Nel corso di una carriera ormai trentennale (l'esordio risale al 1956 con il racconto «The Pint-Sized Genie»), Kate Wilhelm ha sviluppato con straordinaria coerenza un proprio universo speculativo, assegnando un ruolo centrale all'indagine sulla nostra realtà di esseri umani. Questa consapevolezza delle potenzialità della SF di interrogare noi stessi, di proiettare timori e speranze attraverso prospettive che si aprono su altri tempi ed altri luoghi ma solo per tornare al qui-e-ora con una visione più chiara, si unisce ad un approccio che fin dalle prime opere è di tipo «letterario». Infatti, come si legge in un suo articolo, la Wilhelm fu conquistata dalla SF perché in essa «venivano espressi in forma narrativa gli stessi argomenti che erano oggetto delle mie riflessioni, e si trattava di argomenti relativi alla filosofia, all'origine della vita, all'origine dei sistemi planetari, alla vita dopo la morte, all'esplorazione della mente, del cervello, e così via. Tutti questi temi si potevano ritrovare nella SF ed era questo che più mi attraeva (…) Volevo saperne di più su di noi, sulle nostre origini, sulle relazioni con gli altri». Una particolare sensibilità le ha quindi permesso di adeguare gli strumenti e le risorse della SF ai fini di una personale indagine su questi temi. Il fascino della sua narrativa non si esaurisce nell'invenzione brillante o sensazionale, che invece è sempre lo spunto per stabilire un confronto, cogliere una rivelazione inaspettata o una semplice intuizione sulla nostra identità psichica o culturale. Da questa prospettiva si è sviluppato un arco tematico che troviamo già delineato nei racconti della sua prima antologia, The Mile-Long Spaceship (1963), e che poi è rimasto sostanzialmente immutato fino alla sintesi operata con ì suoi romanzi più significativi: Gli Eredi della Terra (Where Late the Sweet Birds Sang, 1976) e Il tempo del ginepro (Juniper Time, 1979).
L'ostinata ricerca di una definizione di «umanità» si attua con un procedimento di contrasto, puntando l'attenzione su ciò che umano non è, e dunque sull'alieno, che tuttavia non è solo la creatura che irrompe dall'esterno, da mondi lontani, ma soprattutto l'alieno creato dall'uomo con procedimenti meccanici o biologici, e quindi sua estensione, sviluppo imprevisto o «doppio» organico: le creature artificiali, i mutanti, i cloni. Inoltre, allorché la Wilhelm scopre nell'individualismo e in una natura incontrollabile e imprevedibile alcune delle prerogative umane, ecco che il contrasto si pone con organizzazioni sociali conformiste, razionali e «perfette». La presenza del tema distopico si lega inoltre a strategie «disumane» di manipolazione della realtà e del nostro futuro, inganni e ambiguità che impediscono scelte consapevoli e inequivocabili. Le storie e gli scenari di «catastrofe» (sia essa naturale o provocata dall'uomo) appaiono in questo senso perfettamente adeguati agli intenti speculativi della Wilhelm, non solo perché rappresentano l'esito di una progressiva degenerazione ambientale e morale, ma perché consentono di focalizzare le reazioni umane di fronte al pericolo, all'ignoto, alle insostenibili pressioni psicologiche, dalle quali non può che scaturire una ricerca di salvezza, che è al contempo un percorso interiore di auto-rivelazione. La sopravvivenza fisica, come emerge chiaramente ne Il tempo del ginepro, non può essere disgiunta dalla sopravvivenza psichica.
Ora ai nostri lettori è offerta l'opportunità di riscoprire un altro capolavoro della Wilhelm, Gli eredi della Terra, la cui fama è certo accresciuta dal fatto di aver vinto il Premio Hugo (in un'edizione, tra l'altro, dove i concorrenti erano opere del calibro di Uomo più di Frederik Pohl, Ponte mentale di Joe Haldeman, I figli di Dune di Frank Herbert e Shadrach nella fornace di Robert Silverberg) ma che è diventato un «classico» per meriti intrinseci: il mirabile incrocio di temi, profondamente radicati nell'immaginario SF, l'intensità dei personaggi, lo stile che alterna momenti poeticamente trasognati ad altri di lucida essenzialità, e soprattutto un discorso narrativo nel quale filtrano squarci di un serrato dibattito interiore, trasfigurati dal fitto intreccio di materiali simbolici.
