CAPITOLO TERZO

All’Ufficio di Albuquerque dello Studio Oggetti Atmosferici era tutto pronto per la partenza mezz’ora dopo l’avvistamento del globo infuocato. Gli addetti alla manutenzione avevano installato delle batterie completamente cariche a bordo dei sei mezzi cingolati elettrici; il calcolatore aveva già fornito un diagramma a vettori con i possibili luoghi d’atterraggio per eventuali relitti provenienti dallo spazio; Bronstein, assistente del colonnello Falkner, aveva convocato tutti gli uomini liberi da incarichi. Adesso erano in piedi in un semicerchio ansioso attorno allo schermo luminoso dell’ufficio principale, e fissavano con occhi sgranati la scia rosseggiante che segnava la rotta tracciata dall’Oggetto Atmosferico.

Cinque metri più oltre, al di là della porta chiusa a chiave del bagno, Tom Falkner stava cercando disperatamente di recuperare la sua sobrietà.

Durante il percorso in jeep dalla sala ufficiali, Falkner aveva ingurgitato una tavoletta antistimolante; si trattava di piccoli utili prodotti che garantivano il risveglio di una mente intorpidita dall’alcool in mezz’ora, o giù di lì. Ma non era un procedimento piacevole. Le pillole suscitavano una doppia azione stimolante sulla tiroide e sulla ghiandola pituitaria, sconvolgendo temporaneamente l’equilibrio ormonale e mettendo in frenetico movimento l’intero metabolismo. Tutti i processi fisici venivano accelerati, incluso quello che eliminava l’alcool dal sangue. Sotto l’effetto degli antistimolanti, si vivevano sei o sette ore in una situazione ambientale di tempo reale che durava circa dieci minuti. Era un sistema d’urto, ma funzionava. Se dopo una serata trascorsa ad istupidirsi con proprio comodo si scopriva all’improvviso di dover assolutamente recuperare la propria lucidità nel più breve tempo possibile, non c’era altra alternativa che servirsi delle tavolette.

Falkner si accasciò sul pavimento a piastrelle del bagno, afferrandosi al portasciugamani con entrambe le mani. Tremava, e grosse gocce di sudore gli macchiavano l’uniforme. Aveva il volto congestionato, il polso che batteva ad oltre cento pulsazioni al minuto, e continuava a crescere, ed il tremendo battito del suo cuore era come un tamburo che rimbombava nella cassa toracica. Aveva già vomitato, liberandosi delle ultime poche decine di grammi di scotch prima che avesse la possibilità di penetrare a fondo nel suo organismo, e quella violenta purga interna si stava prendendo cura del resto. Il suo cervello si stava schiarendo. Era solo la quarta o quinta volta nella sua vita che aveva ritenuto opportuno far uso di antistimolanti, ed ogni volta aveva sperato che fosse l’ultima.

Dopo un tempo interminabile si rialzò.

Le sue dita, protese a titolo sperimentale davanti a sé, si dimenarono come se stesse battendo a macchina. Cercò di riprenderne il controllo. Adesso il sangue era defluito dal suo volto. Falkner si guardò allo specchio, e rabbrividì nel vedersi. Era un uomo corpulento, dalle spalle poderose, con i capelli neri e ricciuti tagliati corti, baffi sottili ed ispidi ed occhi iniettati di sangue. Quando aveva fatto parte dei progetti spaziali era stato molto attento a non superare gli ottanta chili, ma quei tempi erano ormai lontani, e lui era ingrassato fino al limite massimo della sua costituzione, e forse più. In uniforme aveva un aspetto massiccio e robusto; privato di quell’esoscheletro color kaki, tendeva a curvarsi e a gonfiarsi un poco. Non era orgoglioso di ciò che era diventato nella mezza età, ma non era stato lui a sollevare il problema dell’orecchio interno, né la questione dei dischi volanti.

Ora si sentiva un po’ meglio. Si sciacquò la faccia con l’acqua fredda, si asciugò il sudore, e si sistemò il colletto. Benché non ancora perfettamente sobrio, non avvertiva più gli effetti peggiori della sua alzata di gomito. La sensazione di prurito alla punta del naso era sparita; non si sentiva più le orecchie come pezzi di cartone; i suoi occhi funzionavano come ci si sarebbe aspettato da un qualsiasi paio d’occhi. Muovendosi con molta cura, Falkner aprì la porta del bagno e si diresse verso l’ufficio.

Il capitano Bronstein sembrava avere tutto sotto controllo, come al solito. Era lì che impartiva istruzioni agli uomini, parlando in modo chiaro e deciso, senza sbagliare nemmeno una sillaba. Quando scorse Falkner, Bronstein si voltò con un movimento sciolto e disse: — Siamo pronti a partire al suo via, colonnello.

— È tutto calcolato? Le rotte sono state assegnate?

— Tutto fatto — rispose Bronstein, rivolgendogli un sorriso fugace, forse leggermente ironico. — Il quadro è illuminato come un albero di Natale. Fino ad ora abbiamo avuto un migliaio di rapporti sull’Oggetto Atmosferico, e continuano a giungerne ancora. Stavolta è proprio uno vero.

