Robert Silverberg Gli osservatori

CAPITOLO PRIMO

L’esplosione fu un bagliore lancinante che si stagliò contro lo sfondo oscuro del cielo illune del Nuovo Messico. Per coloro che in quel preciso momento guardavano in alto — e successe a molti, di guardare in alto — fu come se fosse momentaneamente sbocciata una nuova stella di una incandescenza bianco-azzurra.

Il bagliore si spostò seguendo un percorso da nordest verso sud ovest. Balenando aumentò d’intensità sulle montagne sacre ad oriente di Taos, e divenne ancor più vivido mentre tracciava una scia approssimativamente al di sopra della valle del Rio Grande, sorvolando i piccoli villaggi polverosi e la laboriosa città di Santa Fe. Proprio a sud di Santa Fe il bagliore si fece insopportabile, e l’improvviso bruciore alle retine costrinse gli osservatori a distogliere gli occhi. Ma subito la fase acuta scemò. Quella vampata ardente si stava consumando da sola, oppure erano le luci della sottostante Albuquerque ad offuscarne l’intensità? Non ha importanza. L’arco luminoso saettò al di là di Isleta Pueblo ed andò a perdersi chissà dove oltre la Mesa del Oro.

Tornò il buio, invadendo nuovamente il cielo del Nuovo Messico come una marea crescente.

Nella vasta piazza del villaggio di San Miguel, sessanta chilometri a sud di Santa Fe, Charley Estancia si stropicciò un attimo gli occhi, per far passare il dolore, e con una smorfia sollevò lo sguardo verso la nera cappa della notte.

— Una stella cadente! — esclamò con la sua vocetta acuta. — Una stella cadente! Bella! Bella! — Rise. Charley aveva undici anni, era magro e sudicio in volto, ed aveva visto spesso le scie irregolari lasciate dalle meteore nel loro tragitto attraverso il cielo. Sapeva che cos’erano, anche se nessun altro, nel villaggio, lo sapeva. Ma Charley non ne aveva mai vista una simile prima d’allora. Sentiva ancora nella testa quel suo rumore sfrigolante, e quella abbagliante linea bianca rimase anche dopo che ebbe sbattuto più volte gli occhi.

Molti altri nel villaggio avevano visto. La piazza era affollatissima, quella sera, perché la settimana successiva ci sarebbe stata la danza della Società del Fuoco, e molti bianchi sarebbero venuti dalle città per assistere, per scattare fotografie e, forse, per spendere del denaro. Charley Estancia udì le esclamazioni soffocate e vide le braccia puntate dei suoi zii, dei suoi cugini e delle sue sorelle.

Maiyanyi! — esclamò qualcuno. — Spiriti!

Nella piazza cominciarono ad incrociarsi discorsi sui demoni, bisbigli sulla magia nera, ed angosciate esclamazioni di dubbio e di paura. Charley vide due dei suoi zii materni lanciarsi verso il piccolo e rotondo edificio senza finestre chiamato kiva, dove si svolgevano le cerimonie, ed arrampicarsi rapidamente lungo la scaletta per rifugiarsi all’interno. Vide sua sorella Rosita tirar fuori il crocifisso che pendeva tra i suoi seni e portarselo concitatamente contro la guancia, quasi si trattasse di una specie di amuleto. Vide Juan, fratello di suo padre, che si faceva il segno della croce, ed altri tre uomini che si precipitavano dentro il kiva. Adesso tutti parlavano di spiriti. Il villaggio brulicava di antenne televisive, ed automobili lucenti erano parcheggiate accanto alle case di mattoni cotti al sole, ma bastava una semplice stella cadente per fare impazzire chiunque di una folle e superstiziosa paura. Charley prese a calci il terreno polveroso. Sua sorella Lupe gli passò accanto di corsa, con l’aria atterrita. Allungò una mano e le strinse il polso sottile.

— Dove stai andando?

