'elfo mostrò a Eragon come individuare e neutralizzare veleni di ogni sorta e, da quel momento in poi, Eragon dovette ispezionare ogni volta il cibo in cerca dei diversi veleni che Oromis avrebbe potuto propinargli. Capitò che Eragon restasse senza mangiare per non essere stato in grado di trovare il veleno o, non essendo riuscito a neutralizzarlo, per ben due volte ebbe male allo stomaco e il vecchio elfo dovette guarirlo. Oromis gli fece formulare diversi incantesimi simultaneamente; era necessario un enorme sforzo di concentrazione per dirigere gli incantesimi verso i rispettivi bersagli e impedir loro di spostarsi fra i diversi oggetti che Eragon voleva influenzare.


Oromis dedicò lunghe ore all'arte d'impregnare la materia di energia, per liberarla al momento opportuno o per conferire a un oggetto particolari attributi. Disse: «È in questo modo che Rhunòn stregò le spade dei Cavalieri perché non perdessero mai il filo o si rompessero; che facciamo crescere le piante cantando; che una trappola può essere messa in una scatola, per scattare solo quando la scatola viene aperta; che noi e i nani fabbrichiamo le Erisdar, le nostre lanterne; che puoi guarire un ferito... solo per citare alcuni esempi. Questi sono gli incantesimi più potenti, perché possono giacere dormienti per mille anni e oltre, e sono difficili da percepire o deviare.»


Eragon chiese: «Si può usare questa tecnica per alterare il corpo, o è troppo pericoloso?»


Le labbra di Oromis si arcuarono in un debole sorriso. «Ahimè, hai toccato la più grande debolezza degli elfi: la nostra vanità. Noi amiamo la bellezza in tutte le sue forme, e cerchiamo di rappresentare quell'ideale nel nostro aspetto. Per questo siamo chiamati il Leggiadro Popolo. Ogni elfo appare esattamente come desidera. Quando gli elfi imparano le formule per far crescere e plasmare la materia vivente, spesso scelgono di modificare il proprio aspetto per meglio riflettere la propria personalità. Alcuni elfi sono andati oltre i meri cambiamenti estetici e hanno alterato la propria anatomia per adattarsi ai diversi ambienti, come vedrai durante la Celebrazione del Giuramento di Sangue. Spesso sono più animali che elfi.


«Tuttavia, trasferire il potere a una creatura vivente è diverso che farlo con un oggetto inanimato. Sono pochi i materiali adatti a immagazzinare energia; la maggior parte o la disperdono troppo presto o si caricano di una tale forza che alla minima sollecitazione sprigionano un fulmine. I materiali migliori che abbiamo trovato a questo scopo sono le pietre preziose. I quarzi, le agate e le altre pietre semipreziose non sono efficienti quanto, diciamo, un diamante, ma qualunque gemma va bene. Ecco perché le spade dei Cavalieri hanno sempre una gemma incastonata nel pomo. Ed ecco perché la catena che ti hanno dato i nani, fatta interamente di metallo, deve attingere alla tua energia per alimentare il suo incantesimo, poiché non può conservare energia da sé.»


Quando non era con Oromis, Eragon integrava la sua istruzione leggendo i molti rotoli che l'elfo gli aveva dato, abitudine che ben presto gli divenne irrinunciabile. Era cresciuto con Garrow, che gli aveva insegnato quel tanto che bastava a mandare avanti una fattoria. Le informazioni che scoprì sulle sconfinate distese di carta lo impregnarono come la pioggia impregna un arido deserto, saziando una sete prima sconosciuta. Divorò testi di geografia, biologia, anatomia, filosofia e matematica, e poi memoriali, biografie e storie. Più importante dell'assimilazione dei fatti nudi e crudi fu la scoperta di modi alternativi di pensare, che sfidavano le sue convinzioni e lo costringevano a riesaminare le sue certezze su ogni argomento, dai diritti dell'individuo in seno alla società a ciò che fa muovere il sole nel cielo. Notò che un certo numero di rotoli riguardavano gli Urgali e la loro cultura. Li lesse, ma non ne fece parola, né Oromis accennò all'argomento.


Grazie ai suoi studi, Eragon imparò molto anche sugli elfi, oggetto che lo interessava particolarmente perché avrebbe potuto aiutarlo a comprendere meglio Arya. Rimase sorpreso nell'apprendere che gli elfi non si univano in matrimonio, ma sceglievano un compagno per il tempo desiderato, che fosse un giorno oppure un secolo. I figli erano rari, e avere un bambino era considerato dagli elfi il più grande pegno d'amore.


Eragon imparò anche che da quando le due razze si erano incontrate, erano esistite soltanto pochissime coppie miste, composte soprattutto da Cavalieri umani che avevano trovato un compagno adeguato fra gli elfi. Tuttavia, da quanto riuscì a capire dai criptici archivi, la maggior parte delle relazioni era finita in tragedia, o perché gli amanti non erano riusciti a continuare la relazione, o perché gli umani invecchiavano e morivano mentre gli elfi erano immuni dalle devastazioni del tempo.


Oltre ai testi di carattere non narrativo, Oromis gli fornì copie delle più grandi ballate, poesie e composizioni epiche degli elfi, che catturarono l'immaginazione di Eragon. Le uniche storie che conosceva erano quelle che Brom recitava a Carvahall: perciò assaporò l'epica come un pasto prelibato, gustando a poco a poco Le Gesta di Cèda o La Ballata di Umhodan per prolungare il piacere.


L'addestramento di Saphira procedeva di pari passo. Grazie al loro legame mentale, Eragon vide come Glaedr la sottoponeva a un regime di allenamento duro quanto il suo: decolli con l'impaccio di un peso, scatti di potenza, voli in picchiata e altre acrobazìe. Allo scopo di sviluppare la resistenza, per ore intere Glaedr la costrinse a sputare fuoco contro un pilastro di roccia naturale, nel tentativo di scioglierlo. All'inizio Saphira riusciva a mantenere le fiamme soltanto per qualche minuto di seguito, ma ben presto la lunga vampa di fuoco ruggì dalle sue fauci per mezz'ora ininterrotta, arroventando il pilastro. Eragon apprese anche le tradizioni orali dei draghi che Glaedr insegnò a Saphira, dettagli sulla vita e sulla storia dei draghi che integravano la sua conoscenza istintiva. La maggior parte era incomprensibile per Eragon, e sospettava che Saphira gli nascondesse qualcosa, segreti della sua razza che i draghi non condividevano con nessuno. Una cosa riuscì ad afferrare, una cosa che Saphira riteneva molto preziosa, ossia il nome di suo padre, Iormùngr, e di sua madre, Vervada, che significa Squarciatempeste. Mentre Iormùngr era legato a un Cavaliere, Vervada era una dragonessa selvatica che aveva deposto molte uova, ma ne aveva affidato soltanto uno ai Cavalieri: Saphira. Entrambi erano morti durante la caduta dei Cavalieri.


Certi giorni Eragon e Saphira volavano con Oromis e Glaedr, allenandosi in combattimenti aerei o visitando rovine nascoste nel cuore della Du Weldenvarden. Altri giorni invertivano i ruoli, ed Eragon accompagnava Glaedr, mentre Saphira restava sulla rupe di Tel'naeir con Oromis.


Ogni mattina Eragon si allenava alla scherma con Vanir, e ogni mattina, senza eccezione, subiva uno o più attacchi alla schiena. Per colmo di misura, l'elfo continuava a trattare Eragon con sprezzante condiscendenza; gli scoccava occhiate oblique che in apparenza non eccedevano mai i confini della cortesia, e si rifiutava di arrabbiarsi, per quanto Eragon lo provocasse. Eragon odiava lui e le sue maniere gelide e controllate. Sembrava che Vanir lo insultasse con ogni movimento. E i compagni di Vanir - che, a un primo giudizio, erano di una generazione più giovane di elfi - condividevano il suo velato disprezzo per Eragon, anche se non mostrarono mai altro che rispetto per Saphira. La loro rivalità raggiunse il culmine quando, dopo aver sconfitto Eragon sei volte di fila, Vanir abbassò la spada e disse: «Sei ancora morto, Ammazzaspettri. Che noia. Vuoi davvero continuare?» Il suo tono indicava che sarebbe stato inutile.


«Certo» grugnì Eragon. Aveva già sofferto di un attacco alla schiena, e non aveva voglia di chiacchiere. Eppure quando Vanir disse: «Dimmi, sono curioso: come hai fatto a uccidere Durza quando sei così lento? Non riesco proprio a capirlo» Eragon si sentì costretto a rispondere: «L'ho colto di sorpresa.»


«Perdonami; avrei dovuto immaginare che c'era qualche trucco.»


Eragon strinse i denti. «Se io fossi un elfo e tu un umano, non avresti scampo con la mia lama.»


«Può darsi» ribatte Vanir. Riprese la posizione e nel giro di tre secondi e due fendenti disarmò Eragon. «Ma non credo. Non dovresti vantarti davanti a uno spadaccino migliore di te, altrimenti potrebbe decidere di punirti per la tua impudenza.»


Eragon perse le staffe e attìnse al torrente di magia che scorreva nel suo profondo. Liberò l'energia repressa con una delle dodici parole minori del legare, gridando: «Malthinae!» per incatenare le gambe e le braccia di Vanir e chiudergli la bocca perché non potesse pronunciare un controincantesimo. L'elfo sgranò gli occhi, offeso.


Eragon disse: «E tu non dovresti vantarti con uno che è più esperto di te nelle arti magiche.»


Le sopracciglia scure di Vanir s'incresparono.


Senza una mossa o un sussurro, una forza invisibile colpì Eragon al petto, mandandolo a finire sul prato, a dieci iarde di distanza. Il brusco impatto col terreno lo lasciò senza fiato, e turbò il controllo che Eragon esercitava sull'incantesimo, liberando Vanir. Come ha fatto?


Marciando verso di lui, Vanir disse: «La tua ignoranza ti tradisce, umano. Non sai di cosa stai parlando. E pensare che sei stato scelto per succedere a Vrael, che ti sono stati concessi i suoi alloggi, che hai avuto l'onore di servire il Saggio Dolente...» Scosse il capo. «Mi viene la nausea al pensiero che tali privilegi siano stati concessi a una persona così indegna. Non capisci nemmeno che cosa sia o come funzioni la magia.»


La collera di Eragon montò come una marea cremisi. «Ma cosa ti ho fatto?» esclamò. «Perché mi disprezzi tanto? Preferiresti che non ci fosse nessun Cavaliere a opporsi a Galbatorix?»


«La mia opinione non ha importanza.» «Sono d'accordo, ma vorrei ascoltarla lo stesso.» «Ascoltare, come scrisse Nuala nelle Convocazioni, è il sentiero che conduce alla saggezza soltanto quando è il risultato di una decisione consapevole e non un vuoto di percezioni.»


«Parla chiaro, Vanir, e dammi una risposta onesta!» Vanir sorrise, freddo. «Ai tuoi ordini, Cavaliere.» Avvicinandosi perché soltanto Eragon potesse sentire la sua voce sommessa, l'elfo disse: «Per ottant'anni dopo la caduta dei Cavalieri, non abbiamo avuto speranze di vittoria. Siamo sopravvissuti nascondendoci con l'inganno e la magia, una misura temporanea, perché alla fine Galbatorix sarà abbastanza forte da marciare su di noi e spazzare via le nostre difese. Poi, quando ormai ci eravamo rassegnati al nostro fato, Brom e Jeod salvarono l'uovo di Saphira, e si ripresentò l'occasione di sconfiggere il folle usurpature. Immagina la nostra gioia e il nostro giubilo. Sapevamo che per resistere a Galbatorix, il nuovo Cavaliere avrebbe dovuto essere più potente di qualunque suo predecessore, più potente persino di Vrael. E come fu ricompensata la nostra pazienza? Con un altro umano come Galbatorix. E per di più... storpio. Ci hai condannati tutti, Eragon, nell'istante in cui hai toccato l'uovo di Saphira. Non aspettarti di essere il benvenuto.» Vanir si toccò le labbra con l'indice e il medio, poi passò di fianco a Eragon e si allontanò dal campo di addestramento, lasciandolo riverso a terra.


Ha ragione, pensò Eragon. Non sono adatto a questo compito. Qualunque elfo, persino Vanir, sarebbe un Cavaliere migliore di me.


In un impeto di collera, Saphira dilatò il contatto fra di loro. Credi che io abbia così poco senno, Eragon? Dimentichi che mentre ero nell'uovo, Arya mi presentò a ognuno di questi elfi, come anche a molti bambini Varden, e che io li rifiutai tutti. Non avrei scelto nessuno come mio Cavaliere che non potesse aiutare la tua razza, la mia e quella degli elfi, poiché tutti e tre condividiamo un destino comune. Tu eri la persona giusta, al posto giusto, nel momento giusto. Non scordarlo mai.


Se anche fosse vero, disse lui, era prima che Durza mi ferisse. Adesso non vedo altro che tenebre e male nel nostro futuro. Non mi arrenderò, ma temo che non riusciremo a vincere. Forse la nostra missione non è sconfiggere Galbatorix, ma preparare la strada al prossimo Cavaliere scelto dalle uova rimaste.


Sulla rupe di Tel'naeir, Eragon trovò Oromis seduto al tavolo del capanno, intento a dipingere un panorama con inchiostro nero in fondo al rotolo di pergamena che aveva finito di scrivere.


S'inginocchiò chinando il capo. «Maestro.»


Passarono quindici minuti prima che Oromis finisse di delineare i ciuffi di aghi su un contorto cespuglio di ginepro, mettesse da parte l'inchiostro, ripulisse il pennello intingendolo in un vaso di terracotta colmo d'acqua e si rivolgesse a Eragon, dicendo: «Perché sei venuto così presto?»


«Scusa se ti disturbo, ma Vanir se n'è andato prima di concludere la nostra sessione di allenamento, e non sapevo che altro fare.»


«E perché mai Vanir se ne sarebbe andato, Eragonvodhr?»


Oromis si strinse le mani in grembo, mentre Eragon gli descriveva l'episodio, concludendo: «Non avrei dovuto perdere il controllo, ma l'ho fatto, e sono sembrato ancora più sciocco per questo. Ti ho deluso, maestro.» «Sì» disse Oromis. «Vanir può anche averti provocato, ma non c'era ragione di rispondere a tono. Devi saper controllare meglio le tue emozioni, Eragon. Ti potrebbe costare la vita, se consentissi al tuo temperamento di offuscare il tuo giudizio durante un combattimento. Inoltre questi comportamenti infantili non fanno altro che rafforzare gli elfi che ti si oppongono. Le nostre macchinazioni sono sottili e non lasciano margine a errori.»


«Mi dispiace, maestro. Non accadrà più.»


Mentre Oromis sembrava disposto ad aspettare seduto in attesa dell'ora consueta per eseguire la Rimgar, Eragon colse l'occasione per domandare: «Come ha fatto Vanir a evocare la magia senza parlare?»


«Sei certo che lo abbia fatto davvero? Magari è stato aiutato da un altro elfo.»


Eragon scosse il capo. «Durante il mio primo giorno a Ellesméra, ho visto Islanzadi creare una pioggia di petali col solo battito delle mani. E Vanir ha detto che non capivo come funziona la magia. Che voleva dire?»


«Ancora una volta» disse Oromis, rassegnato, «mi chiedi informazioni per cui non sei ancora pronto. Tuttavia, date le circostanze, non posso rifiutarmi. Sappi soltanto questo: quello che chiedi non era insegnato ai Cavalieri, e non viene insegnato ai nostri maghi, finché non avevano e non hanno padroneggiato ogni altro aspetto della magia, perché è il segreto della vera natura della magia e dell'antica lingua. Coloro che lo conoscono acquisiscono grande potere, certo, ma corrono anche un terribile rischio.» Fece una breve pausa. «Com'è collegata l'antica lingua alla magia, Eragon-vodhr?»


«Le parole dell'antica lingua possono liberare l'energia racchiusa nel tuo corpo e attivare un incantesimo.» «Ah. Questo vuoi dire che certi suoni, certe vibrazioni nell'aria, in qualche modo attingono a questa energia? Suoni che possono essere prodotti per caso da qualunque creatura o cosa?»


«Sì, maestro.»


«E non lo trovi assurdo?»


Confuso, Eragon disse: «Non importa se pare assurdo, maestro; è così. Dovrei forse pensare che è assurdo che la luna cresca o decresca, o che le stagioni cambino, o che gli uccelli volino a sud d'inverno?»


«Naturalmente no. Ma come può il semplice suono realizzare così tanto? Secondo te, particolari combinazioni di tono e volume possono davvero innescare reazioni che ci consentono di manipolare l'energia?»


«Ma è così.»


«Il suono non ha alcun controllo sulla magia. Dire una parola o una frase in questa lingua non conta, l'essenziale è pensarle.» Con un guizzo del polso, una fiammella dorata comparve sul palmo di Oromis, poi scomparve. «Tuttavia, a meno che le circostanze non lo richiedano, pronunciamo ancora i nostri incantesimi ad alta voce per impedire a pensieri raminghi di spezzarli, un pericolo che corre anche il mago più esperto.»


Le implicazioni sconcertarono Eragon. Rammentò quando era quasi annegato sotto le cascate del lago Kóstha-mérna ed era stato incapace di ricorrere alla magia perché l'acqua lo circondava. Se lo avessi saputo allora, avrei potuto salvarmi da solo, pensò. «Maestro» disse, «se il suono non influisce sulla magia, perché il pensiero sì?» Oromis sorrise. «Già, perché? Innanzitutto occorre sottolineare il fatto che noi non siamo la fonte della magia. La magia esiste di per sé, indipendentemente da qualsiasi incantesimo, come i fuochi fatui nelle paludi di Arughia, il pozzo dei sogni nelle grotte di Mani fra i Monti Beor e il cristallo galleggiante di Eoam. La magia allo stato naturale è più insidiosa, imprevedibile e spesso più forte di quella che possiamo evocare.


«Tanti eoni fa, tutta la magia era così. Per usarla, bastava la capacità di percepirla con la mente, una capacità che ogni mago deve possedere, oltre al desiderio e alla forza di usarla. Tuttavia senza la struttura dell'antica lingua gli stregoni non riuscivano a controllare il proprio talento e di conseguenza sconvolsero la terra, uccidendo migliaia di persone. Col tempo scoprirono che esprimere ad alta voce le proprie intenzioni nella loro lingua li aiutava a ordinare i pensieri e a evitare errori fatali. Ma non era un metodo infallibile. Alla fine si verificò un incidente così grave che per poco non distrusse ogni forma di vita nel mondo. Abbiamo notizia dell'evento da frammenti di manoscritti che sopravvissero all'epoca, ma chi o cosa formulò l'incantesimo fatàle ci è ignoto. I manoscritti dicono che in seguito una razza chiamata il Popolo Grigio - non gli elfi, poiché eravamo giovani all'epoca - fece appello a tutte le sue risorse ed evocò un incantesimo, forse il più grande che sia mai esistito o esisterà. Tutti insieme, i membri del Popolo Grigio cambiarono la natura stessa della magia. Fecero in modo che la loro lingua, l'antica lingua, potesse controllare il risultato di un incantesimo, ossia circoscrivere la magia, così che, se uno avesse detto brucia quella porta e per caso avesse guardato verso di me e pensato a me, la magia avrebbe comunque bruciato la porta e non me. E conferirono all'antica lingua le sue due principali caratteristiche: la capacità di impedire a chiunque la parli di mentire e quella di descrivere la vera natura delle cose. Come ci riuscirono, resta un mistero.


«I manoscritti non concordano su ciò che accadde a quelli del Popolo Grigio quando portarono a compimento l'opera, ma a quanto pare l'incantesimo li prosciugò di tutte le energie e li lasciò l'ombra di se stessi. Si ritirarono nell'anonimato, scegliendo di vivere nelle loro città finché le pietre non divennero polvere, o di prendere un compagno fra le razze più giovani e passare quindi nell'oblio.»


«Allora» disse Eragon «è ancora possibile usare la magia senza l'antica lingua?»


«Come pensi che Saphira sputi fuoco? A quanto dici, non usò alcuna parola quando trasformò la tomba di Brom in diamante, né quando benedisse la bambina nel Farthen Dùr. La mente di un drago è diversa dalla nostra; non hanno bisogno di protezione dalla magia. Non possono usarla consapevolmente, a parte il fuoco, ma quando il dono li tocca, la loro forza è ineguagliabile... Sembri preoccupato, Eragon. Perché?»


Eragon si guardò le mani. «Che cosa significa questo per me, maestro?»


«Significa che continuerai a studiare l'antica lingua, perché con essa puoi realizzare molte cose che altrimenti sarebbero troppo complesse o troppo pericolose. Significa che se vieni catturato e imbavagliato, potrai ancora evocare la magia per liberarti, come ha fatto Vanir. Significa che se vieni catturato e drogato e non riesci a ricordare l'antica lingua, sì, anche allora potrai formulare un incantesimo, se le circostanze lo imporranno. E significa che se vorrai evocare un incantesimo per qualcosa che non ha nome nell'antica lingua, potrai farlo.» Fece una pausa. «Ma guardati dalla tentazione di usare questi poteri. Perfino il più saggio fra di noi non li usa a cuor leggero, per paura della morte, o di peggio.»


La mattina dopo, e per tutte le mattine che rimase a Ellesméra, Eragon duellò con Vanir, ma non perse mai più la pazienza, per quanto potesse fare o dire l'elio.


Né Eragon si sentiva in vena di sacrificare energie a quella rivalità. La schiena lo tormentava sempre più di frequente, spingendolo ai limiti della sopportazione. I violenti attacchi lo resero più sensibile: semplici azioni che prima non gli davano alcun problema adesso lo lasciavano a contorcersi a terra. Perfino la Rimgar cominciò a scatenare le crisi, via via che progrediva nelle posizioni più difficili. Non era raro che soffrisse di tre o quattro attacchi al giorno. Il volto di Eragon si fece scavato; camminava lento e si muoveva con cautela per preservare le forze. Trovava sempre più difficile pensare con lucidità o prestare attenzione alle lezioni di Oromis, e cominciò ad avere vuoti di memoria. Nel tempo libero, riprendeva in mano il rompicapo di Orik, preferendo concentrarsi sugli anelli incatenati piuttosto che sulle proprie condizioni. Quando erano insieme, Saphira insisteva perché le salisse in groppa e si adoperava in ogni modo per farlo stare comodo e risparmiargli la fatica.


Una mattina, mentre si teneva stretto a una delle punte sul suo collo, Eragon disse: Ho trovato un nuovo nome per il dolore.


Quale sarebbe?


L'Obliatore. Perché quando soffri, non esiste nient'altro. Nessun pensiero. Nessuna emozione. Soltanto il bisogno di sfuggire al dolore. Quando è abbastanza forte, l'Obliatore ci priva di tutto ciò che ci rende quello che siamo, finché non siamo ridotti a creature inferiori agli animali, creature con un solo desiderio e un solo scopo: fuggire. Un nome appropriato.


Sto crollando, Saphira, come un vecchio cavallo che ha arato troppi campi. Devi sostenermi con la tua mente, altrimenti rischio di perdermi e dimenticare chi sono.


Non ti lascerò mai.


Quel giorno, Eragon fu colto da tre attacchi consecutivi mentre duellava con Vanir, e altri due durante la Rimgar. Mentre si scioglieva dal gomitolo in cui si era contratto, Oromis disse: «Di nuovo, Eragon. Devi perfezionare l'equilibrio.»


Eragon scosse il capo e sottovoce ringhiò: «No.» Incrociò le braccia per nascondere il tremito.


«Cosa?»


«No.»


«Alzati, Eragon, e riprova.»


«No! Fallo tu, se vuoi. Io ci rinuncio.»