Non c'è dubbio che si tratti di uno dei romanzi più affascinanti sul tema della clonazione (ovvero la riproduzione di un gruppo di organismi da un unico capostipite per via asessuata), la cui efficacia non è dovuta però alle sue ramificazioni scientifico-estrapolative, ma nel porsi come elemento di contrasto, e quindi di riflessione sulle possibili implicazioni sociali e psicologiche. Il romanzo si costruisce infatti su di una catena di opposizioni tra vari personaggi e identità sociali, che rispecchiano ambiguità più profonde. Mentre la civiltà è in progressiva dissoluzione, la famiglia Sumner intraprende un coraggioso programma di clonazione, destinato ad assicurare la sopravvivenza della propria comunità e dell'intera specie umana. Ma i cloni sfuggono al controllo, edificando una società collettivistica che lentamente soppianta quella dei loro creatori-capostipiti. Il dualismo più evidente è quello tra umano e alieno, poiché i cloni subito appaiono in tutta la loro inquietante diversità. È difficile pensare ad un'immagine che meglio possa esprimere una tale carica di drammatica e dolorosa ambiguità: siamo in presenza di creature generate dall'uomo, il cui aspetto esteriore è fin troppo noto, poiché si tratta di autentici doppi, immagini speculari e moltiplicate dei loro artefici, eppure la loro natura è irrimediabilmente estranea: «familiari e alieni, conosciuti e inconoscibili». La loro indole è fredda e razionale, ed appaiono incapaci di vivere come individui; sono fisicamente perfetti, ma privi di una dimensione interiore o di una sensibilità che non obbedisca agli impulsi di una mente collettiva. Come afferma David, protagonista della prima parte del romanzo, «c'è qualcosa che manca in tutti loro, una zona morta» e il loro volto è una «maschera indistinta», oppure, come ribadisce Molly nel secondo episodio, «i loro occhi (…) guardano soltanto verso l'esterno, mentre ì tuoi, e quelli degli altri uomini, in queste immagini, possono guardare sia verso l'esterno sia verso l'interno». Tuttavia, questa netta contrapposizione sì presta ad ironiche ambiguità. Infatti, se la comunità dei cloni e la loro incapacità di vivere isolati è percepita come negativa, d'altro canto è proprio una salda identità di gruppo che ha permesso alla famiglia Sumner di salvarsi e di programmare il futuro: una scelta individuale avrebbe forse condotto alla morte. Emerge quindi un'opposizione più profonda tra individuo e collettività, allorché i cloni definiscono il loro progetto utopico: «la prima vera società senza classi sociali», espressione di una eguaglianza prodotta scientificamente. La soppressione dell'ego viene sancita per legge: «Non esiste l'individuo, esiste soltanto la comunità. Quello che è giusto per la comunità, lo è fino alla morte per l'individuo. Non vi è l'uno, ma solo il tutto». Il conflitto con i capostipiti umani è inevitabile ed il passo verso l'incubo totalitario assai breve. Questa dialettica è resa pregnante dalla lucida struttura che la Wilhelm offre all'intera vicenda, organizzata in tre episodi che a distanza di tempo e con esiti diversi ripropongono però gli stessi dilemmi. Nella prima parte lo scontro è aperto, e David, uno degli artefici del programma di clonazione, viene costretto all'esilio. Nel secondo episodio, invece, il conflitto è interiorizzato dal personaggio di Molly. Nata come clone, e quindi «aliena», scopre tuttavia la propria individualità «umana» nel viaggio alla volta di Washington sul fiume Shenandoah, esperienza reale e itinerario simbolico di individuazione. Ella è inoltre guidata dalla forza intuitiva dell'arte, ma la scoperta della dimensione interiore e dell'unità della coscienza è pagata con l'isolamento e con l'esilio dalla comunità. Nella parte conclusiva, toccherà al giovane Mark rovesciare i termini del rapporto, rifondando una comunità libera e non conformista, lasciando che la società dei cloni scivoli verso un'inevitabile regressione. Privi della facoltà di «astrarre, fantasticare, generalizzare», insomma di adattarsi, incapaci di abbandonare i confini rassicuranti della vallata e di scoprire l'unità dell'essere, costoro rimangono solo parzialmente umani, e quindi la loro utopia collettivistica fatalmente crolla.
Le affascinanti simmetrie istituite dagli eventi e dalle vicende individuali sono rafforzate, come si accennava, dalla presenza di un ricco tessuto simbolico. Decisivo è il ruolo dell'ambiente naturale (tra cui spicca l'immagine della foresta), trasparente simbologia dell'inconscio, e nel quale infatti si compie il destino reale e psichico dei protagonisti. L'abbraccio protettivo e minaccioso, familiare ed arcano del paesaggio si ritrova inoltre nella presenza dominante dello Shenandoah, il fiume che guida i personaggi alla conoscenza di un passato di distruzione ed alla scoperta della loro identità. E altri ancora sono gli elementi che si possono cogliere in questo romanzo che affascina e coinvolge a più livelli perché, come tutta la narrativa della Wilhelm, sa parlarci non solo attraverso la logica razionale degli eventi, ma con un linguaggio più profondo in cui affiorano all'improvviso immagini e significati riposti che interrogano direttamente la nostra coscienza.
Piergiorgio Nicolazzini