— In casa. Nel cielo ci sono i dèmoni!

— Certo. Stanno arrivando i kachinas. Faranno la danza della Società del Fuoco perché noi non siamo più capaci di farla come si deve — disse Charley, e scoppiò a ridere.

Lupe non era dell’umore adatto per apprezzare l’ironia di Charley. Si divincolò per liberarsi dalla sua stretta. — Lasciami! Lasciami! — Aveva dodici anni, ed era solo una ragazzina, ma era molto più forte di lui. Gli piantò una mano in mezzo al petto ossuto e spinse forte, tirando contemporaneamente il braccio per sottrarlo alla sua presa. Charley cadde all’indietro e giacque nella polvere, fissando il cielo che ormai era ritornato normale. Lupe fuggì di corsa, singhiozzando. Charley scrollò la testa. Pazzi, tutti quanti. Pazzi di paura, pazzi di religione. Ma perché non dovevano usare il cervello? Perché dovevano continuare a comportarsi sempre come degli indiani? Eccoli lì, che correvano dappertutto come matti, sparpagliando la farina, farfugliando preghiere le cui parole erano per loro semplici suoni senza significato, affollando il kiva, precipitandosi verso la chiesa!

— Una stella cadente! — gridò Charley. — Nulla di cui aver paura! Solo una grossa stella cadente!

Come al solito, nessuno gli badò. Lo ritenevano un po’ svitato, un ragazzetto smilzo con la testa piena dei sogni e delle idee dei bianchi. La sua voce andò perduta nel vento notturno. Si rimise in piedi, rabbrividendo, e si passò le mani sui jeans per toglierne la polvere. Tutto quel panico superstizioso sarebbe stato anche divertente, se non fosse stato così triste.

Ah! Ecco il padre! Charley sorrise.

Il prete uscì dalla chiesetta imbiancata e sollevò entrambe le braccia in quello che, secondo Charley, voleva essere un gesto di conforto. Poi gridò in spagnolo: — Non abbiate paura! Va tutto bene! Venite tutti in chiesa, e state tranquilli!

Alcune donne si diressero verso la chiesa. La maggior parte degli uomini era invece dentro il kiva, ormai, e, naturalmente, le donne non potevano accedervi. Charley osservò il prete. Padre Herrera era un ometto calvo che era venuto da El Paso qualche anno prima, dopo la morte del vecchio prete. E qui aveva i suoi problemi. Tutti a San Miguel erano cattolici romani, ma tutti credevano anche nell’antica religione del «pueblo», e in un certo senso nessuno era veramente religioso. Perciò in quel momento di panico la gente correva in tutte le direzioni, e ben pochi verso la chiesa di Padre Herrera, il che a lui non faceva troppo piacere.

Charley si avvicinò al prete. — Che cos’è stato, padre? Una stella cadente, no?

Il prete si illuminò. — Forse un segno del Cielo, Charley.

— Io l’ho vista con questi occhi! Una stella cadente!

Padre Herrera lo gratificò di un sorriso fugace e vacuo, poi si allontanò, dedicandosi al compito di guidare il suo gregge spaventato nella casa del Signore. Charley si rese conto di essere stato congedato. Il prete aveva detto una volta a Rosita Estancia che il suo fratello più giovane era un’anima dannata, e Charley lo era venuto a sapere. In un certo senso, ne era rimasto piuttosto lusingato.

Charley sollevò speranzosamente gli occhi al cielo. Ma non c’erano più stelle cadenti. Ormai la piazza era vuota; le dozzine di indiani che l’avevano affollata solo pochi minuti prima avevano trovato un rifugio. Charley guardò allora davanti a sé, verso il negozio di articoli da regalo. La porta si aprì, e ne uscì Marty Moquino, con in mano una bomboletta di liquore vaporizzato, ed una sigaretta a penzoloni all’angolo della bocca.

— Dove sono andati a finire tutti quanti? — domandò Marty Moquino.