Oromis s'inginocchiò al suo fianco e gli posò una mano fresca sulla guancia. Lo guardò con tanta tenerezza che Eragon capì la profonda compassione che l'elfo nutriva per lui e seppe che, se possibile, Oromis si sarebbe volentieri fatto carico del suo dolore per alleviargli il tormento. «Non abbandonare la speranza» gli disse. «Mai.» A un tratto, Eragon ebbe la sensazione di ricevere un flusso di energia da parte del vecchio elfo. «Siamo Cavalieri. Ci troviamo fra la luce e la tenebra, e siamo noi a mantenere l'equilibrio fra le due. L'ignoranza, la paura, l'odio: sono questi i nostri nemici. Respingili con tutte le tue forze, Eragon, altrimenti perderemo.» Si alzò e tese una mano a Eragon. «Ora alzati, Ammazzaspettri, e dimostra di saper controllare gli istinti della carne!»


Eragon trasse un profondo respiro e si appoggiò su un braccio per alzarsi, facendo una smorfia. Piegò le gambe sotto di sé, fece una pausa, poi si erse in tutta la sua statura e guardò Oromis negli occhi.


L'elfo annuì.


Eragon rimase in silenzio finché non ebbero completato la Rimgar, e mentre si lavava nel ruscello, disse: «Maestro.» «Sì, Eragon?»


«Perché devo sopportare questa tortura? Tu potresti usare la magia per darmi le capacità che mi servono, per plasmare il mio corpo come fai con gli alberi e le piante.»


«Potrei, ma se lo facessi, tu non capiresti come possiedi il corpo che hai e le tue capacità, né come mantenerle. Non esistono scorciatoie per il cammino che hai intrapreso, Eragon.»


L'acqua fredda si chiuse intorno al corpo di Eragon quando si immerse nella corrente. Infilò la testa sotto la superficie, aggrappandosi a uno scoglio per non farsi trasportare via, e rimase a fare il morto a galla, sentendosi come una freccia che fila nell'acqua.

Narda

Roran si appoggiò su un ginocchio e si grattò la nuova barba, intento a osservare Narda sotto di lui. La cittadina era scura e compatta, come una crosta di pane di segala incastrata in una rientranza della costa. Più in là, il mare violetto scintillava sotto gli ultimi raggi del sole morente. L'acqua lo affascinava; era così diversa dal panorama a cui era abituato.

Ce l'abbiamo fatta.


Scendendo dal promontorio, Roran tornò verso la sua tenda, inspirando l'aria salmastra a pieni polmoni. Si erano accampati in alto, sulle colline ai piedi della Grande Dorsale, per evitare di essere scorti da chiunque potesse allertare l'Impero.


Mentre camminava fra i gruppi di compaesani assiepati sotto gli alberi, Roran studiò le loro condizioni con dolore e rabbia. Il lungo viaggio dalla Valle Palancar li aveva lasciati esausti, laceri e malati; i loro volti erano scavati per la carenza di cibo; i loro vestiti erano ridotti a brandelli. Molti si erano fasciati le mani di stracci per proteggerle dal gelo delle dure notti montane. Settimane di trasporto di carichi pesanti avevano incurvato schiene un tempo orgogliosamente diritte. La vista peggiore erano i bambini: magri, e tranquilli in modo innaturale. Meritano di meglio, pensò Roran. Sarei nelle grinfie dei Ra'zac, ora, se non mi avessero protetto. Erano molti quelli che si avvicinavano a lui, in cerca soltanto


di una pacca sulle spalle o una parola di conforto. Alcuni gli offrivano avanzi di cibo, che lui rifiutava o che, quando insistevano, prendeva per dare a qualcun altro. Quelli che si tenevano a distanza, lo fissavano con occhi spenti e infossati. Sapeva quello che dicevano di lui, che era pazzo, che era posseduto dagli spiriti, che nemmeno i Ra'zac avrebbero potuto sconfiggerlo in battaglia.


Valicare la Grande Dorsale si era rivelato più arduo di quanto si era aspettato. Gli unici sentieri nella foresta erano piste di caccia, troppo strette, ripide e tortuose per il folto gruppo. Così si erano visti costretti ad aprirsi la strada a colpi di accetta fra alberi e cespugli, un compito gravoso che non piaceva a nessuno, se non altro perché rendeva più facile all'Impero rintracciarli. L'unico vantaggio della situazione fu che l'esercizio fisico aiutò Roran a recuperare l'uso della spalla ferita, anche se aveva ancora qualche problema ad alzare completamente il braccio.


Altri ostacoli si erano presentati lungo il percorso. Una bufera improvvisa li aveva sorpresi su un valico brullo, troppo alto perché vi crescesse la vegetazione. Tre persone erano morte assiderate nella neve: Hida, Brenna e Nesbit, tutti piuttosto avanti negli anni. Quella notte, per la prima volta, Roran aveva avuto la certezza che tutto il villaggio sarebbe morto per averlo seguito. Subito dopo, un ragazzo si era fratturato un braccio in una caduta, e poi Southwell era annegato in un torrente di montagna. Lupi e orsi avevano attaccato regolarmente il bestiame, incuranti dei falò che i contadini avevano cominciato ad accendere una volta lontani dalla Valle Palancar e dai maledetti soldati di Galbatorix. La fame li aveva tormentati come un parassita tenace, artigliando le loro viscere, divorando la loro forza ed erodendo la loro volontà di proseguire.


Eppure erano sopravvissuti, mostrando la stessa ostinazione e la stessa tenacia dei loro antenati, che erano rimasti nella Valle Palancar nonostante le carestìe, le guerre e le pestilenze. La gente di Carvahall poteva anche impiegare un secolo a prendere una decisione, ma quando lo faceva, niente poteva fermarla.


Ora che avevano raggiunto Narda, l'accampamento era pervaso da un senso di realizzazione e di speranza. Nessuno sapeva cosa li aspettava, ma il fatto di essere arrivati così lontano ispirava loro fiducia.


Non saremo al sicuro finché non lasceremo l'Impero, pensò Roran. E dipende da me garantire l'incolumità di ciascuno di noi. Sono diventato responsàbile dell'intera comunità... Una responsabilità che accettava volentieri, perché gli permetteva sia di proteggere i compaesani da Galbatorix, sia di perseguire il suo obiettivo: 'salvare Katrina. È passato tanto tempo da quando è stata catturata. Sarà ancora viva? Rabbrividì e scacciò quel pensiero terribile. Sarebbe impazzito sul serio se si fosse permesso di indugiare sulla sorte di Katrina.


All'alba, Roran, Horst, Baldor, i tre figli di Loring e Gertrude si avviarono verso Narda. Scesero dalle colline sulla strada maestra, attenti non farsi vedere finché l'impressione di respirare sott'acqua. Roran strinse la presa sul martello che sorvegliavano l'ingresso. Esaminarono il gruppo di Roran con sguardi severi, indugiando sui loro abiti laceri, poi

non emersero sul viale. In pianura, l'aria era più densa; Roran aveva


portava alla cintura avvicinandosi ai cancelli della città. Due soldati abbassarono le asce da guerra e sbarrarono l'accesso.

«Da dove venite?» chiese l'uomo a destra. Non poteva avere più di venticinque anni, ma i suoi capelli erano completamente bianchi.


Gonfiando il petto, Horst incrociò le braccia e disse: «Dalle parti di Teirm, se non ti dispiace.»


«Che cosa siete venuti a fare?»


«Commercio. Siamo stati mandati dai bottegai che vogliono comprare merci direttamente da Narda, invece che attraverso i soliti mercanti.»


«Tu dici, eh? E che tipo di merci?»


Quando Horst esitò, Gertrude disse: «Erbe e medicine, per quanto mi riguarda. Le piante che ho ricevuto da qui o erano troppo vecchie, o ammuffite. Ho bisogno di scorte fresche.»


«I miei fratelli e io» intervenne Darmen «siamo venuti a trattare con i vostri calzolai. Le scarpe fatte in stile nordico vanno di moda a Dras-Leona e Urù'baen.» Sogghignò. «Almeno lo erano quando ci siamo messi in marcia.» Horst annuì con rinnovata fiducia. «Già. E io sono qui per comprare ferro vecchio per il mio padrone.» «Capisco. E quello lì? Tu perché sei venuto?» chiese il soldato, indicando Roran con l'ascia.


«Ceramiche» rispose Roran.


«Ceramiche?»


«Ceramiche.»


«A che ti serve il martello, allora?»


«Come pensi che si ottenga l'effetto screpolato su una bottiglia o su un vaso? Non viene mica da solo. Devi colpirli.» Roran ricambiò lo sguardo incredulo dell'uomo canuto con un'espressione l'affermazione.


Il soldato borbottò e fece di nuovo scorrere lo sguardo su tutti loro. «Sarà pure, commercianti. Gatti randagi morti di fame, direi piuttosto.»


«Abbiamo avuto difficoltà per la strada» disse Gertrude.


«Può darsi. Ma se venite da Teirm, dove sono i vostri cavalli?»


«Li abbiamo lasciati all'accampamento» rispose Hamund, facendo un vago cenno verso sud, la direzione opposta rispetto a dove si erano nascosti gli abitanti del villaggio.


«Non avete soldi per alloggiare in città, eh?» Con una risatina di scherno, il soldato alzò l'ascia e fece cenno al compagno di fare altrettanto. «D'accordo, passate pure, ma non voglio problemi, altrimenti vi rispediamo da dove siete venuti, o peggio.»


Una volta superato il cancello, Horst spinse Roran contro un muro e gli ringhiò nell'orecchio: «Ma che razza di stupidaggini vai dicendo? Fare le screpolature a furia di martellate! Cerchi rogne? Non possiamo...» S'interruppe quando Gertrude lo tirò per una manica.


«Guardate» mormorò la guaritrice.


A sinistra dell'ingresso c'era un tabellone per gli avvisi largo sei piedi, con una piccola tettoia a spiovente per proteggere la pergamena ingiallita. Metà del tabellone era dedicato ad avvisi ufficiali e proclami. Sull'altra metà erano affissi manifesti che ritraevano la faccia di vari criminali. In primo piano campeggiava un disegno di Roran senza barba. Sconvolto, Roran si guardò intorno per assicurarsi che nessuno per la strada fosse abbastanza vicino da confrontare la sua faccia con l'illustrazione, poi rivolse la sua attenzione alla pergamena. Si era aspettato che l'Impero li inseguisse, ma fu lo stesso terribile averne la prova. Galbatorix sta spendendo una fortuna nel tentativo di acciuffarci. Quando erano sulla Grande Dorsale, era stato facile dimenticare che esisteva il mondo esterno. Scommetto che manifesti del genere sono affissi in tutto l'Impero. Sogghignò, contento di essersi fatto crescere la barba, e che lui e gli altri avessero deciso di adottare nomi fittizi finché restavano a Narda.


In fondo al manifesto era scritta la ricompensa. Garrow non aveva mai insegnato a leggere a Roran ed Eragon, ma aveva insegnato loro i numeri perché, diceva: "Dovete sapere quanto avete, quanto vale, e quanto vi viene pagato, per non farvi imbrogliare da qualche furfante senza scrupoli". Così Roran vide che l'Impero offriva diecimila corone per la sua cattura, abbastanza per vivere comodamente per diversi decenni. In un certo senso perverso, l'entità della ricompensa lo inorgoglì, facendolo sentire importante.


Poi il suo sguardo si spostò sul manifesto accanto.


Eragon.


Roran si sentì attanagliare le viscere come se lo avessero colpito, e per qualche secondo si dimenticò di respirare. Allora è vivo!


Dopo un primo momento di sollievo, Roran sentì montare l'antica rabbia per il ruolo che Eragon aveva avuto nella morte di Garrow e nella distruzione della fattoria, accompagnata da un cocente desiderio di sapere perché l'Impero dava la caccia a Eragon. Deve avere a che fare con quella pietra blu e la prima visita dei Ra'zac a Carvàhall. Ancora una volta, Roran si domandò in quale tipo di oscura macchinazione lui e il resto del villaggio erano rimasti implicati. Invece di una ricompensa, sul poster di Eragon c'erano due righe di rune. «Di quale crimine è accusato?» chiese Roran a Gertrude.


La pelle intorno agli occhi di Gertrude s'increspò, mentre aguzzava la vista per leggere. «Alto tradimento, per tutti e due. Dice che Galbatorix assegnerà una contea a chiunque catturi Eragon, ma coloro che ci proveranno devono stare attenti perché è molto pericoloso.»


Roran sbattè le palpebre, incredulo. Eragon? Gli sembrava inconcepibile, finché Roran non considerò come lui stesso era cambiato nelle ultime settimane. Lo stesso sangue scorre nelle nostre vene. Eragon potrebbe aver compiuto chissà quali imprese da quando è fuggito.


vacua, sfidandolo a confutare

ma a me non sembrate proprio A bassa voce, Baldor disse: «Se uccidere gli uomini di Galbatorix e sconfiggere i Ra'zac ti fa valere appena diecimila corone, cosa può aver fatto per valere una contea?»


«Forse ha fregato il re in persona» suggerì Lame.


«Basta così» disse Horst. «Tenete a freno la lingua, o finiremo nei guai. E tu, Roran, non attirare l'attenzione su di te. Con una ricompensa del genere, la gente non farà altro che osservare gli stranieri per trovare qualcuno che corrisponda alla tua descrizione.» Passandosi una mano fra i capelli, Horst si tirò su la cinta e aggiunse: «Bene. Abbiamo del lavoro da fare. Tornate qui a mezzogiorno a riferire.»


A quel punto, il gruppo si divise in tre. Darmen, Lame e Hamund andarono in cerca di cibo per i compagni, sia per l'immediato consumo che per il prossimo tratto di viaggio. Gertrude - come aveva detto alla guardia - andò a rifornirsi di erbe, unguenti ed essenze. Roran, Horst e Baldor presero la via del porto, dove speravano di poter noleggiare una nave per trasportare il villaggio nel Surda, o almeno fino a Teirm.


Quando raggiunsero la banchina di legno stagionato che copriva la spiaggia, Roran si fermò per ammirare l'oceano, che era grigio per le nuvole basse e costellato di increspature bianche sollevate da raffiche di vento. Non avrebbe mai immaginato che l'orizzonte potesse essere tanto piatto. Il rimbombo sordo dell'acqua contro i piloni della banchina gli dava la sensazione di stare su un enorme tamburo. L'odore del pesce - fresco, eviscerato, o marcio - sovrastava qualsiasi altro odore.


Spostando lo sguardo da Roran a Baldor, che era ugualmente ammutolito dallo stupore, Horst disse: «Che vista magnifica, eh?»


«Sì» disse Roran.


«Ti fa sentire piccolo, non trovi?»


«Già» disse Baldor.


Horst annuì. «Ricordo che la prima volta che vidi l'oceano mi fece lo stesso effetto.»


«Quando fu?» chiese Roran. Oltre agli stormi di gabbiani che volteggiavano sulla baia, notò uno strano uccello appollaiato sul molo. L'animale aveva il corpo sgraziato e un lungo becco dritto che teneva aderente al petto come un vecchio pomposo, la testa e il collo bianchi, e il torso scuro. Uno degli uccelli alzò il becco, rivelando una borsa di pelle sotto.


«Bartram, il fabbro che c'era prima di me» disse Horst, «morì quando avevo quindici anni, un anno prima della fine del mio apprendistato. Dovevo trovare un fabbro che terminasse il lavoro di un altro, così andai a Ceunon, che si trova sulle rive del Mare del Nord. Lì conobbi Kelton, un vecchio che però sapeva il fatto suo. Acconsentì a insegnarmi.» Horst rise. «Il tempo di finire il mio apprendistato, e non sapevo se dovevo ringraziarlo o mandarlo al diavolo.» «Ringraziarlo, direi» fece Baldor. «Altrimenti, non avresti mai sposato la mamma.»


Roran s'incupì mentre scrutava il lungomare. «Non ci sono molte navi» osservò. Due imbarcazioni erano ormeggiate all'estremità sud del molo, e una terza dalla parte opposta, senza altro in mezzo se non pescherecci e piccoli battelli. Della coppia a sud, una aveva l'albero spezzato. Roran non aveva esperienza di navi, ma a suo avviso nessuna delle imbarcazioni era abbastanza grande da trasportare quasi trecento passeggeri.


Passando da una nave all'altra, i tre scoprirono che erano già tutte ingaggiate. E ci sarebbe voluto oltre un mese per riparare quella con l'albero rotto. L'imbarcazione a fianco, la Solcaonde, era armata di vele di pelle, pronta ad avventurarsi verso nord, diretta alle infide isole dove cresceva la Seithr. E YAlbatros, l'altra nave, era appena arrivata dalla lontana Feinster e doveva aspettare un nuovo calafataggio prima di partire col suo carico di lana. Un portuale rise alle domande di Horst. «Siete arrivati troppo tardi, o troppo presto, dipende dai punti di vista. Le navi che viaggiano in primavera sono arrivate e partite due, tre settimane fa. Fra un altro mese, cominceranno a soffiare i venti da nordovest, e allora torneranno i cacciatori di foche e balene e arriveranno navi da Teirm e dal resto dell'Impero per caricare pelli, carne e olio. Forse allora vi capiterà di ingaggiare un capitano con la stiva vuota. Nel frattempo, non si vede molto traffico da queste parti.»


Disperato, Roran chiese: «Non c'è un altro modo per trasportare merci da qui a Teirm? Non dev'essere necessariamente qualcosa di comodo o veloce.»


«Be'» disse l'uomo, spostando il peso della cassa che portava sulle spalle, «se non dev'essere qualcosa di veloce e dovete arrivare soltanto a Teirm, provate a chiedere a Clovis, laggiù.» Indicò una serie di rimesse fra due moli dove si custodivano le barche. «Possiede alcune chiatte con cui trasporta il grano in autunno. Il resto dell'anno, Clovis fa il pescatore per vivere, come quasi tutti qui a Narda.» Poi si accigliò. «Che tipo di merci avete? Le pecore sono state già tosate, e non ci sono ancora raccolti pronti.»


«Un po' di questo, un po' di quello» disse Horst, lanciando una moneta di rame al lavoratore.


L'uomo intascò la moneta con una strizzatina d'occhio. «Ben detto, signore. Un po' di questo, un po' di quello. Sento puzza di bruciato, ma non dovete aver timore del vecchio Ulric: acqua in bocca! Ci vediamo, signori.» E si allontanò fischiettando.


Continuando a fare domande, scoprirono che Clovis non era al porto. Grazie alle indicazioni ottenute, si diressero verso casa sua, all'altro capo di Narda, dove arrivarono dopo una buona mezz'ora e trovarono Clovis intento a piantare bulbi di iris sul vialetto di accesso. Era un uomo tarchiato con le guance bruciate dal sole e la barba sale e pepe. Impiegarono un'altra ora per convincere il marinaio di essere seriamente interessati alle sue chiatte, malgrado la stagione, e infine tornarono tutti alle rimesse, dove l'uomo aprì il lucchetto delle porte e mostrò loro tre barconi identici, la Merrybell, la Edeline e la Cinghiale Rosso.


Ogni chiatta era lunga settantacinque piedi e larga venti, verniciata di rosso ruggine. Avevano i ponti scoperti che si potevano coprire con la tela cerata, un albero che si poteva innalzare al centro con una singola vela quadra, e una tuga con le cabine sulla parte posteriore dell'imbarcazione, o poppa, come la chiamò Clovis.


«Hanno un pescaggio maggiore rispetto alle chiatte fluviali» spiegò Clovis, «perciò non dovete temere di capovolgervi col mare grosso, anche se sarà meglio evitare una vera tempesta. Queste chiatte non sono fatte per il mare aperto, ma per navigare sotto costa. E questo è il periodo peggiore per prendere il mare. Parola mia, è un mese ormai che scoppia un temporale ogni pomeriggio.»


«Hai un equipaggio per tutte e tre?» chiese Roran.


«Be', sapete... c'è un problema. La maggior parte degli uomini che di solito ingaggio sono partiti settimane fa per la caccia alle foche. Dato che mi servono soltanto dopo il raccolto, sono liberi di andare e venire come vogliono per il resto dell'anno... Sono sicuro che voi gentiluomini comprenderete la mia posizione.» Clovis abbozzò un sorriso, poi fece scorrere lo sguardo da Roran a Horst e a Baldor, come se non sapesse a chi rivolgersi.


Roran percorse tutta la lunghezza della Edeline, in cerca di danni. La chiatta era vecchia, ma il legno era sano e la vernice fresca. «Se rimpiazziamo gli uomini dell'equipaggio che mancano, quanto ci verrà a costare arrivare a Teirm con tutte e tre le chiatte?»


«Dipende» rispose Clovis. «I marinai guadagnano quindici monete di rame al giorno, più il cibo e una razione di whisky. Quello che guadagnano i vostri uomini è affar vostro. Non li metto sulla mia lista paga. Di norma, assumo anche delle guardie per ciascuna chiatta,


ma sono...»


«Andati a caccia di foche, certo» tagliò corto Roran. «Penseremo noi anche alle guardie.»


Il pomo della gola abbronzata di Clovis sussultò. «Questo mi sembra ragionevole... perciò, vediamo... oltre alla paga dell'equipaggio, chiedo duecento corone, più un indennizzo per eventuali danni alle chiatte da parte dei vostri uomini, più... come armatore e capitano... il dodici percento dei proventi della vendita del carico.»


«Non ci saranno proventi.»


Questo, più di ogni altra cosa, parve innervosire Clovis. Si massaggiò la fossetta del mento con il pollice sinistro, fece per parlare due volte, s'interruppe, e alla fine disse: «In questo caso, altre quattrocento corone alla fine del viaggio. Se posso permettermi... cosa trasportate?»


L'abbiamo spaventato, pensò Roran. «Bestiame.»


«Ossia pecore, mucche, cavalli, capre, buoi...»


«Abbiamo un vasto assortimento di animali.»


«E perché volete portarli a Teirm?»


«Abbiamo le nostre buone ragioni.» Roran quasi sorrise davanti alla confusione di Clovis. «Prenderesti in considerazione l'idea di navigare oltre Teirm?»


«No! Teirm è il limite massimo. Non conosco le acque più avanti, né voglio stare troppo tempo lontano da mia moglie e mia figlia.»


«Quando potresti essere pronto?»


Clovis esitò e spostò il peso da un piede all'altro. «Direi fra cinque, sei giorni... No, meglio fra una settimana; ho degli affari da sbrigare prima di partire.»


«Ti pagheremo altre dieci corone se partiremo dopodomani.»


«Non...»


«Dodici corone.»


«E sia. Dopodomani» accettò Clovis. «In un modo o nell'altro, sarò pronto.»


Facendo scorrere la mano sul parapetto della chiatta, Roran annuì senza guardare Clovis e disse: «Posso avere un minuto per discutere con i miei soci da solo?»


«Ma certo. Andrò a fare una camminata sul molo finché non avrete finito.» Clovis si affrettò verso la porta della rimessa. Sulla soglia si fermò a chiedere: «Devi scusarmi, ma come hai detto che ti chiami? Temo mi sia sfuggito prima, e la mia memoria a volte è terribile.»


«Fortemartello. Mi chiamo Fortemartello.»


«Ah, certo. Bel nome.»


Quando la porta si chiuse, Horst e Baldor si avvicinarono a Roran. Baldor disse: «Non possiamo permetterci di ingaggiarlo.»


«Non possiamo permetterci di non ingaggiarlo» replicò Roran. «Non abbiamo l'oro per comprarci le chiatte, né mi sognerei di imparare a governarle da solo quando la vita di tutti dipende da questo. Sarà più rapido e più sicuro pagare un equipaggio.»


«Resta sempre troppo costoso» disse Horst.