— Sono scappati via. Spaventatissimi. - Charley soffocò una risatina. — Avresti dovuto vedere come correvano!

Aveva un po’ paura di Marty Moquino, e lo disprezzava alquanto, ma nello stesso tempo Charley lo considerava come un uomo che aveva fatto molte cose e girato molti luoghi. Marty aveva diciannove anni. Due anni prima aveva lasciato il villaggio ed era andato a vivere ad Albuquerque, e si diceva addirittura che fosse giunto fino a Los Angeles. Era un burlone, un rompiscatole, ma aveva vissuto più di chiunque altro della zona nel mondo dei bianchi. Adesso Marty era ritornato perché aveva perso il lavoro. Si vociferava in giro che facesse l’amore con Rosita Estancia, e Charley lo detestava per questo; eppure sentiva di avere molto da imparare da Marty Moquino. Anche Charley sperava di potersene andare, un giorno, da San Miguel.

Rimasero insieme in mezzo alla piazza vuota, Charley piccolo e magro, Marty alto e magro. Marty gli offrì una

sigaretta. Charley la prese e ne fece scattare abilmente il cappuccio d’accensione. Si sorrisero l’un l’altro come due fratelli.

— L’hai vista? — domandò Charley. — La stella cadente?

Marty annuì, e si spruzzò in bocca un po’ di whisky dalla bomboletta spray. — Ero fuori, sul retro — disse dopo un attimo. — L’ho vista. Ma non era una stella cadente.

— Erano i kachinas che ci venivano a trovare, eh?

Ridendo, Marty disse: — Ragazzo, non sai cos’era quell’affare? Non si è mai vista una stella cadente come quella. Era un disco volante che è esploso sopra Taos!


Kathryn Mason vide la luce nel cielo solo per caso. Di solito, in quelle buie notti invernali, dopo il tramonto se ne stava dentro casa. La casa era calda e luminosa, con tutte le apparecchiature elettroniche che ronzavano sommessamente, ed a lei piaceva starci. Al di fuori poteva nascondersi qualsiasi cosa. Qualsiasi. Ma erano ormai tre giorni che il gattino di sua figlia mancava da casa, e si trattava della più grossa crisi familiare dei Mason da un bel po’ di tempo a questa parte. A Kathryn era sembrato di udire dei flebili miagolii provenire dall’esterno. Ritrovare il gattino era più importante, per lei, che restarsene chiusa dentro, nell’accogliente protezione della sua casa automatica.

Uscì di corsa, sperando contro ogni logica di vedere quel batuffolo bianco e nero che grattava contro lo stuoino. Invece non c’era alcun gattino, là fuori; poi, ad un tratto, una striscia di luce saettò attraverso il cielo.

Lei non aveva modo di sapere che aveva già incominciato a scemare d’intensità. Era la cosa più luminosa che avesse mai visto in cielo, così luminosa che istintivamente si tappò gli occhi con le mani. Un attimo dopo, tuttavia, le tolse e si costrinse ad osservare mentre l’oggetto completava la sua traiettoria infuocata.

Che cosa poteva essere?

La mente di Kathryn fornì una risposta immediata: era la scia di un jet dell’Aeronautica che era esploso, uno dei giovanotti della base di Kirtland, presso Albuquerque, destinato a morte certa nel suo volo di addestramento. Naturalmente. Naturalmente. E stanotte ci sarebbe stata una nuova vedova da qualche parte, ed un nuovo gruppo di familiari in lutto. Kathryn fu scossa da un brivido. Con sua stessa sorpresa, stavolta le lacrime non vollero venire.

Seguì il tracciato luminoso. Lo guardò curvare verso sud, verso il centro di Albuquerque, e poi lo vide scomparire, perdersi nella diffusa luminosità che si levava dalla città. Istantaneamente Kathryn ipotizzò una nuova catastrofe, poiché nel suo mondo privato c’era sempre qualche catastrofe a portata di mano. Vide il jet fiammeggiante che piombava a mach-tre nella Central Avenue, sconquassando una dozzina di strade, mietendo un migliaio di vittime, facendo esplodere le tubature del gas con violenza vulcanica. Ululati di sirene, grida di donne, ambulanze, carri funebri…

Reprimendo l’attacco isterico — che sapeva essere una cosa stupida — cercò con più calma di ricostruire ciò che aveva appena visto. Adesso la luce era sparita, ed il mondo era tornato ad essere il solito mondo sempre uguale della sua improvvisa, virginale vedovanza. Le sembrò di udire in distanza un’esplosione soffocata, come di qualcosa che fosse precipitato al suolo. Ma la sua esperienza in fatto di Aeronautica Militare le disse che quella gigantesca scia di luce nel cielo non poteva essere un jet esploso, a meno che non si trattasse di modelli sperimentali con caratteristiche ancora ignote al pubblico. Aveva visto un paio di volte dei jet che esplodevano, e facevano solo una enorme fiammata, ma nulla di simile a quella scia.

E allora di che si trattava? Un razzo intercontinentale, magari, con un carico di cinquecento passeggeri destinati ad una morte tra le fiamme?

Le tornò alla mente la voce di suo marito che diceva: — Ragionaci bene, Kate. Ragiona. — Glielo aveva ripetuto molte volte, prima di rimanere ucciso. Kathryn cercò di ragionare. Il bagliore era venuto dal nord, da Santa Fe o da Taos, e si era mosso verso sud. I razzi intercontinentali seguivano rotte est-ovest. A meno che uno di essi non fosse stato nettamente fuori rotta, la sua teoria crollava. E poi non era pensabile che i razzi potessero andare fuori rotta. I sistemi di guida erano infallibili. Ragiona, Kate, ragiona. Forse un missile cinese? Era dunque scoppiata la guerra, infine? Ma in tal caso avrebbe dovuto vedere la notte trasformata nel giorno. Avrebbe dovuto sentire la terribile esplosione della bomba a fusione che disintegrava il Nuovo Messico. Ragiona… una specie di meteora, magari? E perché non un disco volante, giunto per atterrare a Kirtland? In quei giorni si parlava tanto dei dischi volanti. Creature dallo spazio, si diceva, che ci osservano, che ci spiano e si interessano di noi. Uomini verdi con tentacoli fibrosi ed occhi a palla? Kathryn scrollò il capo. Forse diranno qualcosa alla televisione, pensò.

Adesso il cielo sembrava tranquillo, come se non fosse accaduto assolutamente nulla.

Si strinse lo scialle attorno al corpo. Di notte, sul limitare del deserto, il vento soffiava forte, come se provenisse direttamente dal Polo. Kathryn viveva nella casa più settentrionale della sua circoscrizione; poteva guardare fuori e vedere a perdita d’occhio soltanto l’arida distesa di assenzio e di sabbia. Quando lei e Ted avevano comperato la casa, due anni prima, l’agente le aveva detto solennemente che di lì a poco sarebbero state costruite delle altre case più a nord della loro. Non era stato così. Problemi finanziari, mancanza di denaro, qualcosa del genere, e così Kathryn viveva ancora sul confine tra il qualcosa ed il nulla. A sud c’era la città di Bernalillo, un sobborgo di Albuquerque, e la civiltà si stava estendendo in una striscia sempre più ampia lungo la Superstrada 25 da Albuquerque fino a lì. Ma verso nord non c’era nulla: solo terra sconfinata piena di coyotes e di Dio solo sapeva che altro. Con tutta probabilità i coyotes avevano divorato il gattino di sua figlia. Al ricordo del gattino, Kathryn strinse i pugni e tese ancora una volta l’orecchio, per udire i deboli suoni che l’avevano inizialmente fatta uscire di casa.