Roran tamburellò con le dita sul parapetto. «Possiamo pagare la cifra iniziale di duecento corone. Una volta raggiunta Teirm, suggerisco o di rubare le chiatte e sfruttare quanto avremo imparato durante il viaggio, o di neutralizzare Clovis e i suoi uomini finché non saremo in grado di fuggire con altri mezzi. In questo modo, eviteremo di pagare le altre quattrocento corone e le paghe dei marinai.»


«Mi ripugna l'idea di ingannare un uomo onesto» disse Horst. «Mi si rivolta lo stomaco.»


«Nemmeno a me va a genio, ma quale alternativa abbiamo?»


«Come farai a imbarcare tutto il villaggio sulle chiatte?»


«Diremo a Clovis di fermarsi un miglio più a sud, lungo la costa, lontano da Narda.»


Horst sospirò. «D'accordo, faremo così, ma mi resta l'amaro in bocca. Baldor, va' a chiamare Clovis, e concludiamo questo accordo.»


Quella sera gli abitanti del villaggio si radunarono intorno a un piccolo falò per Accovacciato a terra, Roran fissava le braci pulsanti mentre ascoltava Gertrude e ascoltare le novità da Narda. i tre fratelli raccontare le loro avventure separate. La notizia dei manifesti di Roran ed Eragon suscitò mormorii di apprensione nel gruppo. Quando Darmen ebbe finito, Horst prese il suo posto e, con frasi brevi e concise, riferì della mancanza di navi adeguate a Narda, di come il portuale li avesse indirizzati verso un certo Clovis, e dell'accordo che avevano stretto con quest'ultimo. Ma nel momento in cui pronunciò la parola chiatte, le voci irate e scontente dei compaesani si levarono a coprire la sua.


Facendosi largo fino alla prima fila, Loring alzò le braccia per richiamare l'attenzione. «Chiatte?» disse il calzolaio. «Chiatte? Non vogliamo delle schifosissime chiatte!» Sputò per terra, mentre gli altri approvavano a gran voce. «Silenzio, tutti quanti!» esclamò Delwin. «Ci sentiranno, se continuiamo così.» Quando il crepitio delle fiamme fu l'unico suono udibile, continuò con voce più sommessa: «Sono d'accordo con Loring. Le chiatte sono inaccettabili. Sono lente e vulnerabili. E staremo pigiati come sardine, senza un minimo di intimità, ed esposti alle intemperie per chissà quanto tempo. Horst, Elain è incinta di sei mesi. Non puoi aspettarti che lei e i malati restino sotto il sole cocente per settimane e settimane.»


«Possiamo stendere tele cerate sui ponti» replicò Horst. «Non sarà molto, ma servirà a proteggerci dal sole e dalla pioggia.»


La voce di Brigit si levò sul brusìo della folla. «A me preoccupa qualcos'altro.» La gente si fece da parte per farla passare. «Con le duecento corone che dobbiamo a Clovis, e il denaro che Darmen e i suoi fratelli hanno speso, saremo praticamente al verde. Al contrario di quelli che abitano in città, la nostra ricchezza non consiste in oro, ma in proprietà e bestiame. Le nostre proprietà le abbiamo perdute, e ci restano pochi animali. Se anche diventassimo pirati e rubassimo quelle chiatte, come potremo rifornirci di altri viveri a Teirm o comprarci un passaggio per il sud?» «La cosa importante» borbottò Horst «è arrivare a Teirm. Una volta lì, ci preoccuperemo di come fare... Forse dovremo ricorrere a misure più drastiche.»


Il volto ossuto di Loring si trasformò in una massa di rughe. «Drastiche? Che intendi per drastiche? Siamo già stati drastici. Tutta questa avventura è drastica. Non m'importa quello che dici; non salirò su quelle dannate chiatte, non dopo quello che abbiamo passato sulla Grande Dorsale. Le chiatte sono fatte per trasportare granaglie e animali. Noi vogliamo una nave con cabine e cuccette dove dormire comodi. Perché non aspettiamo un'altra settimana e vediamo se arriva una vera nave da ingaggiare per il viaggio? Che male c'è? Oppure, perché non...» Continuò a concionare per altri quindici minuti, ammassando una quantità di obiezioni prima di cedere a Thane e Ridley, che esposero i loro argomenti. La conversazione si interruppe quando Roran allungò le gambe e si erse in tutta la sua statura, riducendo il villaggio al silenzio con la sua presenza soltanto. I compaesani attesero, col fiato sospeso, sperando in un altro dei suoi discorsi visionari.


«O così, o proseguiamo a piedi» disse.


Poi andò a dormire.

Il martello torna a colpire

La luna era alta nel firmamento stellato quando Roran uscì dalla tenda che condivideva con Baldor, camminò fino ai margini dell'accampamento e diede il cambio ad Albriech.


«Niente da riferire» sussurrò Albriech, poi si allontanò.


Roran incordò l'arco e piantò tre frecce nel terreno molle, a portata di mano, poi si avvolse in una coperta e si rannicchiò appoggiato a un masso lì vicino. La posizione gli consentiva una visuale completa delle colline buie. Com'era sua abitudine, Roran suddivise il panorama in quadranti, esaminando ciascuno per un minuto intero, attento a qualsiasi movimento o sprazzo di luce che potesse tradire la presenza del nemico. Ma la sua mente cominciò a vagare, saltando da un soggetto all'altro con la logica appannata dei sogni, distraendolo dal suo compito. Si morse l'interno della guancia per costringersi a recuperare la concentrazione. Restare sveglio era difficile, con quel clima mite... Roran era contento che la sorte non gli avesse assegnato uno dei due turni di guardia che precedevano l'alba, perché non davano l'opportunità di recuperare il sonno perduto e ci si sentiva stanchi per tutto il giorno. Un'improvvisa folata di vento lo fece rabbrividire; si sentì formicolare le orecchie e rizzare i capelli sul collo, pervaso da un presagio di malvagità che lo spaventò, cancellando ogni altro pensiero, tranne la convinzione che lui e il resto del villaggio erano in mortale pericolo. Tremava come


se avesse la febbre, il cuore gli martellava nel petto, e dovette resistere all'impulso di mettersi a correre. Che cosa mi succede? Gli costò uno sforzo immane persino incoccare una freccia.


A est, un'ombra si staccò dall'orizzonte. Visibile soltanto come uno spazio vuoto fra le stelle, si spostò lenta come un velo strappato fino a coprire la luna, dove si fermò, librandosi sospesa. Illuminate da dietro, Roran riconobbe le ali translucide di una delle cavalcature dei Ra'zac.


La nera creatura aprì il becco ed emise un lungo, lacerante strido. Roran trasalì di dolore per l'acutezza e la frequenza del grido. Gli feriva i timpani, raggelandogli il sangue nelle vene, e sostituì la speranza e la gioia con l'angoscia più cupa. L'ululato svegliò tutta la foresta. Gli uccelli e gli animali nel raggio di miglia esplosero in un coro di schiamazzi terrorizzati, compresi - notò Roran sgomento i pochi capi superstiti del bestiame del villaggio.


Correndo a testa bassa di albero in albero, Roran tornò all'accampamento, sussurrando a chiunque incontrasse: «I Ra'zac sono qui. Non fiatare e resta dove sei.» Vide le altre sentinelle muoversi fra i contadini spaventati, diffondendo lo stesso messaggio.


Fisk emerse in fretta e furia dalla sua tenda con una lancia in mano e ruggì: «Ci attaccano? Chi ha suonato quei maledetti...» Roran lo placcò per farlo tacere, lasciandosi sfuggire un lamento soffocato quando caddero a terra e lui urtò la spalla destra ferita contro il carpentiere.


«Ra'zac» mormorò Roran a Fisk.


Fisk rimase immobile e domandò con un filo di voce: «Che cosa posso fare?»


«Aiutami a calmare gli animali.»


Insieme attraversarono l'accampamento fino al campo vicino, dove erano stati radunati i muli, i cavalli, le pecore e le capre. I contadini proprietari del grosso del bestiame dormivano con loro, ed erano già svegli e impegnati ad ammansire le bestie. Roran ringraziò la cautela che lo aveva spinto a suggerire di tenere gli animali disseminati lungo i margini del campo, dove gli alberi e i cespugli li nascondevano da occhi ostili.


Mentre cercava di tranquillizzare un gruppo di pecore, Roran alzò lo sguardo verso la terribile ombra nera che ancora oscurava la luna, come un gigantesco pipistrello. Con orrore, si accorse che cominciava a spostarsi verso di loro. Se quella creatura grida ancora, siamo spacciati.


Quando il Ra'zac volò in cerchio su di loro, gli animali si zittirono, tranne un mulo che insisteva a emettere un rauco hi-ho. Senza un attimo di esitazione, Roran si calò su un ginocchio, incoccò una freccia e colpì l'asino fra le costole. La sua mira fu precisa e l'animale stramazzò senza emettere un suono.


Troppo tardi, però; il raglio aveva già insospettito il Ra'zac. Il mostro voltò la testa verso la radura e cominciò a scendere con gli artigli distesi, preceduto dal suo alito fetido.


Questo è il momento di vedere se si può uccidere un incubo, pensò Roran. Fisk, accovacciato accanto a lui nell'erba, alzò la lancia, preparandosi a scagliarla non appena il mostro fosse arrivato a tiro.


Proprio mentre Roran tendeva l'arco, nel tentativo di cominciare e finire la battaglia con un'unica freccia ben diretta, fu distratto da un clamore nella foresta.


Un branco di cervi sbucò dalla vegetazione, piombando in massa nel campo, ignorando uomini e animali nella frenetica fuga dai Ra'zac. Per quasi un minuto, i cervi balzarono intorno a Roran, calpestando il terreno molle con gli zoccoli, il chiaro di luna che si rifletteva nel bianco dei loro occhi rotondi. Erano così vicini che riusciva a sentire i tiepidi ansiti del loro respiro affannato.


La moltitudine di cervi doveva aver nascosto gli abitanti del villaggio, perché, dopo un ultimo giro di ricognizione sul campo, il mostro alato virò verso sud e si allontanò lungo la Grande Dorsale, perdendosi nella notte. Roran e i suoi compagni rimasero immobili come conigli braccati, nel timore che il Ra'zac si fosse allontanato solo per farli uscire allo scoperto, o che il gemello della creatura fosse nascosto nei paraggi. Aspettarono per ore, tesi e angosciati, senza osare muoversi se non per incordare un arco.


Quando la luna fu per tramontare, lo strido agghiacciante del Ra'zac risuonò in lontananza. Poi più nulla. Siamo stati fortunati, si disse Roran, quando si destò il mattino dopo. Ma non possiamo contare sulla fortuna per salvarci, la prossima volta.


Dopo la comparsa dei Ra'zac, nessuno dei contadini osò più protestare contro le chiatte. Al contrario, erano così smaniosi di partire, che molti chiesero a Roran se non fosse possibile prendere il mare quel giorno stesso invece di aspettare l'indomani.


«Lo vorrei anch'io» disse, «ma c'è ancora molto da fare.»


Rinunciando alla colazione, lui, Horst e un gruppo di altri uomini scesero a Narda. Roran sapeva che rischiava di essere riconosciuto, ma la loro missione era troppo importante perché lui non ci fosse. Inoltre era convinto che il suo attuale aspetto fosse molto diverso dal ritratto sul manifesto dell'Impero, e che nessuno avrebbe accostato l'uno all'altro. Non ebbero difficoltà a entrare, poiché c'erano due sentinelle diverse alle porte della città, e andarono al molo per consegnare duecento corone a Clovis, impegnato a supervisionare una squadra di uomini che approntavano le chiatte per il mare.


«Grazie, Fortemartello» disse, legandosi il sacchetto di monete alla cintura. «Non c'è niente di meglio che il giallo dell'oro per illuminare la giornata di un uomo.» Li condusse a un tavolo da lavoro dove srotolò una mappa delle acque che circondavano Narda, completa di appunti sulla forza delle diverse correnti; segnalazioni di scogli, banchi di sabbia e altri pericoli; e misure annotate in decenni di scandagli. Tracciando una riga con l'indice da Narda fino a una piccola insenatura poco più a sud, Clovis disse: «Qui imbarcheremo il bestiame. Le maree sono deboli in questo periodo dell'anno, ma dobbiamo pur sempre evitare di combatterle, perciò partiremo subito dopo l'alta marea.»

«Alta marea?» disse Roran. «Non sarebbe più facile aspettare la bassa, e poi lasciare che ci porti al largo?» Clovis si massaggiò un lato del naso, con uno scintillio negli occhi. «Già, sarebbe più facile, e molto spesso comincio un viaggio così. Ma quello che non voglio è arrivare sulla spiaggia, caricare gli animali, e trovarmi col riflusso dell'alta marea che spinge verso terra. Non correremo questo rischio, così, ma dovremo muoverci in fretta, per non restare all'asciutto quando la marea si ritirerà. Se ce la faremo, il mare lavorerà per noi.»


Roran annuì; si fidava dell'esperienza di Clovis. «Quanti uomini ti servono per integrare gli equipaggi?» «Be', sono riuscito a scovare sette giovanotti, forti, onesti, e marinai in gamba, che hanno accettato di imbarcarsi in questa avventura, per quanto suoni strana. Bada bene, la maggior parte di loro erano ubriachi fradici quando li ho incastrati ieri notte; si erano scolati fino all'ultima goccia delle loro ultime paghe, ma domattina saranno sobri come zitelle, te lo garantisco. Siccome ne ho trovati soltanto sette, me ne servirebbero altri quattro.»


«Quattro, d'accordo» disse Roran. «I miei uomini non sanno niente di mare, ma sono sani, robusti, e disposti a imparare.»


Clovis borbottò. «Di solito prendo a bordo qualche giovane mozzo inesperto nei miei viaggi. Perciò, purché obbediscano agli ordini, per me va bene; altrimenti si beccheranno un calcio sulla zucca, te lo assicuro. Quanto alle guardie, me ne occorrono nove, tre per ciascuna barca. E sarà meglio che non siano acerbi come i tuoi marinai, o non mi stacco dalla banchina, neppure per tutto il whisky del mondo.»


Roran gli rivolse un sorriso duro. «Ogni uomo che mi accompagna si è dimostrato capace in più di una battaglia.» «E rispondono tutti quanti a te, Fortemartello, eh?» disse Clovis. Si grattò il mento, adocchiando Gedric, Delwin e gli altri che erano nuovi di Narda. «Di quanti uomini puoi disporre?»


«Abbastanza.»


«Abbastanza, dici. Chissà se è vero.» Agitò una mano. «Non fare caso alle mie parole; la mia lingua precede il mio buonsenso di un miglio, come diceva mio padre. Il mio primo ufficiale, Torson, è dal droghiere adesso, a comprare provviste e attrezzature. Mi è parso di capire che hai viveri per il tuo bestiame.»


«Fra le altre cose.»

«Allora sarà meglio che tu vada a prenderli. Li caricheremo nelle stive dopo aver alzato gli alberi.» Per il resto della mattinata e nel pomeriggio, Roran e i suoi compagni fecero la spola per trasportare le provviste - che i figli di Loring avevano procurato - dal magazzino dov'erano conservate alle rimesse delle chiatte. Mentre Roran arrancava sulla passerella della Edeline e passava il sacco di farina al marinaio che aspettava nella stiva, Clovis osservò: «La maggior parte non è cibo, Fortemartello.»


«No» disse Roran. «Ma ci serve.» Fu lieto che Clovis avesse il buonsenso di non indagare oltre. Quando anche l'ultimo pacco fu stivato, Clovis fece cenno a Roran di avvicinarsi. «Voi potete andare. Io e i ragazzi ci occuperemo del resto. Ricorda soltanto questo: in banchina tre ore dopo l'alba con ogni uomo che mi hai promesso, altrimenti perderemo la marea.»


«Ci saremo.»


Tornati sulle colline, Roran aiutò Elain e gli altri a prepararsi per la partenza. Non ci volle molto, dato che erano abituati a levare le tende ogni mattina. Poi scelse dodici uomini per accompagnarlo a Narda la mattina dopo. Erano tutti bravi combattenti, ma lui voleva che i migliori, come Horst e Delwin, restassero con il villaggio nel caso che venissero scoperti dai soldati, o tornassero i Ra'zac.


Quando calò la notte, i due gruppi si separarono. Roran


si accovacciò su un masso e guardò Horst guidare la colonna di persone giù per la collina, verso l'insenatura dove avrebbero atteso le chiatte.


Orval lo raggiunse e incrociò le braccia. «Credi che saranno al sicuro, Fortemartello?» L'ansietà venava la sua voce, tesa come la corda di un arco.


Anche se a sua volta era preoccupato, Roran disse: «Certo. Scommetto un barile di sidro che staranno ancora dormendo quando arriveremo domattina. Tu potrai avere il piacere di svegliare Nolla. Che te ne pare dell'idea?» Orval sorrise al pensiero di sua moglie e annuì, rassicurato.


Spero di non sbagliarmi. Roran rimase sul masso, appollaiato come un oscuro gargoyle, finché la linea scura di contadini non scomparve dalla visuale.


Si svegliarono un'ora prima dell'alba, quando il cielo aveva appena cominciato a rischiararsi e l'aria umida della notte gli intorpidiva le dita. Roran si spruzzò acqua sul viso e si equipaggiò con l'arco e la faretra, l'onnipresente martello, uno degli scudi di Fisk e una delle lance di Horst. Gli altri fecero altrettanto, con l'aggiunta di spade conquistate durante gli scontri a Carvahall.


Correndo il più in fretta possibile giù dalle colline accidentate, i tredici uomini arrivarono sulla strada per Narda e poco dopo furono davanti ai cancelli della città. Con suo sgomento, all'ingresso erano appostate le due guardie che gli avevano dato problemi qualche giorno prima. I due abbassarono le asce da guerra per sbarrargli il passo. «Siete un po' di più, questa volta» osservò l'uomo canuto. «E nemmeno gli stessi. Tranne te.» Indicò Roran. «Immagino che ti aspetti che creda che la lancia e lo scudo servono per la ceramica, vero?»


«No. Siamo stati ingaggiati da Clovis per proteggere le sue chiatte da un attacco durante il viaggio per Teirm.» «Voi? Mercenari?» Il soldato scoppiò a ridere. «Hai detto che eravate commercianti.»


«Così si guadagna di più.»


L'uomo dai capelli bianchi si accigliò. «Tu menti. Ho provato a fare il soldato di ventura, una volta, e ho patito la fame come non mai. Ma quanti siete comunque? L'altro giorno sette, oggi dodici... tredici, contando te. Non siete un po' troppi per essere una spedizione di commercianti?» I suoi occhi si ridussero a due fessure mentre scrutava il volto di Roran. «Hai una faccia familiare. Come ti chiami?»


«Fortemartello. »


«Non ti chiami per caso Roran...»


Con mossa fulminea, Roran affondò la lancia nella gola dell'uomo. Il sangue scarlatto sgorgò a fiotti. Mollando la presa sulla lancia, Roran estrasse il martello, parando l'ascia del secondo soldato con lo scudo. Roteò in alto il martello e lo abbattè sull'elmo dell'uomo, che stramazzò in terra. Ansimante fra i due cadaveri, Roran pensò: Ora ne ho uccisi dieci. Orval e gli altri uomini lo fissavano sgomenti. Incapace di sopportare quegli sguardi, Roran volse loro la schiena e indicò il canale di scolo che correva alle spalle della strada. «Nascondete i corpi, prima che qualcuno li veda» ordinò con asprezza. Mentre si affrettavano a obbedire, esaminò il parapetto sul muro di cinta per scorgere eventuali sentinelle. Per fortuna non c'era nessuno in cima, e nessuno sulla strada oltre il cancello. Si chinò a raccogliere la lancia, che pulì con una manciata d'erba.


«Fatto» disse Mandel, risalendo dalla scarpata. Malgrado la barba, il giovane aveva il viso pallido. Roran annuì e, facendosi forza, affrontò il gruppo. «Ascoltate. Ci dirigeremo al molo con passo deciso, ma tranquillo. Non corriamo. Quando verrà suonato l'allarme - qualcuno potrebbe aver sentito il rumore - assumete un'aria sorpresa e curiosa, ma non spaventata. Qualunque cosa, pur di non attirare sospetti su di noi. La vita delle vostre famiglie e dei vostri amici dipende da questo. Se veniamo attaccati, il vostro unico dovere è assicurarvi che le chiatte prendano il mare. Nient'altro conta. Sono stato chiaro?»


«Sì, Fortemartello» risposero all'unisono.


«Allora seguitemi.»


Mentre attraversavano Narda, Roran si sentiva così teso che temeva di spezzarsi ed esplodere in mille pezzi. Che cosa sono diventato? si chiese. Il suo sguardo guizzava furtivo da uomo a donna, da bambino a uomo, da uomo a cane, nel tentativo di individuare potenziali nemici. Tutto intorno a lui gli appariva innaturalmente vivido e ricco di dettagli; era come se potesse vedere ogni singolo filo di trama negli abiti della gente.


Raggiunsero la banchina senza intoppi, e lì trovarono Clovis, che disse: «Sei in anticipo, Fortemartello. Una cosa che apprezzo. Ci darà l'opportunità di organizzare meglio la partenza.»


«Non possiamo partire subito?» chiese Roran.


«Dovresti già conoscere la risposta. Bisogna aspettare che la marea abbia finito di alzarsi.» Clovis fece una pausa, guardando bene per la prima volta i tredici uomini, e disse: «Perché, cosa succede, Fortemartello? Avete l'aria di chi ha visto il fantasma del vecchio Galbatorix in persona.»


«Niente che un po' d'aria di mare non possa curare» disse Roran. Nelle sue attuali condizioni, sorridere era l'ultima cosa che voleva, ma si costrinse ad assumere un'espressione più distesa per rassicurare il capitano.


Con un fischio, Clovis richiamò due marinai dai barconi. Entrambi avevano la pelle abbronzata, del colore delle nocciole. «Lui è Torson, il mio primo ufficiale» disse Clovis, indicando l'uomo alla sua destra. Le spalle nude di Torson erano decorate dal tatuaggio serpentesco di un drago volante. «Sarà lui a governare la Merrybell. E questo cagnaccio nero è Flint. Lui comanda la Edeline. Finché sarete a bordo, la loro parola sarà legge, come la mia sulla Cinghiale Rosso. Risponderete a loro e a me, non a Fortemartello... Be', fatemi sentire un bel signorsì, signore, se avete inteso.» «Signorsì, signore» dissero gli uomini.


«Allora, quali di voi saranno i miei marinai e quali le mie guardie? In fede mia, non so distinguere gli uni dagli altri.» Ignorando l'ammonimento di Clovis, secondo cui era lui il loro comandante e non Roran, gli uomini guardarono quest'ultimo come in attesa di un ordine. Roran annuì, e gli altri si divisero in due gruppi, che Clovis suddivise a sua volta per assegnarli alle tre imbarcazioni.


Nella mezz'ora che seguì, Roran lavorò fianco a fianco con i marinai per finire di approntare la Cinghiale Rosso per la partenza, con le orecchie tese al minimo cenno di allarme. Saremo catturati o uccisi se restiamo ancora a lungo, pensò, controllando il livello dell'acqua intorno ai piloni. Si asciugò il sudore dalla fronte.


Roran trasalì quando Clovis lo afferrò per il braccio.


Prima di riuscire a trattenersi, aveva già estratto per metà il martello dalla cintura. Si sentì stringere la gola da un groppo d'aria densa.


Clovis inarcò un sopracciglio davanti alla sua reazione. «Ti osservavo, Fortemartello, e mi chiedevo come hai fatto a guadagnarti una simile lealtà dai tuoi uomini. Sono stato al servizio di molti più comandanti di quanti riesca a ricordare, ma nessuno riusciva a ottenere questa cieca obbedienza senza alzare la voce.»


Roran non potè fare a meno di scoppiare a ridere. «Te lo dico come ho fatto: li ho salvati dalla schiavitù e dall'essere divorati.»


Le sopracciglia di Clovis si inarcarono ancora di più. «Davvero? Questa è una storia che mi piacerebbe ascoltare.» «No, non credo.»


Dopo qualche istante, Clovis disse: «No, forse no.» Scoccò un'occhiata fuori bordo. «Be', che io sia impiccato. Pare proprio che sia giunto il momento di salpare. Ah, ecco la mia piccola Galina, puntuale come sempre.» Il massiccio capitano saltò sulla passerella e da lì sulla banchina, dove abbracciò una ragazzina dai capelli scuri che doveva avere all'inarca tredici anni, e una donna che Roran immaginò fosse sua madre. Clovis scompigliò i capelli della ragazza e disse: «Galina, farai la brava mentre sono via, non è vero?»


«Sì, papà.»


Mentre guardava Clovis congedarsi dalla famiglia, Roran


ripensò ai due soldati morti. Magari anche loro avevano famiglia. Mogli e figli che li amavano e una casa a cui tornare ogni giorno... Sentì il sapore della bile in bocca e dovette concentrarsi sulla scena che si svolgeva sul molo per non vomitare.


Sulle chiatte, gli uomini avevano l'aria nervosa. Temendo che potessero perdere il controllo, Roran si mostrò mentre camminava sulla banchina, stiracchiandosi e facendo di tutto per sembrare tranquillo. Alla fine, Clovis balzò di nuovo a bordo della Cinghiale Rosso e gridò: «Ai posti di manovra, ragazzi! Il mare ci attende.»


Le passerelle furono tirate a bordo, i cavi di ormeggio slegati, e le vele issate sulle tre chiatte. L'aria risuonava di ordini, mentre i marinai cantilenavano issa tirando le cime.


Sulla banchina, Galina e sua madre rimasero a guardare le chiatte che si allontanavano, immobili e silenziose, i volti tristi sotto i cappucci. «Siamo fortunati, Fortemartello» disse Clovis, dandogli una pacca sulla spalla. «C'è anche un po' di vento a sospingerci, oggi; potremmo non essere costretti a remare per arrivare all'insenatura prima che la marea cambi!» Quando la Cinghiale Rosso si trovò al centro della baia di Narda e ad ancora una decina di minuti dalla salvezza del mare aperto, quello che Roran temeva accadde: il suono delle campane e delle trombe echeggiò sull'acqua dagli edifici di pietra.


«Che cosa succede?» chiese.


«Non lo so proprio» rispose Clovis. Aggrottò la fronte mentre scrutava la cittadina, «Potrebbe essere un incendio, ma non vedo fumo da nessuna parte. Forse hanno le mani piazzate sui fianchi. scoperto qualche Urgali nei paraggi...» Il suo volto esprimeva grande preoccupazione. «Per caso avete visto qualcuno di losco sulla strada stamattina?»


Roran si limitò a fare no con la testa, perché non si fidava abbastanza della propria voce.


Flint si accostò con la Edeline e gridò dal ponte: «Torniamo indietro, capitano?» Roran strinse così forte il parapetto da conficcarsi schegge di legno sotto le unghie, pronto a intervenire, ma temendo di apparire troppo ansioso. Distogliendo lo sguardo da Narda, Clovis gridò in risposta: «No. Perderemmo la marea.»


«Signorsì, signore. Ma darei un giorno di paga per scoprire cosa ha scatenato quel putiferio.»


«Anch'io» borbottò Clovis.


Mentre le case e gli altri edifici rimpicciolivano alle sue spalle, Roran si sedette per terra sul lato sinistro della chiatta, si strinse le ginocchia al petto e appoggiò la schiena alla tuga. Guardò in alto, colpito dall'immensità, dalla trasparenza e dal colore del cielo, poi la scia verde della Cinghiale Rosso, dove fluttuavano lunghi nastri di alghe. Il dondolio della chiatta lo cullava come un bambino. Che bella giornata, si disse, lieto di essere vivo per osservarla. Dopo essere usciti dalla baia - con suo sollievo - Roran salì la scala del cassero di poppa dietro la tuga, dove c'era Clovis con le mani sul timone a governare la rotta. Il capitano disse: «Ah, c'è qualcosa di esaltante nel primo giorno di viaggio, prima di rendersi conto di quanto è pessimo il cibo e cominciare a sentire nostalgia di casa.» Memore della necessità di imparare il più possibile sul governo delle chiatte, Roran chiese a Clovis i nomi e le funzioni di vari oggetti a bordo. Il capitano si lanciò in un'entusiastica lezione sul funzionamento delle chiatte, delle navi e dell'arte della navigazione in generale.


Due ore più tardi, Clovis indicò una stretta penisola avanti a loro. «L'insenatura è dall'altra parte» annunciò. Roran si protese, stringendo le sartie, e tese il collo, non vedendo l'ora di avere la conferma che i compaesani erano salvi. Quando la Cinghiale Rosso doppiò la punta rocciosa, in fondo all'insenatura comparve una spiaggia bianca, su cui erano radunati i rifugiati della Valle Palancar. La folla lanciò grida di esultanza e sventolò le mani, mentre le chiatte emergevano da dietro gli scogli.


Roran si tranquillizzò.


Al suo fianco, Clovis lanciò un'imprecazione terribile. «Sapevo che c'era qualcosa che puzzava nel momento stesso in cui ti ho visto, Fortemartello. Bestiame, certo. Bah! Mi hai ingannato.»


«Ti sbagli» replicò Roran. «Non ti ho mentito: quello è il mio gregge e io sono il loro pastore. Non è mio diritto chiamarli "bestiame", se voglio?»


«Chiamali come ti pare, ma io non porto persone a Teirm. Perché non mi hai rivelato la vera natura del carico, vorrei sapere, e l'unica risposta è che qualunque sia la vostra missione significa guai... guai per voi e guai per me. Dovrei scaraventarvi tutti in mare e tornare a Narda.»


«Ma non lo farai» disse Roran, mortalmente calmo.


«Oh? E perché no?»


«Perché ho bisogno delle tue chiatte, Clovis, e farò di tutto per tenerle. Di tutto. Tieni fede al nostro accordo e il viaggio sarà tranquillo, e potrai rivedere Galina. Altrimenti...» L'implicita minaccia andò oltre le sue intenzioni; non voleva uccidere Clovis, ma, se messo alle strette, lo avrebbe sbarcato da qualche parte lungo la costa. Clovis si fece tutto rosso, ma con sorpresa di Roran brontolò: «Come vuoi, Fortemartello.» Soddisfatto, Roran riportò la sua attenzione sulla spiaggia.


Dietro di lui sentì un fruscìo.


Agendo d'istinto, Roran si scansò, si abbassò e si girò, coprendosi la testa con lo scudo. Il suo braccio tremò quando una caviglia colpì il legno. Abbassò lo scudo e guardò un Clovis sgomento che indietreggiava sul ponte. Roran scrollò il capo, senza mai staccare gli occhi dall'aggressore. «Non puoi battermi, Clovis. Te lo chiedo di nuovo: terrai fede all'accordo? Se non lo farai, ti sbarcherò sulla costa, assumerò il comando delle chiatte e costringerò il tuo equipaggio a obbedirmi. Non voglio rovinarti la vita, ma se mi costringi... Coraggio. Questo può essere un viaggio normale e tranquillo, se scegli di aiutarci. Ricorda che sei già stato pagato.»


Drizzando le spalle per darsi un contegno, Clovis disse: «Se accetto, dovrai usarmi la cortesia di spiegarmi perché è stato necessario questo stratagemma, e perché questa gente si trova qui, e da dove viene. Puoi offrirmi tutto l'oro del mondo, ma non ti aiuterò in qualcosa che va contro i miei principi. Mai e poi mai. Siete banditi? O siete al servizio del nostro dannato re?»


«Saperlo potrebbe metterti in grave pericolo.»


«Insisto.»


«Hai mai sentito parlare di Carvahall, nella Valle Palancar?» chiese Roran.


Clovis fece un vago gesto con la mano. «Una o due volte. Perché?»


«Perché adesso la vedi su quella spiaggia. I soldati di Galbatorix ci hanno attaccati senza motivo. Noi abbiamo reagito e quando la nostra posizione è diventata insostenibile siamo fuggiti superando la Grande Dorsale e abbiamo seguito la costa fino a Narda. Galbatorix ha promesso che ogni uomo, donna e bambino di Carvahall sarà ucciso o ridotto in schiavitù. Raggiungere il Surda è la nostra unica speranza di sopravvivere.» Roran evitò di menzionare i Ra'zac, per non spaventare ancora di più il capitano.


La pelle abbronzata del lupo di mare divenne grigia. «Vi inseguono ancora?»


«Sì, ma l'Impero deve ancora trovarci.»


«È per causa vostra che sono state suonate le campane?»


In tono sommesso, Roran disse: «Ho ucciso due soldati che mi avevano riconosciuto.» La rivelazione lasciò Clovis sbigottito: sgranò gli occhi, indietreggiò e i muscoli delle sue braccia si contrassero mentre serrava i pugni. «Fai la tua scelta, capitano. La spiaggia è vicina.»


Capì di aver vinto quando Clovis incurvò le spalle e la spavalderia abbandonò il suo volto. «Che la peste ti porti, Fortemartello. Non sono amico del re. Vi porterò fino a Teirm. Ma poi non voglio avere più niente a che fare con voi.» «Mi dai la tua parola che non cercherai di svignartela durante la notte e non ricorrerai ad altri simili inganni?» «Sì. Hai la mia parola.»


Sabbia e rocce grattarono contro il fondo della Cinghiale Rosso mentre la chiatta si arenava sulla spiaggia, seguita su entrambi i lati dalle sue compagne. L'incessante, ritmico riflusso dell'acqua che bagnava la terra suonava come il respiro di un mostro gigantesco. Una volta imbrogliate le vele e calate le passerelle, Torson e Flint salirono a bordo della Cinghiale Rosso e si avvicinarono a Clovis per chiedere lumi.


«C'è stato un cambiamento di programma» disse Clovis.


Roran lasciò che fosse lui a cavarsela con le spiegazioni - tralasciando i veri motivi per cui i contadini avevano lasciato la Valle Palancar - e balzò sulla sabbia, dove andò in cerca di Horst fra i gruppi agitati di persone. Quando alla fine individuò il fabbro, Roran lo prese da parte e gli raccontò dei morti a Narda. «Se scoprono che sono partito con Clovis, manderanno soldati a cavallo a cercarmi. Dobbiamo far imbarcare la gente il più in fretta possibile.» Horst lo guardò fisso per almeno un minuto. «Sei diventato


un uomo spietato, Roran, più duro di quanto lo sia mai stato io.»


«Ho dovuto.»


«Sta' solo attento a non dimenticare chi sei.»


Roran passò le tre ore successive trasportando e sistemando le vettovaglie dei compaesani sulla Cinghiale Rosso, finché Clovis non espresse la sua soddisfazione. I fagotti furono assicurati perché non rotolassero durante il viaggio, col rischio di ferire qualcuno, e distribuiti uniformemente perché la chiatta galleggiasse dritta, un compito non facile, dato che i bagagli erano diversi per forma e pesantezza. Poi gli animali vennero guidati a bordo, con loro disappunto, e immobilizzati mediante cavezze legate ad anelli di ferro nella stiva.


Infine venne il turno delle persone che, come il resto del carico, furono organizzate in gruppi simmetrici per impedire alla chiatta di capovolgersi. Clovis, Torson e Flint si misero a prua delle rispettive imbarcazioni a gridare ordini alla massa di rifugiati in colonna.


E adesso che cosa succede? si chiese Roran, nel sentire voci concitate sulla spiaggia. Facendosi largo verso l'origine del chiasso, trovò Calitha inginocchiata accanto al suo patrigno, Wayland, intenta a calmare il vecchio. «No! Io non ci salgo, su quella bestia! Non puoi costringermi» gridava Wayland. Agitò le braccia scarne e piantò i tacchi nella sabbia nel tentativo di liberarsi dalla stretta di Calitha. Schizzi di saliva gli uscirono dalle labbra. «Lasciami, ho detto. Lasciami!»


Chinando il capo sotto i suoi colpi, Calitha disse: «Ha perso il senno da quando ci siamo accampati la scorsa notte.» Sarebbe stato meglio se fosse morto sulla Grande Dorsale, visti i problemi che continua a darci, pensò Roran. Si inginocchio accanto a Calitha, e insieme riuscirono a placare il vecchio perché non gridasse e scalciasse più. Come ricompensa per il buon comportamento, Calitha gli diede un pezzo di carne secca, che occupò tutta la sua attenzione. Mentre Wayland si concentrava a masticare la carne, lei e Roran lo guidarono sulla Edeline, dove lo misero in un cantuccio vuoto perché non desse fastidio a nessuno.


«Muovete le chiappe, lumaconi» gridò Clovis. «La marea sta cambiando. Forza, su!»


Dopo un ultimo sussulto di attività, le passerelle furono ritirate, lasciando un gruppo di venti uomini sulla spiaggia davanti a ciascuna chiatta. I tre gruppi si radunarono intorno alle prue e si prepararono a spingerle in acqua. Roran guidava il gruppo della Cinghiale Rosso. Cantando all'unisono, lui e i suoi uomini spinsero l'enorme peso della chiatta, con la sabbia grigia che cedeva sotto i loro piedi, i legni e le cime che gemevano, e il lezzo di sudore nell'aria. Per un momento, i loro sforzi parvero inutili, poi la Cinghiale Rosso sobbalzò e scivolò di un passo. «Ancora!» gridò Roran. Passo dopo passo, avanzarono nel mare, fino a ritrovarsi con l'acqua gelida all'altezza della cintola. Un'onda si infranse su Roran, riempiendogli la bocca di acqua salata; lui sputò, disgustato dal sapore del sale, molto più intenso di quanto si fosse aspettato.


Quando la chiatta si liberò dal fondo sabbioso, Roran nuotò lungo la Cinghiale Rosso e si issò a bordo con una cima che penzolava oltre il parapetto. Nel frattempo, i marinai impiegarono lunghi pali per spingere la Cinghiale Rosso in acque più profonde, come fecero gli equipaggi della Merrybell e della Edeline.


Nell'istante in cui furono a distanza ragionevole dalla spiaggia, Clovis ordinò di ritirare i pali a bordo e di mettere in mare i remi, con i quali i marinai diressero la prua della Cinghiale Rosso verso l'imboccatura dell'insenatura. Issarono la vela, la orientarono per cogliere il vento sull'immensa distesa di mare ondulato. leggero e, all'avanguardia del trio di chiatte, puntarono verso Teirm

Il principio della saggezza

Le giornate che Eragon passava a Ellesméra si susseguivano sempre uguali; lo scorrere del tempo sembrava non influire sulla città fra i pini. Le stagioni non invecchiavano, malgrado i pomeriggi e le serate fossero più lunghi e riempissero la foresta di ombre dense. Fiori tipici di ciascun mese sbocciavano sotto l'influsso della magia elfica, nutriti da incantesimi evocati nell'aria.


Eragon amava Ellesméra, per la sua bellezza e la sua quiete, i leggiadri edifici ricavati negli alberi, le canzoni struggenti che echeggiavano al crepuscolo, le opere d'arte nascoste nelle misteriose dimore, e la riservatezza degli elfi, che si alternava a scoppi di allegria.


Gli animali selvatici della Du Weldenvarden non temevano i cacciatori. Spesso dalla sua camera sospesa fra i rami Eragon osservava un elfo coccolare un cervo o una volpe argentata, o mormorare parole carezzevoli a un orso timido che arrancava ai margini di una radura, riluttante a farsi vedere. Alcuni animali non avevano forma riconoscibile; comparivano di notte, muovendosi furtivi nel sottobosco, e fuggivano se Eragon tentava di avvicinarli. Una volta scorse una creatura simile a un serpente dotato di pelliccia; in un'altra occasione, una donna vestita di bianco che palpitò e scomparve per lasciare il posto a una lupa ghignante.


Eragon e Saphira continuavano a esplorare Ellesméra ogni volta che potevano. Andavano da soli o insieme a Orik, poiché Arya non li accompagnava più, né Eragon aveva avuto modo di parlarle da quando lei aveva infranto il fairth. A volte intrawedeva la sua snella figura fra gli alberi, ma se cercava di avvicinarsi con l'intenzione di porgerle le sue scuse, lei si dileguava, lasciandolo solo fra i pini. Alla fine Eragon capì che doveva prendere l'iniziativa se voleva riuscire a fare pace con lei. Così una sera raccolse un mazzo di fiori che crescevano lungo il sentiero che portava al suo albero e si avviò al Palazzo di Tialdari, dove, nella sala comune, chiese a un elfo indicazioni per raggiungere gli appartamenti di Arya.


La porta scorrevole era aperta al suo arrivo, ma nessuno rispose quando bussò. Provò a entrare, con le orecchie tese a cogliere rumore di passi, mentre si guardava intorno nello spazioso salottino tappezzato di rampicanti. Da un lato si accedeva a una piccola camera da letto, dall'altro si passava in uno studio. Due fairth decoravano le pareti: il ritratto di un elfo fiero e severo dai capelli d'argento, che doveva essere re Evandar, e un altro volto di un giovane elfo che Eragon non riconobbe.


Vagò per l'appartamento, osservando tutto ma non toccando niente, assaporando quel barlume di vita di Arya, assorbendo quello che poteva dei suoi interessi e delle sue passioni. Accanto al letto notò una sfera di vetro con un bocciolo del convolvolo nero conservato all'interno; sulla sua scrivania, pile ordinate di rotoli di pergamena, con titoli come Osilon: rapporti sui raccolti e Attività segnalate dalla torre di guardia di Gil'ead; sul davanzale di un bovindo, tre alberi in miniatura crescevano nella forma di glifi dell'antica lingua, quelli che significano pace, forza e saggezza; e accanto agli alberi, un foglio di carta con una poesia incompleta, coperto da parole sbarrate con un tratto d'inchiostro e appunti scribacchiati. Recitava:


Sotto la luna, la luna splendente, C'è uno stagno, placido e sereno,


Tra le felci e i rovi, E i pini dal cuore nero.


Cade una pietra, una pietra vivente, E infrange il disco argenteo e sereno, Tra le felci e i rovi, E i pini dal cuore nero. Schegge di luce, lame di luce


Lo stagno increspano di onde diffuse,


Lo specchio d'acqua mite,


Il solitario laghetto.


Nella notte, la notte oscura e truce, Fluttuano le ombre, ombre confuse,


Dove un tempo...


Tornando nell'ingresso, Eragon lasciò i fiori su un tavolinetto e fece per andarsene. Restò impietrito nel vedere Arya sulla soglia. Lei parve sorpresa dalla sua presenza, ma nascose le sue emozioni sotto una maschera impassibile. Si fissarono in silenzio.


Lui prese il mazzo di fiori per offrirglielo. «Non so creare un bocciolo per te, come fece Fàolin, ma questi sono fiori sinceri, i più belli che sono riuscito a trovare.»


«Non posso accettarli, Eragon.»


«Non sono... non sono quel genere di regalo.» Fece una pausa. «Non ci sono scuse, ma non mi ero reso conto che il mio fairth ti avrebbe messa in una situazione tanto penosa. Per questo sono rammaricato e imploro il tuo perdono... Volevo soltanto creare un fairth, non provocare problemi. Io capisco l'importanza dei miei studi, Arya, e tu non devi temere che possa trascurarli per fantasticare su di te.»


Vacillò e si appoggiò alla parete, troppo stordito per reggersi sulle gambe. «Tutto qui.»


Lei lo guardò per lunghi momenti, poi lentamente prese il mazzolino e se lo portò al naso. I suoi occhi non lo abbandonarono mai. «Sono fiori sinceri» disse, scrutandolo da capo a piedi, per poi tornare a guardargli il volto. «Sei stato malato?»


«No. La schiena.»


«Ho saputo, ma non avrei mai pensato...»


Lui si scostò dalla parete. «Devo andare.»


«Aspetta.» Arya esitò, poi lo guidò verso il bovindo, dove lui si sedette sulla panca che correva lungo il bordo. Prese due tazze da una credenza, Arya vi sbriciolò alcune foglie essiccate di ortica, poi riempì le tazze d'acqua e dicendo «Bolli» riscaldò l'acqua per il té.


Porse una tazza a Eragon, che la prese fra le mani strette a coppa per assorbirne il calore. Guardò fuori dalla finestra verso il terreno venti piedi più sotto, dove gli elfi passeggiavano nei giardini reali, parlando e cantando, e le lucciole volteggiavano nel crepuscolo.


«Vorrei...» disse Eragon, «vorrei che fosse sempre così. È tutto così perfetto e sereno.»


Arya mescolò il suo té. «Come sta Saphira?»


«Bene. E tu?»


«Mi sto preparando per tornare dai Varden.»


Eragon trasalì, sconvolto. «Quando?»


«Dopo la Celebrazione del Giuramento di Sangue. Sono rimasta anche troppo, ma mi dispiaceva partire, e Islanzadi voleva che restassi. Inoltre... non ho mai partecipato a una Celebrazione del Giuramento di Sangue, che è la nostra ricorrenza più importante.» Lo guardò da sopra il bordo della tazza. «Non c'è niente che Oromis possa fare per te?» Eragon si strinse nelle spalle. «Ha già tentato tutto quello che sa.»


Bevvero insieme il té, guardando i gruppi e le coppie che passeggiavano per i sentieri dei giardini. «I tuoi studi proseguono bene?» chiese lei.


«Sì.» Nel silenzio che seguì, Eragon prese il foglio di carta scribacchiato ed esaminò le strofe, come se le leggesse per la prima volta. «Scrivi spesso poesie?»


Arya tese la mano per prendere il foglio che lui le porse, e lo arrotolò perché le parole non fossero più visibili. «È nostra usanza che tutti coloro che partecipano alla Celebrazione del Giuramento di Sangue portino una poesia, una canzone, o qualche altra opera d'arte che hanno fatto per condividerla con l'assemblea. Ho appena cominciato a lavorare sulla mia.»

«Mi sembra buona.»


«Perché, hai letto molte poesie...?»


«Sì.»


Arya tacque, poi chinò il capo e mormorò: «Scusami. Non sei più la persona che ho conosciuto a Gil'ead.» «Io...» Eragon s'interruppe e si rigirò la tazza fra le mani, cercando le parole giuste. «Arya... tu partirai presto. Sarebbe un peccato se questa fosse l'ultima volta che ci vediamo prima di quel momento. Non potremmo incontrarci, di quando in quando, come facevamo prima? Potresti mostrare ancora altre meraviglie di Ellesméra a me e a Saphira.» «Non sarebbe prudente» disse lei con voce gentile ma risoluta.


Lui la guardò. «Il prezzo della mia indiscrezione deve quindi essere la nostra amicizia? Non posso negare quello che provo per te, ma preferirei subire un'altra ferita da Durza che permettere alla mia sventatezza di distruggere l'amicizia che c'era fra di noi. Per me è troppo importante.»


Arya bevve l'ultimo sorso di té, prima di rispondere. «La nostra amicizia continuerà, Eragon. Quanto a trascorrere del tempo insieme...» Le sue labbra si curvarono in un flebile sorriso. «Può darsi. Ma dobbiamo aspettare e vedere che cosa ci riserva il futuro, perché sono molto impegnata e non posso prometterti niente.»


Eragon sapeva che le sue parole erano quanto di più vicino a una riconciliazione lei fosse disposta a concedergli, e ne fu lieto. «Certo, Arya Svit-kona» disse, con un inchino del capo.