Nulla. Udì soltanto il frusciare del vento, o forse l’ironico cantilenare dei coyotes. Sollevò cautamente lo sguardo al cielo, poi, di scatto, si voltò e rientrò in casa, chiuse la porta, girò la chiave, premette il pollice sull’interruttore del sistema di allarme ed attese che la centrale le desse il segnale di ricevuto. Era bello essere dentro quella casa così accogliente e ben illuminata. Le era piaciuta, all’inizio, finché Ted era stato vivo. Adesso, la cosa migliore che poteva fare era quella di non arrendersi, sbarrare la porta alla morte, ed aspettare che il torpore della vedovanza l’abbandonasse. Aveva solo trent’anni. Troppo giovane per rimanere intorpidita per sempre.

Una vocetta assonnata: — Mamma, dove sei?

— Sono qui, Jilly. Qui.

— Hai trovato Miciolino?

— No, cara.

— Perché sei andata fuori?

— Per dare un’occhiata.

— Miciolino è andato a cercare papà, mammina?

Quelle parole la colpirono come una pugnalata. Kathryn entrò nella stanza da letto della figlia. La bambina era nel suo letto, calda e ben coperta, con l’occhio dorato del dispositivo di controllo che la scrutava solennemente dall’alto. Pur non avendo ancora tre anni, Jill era capace di arrampicarsi sopra le sbarre del lettino, ma non di atterrare senza farsi male, e così Kathryn lasciava ancora in funzione il baby-monitor, l’attento guardiano elettronico. Dopo il compimento del secondo anno di vita, non si sarebbe più dovuto usare, ma Kathryn non voleva rinunciare a quella ulteriore sicurezza.

Kathryn accese la lampada notturna. Jill sbatté le palpebre. Aveva i capelli neri ed i lineamenti delicati del padre. Un giorno sarebbe stata bellissima, non una ragazza scialba come sua madre, e di questo Kathryn gli era riconoscente. Ma a che cosa serviva, se Ted non era vissuto abbastanza a lungo per vederla? Disperso in un’azione in Siria nel corso dell’Offensiva di Pace del 1981. Che c’entrava lui con la Siria? Perché una terra straniera le aveva portato via l’unica cosa che contava?

Correzione: quasi l’unica cosa.

— Miciolino ritroverà papà e lo farà ritornare? — domandò Jill.

— Lo spero, tesoro. Adesso dormi e sogna il tuo Miciolino. E papà.

Kathryn armeggiò con il quadro comandi del monitor, predisponendolo per una leggera vibrazione nel materasso della bambina. Jill sorrise. I suoi occhi si chiusero. Kathryn abbassò la luce, poi la spense del tutto. Tornando in soggiorno decise di vedere se il notiziario TV delle otto diceva qualcosa a proposito di quell’affare nel cielo. «I dischi volanti sono atterrati…» o roba del genere. Posò la mano a coppa sul pomo sporgente dalla parete, ed il video si illuminò vividamente. Appena in tempo.

«… rapporti da Taos ed ancora più a sud da Albuquerque. È stata osservata anche a Los Alamos, Grants e Jemez; Pueblo. Si tratta di una delle meteore più luminose che siano mai state viste, secondo il dottor J.F. Kelly dell’ufficio tecnico di Los Alamos. Un gruppo di scienziati inizierà domani le ricerche dei resti dell’enorme palla di fuoco. Per coloro che non l’avessero vista, trasmetteremo tra novanta secondi una registrazione dell’evento. Ripetiamo che non c’è motivo di allarme, assolutamente nessun motivo di allarme per questa insolita meteora.»

Grazie a Dio, pensò Kathryn. Una meteora. Una stella cadente. Non un jet in fiamme, né un razzo esploso. Niente vedove, stanotte. Non voleva, che qualcuno soffrisse come aveva dovuto soffrire lei.

Se adesso fosse ritornato il gattino! Non sperava di vedere ricomparire Ted sulla porta di casa, ma il gattino poteva essere ancora vivo, magari al sicuro chissà dove, forse dentro qualche garage. Kathryn spense il televisore, e tese le orecchie per cogliere eventuali miagolii. Al di fuori il silenzio era assoluto.


Il colonnello Tom Falkner non vide il globo infuocato. Mentre solcava il cielo, lui si trovava nella sala di ritrovo degli ufficiali della base aerea, a bere dello scotch giapponese fin troppo a buon mercato e a guardare senza interesse la gara di basket in TV, fra New York e San Diego. Udì, al di sopra della voce ronzante del telecronista, due tenenti che parlavano in tono sommesso di dischi volanti. Uno dei due era fermamente convinto che si trattasse proprio di navi provenienti dallo spazio. L’altro aveva assunto la tipica posizione dello scettico: mostrami un uomo venuto da un altro pianeta, mostrami un frammento del carrello d’atterraggio di un disco volante, mostrami qualsiasi cosa che io possa toccare, ed io ci crederò. Altrimenti no.

Dovevano essere entrambi un po’ alticci, si rese conto Falkner, sennò non avrebbero parlato affatto di dischi volanti. Non con lui presente nella stanza. In ogni caso, si illudevano di tenere per sé la loro conversazione, risparmiando al colonnello Falkner l’imbarazzo di dover udire per l’ennesima volta quelle due stupide parole, «disco volante». Tutti nella base erano pieni di tatto, con il povero colonnello Falkner. Tutti sapevano che il destino lo aveva toccato duramente, e cercavano di facilitargli il più possibile le cose.

Si sollevò sui gomiti ed emerse dalla sua sedia vibrante, dirigendosi rigidamente verso il bar. Il giovane e compiacente sottufficiale che si trovava dietro il bancone gli rivolse un ampio sorriso.

— Signore?

— Un altro scotch. Fammelo doppio.

Vi era forse un’ombra di riprovazione negli occhi del barista? Un barlume di disprezzo per il colonnello ubriaco? Un barista non dovrebbe trattare con condiscendenza i suoi clienti, anche se si dava il caso che il barista in questione fosse un bel ragazzo dell’Oklahoma, il quale non avrebbe toccato un goccio di alcool a meno che non gli fosse espressamente ordinato da un superiore. Falkner aggrottò la fronte, dicendosi che era troppo sensibile, che in quei giorni leggeva troppo nelle espressioni, nelle parole e perfino nei silenzi della gente. Era solo un fascio di terminazioni nervose messe a nudo, ecco il suo problema. Beveva quel puzzolente surrogato di pseudo-Glenlivet per alleviare la sua tensione, solo per ritrovarsi poi con un ulteriore fardello di sconforto e di senso di colpa.

Il ragazzo spinse un bicchiere verso di lui. Le bombolette vaporizzanti non andavano molto di moda nella mensa ufficiali. Finché c’era del personale per versare, gli ufficiali che si ritenevano gentiluomini preferivano farsi versare decentemente le loro bevande alcoliche dentro i bicchieri, anziché farsele iniettare come medicine nella maniera in uso nel 1982. Falkner borbottò qualche parola di assenso ed afferrò il bicchiere con la mano dalle nocche pelose. Giù nella gola. In un sorso che lo fece trasalire.

— Perdoni la mia indiscrezione, signore, ma com’è quella roba giapponese?

— Non l’hai mai bevuta?

— Oh, no, signore. — Il barista guardò Falkner come se il colonnello gli avesse proposto un modo particolarmente sgradevole per rovinarsi con le, sue mani. — Mai. Non sono affatto un bevitore. Credo sia proprio per questo che il calcolatore mi ha assegnato a questo lavoro di barista. Eh. Eh.