Si scambiarono altri convenevoli, ma era evidente che Arya si era già spinta fino al limite di quanto intendeva quel giorno, così Eragon tornò da Saphira con il cuore più leggero per quanto era riuscito a ottenere. Ora sarà il destino a decidere cosa accadrà, pensò, srotolando una delle ultime pergamene che gli aveva dato Oromis. Infilando una mano nella saccoccia che portava alla cintura, Eragon trasse un astuccio di steatite che conteneva nalgask, un unguento a base di cera d'api mescolata a olio di noci, e se lo spalmò sulle labbra per proteggerle dal vento gelido che gli tagliava la faccia. Chiuse la piccola borsa e abbracciò il collo di Saphira, affondando la faccia nell'incavo del gomito per ridurre il riverbero delle nubi ammassate sotto di loro. L'instancabile battito d'ali di Saphira gli rimbombava nelle orecchie, più sonoro e più rapido di quello di Glaedr, che stavano seguendo.


Volarono in direzione sudovest dall'alba fino al primo pomeriggio, facendo frequenti soste per avvincenti duelli di allenamento fra Saphira e Glaedr, durante i quali Eragon doveva legarsi le braccia alle cinghie della sella per impedirsi di cadere a seguito delle evoluzioni acrobatiche. Poi si liberava tirando i nodi con i denti.


Il viaggio terminò presso una piccola catena montuosa composta da quattro vette che torreggiavano sulla foresta, le prime montagne che Eragon vedeva nella Du Welden-varden. Incappucciate di neve e spazzate dai venti, bucavano la coltre di nubi ed esponevano le pendici ricche di crepacci al sole, che a quell'altitudine non aveva calore. Sembrano così piccole, in confronto ai Beor, commentò Saphira.


Com'era diventata sua abitudine durante le settimane di meditazione, Eragon dilatò la mente in ogni direzione, sfiorando le coscienze intorno a sé in cerca di qualsiasi cosa che potesse nuocergli. Percepì una marmotta che si riscaldava nella sua tana, corvi, picchi e falchi, numerosi scoiattoli che scorrazzavano fra gli alberi e, più in basso, serpenti che strisciavano furtivi nel sottobosco in cerca di topi, ma soprattutto orde di onnipresenti insetti.


Quando Glaedr si posò su una cresta brulla della prima montagna, Saphira fu costretta ad aspettare che ripiegasse le enormi ali prima di avere spazio a sufficienza per atterrare. La zona ghiaiosa su cui sostavano risplendeva gialla di licheni compatti e crenulati. Su di loro incombeva una nera rupe a strapiombo, che faceva da argine a una cornice di ghiaccio azzurro che scricchiolava e si crepava nel vento, perdendo frammenti taglienti che si frantumavano sul granito sottostante.


Questo picco si chiama Fionula, dissa Glaedr. £ i suoi fratelli sono Ethrundr, Merogoven e Griminsmal. Ciascuno ha la propria leggenda, che vi narrerò durante il volo di ritorno. Ma per il momento vi parlerò dello scopo di questa escursione, ossia la natura del legame forgiato fra i draghi e gli elfi e, in seguito, gli umani. Entrambi ne sapete già qualcosa, e ho accennato a Saphira tutte le sue implicazioni, ma è giunta l'ora di apprendere il solenne e profondo significato del vostro rapporto, perché possiate mantenerlo quando Oromis e io non ci saremo più. «Maestro?» chiese Eragon, stringendosi il mantello intorno al corpo per ripararsi dal freddo.


Sì, Eragon.


«Perché Oromis non è venuto?»


Perché, brontolò Glaedr, è compito mio, come è sempre stato il compito di un drago anziano nei secoli scorsi, garantire che la nuova generazione di Cavalieri comprenda la vera importanza del ruolo che ha assunto. E perché Oromis non sta bene come sembra.


La ghiaia emise un crepitio smorzato quando Glaedr si accovacciò allungando la testa maestosa fra Eragon e Saphira. Li scrutò con un occhio dorato, grande e lucido come uno scudo rotondo, e due volte più splendente. Dalle sue narici si levò un grigio filo di fumo che il vento disperse. Parte di quanto sto per rivelarvi era di dominio pubblico fra gli elfi, i Cavalieri e gli umani eruditi, ma in prevalenza era noto soltanto al capo dei Cavalieri, a un pugno di elfi, al sovrano degli umani, e ovviamente ai draghi.


Ora ascoltate, miei allievi. Quando alla fine della nostra guerra fu fatta pace tra gli elfi e i draghi, furono creati i Cavalieri per garantire che un simile conflitto non avesse mai più a ripetersi fra le nostre razze. La regina Tarmunora degli elfi e il drago che era stato scelto a rappresentarci, il cui nome... Fece una pausa e trasmise una serie di immagini a Eragon: zanna lunga, zanna bianca, zanna scheggiata; battaglie vinte, battaglie perse; innumerevoli Shrrg e Nagra divorati; ventisette uova deposte e diciannove esemplari cresciuti fino a maturazione... non si può esprimere in nessuna lingua, decisero che un normale trattato non sarebbe stato sufficiente. Una carta firmata non significa niente per un drago. Il nostro sangue scorre denso e bollente e, trascorso abbastanza tempo, era inevitabile che ci saremmo di nuovo scontrati con gli elfi, come era successo con i nani nel corso dei millenni. Ma diversamente che con questi ultimi, né noi né gli elfi potevamo permetterci un'altra guerra. Eravamo entrambi troppo potenti, e ci saremmo distrutti a vicenda. L'unico modo per impedirlo e forgiare un accordo duraturo era legare le nostre due razze con la magia. Eragon rabbrividì e con una punta di divertimento Glaedr disse: Saphira, se fossi in te riscalderei una di quelle pietre con il fuoco del tuo ventre, perché il tuo Cavaliere non muoia assiderato.


Saphira inarcò il collo ed eruttò sul ghiaione una vampa azzurra dalle fauci socchiuse, bruciando il lichene che sprigionò un odore amarognolo. L'aria diventò così calda da costringere Eragon a voltarsi. Percepì gli insetti sotto le pietre che si contorcevano nell'inferno. Dopo un minuto, Saphira chiuse la bocca, lasciando un cerchio largo dieci palmi di ciottoli che rosseggiavano ardenti.


Grazie, disse Eragon, accovacciandosi accanto alle pietre incandescenti per riscaldarsi.


Ricorda, Saphira, di usare la lingua per dirigere la fiammata, l'ammonì Glaedr. Ora... i più grandi stregoni degli elfi impiegarono nove anni per elaborare l'incantesimo necessario. Quando alla fine ci riuscirono, gli elfi e i draghi si radunarono a Ilirea. Gli elfi fornirono la struttura dell'incantesimo, mentre i draghi ci misero la forza, e insieme fusero le anime degli elfi e dei draghi.


L'unione ci cambiò. Noi draghi acquistammo l'uso della favella e di altre insidie della civilizzazione, mentre gli elfi condivisero la nostra longevità, poiché fino a quel momento la loro vita durava quanto quella degli umani. In fondo furono gli elfi a subire le maggiori trasformazioni. La nostra magia, la magia dei draghi - che permea ogni fibra del nostro essere -fu trasmessa agli elfi e col tempo conferì loro quella forza e quella grazia a cui tanto ambivano. Gli umani non subirono un'influenza così potente, dato che foste aggiunti all'incantesimo quando era già in . attività, e non ebbe il tempo di operare su di voi come sugli elfi. Eppure, e qui l'occhio di Glaedr scintillò, esso ha comunque ingentilito la vostra razza trasformando i rozzi barbari che arrivarono per primi in Alagaèsia, anche se poi avete cominciato a regredire, dopo la caduta dei Cavalieri.


«I nani hanno mai fatto parte dell'incantesimo?» chiese Eragon.


No, ed è per questo che non c'è mai stato un nano Cavaliere. I nani non hanno simpatia per i draghi, e la cosa è reciproca, e trovavano ripugnante l'idea di unirsi a noi. Probabilmente è stata una fortuna che non siano entrati nel patto, perché sono sfuggiti al declino degli umani e degli elfi.


Declino, maestro? chiese Saphira, con quello che Eragon avrebbe giurato essere un tono ironico. Sì, declino. Se una delle nostre tre razze soffre, anche le altre ne subiscono le conseguenze. Sterminando i draghi, Galbatorix minò la sua stessa razza, come quella degli elfi. Voi due non ve ne siete ancora accorti, perché siete nuovi di Ellesméra, ma gli elfi sono al tramonto; i loro poteri non sono più quelli di una volta. E gli umani hanno perduto gran parte della loro cultura e sono consumati dal caos e dalla corruzione. Soltanto riportando l'equilibrio fra le nostre razze l'ordine tornerà nel mondo.


Il vecchio drago frantumò la ghiaia con gli artigli, riducendola in polvere per essere più comodo. Insito nell'incantesimo tutelato dalla regina Tarmunora c'era il meccanismo che consente a un cucciolo di essere legato al suo Cavaliere. Quando un drago decide di dare un uovo ai Cavalieri, si pronunciano certe parole sull'uovo, parole che vi insegnerò più tardi, tese a impedire all'uovo di schiudersi se non in presenza della persona a cui deciderà di legarsi. Dato che i draghi possono restare nell'uovo per un perìodo indefinito, il tempo non è un problema, né il cucciolo subisce alcun danno. Tu, Saphira, sei un esempio di tutto questo.


Il legame che si forma fra un Cavaliere e il drago non è altro che una versione perfezionata del legame che già esiste fra le nostre razze. L'umano o l'elfo diventa più forte e più bello, mentre alcuni tratti più feroci del drago vengono temperati da un aspetto più ragionevole... Vedo che ti urge una domanda, Eragon. Di' pure.


«È solo...» Esitò. «Mi risulta difficile immaginare te o Saphira ancora più feroci.» Poi aggiunse con una punta d'ansia: «Non che sia un male.»


Il suolo tremò come scosso da una frana quando Glaedr ridacchiò, roteando il grande occhio dorato sotto la palpebra cornea. Se avessi mai incontrato un drago senza vincoli, non diresti così. Un drago solitario non rende conto a niente e a nessuno, si prende ciò che vuole, e non mitre sentimenti benevoli se non per quelli della sua razza. Feroci e orgogliosi erano i draghi selvatici, persino arroganti... Le femmine erano così formidabili che era ritenuta una grande impresa fra i draghi dei Cavalieri accoppiarsi con una di loro.


La mancanza di questo profondo legame è il motivo per cui l'unione di Galbatorix con Shruikan, il suo secondo drago, è una depravazione. Shruikan non scelse Galbatorix come compagno; fu costretto con la magia nera a servire la follia del re. Galbatorix ha creato un'imitazione perversa della relazione che tu, Eragon, e tu, Saphira, condividete, e che lui perse quando gli Urgali uccisero il suo drago originario.


Glaedr fece una pausa per osservarli entrambi. Il suo occhio era l'unica cosa che si muoveva. Ciò che vi unisce va ben oltre un semplice collegamento mentale. Le vostre anime, le vostre identità... chiamatele come volete... sono state saldate alla radice. Il suo occhio guizzò su Eragon. Tu credi che l'anima di una persona sia divisa dal suo corpo? «Non lo so» disse Eragon. «Una volta, Saphira mi fece uscire dal mio corpo per guardare il mondo attraverso i suoi occhi... Mi sembrò di non essere più in contatto col mio corpo. Se esistono gli spiriti che uno stregone può evocare, allora anche la nostra coscienza dovrebbe essere indipendente dalla carne.»


Allungando la punta aguzza di un artiglio, Glaedr capovolse un piccolo masso per esporre un ratto che si nascondeva nella sua tana. Con un guizzo della lingua rossa, Glaedr catturò il ratto e lo ingoiò; Eragon fece una smorfia nel sentire la vita dell'animale che si spegneva.


Quando la carne viene distrutta, lo stesso accade all'anima, disse Glaedr.


«Ma un animale non è una persona» protestò Eragon.


Dopo le tue meditazioni, credi ancora di essere diverso da un ratto? Che siamo dotati di qualche miracolosa qualità che le altre creature non possiedono e che in qualche modo essa ci preserva anche dopo la morte?


«No» mormorò Eragon.


Già. Noi siamo così intimamente uniti che quando un drago o un Cavaliere viene ferito deve indurire il proprio cuore e recidere il legame per proteggere l'altro da inutili sofferenze, persino dalla pazzia. E poiché un'anima non si può separare dalla carne, si deve resistere alla tentazione di prendere l'anima del compagno nel proprio corpo per conservarla, perché il risultato sarebbe soltanto la morte di entrambi. Se anche fosse possibile, sarebbe un abominio avere coscienze multiple in un solo corpo.


«Che cosa terribile» disse Eragon, «morire soli, separati perfino da colui o colei che ti è più vicino.» Ciascuno di noi muore solo, Eragon. Che tu sia un re sul campo di battaglia, o un contadino nel suo letto, circondato dalla famiglia, nessuno può accompagnarti nel vuoto... Ora vi farò esercitare a separare le coscienze. Cominciamo con... Eragon fissò il vassoio della cena lasciato nel vestibolo della casa sull'albero e ne catalogò il contenuto: pane con burro di nocciole, bacche, legumi, un'insalatiera di foglie verdi, due uova sode - che, in ottemperanza alle convinzioni degli elfi, non erano fecondate - e una caraffa di fresca acqua sorgiva. Sapeva che a ogni piatto era stata dedicata la massima cura, che gli elfi impiegavano tutta la loro arte culinaria nella preparazione dei suoi pasti, e che nemmeno Islanzadi mangiava meglio di lui.


Ma non poteva sopportare la vista di quel vassoio.


Ho voglia di carne, borbottò, tornando a capo chino nella sua stanza. Saphira lo guardò dalla sua pedana. Mi andrebbe bene anche del pesce, o del pollo, qualunque cosa invece di questo fiume infinito di verdure. Non mi riempiono lo stomaco. Non sono un cavallo; perché devo mangiare così?


Saphira si alzò e si sporse dall'apertura a goccia che affacciava su Ellesméra, dicendo: Negli ultimi giorni mi è venuta fame. Ti piacerebbe venire con me? Potrai cucinarti quanta carne vorrai e gli elfi non lo sapranno mai. Mi piacerebbe eccome, disse Eragon, illuminandosi. Prendo la sella?


Non andremo lontano.


Eragon fece incetta di sale, erbe e altri condimenti dalle bisacce e poi, attento a non affaticarsi, si arrampicò nello spazio fra le acuminate placche dorsali di Saphira.


Spiccando il volo, Saphira sfruttò una corrente ascensionale per librarsi sulla città, dove abbandonò la corrente calda per virare e seguire un corso d'acqua che si snodava nella Du Weldenvarden fino a un laghetto a poche miglia da Ellesméra. Atterrò e si accucciò sul terreno per far scendere Eragon.


Ci sono dei conigli nell'erba che orla il laghetto, disse. Prova a catturarli. Nel frattempo io vado a caccia di cervi. Che cosa, non vuoi condividere le tue prede con me?


No, non voglio, grugnì lei. Ma lo farò, se quei topi troppo cresciuti ti sfuggono.


Eragon sorrise mentre la dragonessa si levava in volo, poi rivolse la sua attenzione ai ciuffi d'erba e di panace che circondavano lo stagno, e si accinse a procurarsi la cena.


Meno di un minuto dopo, Eragon sollevò una coppia di conigli morti dalla loro tana. Gli era bastato un istante per localizzare i conigli con la mente e poi ucciderli con una delle dodici parole di morte. Quello che aveva imparato da Oromis lo aveva privato della sfida e dell'eccitazione della caccia. Non ho nemmeno dovuto stanarli, pensò, ricordando gli anni passati ad affinare le sue capacità venatorie. Sorrise di amaro divertimento. Finalmente posso cacciare qualunque -preda, e non mi diverto più. Almeno quando ho cacciato con un sasso, insieme a Brom, era ancora una sfida, ma così... così è un massacro.


L'ammonimento della fabbricante di spade, Rhunòn, gli tornò alla mente: "Quando puoi ottenere tutto quello che vuoi pronunciando qualche parola, non ha più importanza la meta, ma il viaggio per raggiungerla."


Avrei dovuto darle ascolto, si disse Eragon.


Con mosse esperte trasse il suo vecchio pugnale da caccia, spellò i conigli e li privò delle interiora - mettendo da parte cuore, polmoni, reni e fegato - e seppellì le viscere perché l'odore non attraesse le bestie. Poi scavò una buca, la riempì di legna e accese un fuoco con la magia, dato che non aveva pensato a portare con sé pietra focaia e acciarino. Badò al fuoco finché non divenne un letto di braci. Tagliando un rametto di sanguinella, lo scortecciò e lo bruciacchiò sui tizzoni perché perdesse l'amara linfa, poi infilzò le carcasse sullo spiedo e lo appoggiò su due rami a forcella conficcati nel terreno. Per le interiora, posò un sasso piatto sulla brace e lo spalmò di grasso perché fungesse da padella. Saphira lo trovò accovacciato accanto al fuoco, intento a rigirare lentamente lo spiedo. Atterrò con un cervo morto che le penzolava dalle fauci e i resti di un secondo stretti fra gli artigli. Adagiando la sua mole sull'erba fragrante, cominciò a mangiare la preda, divorandola intera, compresa la pelle. Le ossa schioccarono fra i suoi denti affilati come rami che si spezzano in una bufera.


Quando i conigli furono pronti, Eragon agitò lo spiedo per farli raffreddare, poi guardò la carne dorata e lucente che emanava un aroma allettante.


Quando aprì la bocca per staccare il primo morso, il suo pensiero tornò involontariamente alle meditazioni. Ricordò le escursioni nella mente degli uccelli, degli scoiattoli e dei topi, come li aveva sentiti pieni di energia e come lottavano con vigore per il diritto di esistere davanti al pericolo. E se questa vita è tutto quello che hanno... Con un moto di repulsione, Eragon gettò via la carne, inorridito dal fatto di aver ucciso i conigli come se avesse assassinato due persone. Lo stomaco gli si ribellò e dovette sforzarsi per non vomitare.


Saphira alzò gli occhi dal suo festino per guardarlo preoccupata.


Inspirando a fondo, Eragon si premette i pugni sulle ginocchia nel tentativo di controllarsi e capire che cosa lo sconvolgeva tanto. Per tutta la vita aveva mangiato carne, pesce e pollame. Gli piaceva. E adesso si sentiva male tìsicamente al solo pensiero di mangiare dei conigli. Guardò Saphira. Non posso farlo, le disse.


Il mondo è fatto così: ciascuno mangia qualcun altro. Che senso ha resistere all'ordine delle cose? Lui riflettè sulla domanda. Non condannava coloro che mangiavano carne: sapeva che era l'unico mezzo di sussistenza per molti poveri contadini. Ma lui non poteva più farlo, a meno di non morire di fame. Dopo essere stato dentro un coniglio e aver percepito quel che un coniglio sentiva... mangiarlo sarebbe stato come mangiare una parte di sé. Perché possiamo migliorarci, rispose a Saphira. Dovremmo forse seguire i nostri impulsi di ferire o uccidere qualcuno che ci fa arrabbiare, o prendere quello che vogliamo dai più deboli, e in generale ignorare i sentimenti degli altri? Siamo fatti imperfetti e dobbiamo guardarci dai nostri difetti altrimenti ci distruggeranno. Indicò i conigli. Come ha detto Oromis, perché causare sofferenze inutili?


Vorresti rinunciare a tutti i tuoi desideri, dunque? Soltanto a quelli distruttivi.


Ne sei assolutamente convinto?


Sì.


In questo caso, disse Saphira, avvicinandosi, saranno per me un ottimo dessert. In un batter d'occhio, ingoiò i due conigli e poi leccò la pietra con le interiora, grattandola con la lingua barbata fino a farla luccicare. Io, se non altro, non posso vivere di sole piante... quello è cibo per prede, non per draghi. Mi rifiuto di sentirmi in colpa per come mi nutro. Tutto ha il suo posto al mondo. Perfino un coniglio lo sa.


Non sto cercando di farti sentire in colpa, disse Eragon, dandole una pacca sul fianco. È una decisione personale. Non voglio costringere nessuno ad adottare la mia scelta.


Molto saggio, commentò lei con una punta di sarcasmo.

Uova infrante e nido distrutto

Concentrati, Eragon» disse Oromis, con voce paziente. Eragon battè le palpebre e si strofinò gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco i glifi che decoravano il foglio di pergamena davanti a sé. «Mi dispiace, maestro.» La stanchezza lo rallentava come se avesse dei pesi attaccati alle membra. Aguzzò la vista per osservare i glifi curvi e appuntiti, sollevò il calamo di penna d'oca e cominciò a ricopiarli. Attraverso la finestra alle spalle di Oromis, la distesa erbosa in cima alla rupe di Tel'naeir si andava screziando di ombre per il sole morente. In lontananza, brandelli di nuvole rosa striavano il cielo.


La mano di Eragon si contrasse quando una fitta di dolore gli percorse la gamba, e spezzò la punta del calamo, schizzando inchiostro sulla carta. Dall'altro lato del tavolo, anche Oromis trasalì, stringendosi il braccio destro. Saphira! gridò Eragon. Tentò di raggiungerla con la mente, ma con sua sorpresa si trovò ostacolato da una barriera impenetrabile che lei stessa aveva eretto intorno a sé. A stento la percepiva. Era come tentare di afferrare una sfera di liscio granito coperto d'olio. Lei continuava a sfuggirgli.


Eragon guardò Oromis. «È successo qualcosa, vero?»


«Non lo so. Glaedr sta tornando, ma si rifiuta di parlarmi.» Staccando Naegling, la sua spada, dalla parete, Oromis uscì dal capanno e si fermò sul ciglio della rupe, con la testa alzata, in attesa di veder comparire il drago dorato. Eragon lo raggiunse, pensando a tutto quello che poteva essere accaduto a Saphira, il probabile e l'improbabile. I due draghi si erano alzati in volo a mezzogiorno, diretti a nord, in un luogo chiamato la rocca delle Uova Infrante, dove i draghi selvatici dimoravano nei tempi antichi. Era un viaggio facile. Non possono essere stati gli Urgali; gli elfi non li lasciano entrare nella Du Weldenvarden, si disse.


Alla fine scorsero Glaedr come un puntolino nero fra le nubi violette. Mentre scendeva, Eragon vide una ferita sulla zampa anteriore destra del drago, una lacerazione fra le sue squame sovrapposte, grande quanto la mano di Eragon. Sangue scarlatto scorreva nei solchi fra le squame adiacenti.


Nel momento in cui Glaedr toccò terra, Oromis corse verso di lui, ma si fermò quando il drago gli ringhiò contro. Saltellando sulla zampa ferita, Glaedr si rifugiò ai margini della foresta, dove si accovacciò sotto la volta di rami, dando la schiena a Eragon, per leccarsi la ferita.


Oromis si avvicinò e s'inginocchiò sull'erba accanto a Glaedr, tenendosi a distanza con serena pazienza. Era ovvio che avrebbe aspettato tutto il tempo necessario. Eragon si innervosiva sempre di più col passare dei minuti. Alla fine, senza alcun segnale evidente, Glaedr permise a Oromis di avvicinarsi e di ispezionargli la zampa. La magia fluì dal gedwéy ignasia di Oromis quando appoggiò la mano sullo squarcio di Glaedr.


«Come sta?» chiese Eragon, quando Oromis si ritirò.


«Sembra una ferita terribile, ma non è che un graffio per uno come Glaedr.»


«E Saphira? Non riesco ancora a entrare in contatto con lei.»


«Devi andare tu da lei» disse Oromis. «È ferita, ma non soltanto nel fisico. Glaedr mi ha raccontato poco di quanto è successo, ma io ho intuito molto, e ti consiglio di affrettarti.»


Eragon si guardò intorno in cerca di un mezzo di trasporto, e gemette di angoscia nel vedere che non ce n'erano. «Come faccio a raggiungerla? È troppo lontana, non c'è un sentiero, e non posso...»


«Calmati, Eragon. Come si chiamava lo stallone che ti ha portato qui da Silthrim?»


Eragon ci mise qualche istante per ricordare. «Folkvir.»


«Allora chiamalo con la magia. Pronuncia il suo nome e trasmettigli la fretta che hai, nel più potente dei linguaggi, e lui verrà ad aiutarti.»


Lasciando che la magia gli pervadesse la voce, Eragon invocò Folkvir, facendo riecheggiare la sua implorazione fra le colline boscose fino a Ellesméra, con tutta l'urgenza che riuscì a evocare. Oromis annuì, compiaciuto. «Ben fatto.» Una decina di minuti più tardi, Folkvir emerse dai recessi ombrosi della foresta come un fantasma argenteo, scuotendo la criniera e sbuffando di eccitazione. I fianchi dello stallone ansimavano per quanto aveva corso. Saltando in groppa al piccolo cavallo elfico, Eragon disse: «Tornerò appena posso.»


«Fa' quel che devi» rispose Oromis.


Poi Eragon piantò i talloni nei fianchi dello stallone e gridò: «Corri, Folkvir! Corri!» Il cavallo partì al galoppo, addentrandosi nella Du Weldenvarden e facendosi strada con incredibile destrezza fra i pini contorti. Eragon lo guidava verso Saphira con immagini mentali.


In mancanza di una pista nel sottobosco, un cavallo come Fiammabianca avrebbe impiegato tre o quattro ore per raggiungere la rocca delle Uova Infrante. Folkvir coprì la distanza in poco più di un'ora.


Ai piedi del monolito di basalto, che emergeva dalla foresta come un pilastro verde screziato e superava gli alberi di ben oltre cento piedi, Eragon mormorò: «Fermo» poi smontò a terra. Guardò la cima distante della rocca delle Uova Infrante. Saphira era seduta lì.


Camminò intorno al perimetro, in cerca di un modo per scalare il pinnacolo, ma invano, perché la roccia era liscia e inaccessibile: non c'erano fenditure, crepe o altri appigli.


Sarà un problema, pensò.


«Resta qui» disse a Folkvir. Il cavallo lo guardò con i suoi occhi intelligenti. «Pascola, se vuoi, ma resta qui, intesi?» Folkvir nitrì e, col suo muso vellutato, spinse il braccio di Eragon. «Sì, sei stato molto bravo.»


Con lo sguardo fisso sulla vetta del monolito, Eragon chiamò a raccolta le forze e nell'antica lingua disse: «Su!» In seguito si rese conto che se non fosse stato abituato a volare con Saphira, l'esperienza sarebbe stata abbastanza sconvolgente da fargli perdere il controllo sull'incantesimo, col rischio di sfracellarsi al suolo. Il terreno gli sprofondò da sotto i piedi in un lampo, i tronchi degli alberi si assottigliarono, mentre lui fluttuava verso la parte bassa del fogliame, e poi verso il cielo della sera. I rami gli graffiavano la faccia e le spalle come artigli mentre usciva allo scoperto. Al contrario di quando si trovava in groppa a Saphira, questa volta conservò il senso del peso, come se ancora si trovasse con i piedi per terra.


Giunto ai margini della rocca delle Uova Infrante, Eragon si spostò in avanti e sciolse la magia, atterrando su una zona coperta di muschio. Si accasciò, esausto, e aspettò di vedere se lo sforzo gli avrebbe scatenato una crisi alla schiena; non accadde nulla, e così sospirò di sollievo.


La vetta del monolito era composta da torri frastagliate divise da gole ampie e profonde, dove non cresceva niente se non qualche raro fiore selvatico. Nere cavèrne costellavano le torri, alcune naturali, altre scavate nel basalto con artigli grossi quanto il braccio di Eragon. Gli uccelli avevano fatto il nido dove un tempo dimoravano i draghi: erano falchi e aquile, e lo osservavano, pronti ad attaccare se avesse minacciato le loro uova.


Eragon s'incamminò nel tetro paesaggio, attento a non slogarsi una caviglia sul terreno accidentato o a non avvicinarsi troppo a uno dei crepacci che fendevano il pilastro. Se ci fosse caduto dentro, sarebbe precipitato nel vuoto. In più occasioni dovette arrampicarsi su ripide creste, e altre due volte fu costretto a ricorrere alla magia per salire. Ovunque erano visibili testimonianze della presenza dei draghi, da profondi solchi nel basalto e pozze di roccia fusa e rappresa a un certo numero di opache squame incolori rimaste incastrate negli angoli, insieme ad altri detriti. A un certo punto s'imbattè in un oggetto tagliente e, chinandosi per esaminarlo, scoprì che si trattava di un frammento di uovo di drago verde.


Sul versante orientale del monolito si trovava la torre più alta, al centro della quale si apriva la caverna più grande. Fu lì che finalmente Eragon trovò Saphira, rannicchiata in una depressione contro la parete di fondo, la schiena rivolta all'ingresso. Tremava tutta. Le pareti della grotta portavano segni recenti di bruciature, e i cumuli di ossa antiche erano sparsi ovunque, come se ci fosse stata una lotta.


«Saphira» disse Eragon, parlando ad alta voce, perché lei continuava a tenere chiusa la mente.


Lei voltò la testa di scatto, e lo guardò come se fosse un estraneo; le sue pupille si ridussero a due nere fessure mentre i suoi occhi si adattavano alla luce del tramonto alle spalle di Eragon. Ringhiò una volta, come un cane selvatico, e poi si volse. Nel farlo, sollevò l'ala sinistra ed espose un lungo squarcio lungo la coscia. Eragon ebbe un tuffo al cuore a quella vista.


Sapeva che lei non gli avrebbe permesso di avvicinarsi, com'era accaduto a Oromis con Glaedr, così si inginocchiò fra le ossa frantumate e attese. Attese senza dire una parola o fare un gesto, finché le gambe non gli si addormentarono e le mani s'irrigidirono per il freddo. Eppure non si rammaricava del disagio. Avrebbe volentieri pagato quel prezzo se significava aiutare Saphira.


Dopo molto tempo, lei disse: Sono stata una sciocca.


Siamo tutti sciocchi, a volte.


Questo non rende più facili le cose, quando tocca a te fare la parte dello stupido.


Già, suppongo di no.


Ho sempre saputo che cosa fare. Quando morì Garrow, sapevo che la cosa giusta era inseguire i Ra'zac. Quando morì Brom, sapevo che saremmo dovuti andare a Gil'ead, e poi dai Varden. E quando morì Ajihad, sapevo che avresti dovuto giurare fedeltà a Nasuada. Il cammino è sempre stato chiaro per me. Tranne che adesso. Su questo unico argomento mi sento smarrita.


Di che si tratta, Saphira?


Invece di rispondere, lei cambiò argomento e gli chiese: Sai perché questo posto si chiama la rocca delle Mova Infrante?


No.


Perché durante la guerra fra draghi ed elfi, gli elfi ci rintracciarono fin qui e ci uccisero nel sonno. Distrussero i nostri nidi e infransero le nostre uova con la magia. Quel giorno piovve sangue sulla foresta. Nessun drago è mai vissuto qui da allora.


Eragon rimase in silenzio. Non era quello il motivo per cui era lì. Avrebbe aspettato finché lei non fosse stata pronta a svelargli la vera questione.


Di' qualcosa! esclamò Saphira.


Mi permetterai di guarirti la zampa?


Lasciami in pace.


Allora resterò seduto qui, muto e immobile come una statua, finché non diventerò polvere; grazie a te, ho la pazienza di un drago.


Quando alla fine lei parlò, le sue parole furono esitanti, amare e venate di ironia. Mi vergogno ad ammetterlo. Quando siamo arrivati qui e ho visto Glaedr, ho provato una gioia immensa nello scoprire che un altro membro della mia razza era sopravvissuto, a parte Shruikan. Non avevo mai visto un altro drago prima, se non nei ricordi di Brom. E ho pensato... ho pensato che Glaedr si sarebbe rallegrato della mia esistenza, come io della sua.


Ma lo ha fatto.


Non capisci. Pensavo che sarebbe stato il compagno che non mi sarei mai aspettata di avere, e che insieme avremmo potuto ricostruire la nostra razza. Sbuffò, e una vampa di fuoco le sprizzò dalle narici. Mi sbagliavo. Lui non mi vuole. Eragon scelse con cura le parole della risposta, per non offenderla e per darle un minimo di conforto. Questo perché sa che sei destinata a qualcun altro: un uovo di quelli che restano, e sono solo due. Né sarebbe corretto per lui accoppiarsi con te, dato che è il tuo maestro.


O forse non mi trova abbastanza attraente.


Saphira, nessun drago è brutto, e tu sei la più bella delle dragonesse.


Sono una sciocca, disse lei. Ma sollevò l'ala sinistra e la tenne sospesa perché lui potesse curarle la ferita. Eragon si avvicinò adagio al suo fianco ed esaminò la ferita cremisi, lieto che Oromis gli avesse dato tante pergamene di anatomia da leggere. Il colpose inferto da un artiglio o da una zanna, non sapeva dirlo - le aveva squarciato il quadricipite, sotto la pelle coriacea, ma non era andato tanto a fondo da snudare l'osso. Limitarsi a chiudere i lembi della ferita, come Eragon aveva fatto tante volte, non sarebbe bastato. Bisognava ricucire il muscolo. L'incantesimo che Eragon usò era lungo e complesso, e nemmeno lui ne capiva tutti i dettagli, perché lo aveva memorizzato da un antico testo che forniva poche spiegazioni, oltre all'affermazione secondo cui - purché non ci fossero ossa rotte o lesioni agli organi interni - "questo incantesimo guarirà qualsiasi ferita di origine violenta, tranne la morte". Una volta pronunciata la formula, Eragon guardò affascinato il muscolo di Saphira che s'increspava sotto la sua mano - vene, nervi e fibre che si ricompattavano - e tornava integro come prima. La ferita era così grande che, nel suo stato di debolezza, Eragon non osò guarirla soltanto con l'energia del proprio corpo, e attinse anche a quella di Saphira.


Prude, disse la dragonessa quando lui ebbe finito.


Eragon sospirò e si appoggiò con la schiena al ruvido basalto, guardando il tramonto da sotto le ciglia. Temo che dovrai portarmi tu giù da questa rocca. Sono troppo stanco per muovermi.


Con un fruscìo secco, lei si voltò e appoggiò la testa sulle ossa sparse. Ti ho trattato male da quando siamo arrivati a Ellesméra. Ho ignorato i tuoi consigli, invece di darti ascolto. Mi avevi avvertita su Glaedr, ma ero troppo orgogliosa per vedere la verità nelle tue parole... Ti ho deluso come compagna, ho tradito ciò che significa essere un drago, e ho macchiato l'onore dei Cavalieri.


No, non dirlo neppure, protestò lui con foga. Saphira, tu non hai tradito il tuo dovere. Puoi aver fatto uno sbaglio, ma è stato uno sbaglio onesto, che chiunque avrebbe potuto commettere nella tua posizione.


Questo non giustifica il mio comportamento nei tuoi riguardi.


Lui cercò di incontrare il suo sguardo, ma lei lo evitò finché Eragon non le accarezzò il collo, dicendo: Saphira, i membri di una famiglia si perdonano a vicenda, anche se non sempre comprendono perché uno abbia agito in un certo modo... Tu fai parte della mia famiglia, come Roran... e anche di più. Niente di quello che farai potrà mai cambiare le cose. Niente. Quando lei non rispose, Eragon allungò una mano sotto la


sua mascella e le solleticò la pelle coriacea sotto un orecchio. Mi senti? Niente!


Lei tossicchiò, un rombo gutturale che tradiva un certo piacere, poi inarcò il collo e sollevò la testa per sfuggire alle dita birichine. Come faccio a guardare di nuovo in faccia Glaedr? Era in preda a una furia terribile... L'intera rocca tremava per la forza della sua collera.


Almeno gli hai tenuto testa quando ti ha attaccata.


Veramente è andata al contrario.


Colto di sorpresa, Eragon inarcò un sopracciglio. Be', a ogni buon conto, l'unica cosa da fare è scusarti. Scusarmi!


Sì. Vagli a dire che ti dispiace, che una cosa del genere non succederà più, e che desideri continuare l'addestramento con lui. Sono sicuro che ti capirà, se gliene darai l'occasione.


D'accordo, borbottò lei.


Ti sentirai meglio quando l'avrai fatto. Sorrise. Te lo dico per esperienza personale.


Lei sbuffò e si avvicinò all'ingresso della caverna, dove si accovacciò per contemplare l'ondulata foresta. Dovremmo andare. Presto farà buio. Stringendo i denti, Eragon si alzò - ogni movimento gli costava fatica - e si issò in groppa a Saphira, mettendoci il doppio del tempo che normalmente impiegava. Eragon?... Grazie di essere venuto. So quello che hai rischiato con la tua schiena.


Lui l'accarezzò sulla spalla. Siamo di nuovo uno?


Di nuovo uno.

Il dono dei draghi

I giorni che precedettero l'Agaeti Blòdhren furono i migliori e i peggiori per Eragon. La schiena lo tormentava più che mai, minandogli la salute e la resistenza, offuscandogli la mente; viveva nel costante terrore che si scatenasse un altro accesso. Eppure lui e Saphira non erano mai stati tanto vicini. Vivevano l'uno nella mente dell'altra come nella propria. E di quando in quando Arya andava a far loro visita nella casa sull'albero, e passeggiava per Ellesméra con loro. Tuttavia non andava mai da sola, ma portava sempre con sé Orik, o Maud, la gatta mannara.


Durante le loro passeggiate, Arya presentò a Eragon e Saphira un certo numero di elfi di riguardo: grandi guerrieri, poeti e artisti. Li portava ai concerti che si tenevano sotto i pini. E mostrò loro le innumerevoli meraviglie nascoste di Ellesméra.


Eragon approfittava di ogni occasione per parlare con lei. Le raccontò della sua infanzia nella Valle Palancar, di Roran e di Garrow, della zia Marian, aneddoti su Sloan, Ethlbert e altri compaesani, e del suo amore per le montagne che circondavano Carvahall, e delle fiammeggianti strisce di luce che adornavano il cielo notturno d'inverno. Le raccontò di quando una volpe cadde nelle vasche per la concia di Gedric e dovette essere ripescata con una rete. Le parlò della gioia di coltivare una piantagione, di come estirpava le erbacce e la nutriva fino a scorgere i primi germogli verdi che spuntavano dal terreno: sapeva che lei più di tutti poteva apprezzare quella gioia.


In cambio, Eragon ebbe l'opportunità di sapere qualcosa di più sul suo conto. La sentì parlare della sua infanzia, dei suoi amici e della sua famiglia, e delle sue esperienze fra i Varden, di cui parlava con allegria, descrivendo razzìe e battaglie a cui aveva partecipato, trattati che aveva aiutato a negoziare, le sue dispute con i nani, e gli eventi più importanti a cui aveva assistito in qualità di ambasciatrice.


Grazie a lei e a Saphira, Eragon provava una profonda pace nel cuore, ma una pace in precario equilibrio, dato che la minima influenza riusciva a turbarla. Il tempo era suo nemico, poiché Arya era destinata a partire subito dopo l'Agaeti Blòdhren. E così Eragon assaporava i momenti passati con lei, e aspettava con angoscia l'arrivo dell'imminente celebrazione.


L'intera città brulicava di intensa attività in preparazione dell'Agaeti Blòdhren. Eragon non aveva mai visto gli elfi così eccitati. Decoravano la foresta di festoni e lanterne colorate, specie intorno all'albero di Menoa, mentre l'albero stesso era abbellito da lanterne appese alla fine di ogni ramo, dove risplendevano come gocce di rugiada. Persino le piante, notò Eragon, avevano assunto un'aria festosa con un tripudio di nuovi fiori dai colori scintillanti. Spesso sentiva gli elfi che li cantavano fino a tarda notte.


Ogni giorno, centinaia di elfi giungevano a Ellesméra dalle altre città sparse nella foresta, perché nessun elfo si sarebbe mai perso la ricorrenza centenaria del trattato con i draghi. Eragon intuì che molti erano venuti anche per conoscere Saphira. Mi sembra di non fare altro che ripetere saluti all'infinito, si disse. Gli elfi assenti perché impegnati altrove avrebbero festeggiato la ricorrenza nello stesso momento, e avrebbero partecipato alle celebrazioni di Ellesméra divinando attraverso specchi magici che mostravano le sembianze di chi stava osservando, perché nessuno si sentisse spiato.


Una settimana prima dell'Agaeti Blòdhren, quando Eragon e Saphira si accingevano a tornare nei propri alloggi dalla rupe di Tel'naeir, Oromis disse: «Dovreste pensare entrambi a che cosa portare alla Celebrazione del Giuramento di Sangue. A meno che le vostre creazioni non abbiano bisogno della magia per manifestarsi o funzionare, vi sconsiglierei di ricorrere alla negromanzia. Nessuno rispetterebbe il vostro lavoro se fosse prodotto di un incantesimo e non delle vostre mani. Vi suggerisco inoltre di preparare opere separate. Anche questa è nostra usanza.»


In volo, Eragon chiese a Saphira: Qualche idea?


Forse una. Ma se non ti dispiace, vorrei vedere se funziona prima di dirtela. Lui colse un frammento d'immagine, un affioramento di nuda roccia che sporgeva dalla foresta, prima che lei lo nascondesse.


Eragon sorrise. Non mi dai nemmeno un indizio?


Fuoco. Tantissimo fuoco.


A casa, Eragon passò in rassegna le proprie capacità e pensò: Più di tutto mi intendo di agricoltura, ma non vedo in che modo possa aiutarmi. Né posso sperare di competere con gli elfi grazie alla magia, o di raggiungere la loro maestria con i mestieri che mi sono familiari. Il loro talento supera di gran lunga quello dei migliori artigiani dell'Impero. Ma tu possiedi una qualità che non ha nessun altro, disse Saphira.


Quale?


La tua identità. La tua storia, le tue avventure, la tua situazione. Usale per dar vita alla tua creazione, e produrrai qualcosa di unico. Qualunque cosa tu faccia, fai che sia fondata su quanto hai di più caro. Soltanto così avrà spessore e significato, e soltanto allora risuonerà in sintonia con le altre opere.


Lui la guardò sorpreso. Non mi ero mai reso conto che ne sapessi tanto di arte.


Infatti, ribattè lei, ma dimentichi che un pomeriggio sono rimasta con Oromis a guardarlo dipingere le sue pergamene, mentre tu volavi con Glaedr. Oromis mi ha parlato a lungo dell'argomento.


Ah. Già. Dimenticavo.


Quando Saphira se ne andò per elaborare il suo progetto, Eragon cominciò a camminare su e giù davanti al portale della sua camera da letto, riflettendo su quanto aveva detto la dragonessa. Che cosa è importante per me? s'interrogò. Saphira e Arya, ovviamente, e il fatto di essere un buon Cavaliere, ma cosa posso dire su questi argomenti che non sia ovvio? Apprezzo la bellezza della natura, ma anche questa è materia che gli elfi hanno decantato in ogni modo possibile. Ellesméra stessa è un monumento alla loro devozione. Si guardò dentro, nel tentativo di comprendere che cosa toccasse le corde più intime e oscure del suo animo. Che cosa gli destava tanta passione - odio o amore - da spingerlo a condividere ciò che provava con gli altri? Tre cose gli vennero in mente: la ferita alla schiena inferta da Durza, la paura di dover combattere un giorno Galbatorix, e le vicende epiche degli elfi che tanto lo affascinavano. Eragon si sentì pervadere da una vampa di eccitazione mentre una storia che combinava tutti questi elementi prendeva forma nella sua mente. Con le ali ai piedi, salì a due a due i gradini che portavano allo studio, si sedette alla scrivania, intinse il calamo nell'inchiostro e lo posò, tremante, su un foglio di carta immacolato.


La punta grattò quando compose i primi versi:


Nel regno lambito dal mare, sui monti screziati di blu...


Le parole fluivano dalla sua penna come dotate di vita propria. Aveva la sensazione di non essere l'inventore della storia, ma un semplice portavoce che aveva il compito di divulgarla al mondo. Non avendo mai composto nulla, Eragon era pervaso dall'eccitazione della scoperta che accompagna le nuove imprese, specie perché non aveva mai sospettato che gli potesse piacere fare il bardo.


Lavorò a ritmo febbrile, senza fermarsi per mangiare o per bere, le maniche della tunica arrotolate fino ai gomiti per non sporcarle con gli schizzi d'inchiostro che volavano dal calamo nella furia della scrittura. Era così concentrato da non sentire altro che il ritmo del suo poema, non vedere altro che la carta bianca, non pensare ad altro che alle frasi impresse a fuoco nella sua mente.


Un'ora e mezzo più tardi, lasciò cadere la penna dalla mano anchilosata, spinse indietro la sedia e si alzò dalla scrivania. Davanti a lui c'erano quattordici pagine. Non aveva mai scritto tanto in una volta sola. Eragon sapeva che il suo poema non avrebbe mai potuto competere con i grandi autori degli elfi e dei nani, ma sperava che fosse abbastanza sincero da non suscitare ilarità fra gli elfi.


Recitò il suo poema a Saphira, quando tornò. La dragonessa disse: Ah, Eragon, quanto sei cambiato da quando abbiamo lasciato la Valle Palancar. Nemmeno tu riconosceresti il radazzino inesperto che partì in cerca di vendetta, credo. Quell'Eragon non avrebbe mai potuto scrivere una ballata nello stile degli elfi. Non vedo l'ora di scoprire cosa diventerai nei prossimi cinquanta o cento anni.


Lui sorrise. Se vivrò così a lungo.


«Rozzo, ma sincero» commentò Oromis, quando Eragon ebbe finito di leggergli il poema.


«Ti piace?»


«È un fedele ritratto del tuo attuale stato mentale e una lettura avvincente, ma non è un capolavoro. Ti aspettavi che lo fosse?»


«Suppongo di no.»


«Tuttavia sono sorpreso che tu abbia potuto leggerlo nella nostra lingua. Non esistono impedimenti a scrivere opere di fantasia nell'antica lingua, ma le difficoltà sorgono quando uno prova a recitarle, perché significa dar voce a delle bugie, cosa che la magia non consente.»


«Riesco a farlo» ribatte Eragon, «perché io credo che sia vero.»


«E questo conferisce alla tua opera maggior pregio... sono colpito, Eragon-finiarel. Il tuo poema sarà un degno contributo alla Celebrazione del Giuramento di Sangue.» Oromis s'infilò una mano nella veste e porse a Eragon una pergamena arrotolata e chiusa da un nastro. «Su questo rotolo sono scritti nove incantesimi di protezione che voglio che usi per te e per il nano Orik. Come hai scoperto a Silthrim, i nostri festeggiamenti sono potenti e pericolosi per chi è di costituzione più debole della nostra. L'ho visto accadere. Perfino con queste precauzioni dovrai stare attento a non farti sviare dalle bizzarrie che aleggeranno nell'aria. Stai in guardia, perché in questa occasione noi elfi siamo inclini alla follia... magnifica, gloriosa, ma pur sempre follia.»