— Eh, eh — ripeté acido Falkner. Diede un’occhiata alla bottiglia di cosiddetto scotch. — Funziona, direi. C’è dell’alcool, dentro, ed ha quasi lo stesso sapore dell’originale. Solo che è terribile. E finché non riusciremo a riprendere i contatti con la Scozia, dovrò bermi questa roba. Maledetto embargo. Il presidente dovrebbe fare… — Falkner si riprese in tempo, mentre il ragazzo sorrideva timidamente. Suo malgrado, anche Falkner sorrise, poi si voltò e ritornò alla sua sedia.

Fissò lo schermo rilucente. Il pivot della squadra del San Diego, quel tipo alto due metri e dieci, volò a schiacciare la palla nel canestro. Aspetta, aspetta, pidocchioso bamboccione dalle gambe lunghe, pensò Falkner tra sé e sé. La prossima stagione ci saranno un paio di giocatori alti due metri e quaranta nella lega, ci scommetto. E ti sbatteranno giù dal tuo trono.

Un frammento di conversazione giunse alle sue orecchie. — Se ci sono degli alieni che ci osservano dallo spazio, come mai non ci hanno ancora contattato, eh?

— Forse lo hanno fatto.

— Come no, e Frederic Storm è il profeta del secolo, vero? Non venirmi a dire che appartieni al Culto del Contatto!

— Non ho detto…

Falkner si costrinse a tenere la testa rigidamente rivolta verso lo schermo TV sulla parete. Non voleva, non poteva permettersi di pensare ai dischi volanti nelle sue ore di libertà. Odiava perfino quel nome. Era tutto uno scherzo di cattivo gusto, quella storia del disco, e lo scherzo ricadeva su di lui.

Aveva quarantatré anni, benché a volte se ne sentisse centoquarantatré. Ricordava vagamente quando, per la prima volta, si era cominciato a parlare di dischi volanti. Era stato nel 1947, subito dopo la seconda guerra mondiale. Falkner non poteva ricordare la guerra vera e propria — era nato nel 1939, il giorno in cui era stata invasa la Polonia, e quando era finita la guerra lui faceva ancora la prima elementare — ma ricordava la storia dei dischi volanti, perché lo aveva spaventato a morte. Aveva letto qualcosa in proposito sulle riviste popolari del tempo, e gli aveva causato un vero terrore l’idea che un uomo, nel lontano Oregon o chissà dove, avesse avvistato astronavi provenienti da altri mondi. Il piccolo Tommy Falkner aveva sempre provato molta curiosità nei confronti dei pianeti, dello spazio, e la sua era diventata una vera e propria mania in un periodo in cui cose del genere costituivano un mistero per la gran parte della gente comune; ma quei dischi volanti del 1947 gli avevano fatto venire la pelle d’oca e gli avevano provocato incubi per una settimana di seguito.

C’era stato un andirivieni di storie sui dischi volanti. Erano sbucati fuori un po’ dappertutto degli esaltati a raccontare i loro voli nello spazio. Anche Tom Falkner voleva fare un volo nello spazio, ma uno vero e proprio. Quando, nel 1957, entrò nell’Accademia Aeronautica, aveva dimenticato del tutto la follia dei dischi volanti, ed aveva gettato via le sue riviste di fantascienza. Stava per entrare a far parte del programma spaziale americano, se mai avesse avuto inizio. Stava per diventare uno spaziale.

Falkner trangugiò rabbiosamente una sorsata dal suo bicchiere.

Un paio di settimane dopo essere divenuto un cadetto, i Russi lanciarono in orbita uno Sputnik. Alla fine prese forma un programma spaziale americano, zoppicante, in ritardo, ma autentico. Fu strano vedere la parola spaziale sparire dal vocabolario, ora che la fantascienza si stava trasformando in qualcosa di reale. Astronauti, ecco come vennero chiamati. Il tenente Thomas Falkner si mise in lista per il programma astronautico. Era troppo giovane per il progetto Mercury; stette a guardare con invidia gli astronauti della Gemini che partivano e ritornavano. Ma nel progetto Apollo c’era posto per lui. Era in lista per un viaggio verso la Luna da effettuarsi nel 1973. Con un po’ di fortuna, si disse allora, avrebbe anche potuto anche farcela per il viaggio su Marte prima di raggiungere i quarant’anni.