La sera della vigilia dell'Agaeti Blòdhren - che sarebbe durata tre giorni - Eragon, Saphira e Orik accompagnarono Arya all'albero di Menoa, dov'era già radunata una moltitudine di elfi, dai capelli neri o argentei che splendevano alla luce della lanterne. Islanzadi dominava la folla da una radice rialzata ai piedi dell'albero, alta, pallida e altera come un tronco di betulla. Blagden se ne stava appollaiato sulla spalla sinistra della regina, mentre Maud, la gatta mannara, era accovacciata dietro di lei. C'erano anche Glaedr e Oromis, vestito di rosso e nero, e altri elfi che Eragon riconobbe, come Lifaen e Nari, e purtroppo anche Vanir. In alto, le stelle brillavano nel firmamento come diamanti su un drappo di velluto nero.


«Aspettate qui» disse Arya. Scivolò tra la folla e tornò in compagnia di Rhunòn. L'elfa scrutava l'ambiente con gli occhi sgranati di un gufo. Eragon la salutò, e lei ricambiò con un cenno del capo. «Piacere di rivedervi, Squamediluce e Ammazzaspettri» disse, rivolta a Saphira e a lui. Poi scorse Orik e gli parlò nella lingua dei nani, e Orik rispose con entusiasmo, palesemente compiaciuto di conversare con qualcuno nel ruvido linguaggio della sua terra natta. «Cosa ha detto?» chiese Eragon, chinandosi verso di lui.


«Mi ha invitato a casa sua a vedere i suoi lavori e a discutere di metallurgia.» Il volto di Orik esprimeva grande emozione. «Eragon, ma lo sai che ha imparato la sua arte da Fùthark in persona, uno dei leggendari grimstborithn del Dùrgrimst Ingietum? Che cosa non avrei dato per conoscerlo!»


Insieme aspettarono la mezzanotte, quando Islanzadi alzò il braccio sinistro nudo per indicare la luna nuova, come una lancia di marmo bianco. La luce emessa dalle lanterne che punteggiavano l'albero di Menoa si addensò in una sfera biancastra che andò a posarsi sul suo palmo. Poi Islanzadi avanzò lungo la radice fino al tronco massiccio e depose la sfera in una cavità della corteccia, dove rimase sospesa, pulsante.


Eragon si rivolse ad Arya sotto voce. «È cominciata?»


«È cominciata!» Arya rise. «E finirà quando il fuoco fatuo si spegnerà.»


Gli elfi si suddivisero in gruppi sparsi per tutta la foresta e la radura che circondavano l'albero di Menoa, e dal nulla trassero tavoli traboccanti di piatti invitanti, che dall'aspetto ultraterreno sembravano più opera di stregoni che di cuochi.


Poi cominciarono a cantare con le loro voci limpide e melodiose. Cantavano diverse canzoni, ma ciascuna faceva parte di una più vasta melodia che evocò una malia nella notte sognante, affinando i sensi, cancellando ritrosie e diffondendo una magia febbrile nei festeggiamenti. I versi parlavano di gesta eroiche e ricerche per nave o a cavallo in terre remote, e raccontavano il dolore per la bellezza perduta. La musica pulsante avvolse Eragon, che si sentì pervadere da un selvaggio abbandono, un desiderio di liberarsi dalla sua vita per danzare nei boschi degli elfi per sempre. Al suo fianco, Saphira mormorava la melodia a labbra chiuse, le palpebre calate sugli occhi lucenti. Che cosa accadde in seguito, Eragon non fu mai in grado di ricordarlo completamente. Era come se avesse la febbre e avesse perso i sensi. Ricordava certi episodi con vivida chiarezza - brillanti, acuti sprazzi di gioia - ma non riusciva a ricostruire l'ordine esatto in cui si erano verificati. Perse il conto dei giorni e delle notti, perché malgrado lo scorrere del tempo, la foresta sembrava immersa in una penombra eterna. Non sapeva nemmeno se aveva dormito, o aveva avuto bisogno di dormire, durante la celebrazione...


Ricordò di aver girato in tondo stringendo le mani di una fanciulla elfica dalle labbra color ciliegia, il sapore del miele sulla lingua e l'aroma del ginepro nell'aria...


Ricordò elfi appollaiati sui rami protesi dell'albero di Menoa, come tanti storni. Pizzicavano le corde di arpe d'oro e si divertivano a porre indovinelli a Glaedr, appollaiato di sotto, e di quando in quando puntavano un dito al cielo, dove un'esplosione di scintille ambrate compariva in varie forme prima di dissolversi...


Ricordò di essersi seduto in una Valletta, con la schiena appoggiata a Saphira, a osservare la stessa fanciulla elfica che ondeggiava davanti a un pubblico rapito, cantando:


Volerai, volerai, lontano volerai, sui picchi e sulle valli fino alle perdute terre. Volerai, volerai, lontano volerai, e da me più non tornerai.


Lontano, lontano da me tu sarai, e mai più ti rivedrò! Lontano, lontano da me tu sarai, ma per sempre io ti aspetterò. Ricordò una serie infinita di poesie, alcune di argomento triste, altre gioiose, quasi tutte un misto di gioia e tristezza. Ascoltò tutta la poesia di Arya e pensò che era molto bella, e quella di Islanzadi, che era più lunga, ma ugualmente piacevole. Tutti gli elfi si radunarono per ascoltare le loro parole...


Ricordò le meraviglie che gli elfi avevano preparato per la celebrazione, molte delle quali non avrebbe mai pensato possibili, nemmeno con l'ausilio della magia. Indovinelli e giocattoli, opere d'arte e armi, e altri oggetti il cui senso gli sfuggiva. Un elfo aveva creato una sfera di vetro dentro la quale ogni due o tre secondi sbocciava un fiore diverso. Un altro elfo aveva trascorso decenni a viaggiare per la Du Weldenvarden per apprendere i suoni degli elementi, e ora suonava i più belli dalla gola di cento gigli bianchi.


Rhunòn contribuì con uno scudo che non si rompeva, un paio di guanti d'acciaio che consentivano di maneggiare il piombo fuso senza scottarsi e una delicata scultura che raffigurava uno scricciolo in volo ricavata da un solido blocco di metallo e dipinta con tale perizia che l'uccello sembrava vivo.


Una piramide di legno alta otto pollici e costruita con cinquantotto pezzi a incastro fu l'offerta di Orik che entusiasmò gli elfi; essi insistettero perché la smontasse e la rimontasse. «Mastro Barbalunga» lo chiamavano. «Dita ingegnose indicano una mente ingegnosa.»


Ricordò Oromis che lo prendeva in disparte, allontanandolo dalla musica, e di aver chiesto all'elfo: «Che cosa succede?»


«Hai bisogno di schiarirti la mente.» Oromis lo condusse verso un tronco caduto e lo fece sedere. «Resta qui qualche minuto. Ti sentirai meglio.»


«Sto bene. Non ho bisogno di riposare» protestò Eragon.


«Non sei in condizioni di giudicare te stesso, al momento. Resta qui finché non sarai in grado di elencare, dal più piccolo al più grande, tutti gli incantesimi di cambiamento, poi potrai riunirti a noi. Prometti.»


Ricordò creature strane e misteriose, che sciamavano dal cuore della foresta. In gran parte erano animali che erano stati alterati dagli incantesimi accumulati nella Du Weldenvarden e adesso si sentivano attratti dall'Agaeti Blòdhren come un uomo che muore di fame è attratto dal cibo. Sembravano trarre il loro nutrimento dalla presenza della magia degli elfi. Molti osarono rivelarsi soltanto come un paio di occhi scintillanti ai margini dei coni di luce delle lanterne. Un animale che si mostrò fu la lupa con le sembianze di una donna vestita di bianco - che Eragon aveva già incontrato. Sgusciò da dietro un cespuglio di sanguinella, i denti aguzzi snudati in un ghigno divertito, gli occhi gialli che guizzavano intorno. Ma non tutte le creature erano animali. Alcuni erano elfi che avevano alterato la propria forma originale in nome di una migliore funzionalità o di un diverso ideale di bellezza. Un elfo ricoperto da una pelliccia grigia pezzata balzò oltre Eragon e continuò a caracollare intorno, a quattro zampe, oppure su due piedi. La sua testa era stretta e allungata, con orecchie a punta da felino, le braccia lunghe fino alle ginocchia, e morbidi cuscinetti sui palmi delle mani dalle dita affusolate.


Più tardi, due elfe identiche si presentarono a Saphira. Si muovevano con languida grazia e quando si portarono le dita alle labbra nel saluto tradizionale, Eragon vide che le loro dita erano unite da una ragnatela traslucida. «Siamo venute da molto lontano» sussurrarono. Mentre parlavano, tre file di branchie pulsarono ai lati dei loro colli sottili, esponendo il rosa della carne. La loro pelle riluceva, come bagnata d'olio. I lunghi capelli lisci ricadevano oltre le spalle strette. Eragon incontrò un elfo corazzato, ricoperto da squame sovrapposte come quelle di un drago, una cresta ossea sulla testa, una fila di punte aguzze che gli correva lungo la schiena, e due pallide fiamme che baluginavano in fondo alle narici dilatate.


E ne incontrò altri che non erano del tutto riconoscibili: elfi dai lineamenti che tremolavano, come visti attraverso l'acqua; elfi che quando erano immobili non si distinguevano dagli alberi circostanti; elfi alti con gli occhi completamente neri, anche dove avrebbe dovuto esserci il bianco, di una bellezza inquietante che spaventò Eragon, capaci di passare attraverso le cose che toccavano come ombre.


L'esempio più vivido di quelle trasformazioni era l'albero di Menoa, che un tempo era stato l'elfa Linnéa. L'albero parve prendere vita in sintonia con le attività della radura. I suoi rami si muovevano anche se non c'era un filo di vento; a volte si sentivano nel tronco scricchiolii che andavano al passo con la musica, e un'aria di serena benevolenza emanava dall'albero per diffondersi su quelli più vicini...


E ricordò due attacchi di dolore alla schiena; urlava e si contorceva nell'ombra, mentre gli elfi inebriati continuavano a festeggiare intorno a lui, e soltanto Saphira accorse in suo aiuto...


Il terzo giorno dell'Agaetì Blòdhren, o almeno così gli fu detto in seguito, Eragon recitò i suoi versi agli elfi. Si alzò e disse: «Non sono un fabbro, non so intagliare, né tessere, né fabbricare ceramiche, né dipingere. Non posso competere con voi nelle opere che create con la magia. Perciò non mi resta altro che la mia esperienza, che ho tentato di interpretare in una storia, anche se non sono nemmeno un bardo.» Poi, così come Brom cantava le ballate a Carvahall, Eragon intonò:


Nel regno lambito dal mare, Sui monti screziati di blu, D'inverno nacque un uomo Con un unico scopo e nulla più: Uccidere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre.


Sotto querce antiche come il tempo, Allevato con amore e saggezza, Correva coi cervi e con gli orsi, E dagli anziani imparò la fermezza


Per uccidere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre.


Imparò a spiare il predatore oscuro,


Quando sorprende il ricco e il mendicante;


A parare i suoi colpi e combatterlo Con tegole, pietre, ossa e piante; E a uccidere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre. Il tempo passò veloce come un lampo, Finché l'uomo non raggiunse l'età, In cui la febbre nel corpo divampa E nelle vene ribolle voluttà. Incontrò una leggiadra fanciulla,


Che era forte e saggia e virtuosa, Circonfusa dalla Luce di Geda,


Che splendeva sulla fronte radiosa.


Nel suo sguardo intenso e arcano, Nei suoi occhi come la notte scuri Lui intravvide un futuro splendente Dove sarebbero stati sicuri


Di non temere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre.


E così Eragon raccontò di come l'uomo viaggiò fino alla terra di Durza, dove scovò e combattè il nemico, malgrado il freddo terrore che attanagliava il suo cuore. Ma quando alla fine trionfò, l'uomo non inflisse il colpo fatàle, perché ormai aveva sconfitto il nemico e non temeva più il destino dei mortali. Non aveva più bisogno di uccidere il nemico nella terra di Durza. L'uomo rinfoderò la spada e tornò a casa e sposò la sua bella in una sera d'estate. Passarono molti anni felici e contenti finché la sua barba non divenne bianca. Ma...


Nelle buie ore che precedono l'alba,


Il nemico strisciò nella quiete Della stanza dove l'uomo dormiva, Per placar di vendetta la sete.


L'uomo dal cuscino alzò la testa E guardò dritto il nemico che divenne il volto pallido e freddo della Morte, Sovrana della notte perenne.


Nel cuore invecchiato dell'uomo


Una pace serena discese nel profondo;


Da tempo non temeva l'abbraccio della Morte,


L'ultimo abbraccio per ogni uomo al mondo.


Lieve come un sussurro di vento,


il nemico dall'uomo strappò il suo spirito vivido e pulsante, Che per sempre da allora riposò


Nella terra di Durza, La dimora delle ombre.


Eragon tacque e, sentendo gli sguardi su di lui, chinò il capo e andò a sedersi. Provava un certo imbarazzo ad aver svelato così tanti dettagli di sé.


Il nobile elfo Dàthedr disse: «Tu hai scarsa stima di te, Ammazzaspettri. A quanto pare hai scoperto un nuovo talento.» Islanzadi levò una pallida mano. «La tua opera entrerà a far parte della grande biblioteca del Palazzo di Tialdarì, Eragon-finiarel, perché tutti possano apprezzarla. Sebbene il tuo poema sia un'allegorìa, credo che abbia aiutato molti di noi a comprendere meglio le traversie che hai dovuto affrontare da quando ti è apparso l'uovo di Saphira, di cui noi siamo, e in larga misura, responsabili. Ti prego di leggercelo di nuovo affinchè tutti noi possiamo riflettere meglio.» Lusingato, Eragon chinò il capo e obbedì. Poi toccò a Saphira presentare il suo lavoro agli elfi. Si allontanò in volo nella notte e tornò con una pietra nera grande tre volte un uomo, stretta fra gli artigli. Atterrò soltanto sulle zampe posteriori e collocò il macigno al centro di uno spiazzo erboso, perché tutti potessero vederlo. La roccia lucida era stata fusa e in qualche modo plasmata in curve intricate che si avvolgevano su se stesse come onde cristallizzate. Le lingue striate di roccia seguivano disegni così involuti che l'occhio aveva difficoltà a seguire una singola fascia dalla base alla cima, ma saltava da una spirale all'altra.


Dato che era la prima volta che Eragon vedeva la scultura, la ammirò con lo stesso interesse degli elfi. Come ci sei riuscita?


Gli occhi di Saphira scintillarono maliziosi. Leccando la roccia fusa. Poi abbassò la testa e soffiò a lungo fuoco sulla pietra, che si trasformò in un pilastro dorato che saliva verso le stelle, artigliandole con dita splendenti. Quando Saphira chiuse le fauci, i contorni della scultura, sottili come carta, rosseggiarono ardenti, mentre piccole fiammelle tremolavano nelle cavità e nelle fenditure della roccia. Le morbide volute della pietra sembravano muoversi nella luce ipnotica.


Gli elfi esclamarono di meraviglia, battendo le mani e danzando intorno alla roccia. Un elfo gridò: «Mirabile opera, Squamediluce!»


È bellissima, disse Eragon.


Saphira gli sfiorò il braccio col muso. Grazie, piccolo mio.


Poi toccò a Glaedr presentare la sua offerta: una lastra di roccia rossa che aveva scolpito con la punta di un artiglio per raffigurare Ellesméra vista dall'alto. E anche Oromis presentò il suo contributo: la pergamena finita che Eragon lo aveva visto illustrare durante le lezioni. Sulla metà superiore del rotolo si susseguivano colonne di glifi - una copia della Ballata di Vestati il Marinaio - mentre nella metà inferiore era rappresentato il panorama di un regno fantastico, ricco di dettagli e reso con grande abilità artistica.


Arya prese Eragon per mano e lo condusse nella foresta, fino all'albero di Menoa, dove gli disse: «Guarda come il fuoco fatuo si sta spegnendo. Non abbiamo che poche ore prima del sopraggiungere dell'alba, e allora dovremo tutti tornare al mondo della fredda ragione.»


Intorno all'albero si erano radunate frotte di elfi, i volti radiosi di avida aspettativa. Con solenne dignità, Islanzadi affiorò dalla folla e camminò lungo una radice larga quanto un viale, che risaliva piano fino a curvare su se stessa. La regina si fermò su quella sorta di pulpito nodoso, scrutando gli elfi in attesa. «Com'è nostra usanza, e come stabilito alla fine della Guerra dei Draghi dalla regina Tarmunora, dal primo Eragon, e dal drago bianco che rappresentava la sua razza - il cui nome è impronunciabile in qualsiasi lingua - quando legarono il fato degli elfi e dei draghi, ci siamo riuniti per commemorare il giuramento di sangue con canti, e danze, e i frutti del nostro lavoro. Quando si tenne l'ultima celebrazione, tanti anni fa, la nostra situazione era disperata. Da allora in qualche modo è migliorata, grazie agli sforzi congiunti di noi elfi, dei nani e dei Varden, ma Alagaésia resta ancora sotto l'ombra funesta dei Wyrdfell, e dobbiamo continuare a vivere con la vergogna di come tradimmo i draghi.


«Dei Cavalieri del passato resta soltanto Oromis con Glaedr. Brom e molti altri sono entrati nel vuoto nell'ultimo secolo. Tuttavia una nuova speranza ci è giunta con Eragon e Saphira, ed è più che giusto che loro siano qui adesso, mentre celebriamo il giuramento fra le nostre razze.»


A un cenno della regina, gli elfi sgombrarono una vasta area della radura intorno all'albero di Menoa. Lungo il perimetro, conficcarono nel terreno lunghi pali intagliati da cui pendevano delle lanterne, mentre musici con flauti, arpe e tamburi si disponevano lungo un'alta radice. Guidato da Arya ai bordi del cerchio, Eragon si ritrovò seduto fra lei e Oromis, mentre Saphira e Glaedr erano appostati ai loro lati come statue tempestate di gemme.


Rivolto a Eragon e Saphira, Oromis disse: «Osservate con attenzione, perché questo sarà molto importante per la vostra eredità di Cavalieri.»


Quando tutti gli elfi si furono acquietati, due fanciulle elfiche avanzarono al centro dello spiazzo libero, dandosi la schiena. Erano di una bellezza straordinaria, e identiche in ogni dettaglio, tranne i capelli: una aveva la chioma nera come un pozzo senza fondo, mentre i capelli dell'altra rilucevano come filigrana d'argento.


«Le Custodi, Iduna e Néya» mormorò Oromis.


Dalla spalla di Islanzadi, Blagden gracchiò: «Wyrda!»


Muovendosi all'unisono, le due elfe portarono le mani alle spille che serravano i lembi dei loro bianchi mantelli sotto la gola, le aprirono, e la stoffa impalpabile si afflosciò ai loro piedi. Malgrado fossero nude, le due donne erano coperte dall'iridescente tatuaggio di un drago. Il tatuaggio cominciava con la coda del drago avvolta intorno alla caviglia sinistra di Iduna, le risaliva lungo il polpaccio e la coscia, le passava intorno al busto e continuava sulle spalle di Nèya, e terminava sul suo petto, dove si adagiava la testa del drago. Ogni singola squama era dipinta con un colore diverso; le vibranti sfumature conferivano al tatuaggio l'aspetto di un arcobaleno.


Le fanciulle intrecciarono le mani e le braccia, affinchè il drago apparisse integro, serpeggiando da un corpo all'altro senza interruzioni. Poi alzarono entrambe un piede nudo e lo pestarono sul terreno solido con un soffice thump. E di nuovo: thump.


Al terzo thump, i musici batterono i tamburi seguendo la cadenza. Ancora un thump, e gli arpisti pizzicarono le corde dei loro strumenti dorati; un momento dopo, gli elfi con i flauti si unirono alla pulsante melodia.


Dapprima lente, poi sempre più veloci, Iduna e Néya cominciarono a danzare, segnando il tempo con i piedi sul terreno e ondeggiando in maniera tale da dare la sensazione che non fossero loro a muoversi, ma il drago tatuato sui loro corpi. Giravano in tondo, e il drago tracciava infinite spirali sulla loro pelle.


Quando le gemelle aggiunsero le loro voci alla musica, superando il ritmo martellante con grida feroci, le loro parole evocarono un incantesimo così complesso che il suo significato sfuggì a Eragon. Come il vento turbinante che precede una tempesta, le elfe accompagnarono la magia cantando con una sola voce, una sola mente e un solo intento. Eragon non conosceva le parole, ma si scoprì a mormorarle insieme agli elfi, catturato dall'inesorabile cantilena. Sentì Saphira e Glaedr che mormoravano a labbra chiuse, una profonda vibrazione così potente da riverberargli nelle ossa, da fargli formicolare la pelle e da scuotere l'aria.


Sempre più veloci volteggiavano Iduna e Nèya, finché i loro piedi non scomparvero in una nube di polvere, e le loro mani guizzavano come farfalle, madide di sudore. Le elfe accelerarono fino a raggiungere una velocità sovrumana, e la musica culminò in una frenesia di versi cantati. A un tratto, un lampo di luce attraversò tutta la lunghezza del drago tatuato, dalla testa alla coda, ed esso si risvegliò. Lì per lì Eragon pensò che fosse un'allucinazione, finché la creatura non sbattè le palpebre, dispiegò le ali e mosse gli artigli.


Una vampa di fuoco eruttò dalle fauci del drago, che balzò avanti, staccandosi dalla pelle delle elfe. Si librò in aria, dove rimase sospeso agitando le ali. Soltanto la punta della coda restava ancora collegata alle gemelle, come uno scintillante cordone ombelicale. La bestia gigantesca allungò il collo verso la luna nera e liberò un ruggito selvaggio di epoche remote, poi si volse e scrutò l'assemblea.


Quando gli occhi sinistri del drago si posarono su di lui, Eragon capì che la creatura non era una semplice apparizione, ma un essere senziente, legato alla magia e alimentato da essa. Il mormorio di Saphira e di Glaedr divenne sempre più forte, fino a colmare le orecchie di Eragon. In alto, il fantasma della loro razza calò in circolo sugli elfi, sfiorandoli con le sue ali impalpabili. Si fermò davanti a Eragon, abbracciandolo in uno sguardo sconfinato e vorticoso. Spinto da un irrefrenabile impulso, Eragon alzò la mano destra, con il palmo che gli formicolava.


Nella sua mente risuonò una voce di fuoco. Il nostro dono, affinchè tu compia ciò che devi.


Il drago piegò il collo e con il muso toccò il centro del gedwéy ignasia di Eragon. Una scintilla sprizzò fra di loro, ed Eragon s'irrigidì, mentre un calore incandescente gli pervadeva tutto il corpo, consumandolo. Lampi rossi e neri lo accecarono, e la cicatrice sulla schiena gli bruciò, come marchiata a fuoco. Cercò la salvezza sprofondando in se stesso, dove le tenebre lo avvolsero e lui non ebbe più la forza di resistere.


L'ultima cosa che udì fu la voce di fuoco che diceva: Il nostro dono per te.

In una radura stellata

Eragon si trovò solo al suo risveglio. Aprì gli occhi per fissare il soffitto intagliato della casa sull'albero che lui e Saphira condividevano. Fuori era ancora notte, e il clamore dei festeggiamenti elfici risaliva dalla città scintillante. Prima che notasse altro, Saphira gli entrò nella mente, irradiando apprensione e ansia. Gli arrivò un'immagine di lei al fianco di Islanzadi, sotto l'albero di Menoa; poi la dragonessa gli chiese: Come stai?


Mi sento... bene. Anzi, meglio di quanto non mi sia sentito da un po' di tempo a questa parte. Quanto ho... Soltanto un'ora. Sarei rimasta con te, ma avevano bisogno di Oromis, Glaedr e me per completare la cerimonia. Avresti dovuto vedere la reazione degli elfi quando sei svenuto. Non era mai successo nulla del genere prima d'ora. Sei stata tu, Saphira?