In quegli anni lo spazio era reale, una cosa seria. Trascorse i suoi giorni nel volo simulato, e le sue notti a combattere con la matematica. Dischi volanti? Idee da esaltati. «Robaccia californiana», Falkner definiva quelle storie, anche quando provenivano dal Michigan o dal Sud Dakota. In California credevano a tutto, compresi gli esseri dalla pelle purpurea che venivano dalle stelle per divorare gli uomini. Si impegnò nel lavoro. Il suo lavoro era lo spazio. Nel frattempo si sposò, e non fu un cattivo matrimonio, a parte il fatto che non vi furono figli.

Ricordava una sera del 1970 in cui lui ed un paio dei suoi colleghi dell’Apollo avevano tirato un po’ troppo la corda con un quinto di scotch, di quello autentico, un Ambassador con dodici anni di invecchiamento. E Ned Reynolds, ubriaco ed imprudente, gli aveva detto: — Tu non lascerai la Terra, Tom. E vuoi sapere perché? Perché tu non hai figli. Cattive relazioni pubbliche. Gli astronauti devono avere un paio di bei figlioli che aspettano il loro ritorno a casa, altrimenti manca la parte drammatica per la TV.

Falkner si era divertito, chissà perché, a quella battuta. Non era il genere di cose che un uomo sobrio avrebbe detto ad un amico, o il genere di cose che un uomo sobrio avrebbe accettato di sentire da un amico, ma aveva riso. — Tu non lascerai la Terra, Tom — In vino veritas. Sei mesi più tardi, nel corso di una delle normali visite psico-attitudinali, avevano scoperto qualcosa che non andava all’interno del suo orecchio, una disfunzione dell’organo preposto all’equilibrio del corpo, e questo aveva segnato la fine della sua carriera nel progetto Apollo. Lo avevano sbattuto tranquillamente fuori, spiegandogli con loro grande rincrescimento che non potevano mettere in orbita un uomo predisposto a soffrire di vertigini, anche se fino a quel momento non aveva manifestato alcuna tendenza evidente…

Gli trovarono un lavoro. Con il progetto Bluebook, il programma da quattro soldi dell’Aeronautica impostato per tranquillizzare il pubblico sull’inesistenza dei dischi volanti. Questo era successo dieci anni prima. Il progetto Bluebook si era allargato, così come richiede qualsiasi burocrazia, e adesso si chiamava SOA, Studio Oggetti Atmosferici. Ed il povero vecchio Tom Falkner, l’astronauta trombato, era il responsabile del SOA per Arizona, Nuovo Messico, Utah e Colorado. Era un colonnello della brigata dischi volanti. Se avesse stretto i denti e tenuto duro abbastanza a lungo, sarebbe diventato il prossimo generale dei dischi volanti in dotazione all’Aeronautica.

Terminò di bere il suo liquore. E nello stesso tempo si accorse che la partita di pallacanestro era stata interrotta, da circa mezzo minuto, per trasmettere un bollettino di notizie locali. Qualcosa a proposito di una meteora, una grande scia di luce… nessun motivo di allarme, assolutamente nessuno…

Falkner cercò di mettere a fuoco la mente. E dal fondo di essa emerse prepotente un pensiero sgradito: avvistamento di dischi volanti. Alla fine i bastardi dalla faccia blu di Betelgeuse sono arrivati. Nessun motivo di allarme, si sono limitati a mangiarsi Washington. Tutto a posto. Solo una meteora.

Udì il telefono che ronzava insistentemente al di là del bancone.

Poi il barista si rivolse a lui, dicendo: — È per lei, colonnello Falkner. Dal suo ufficio. Pare che siano piuttosto sconvolti, signore!

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