Non è stata soltanto opera mia, o di Glaedr. Le memorie della nostra razza, che hanno preso forma e sostanza grazie alla magia degli elfi, ti hanno infuso le capacità che possediamo noi draghi, poiché tu sei la nostra unica speranza per evitare l'estinzione.


Non capisco.


Guardati allo specchio, suggerì lei. Poi riposati, e all'alba tornerò da te.


Il contatto mentale si dissolse, ed Eragon si alzò in piedi e si stiracchiò, sorpreso dal grande benessere che lo pervadeva. Si recò nel camerino da bagno e prese lo specchio che usava per radersi, portandolo vicino a una lanterna per guardarsi alla luce.


Rimase impietrito.


Era come se le varie alterazioni fisiche che col tempo mutavano l'aspetto di un Cavaliere umano - e che Eragon aveva già cominciato a sperimentare da quando si era legato a Saphira - si fossero completate mentre era svenuto. Il suo volto era liscio e affinato come quello di un elfo, le orecchie appuntite come le loro e gli occhi a mandorla come i loro; la pallida pelle di alabastro emanava un tenue chiarore, come se fosse la lucentezza della magia. Sembro un principe. Eragon non aveva mai usato il termine bellissimo per un uomo, men che mai per se stesso, ma adesso l'unica parola adatta a descriverlo era quella. Eppure non era ancora interamente un elfo. La sua mascella era più pronunciata, la fronte più sporgente, il viso più largo. Era più bello di qualsiasi umano, e più virile di qualsiasi elfo. Con dita tremanti, Eragon si tastò la nuca in cerca della cicatrice.


Non sentì niente.


Si strappò di dosso la tunica e si voltò per esaminarsi allo specchio. La sua schiena era liscia come prima della battaglia del Farthen Dùr. Gli vennero le lacrime agli occhi, mentre faceva scorrere la mano lì dove Durza gli aveva inferto il colpo. In quel momento capì che la schiena non l'avrebbe più tormentato.


Non solo era scomparsa l'infame piaga che aveva scelto di tenere, ma anche tutti gli altri sfregi e le cicatrici, lasciando il suo corpo intatto come quello di un neonato. Eragon si passò un dito sul polso dove si era tagliato affilando la falce di Garrow. Non restava alcuna traccia della ferita. Anche le vaste cicatrici delle piaghe che si era procurato all'interno delle cosce durante il suo primo volo con Saphira erano scomparse. Per un momento, le rimpianse come ricordo della sua vita, ma il rimpianto durò poco quando si rese conto che ogni ferita che aveva subito, anche se piccola, era stata cancellata.


Sono diventato quello che era destino che fossi, pensò, e trasse un profondo respiro di aria inebriante. Posò lo specchio sul letto e indossò i suoi abiti migliori: una tunica cremisi cucita con fili d'oro; una cintura borchiata di giada bianca; caldi gambali felpati; un paio di stivali di stoffa, i preferiti dagli elfi; e i bracciali di cuoio che gli avevano donato i nani.


Eragon scese dall'albero e vagò tra le ombre di Ellesméra, osservando gli elfi che festeggiavano nella febbre della notte. Nessuno di loro lo riconobbe, anche se lo salutarono come fosse uno di loro e lo invitarono a unirsi ai bagordi. Eragon si sentiva fluttuare in uno stato di acuta consapevolezza, i sensi vibranti per le nuove visioni, i nuovi suoni, i nuovi odori, le nuove sensazioni che lo assalivano. Riusciva a vedere nel buio dove prima sarebbe stato cieco. Poteva toccare una foglia e, soltanto col tatto, contare ogni singolo pelo che la ricopriva. Era in grado di identificare ogni odore che gli aleggiava intorno con l'olfatto di un lupo o di un drago. E poteva sentire i passi dei topi nel sottobosco, e il rumore prodotto da una falda di corteccia che cadeva a terra; lo stesso battito del suo cuore era come il rullare di un tamburo.


I suoi vagabondaggi lo condussero oltre l'albero di Menoa, dove si fermò a osservare Saphira in mezzo ai festeggiamenti, anche se non si rivelò ai presenti nella radura.


Dove vai, piccolo mio? gli chiese la dragonessa.


Eragon vide Arya alzarsi dal suo posto accanto alla madre, farsi strada fra gli elfi e poi, come uno spirito della foresta, dileguarsi fra gli alberi. Cammino fra la candela e il buio, rispose lui, e seguì Arya.


Eragon rintracciò Arya seguendo il suo delicato profumo di aghi di pino, il lieve fruscìo prodotto dal contatto dei suoi piedi sul terreno e il mutamento nell'aria lasciato dalla sua scia. La trovò ferma, sola, ai margini di una piccola radura, come una creatura selvatica che osservasse le costellazioni muoversi nel cielo.


Quando Eragon uscì allo scoperto, Arya lo guardò stupita, come se lo vedesse per la prima volta. L'elfa spalancò gli occhi, e sussurrò: «Eragon, sei tu?»


«Sì.»


«Cosa ti hanno fatto?»


«Non lo so.»


Lui si avvicinò, e insieme passeggiarono nella fitta boscaglia, che riecheggiava di musica e voci del festino lontano. Grazie al suo cambiamento, Eragon avvertiva ancora più forte la presenza di Arya, il fruscìo degli abiti sulla sua pelle, il pallido e morbido incavo del collo, e le sue ciglia ricoperte da uno strato d'olio che le rendeva lucide e curve come petali neri bagnati di pioggia.


Si fermarono sulla riva di un piccolo torrente così limpido da essere invisibile nella fioca luce. L'unico indizio che tradiva la sua presenza era il sonoro gorgoglio dell'acqua che scorreva sulle rocce. I pini formavano una specie di grotta con i loro rami, nascondendo Eragon e Arya al mondo e riscaldando l'aria fredda e immobile. L'anfratto sembrava un luogo senza età, come se fosse stato rimosso dal mondo e sottratto, per qualche magia, al soffio inclemente del tempo.


In quel recesso segreto, Eragon si sentì improvvisamente molto vicino ad Arya, e fu travolto dalla passione che nutriva per lei. Era così inebriato dalla forza e dalla vitalità che gli scorrevano nelle vene - come dalla magia incontrollata che riempiva la foresta - che ignorò ogni cautela e disse: «Gli alberi sono alti, le stelle splendenti... e tu sei bellissima, Arya Svit-kona.» In circostanze normali, avrebbe considerato questo atto l'apice della follia, ma in quella notte frenetica e stregata gli parve perfettamente naturale.


Lei s'irrigidì. «Eragon...»


Lui ignorò il suo ammonimento. «Arya, io farei qualsiasi cosa per conquistare il tuo cuore. Ti seguirei in capo al mondo. Ti costruirei un palazzo a mani nude. Ti...»


«Vorrei che la smettessi di corteggiarmi. Me lo prometti?» Quando lui esitò, lei si avvicinò di un passo, e con voce gentile gli disse: «Eragon, questo non è possibile. Tu sei giovane, e io sono vecchia, e questo non potrà mai cambiare.»


«Non provi niente per me?»


«I miei sentimenti per te» rispose lei «sono quelli di un'amica, niente di più. Ti sono grata per avermi salvata a Gil'ead, e trovo piacevole la tua compagnia. Tutto qui... Rinuncia a questa tua ossessione, ti spezzerà il cuore, e trova qualcuna della tua età con cui trascorrere lunghi anni.»


Gli occhi di Eragon luccicarono di lacrime. «Come puoi essere tanto crudele?»


«Non sono crudele, ma gentile. Io e te non siamo fatti l'uno per l'altra.»


Al colmo della disperazione, Eragon cercò di suggerire: «Potresti darmi i tuoi ricordi, e così avrei le stesse tue esperienze e le tue conoscenze.»


«Sarebbe un abominio.» Arya levò il mento, il volto grave e solenne bagnato dal chiarore argenteo delle stelle. Una nota d'acciaio entrò nella sua voce. «Ascoltami bene, Eragon. Questo non può essere, né sarà mai. E se non riuscirai a controllarti, la nostra amicizia dovrà finire, perché le tue emozioni ci distraggono dal nostro dovere.» L'elfa accennò un inchino. «Addio, Eragon Ammazzaspettri.» Detto questo, si allontanò a grandi passi e svanì nella Du Weldenvarden. Ora le lacrime sgorgarono dagli occhi di Eragon, rotolando lungo le guance per cadere sul tappeto di muschio, dove rimasero come perle sparse su un drappo di velluto verde. Stordito, si sedette su di un tronco marcio e si seppellì il volto fra le mani, piangendo perché il suo affetto per Arya era destinato a non essere corrisposto, e perché l'aveva ancor più allontanata da sé.


Dopo qualche istante, Saphira si unì a lui. Oh, piccolo mio, disse, sfiorandolo col muso. Perché ti sei infinto questo tormento? Sapevi a che cosa saresti andato incontro se avessi corteggiato Arya di nuovo.


Non ho potuto farne a meno. Si abbandonò contro il suo ventre tiepido, dondolandosi avanti e indietro, scosso dai singhiozzi per l'immensità della sua tristezza. Coprendolo con un'ala, Saphira lo strinse a sé, come una chioccia fa con il suo pulcino. Lui si rannicchiò contro di lei, lasciandosi cullare mentre la notte diventava giorno e l'Agaetì Blòdhren si avviava alla fine.

Lo sbarco

Roran era a poppa della Cinghiale Rosso, le braccia incrociate sul petto, i piedi divaricati per tenersi in equilibrio sulla chiatta ondeggiante. Il vento salmastro gli arruffava i capelli e la barba e gli solleticava i peli sugli avambracci nudi. Al suo fianco, Clovis governava il timone. Il coriaceo marinaio puntò il dito verso la costa, indicando uno scoglio gremito di gabbiani che si stagliava ai piedi di un promontorio ondulato, proteso sul mare. «Teirm si trova dall'altro lato.»


Roran socchiuse gli occhi contro il riverbero del sole pomeridiano sull'oceano. «Allora fermiamoci qui.» «Non vuoi sbarcare in città?»


«Non tutti insieme. Chiama Torson e Flint, e di' loro di portare le chiatte su quella spiaggia. Mi sembra un buon posto per accamparci.»


Clovis fece una smorfia. «Ah! Speravo tanto in un pasto caldo stasera.» Roran capì; i viveri freschi di Narda erano finiti da un pezzo, e non erano rimasti che il maiale salato, le aringhe affumicate, i cavoli conservati, le gallette che le donne avevano fatto con la farina acquistata, le verdure in salamoia e qualche pezzo di carne avanzato da quando avevano macellato uno dei pochi animali rimasti o una preda uccisa nelle occasioni in cui avevano toccato terra. La voce roca di Clovis risuonò sull'acqua quando chiamò i capitani delle altre due chiatte. Non appena si avvicinarono, ordinò loro di dirigersi a riva, suscitando un coro di proteste. Torson e Flint e altri marinai avevano contato sull'arrivo a Teirm quella sera per scialacquare le loro paghe nei piaceri offerti dalla città. Dopo aver fatto arenare le chiatte, Roran si aggirò fra i compaesani aiutandoli a piantare le tende, a scaricare le provviste, ad attingere acqua da un ruscello vicino, insomma, offrendo il suo aiuto finché tutti non si furono sistemati. Si fermò per rivolgere a Morn e a Tara una parola d'incoraggiamento, perché avevano l'aria depressa, ma in cambio ricevette solo sguardi torvi. L'oste e sua moglie lo avevano tenuto a distanza da quando avevano lasciato la Valle Palancar. Tutto considerato, i contadini erano in condizioni migliori di quando erano arrivati a Narda, perché sulle chiatte si erano riposati, ma le costanti preoccupazioni e l'esposizione agli elementi avevano impedito che recuperassero completamente le forze come Roran aveva sperato. «Fortemartello, vuoi cenare da noi questa sera?» lo invitò Thane.


Roran rifiutò con garbo e si volse, per ritrovarsi faccia a faccia con Felda. Suo marito, Byrd, era stato ucciso da Sloan. La donna fece una rapida riverenza, poi disse: «Posso parlarti un minuto, Roran Garrowsson?»


Lui le sorrise. «Ma certo, Felda. Tutto il tempo che vuoi.»


«Ti ringrazio.» Con espressione furtiva, giocherellò con le frange che orlavano il suo scialle e scoccò un'occhiata alla propria tenda. «Vorrei chiederti un favore. Si tratta di Mandel...» Roran annuì; aveva scelto il figlio maggiore della donna per accompagnarlo a Narda in quel fatàle viaggio durante il quale aveva ucciso i due soldati. Mandel si era comportato in maniera ammirevole, come durante le settimane di navigazione sulla Edeline, dove aveva imparato tutto quello che poteva sul governo di una chiatta.


«Ha stretto amicizia con i marinai della nostra chiatta e ha cominciato a giocare a dadi con loro. Non per soldi - non ne abbiamo - ma per piccoli oggetti. Cose che ci servono.»


«Gli hai chiesto di smettere?»


Felda si avvolse una frangia intorno al dito. «Ho paura che da quando suo padre è morto non mi rispetti più come un tempo. È diventato un selvaggio, un barbaro.»


Ci siamo tutti imbarbariti, pensò Roran. «E cosa vuoi che faccia?» le chiese con dolcezza.


«Tu sei sempre stato generoso con Mandel. Lui ti ammira. Se gli parlerai, a te darà ascolto.»


Roran riflettè sulla richiesta, poi disse: «D'accordo, vedrò di fare il possibile.» Felda rilassò le spalle, sollevata. «Dimmi. Che cosa ha perso ai dadi?»


«Soprattutto cibo.» Felda esitò, poi aggiunse: «Ma so che una volta ha scommesso il braccialetto di mia nonna contro un coniglio che quegli uomini avevano catturato.»


Roran si accigliò. «Non darti pena, Felda. Mi occuperò della faccenda quanto prima.»


«Grazie.» Felda s'inchinò di nuovo, poi si allontanò fra le tende, lasciando Roran a meditare sulle sue parole. Camminava grattandosi la barba, e riflettendo sul problema di Mandel e i marinai, una questione a doppio taglio; Roran aveva notato che durante il viaggio da Narda, uno degli uomini di Torson, Frewin, si era invaghito di Odele, una delle amiche di Katrina. Potrebbero causarci problemi quando lasceremo Clovis.


Attento a non attirare troppo l'attenzione, Roran percorse l'accampamento, chiamò i compaesani di cui si fidava di più, e si fece accompagnare da loro nella tenda di Horst, dove disse: «I cinque che abbiamo stabilito partiranno subito, prima che sia troppo tardi. Horst prenderà il mio posto mentre sono via. Ricordate che il vostro compito più importante è quello di garantire che Clovis non parta con le chiatte o non le danneggi in alcun modo. Potrebbero essere il nostro unico mezzo per raggiungere il Surda.»


«Questo, e assicurarci di non essere scoperti» aggiunse Orval.


«Esatto. Se nessuno di noi sarà tornato per dopodomani sera, dateci per catturati. Prendete le chiatte e puntate verso il Surda, ma non fermatevi a Kuasta a comprare provviste; l'Impero probabilmente sarà lì in attesa. Dovrete trovare cibo da qualche altra parte.»


Mentre i suoi compagni si preparavano, Roran si recò nella cabina di Clovis sulla Cinghiale Rosso. «Andate soltanto voi cinque?» chiese Clovis, dopo che Roran gli ebbe spiegato il piano.


«Sì.» Roran tenne il suo sguardo d'acciaio fisso sul capitano, finché l'uomo non si mosse a disagio. «E quando torno, mi aspetto di trovare te, le chiatte e tutti i tuoi uomini ancora qui.»


«Osi mettere in dubbio il mio onore, dopo che ho tenuto fede al nostro accordo?»


«Non metto in dubbio niente, ti dico soltanto quello che mi aspetto. La posta in gioco è troppo alta. Se mi tradisci adesso, condanni a morte l'intero villaggio.»


«Lo so, questo» mormorò Clovis, evitando il suo sguardo.


«La mia gente si difenderà durante la mia assenza. Finché avranno un soffio di fiato nei polmoni, non si faranno prendere, ingannare o abbandonare. E se per caso capitasse loro qualche disgrazia, li vendicherò, dovessi camminare per mille leghe e affrontare Galbatorix in persona. Tieni a mente le mie parole, mastro Clovis, perché dico sul serio.» «Non nutro simpatìe per l'Impero come tu sembri credere» protestò Clovis. «Non gli farei un favore, come non lo farei al primo che passa.»


Roran sorrise, amaro. «Un uomo farebbe di tutto per proteggere la sua famiglia e la sua casa.»


Mentre Roran apriva la porta, Clovis gli chiese: «E cosa farai quando raggiungerai il Surda?»


«Noi abbiamo...»


«Non noi; tu. Cosa farai tu? Ti ho osservato, Roran. Ti ho ascoltato. E mi sembri un brav'uomo, malgrado il trattamento che mi hai riservato. Ma non riesco a immaginare che lasci il martello per riprendere l'aratro, solo perché sei arrivato nel Surda.»

Roran strinse la maniglia tanto da far sbiancare le nocche. «Quando avrò condotto il villaggio sano e salvo nel Surda» disse, con voce piatta come una landa desolata, «allora andrò a caccia.»


«Ah. In cerca della tua bella dai capelli rossi? Ne ho sentito parlare, ma io non...»


La porta si chiuse con un tonfo alle spalle di Roran.


Fuori dalla cabina, lasciò che la collera divampasse dentro di lui, assaporando la libertà dell'emozione, poi riprese il controllo delle sue indomabili passioni. Marciò spedito verso la tenda di Felda, dove Mandel stava scagliando un coltello da caccia contro un ciocco.


Felda ha ragione; qualcuno deve rimetterlo in riga. «Stai perdendo tempo» disse Roran.


Mandel si volse di scatto, sorpreso. «Perché?»


«In una vera battaglia, è molto più probabile che ti cavi un occhio piuttosto che ferire il tuo nemico. Se non conosci l'esatta distanza fra te e il tuo bersaglio...» Roran si strinse nelle spalle. «Faresti meglio a tirare sassi.» Guardò con pacato distacco il giovanotto che si gonfiava d'orgoglio. «Gunnar mi ha detto che conosceva un uomo a Cithrì che riusciva a colpire un corvo in volo otto volte su dieci.»


«E le altre due ti farai ammazzare. Di norma è una pessima


idea scagliare via la tua arma in battaglia.» Roran alzò una mano, come a prevenire le obiezioni di Mandel. «Fai i bagagli e trovati sulla collina oltre il torrente fra quindici minuti. Ho deciso che verrai con noi a Teirm.»


«Sissignore!» Con un ghigno entusiasta, Mandel sgusciò nella tenda e cominciò a prepararsi.


Nell'allontanarsi, Roran incontrò Felda che teneva in braccio, posata sul fianco, la figlia più piccola. Felda guardò prima lui, poi Mandel indaffarato nella tenda, e la sua espressione s'incupì. «Veglia su di lui, Fortemartello.» Posò la bambina a terra e andò ad aiutare Mandel.


Roran fu il primo ad arrivare sulla collina dell'appuntamento. Si accovacciò su un masso bianco a contemplare il mare, preparandosi alla missione che lo aspettava. Quando arrivarono Loring, Gertrude, Brigit e Nolfavrell, il figlio di Brigit, Roran saltò giù dal masso e disse: «Dobbiamo aspettare Mandel; verrà con noi.» «Per quale motivo?» chiese Loring. Anche Brigit restò perplessa. «Credevo avessimo deciso che non doveva accompagnarci nessun altro. Soprattutto non Mandel, che è già stato visto a Narda. Già è pericoloso che ci siate tu e Gertrude, e la presenza di Mandel non fa che accrescere il rischio di venire riconosciuti.»


«È un rischio che devo correre.» Roran guardò gli altri uno per uno. «È necessario che venga.» Alla fine lo ascoltarono, e una volta arrivato anche Mandel, i sei s'incamminarono verso sud, alla volta di Teirm.

Teirm

In quella zona, la costa era un susseguirsi di basse colline ondulate, rigogliose d'erba verdeggiante e punteggiate da pruni, salici e pioppi. Il terreno molle cedeva sotto i loro piedi e rendeva difficile il cammino. Alla loro destra scintillava il vasto oceano. A sinistra correva il profilo violetto della Grande Dorsale. Le vette innevate erano orlate di nuvole e foschia.


Mentre superavano le proprietà che circondavano Teirm


- alcune piccole fattorie, altre vaste tenute - fecero di tutto per passare inosservati. Quando incontrarono la strada che collegava Narda a Teirm, l'attraversarono di corsa e proseguirono a est, verso le montagne, per parecchie miglia, prima di dirigersi di nuovo a sud. Una volta sicuri di aver aggirato la città, puntarono verso l'oceano fino a incrociare la strada che da sud conduceva a Teirm.


Durante i giorni trascorsi a bordo della Cinghiale Rosso, Roran aveva riflettuto che gli ufficiali di Narda dovevano aver intuito che chiunque avesse ucciso i due soldati era fra gli uomini partiti sulle chiatte di Clovis. In questo caso avrebbero avvertito i soldati di stanza a Teirm di stare attenti a chi corrispondeva alle descrizioni. E se i Ra'zac erano stati a Narda, allora i soldati avrebbero saputo anche che non cercavano una semplice banda di assassini, ma Roran Fortemartello e i profughi di Carvahall. Teirm poteva rivelarsi un'enorme trappola. Tuttavia dovevano per forza passare dalla città, poiché il villaggio aveva bisogno di fare scorta di cibo e di trovare un nuovo mezzo di trasporto. Roran aveva deciso che la migliore precauzione contro un'eventuale cattura era non mandare a Teirm nessuno che fosse già stato visto a Narda, tranne Gertrude e se stesso: Gertrude perché era l'unica che conosceva gli ingredienti per le sue medicine, e se stesso perché, malgrado fosse il più facilmente riconoscibile, non si fidava di nessun altro per fare quello che andava fatto. Sapeva di possedere la volontà e la forza di agire laddove altri avrebbero esitato, come quando aveva ucciso le guardie. Il resto del gruppo era stato scelto per non destare sospetti. Loring era vecchio, ma era anche un valoroso combattente e un eccellente bugiardo. Brigit si era dimostrata scaltra e forte, e suo figlio Nolfavrell aveva già ucciso un soldato in uno scontro, nonostante la sua tenera età. Nella migliore delle ipotesi, li avrebbero scambiati per una famiglia numerosa che viaggiava insieme. Se non fosse per Mandel, che scombina il quadretto, pensò Roran. Era stata un'idea di Roran anche quella di entrare a Teirm da sud, per depistare chi si fosse aspettato il loro arrivo da Narda.


La sera era vicina quando arrivarono in vista di Teirm, bianca e spettrale nella luce del crepuscolo. Roran si fermò per osservarla meglio. La città fortificata si affacciava su una profonda baia, protetta e inaccessibile da qualsiasi attacco. Le torce ardevano fra i merli del cammino di ronda, dove soldati armati di arco pattugliavano la cinta muraria. Oltre le mura si ergeva la cittadella, e poi un faro dai vetri sfaccettati che proiettava il suo fascio di luce sulle acque scure. «È grandissima» mormorò Nolfavrell.


Loring annuì, senza staccare gli occhi da Teirm. «Già, enorme.»


L'attenzione di Roran fu catturata da una nave ormeggiata a uno dei moli di pietra che sporgevano dalla città. Il veliero a tre alberi era più grande delle navi che aveva visto a Narda, con un alto castello di prua, due ordini di remi e dodici potenti baliste montate su ciascuna fiancata per scagliare giavellotti. Il magnifico vascello dava l'impressione di essere adatto sia al commercio che alla guerra. Ancor più importante era che sembrava - sembrava - in grado di trasportare l'intero villaggio.

Загрузка...