— Magnifico — borbottò Falkner. — Diventeremo famosi. Naufragio di una nave extraterrestre; il pilota si lancia col paracadute; i coraggiosi ufficiali del SOA ne hanno ragione a mani nude. Noi… — Falkner si riprese. Aveva ricominciato a dar fiato alla bocca, segno che forse non era per niente sobrio. L’occhiata ammonitrice di Bronstein era stata esplicita. Per un attimo i loro sguardi si incontrarono, e Falkner si infuriò nel vedere quanto Bronstein lo compatisse. Una vampata di odio puro gli attraversò il corpo.

In occasioni del genere Falkner insisteva con ostinazione a convincersi che non odiava Bronstein semplicemente perché Bronstein era ebreo. Il fatto che fosse ebreo non c’entrava per nulla. Lui odiava Bronstein perché quel piccolo capitano azzimato era ambizioso, perché era capace, perché aveva sempre il pieno controllo di sé, e perché credeva che i dischi volanti provenissero da altri mondi. Bronstein era l’unico ufficiale, tra quelli che conosceva Falkner, che si fosse arruolato volontariamente nel SOA. Quell’ufficio era considerato il deposito di rifiuti per militari di carriera la cui utilità era stata già altrimenti sfruttata, ma Bronstein aveva scelto di persona quell’incarico. Perché? Perché credeva sul serio che i dischi fossero una questione destinata a far storia, la più grossa faccenda mai capitata fra le mani dell’Aeronautica. E lui voleva esserci, a raccogliere la gloria e i titoli di testa sui giornali, quando la fantasia si fosse trasformata in realtà innegabile. Per Bronstein la pattuglia antidischi costituiva la via d’accesso a cose ben più grandi.

Senatore Bronstein. Presidente Bronstein.

L’umore di Falkner peggiorò ulteriormente. Scattò: — Va bene, muoviamoci. Via tutti, verso il deserto, e trovatemi quel meteorite prima dell’alba. Schnell!

Gli uomini uscirono di corsa dalla stanza. Bronstein rimase, e con voce bassa disse: — Tom, io credo che questo lo sia davvero. La situazione che abbiamo sempre aspettato.

— Vai all’inferno.

— Non saresti sorpreso di incontrare un ambasciatore interstellare seduto in mezzo agli arbusti?

— È stata una meteora — asserì gelido Falkner.

— L’hai vista?

— No. Stavo… studiando dei rapporti.

— Io l’ho vista — ribatté Bronstein. — Non era una meteora. Poco c’è mancato che mi bruciasse gli occhi. Dev’essersi trattato di un qualche tipo di generatore a fusione che esplodeva, al di sopra della stratosfera. È stato come un piccolo sole che si fosse acceso per un paio di minuti, Tom. Ed è quello che hanno visto anche i ragazzi di Los Alamos. Conosci qualche progetto dell’Aeronautica che utilizzi generatori a fusione?

— No.

— Nemmeno io. Perciò…

— Perciò era una nave spia cinese — concluse Falkner.

Bronstein rise. — Sai una cosa, Tom? Credo sia dannatamente più probabile che quella nave provenisse da Procione XII, o un posto del genere, in un altro sistema solare, piuttosto che da Pechino. Dimmi pure che sono matto. Io la vedo così.

Falkner non rispose. Si dondolò avanti e indietro per un po’ sulla punta dei piedi, cercando di convincersi che stava vivendo tutto ciò, e non semplicemente sognandolo. Poi, accigliandosi, fece un cenno a Bronstein ed entrambi uscirono nel buio della notte.

Quattro dei mezzi cingolati erano già partiti. Falkner salì a bordo di uno dei due rimasti, Bronstein a bordo dell’altro, e poi si allontanarono rombando dalla base. L’abitacolo di Falkner conteneva un sistema di comunicazione completa che lo metteva in contatto con gli altri veicoli di ricerca, con l’ufficio di Albuquerque, con il quartier generale del SOA a Topeka, e con i vari quartier generali minori sotto la sua giurisdizione, nei quattro stati sud-occidentali. Il quadro era sovraffollato, in quel momento. Una dozzina di messaggi luminosi lampeggiarono contemporaneamente.

Falkner si mise in contatto con Topeka ed osservò il volto del suo comandante, il generale Weyerland, prendere forma sul piccolo schermo a colori.

Weyerland, come lo stesso Falkner, era un relitto cosmico, un uomo spazzato via dal programma spaziale, e trasferito in quel vicolo cieco che era il SOA. Almeno Weyerland aveva quattro stelle sulla spalla, però, a titolo di consolazione. Considerando che era stato personalmente responsabile della morte di due astronauti nel corso di un esperimento spaziale, Weyerland doveva ritenersi fin troppo fortunato ad avere ancora un lavoro, perfino con il SOA, immaginò Falkner. Ma continuava a conservare una buona facciata. Weyerland si comportava sempre come se la faccenda dei dischi volanti avesse per lui un’importanza particolare.

— Com’è questa storia, Tom? — domandò il generale.

— Non c’è molto da dire, fino ad ora, signore. Una scia di luce nel cielo, un mucchio di cittadini sconvolti, ed ora un controllo standard. Siamo partiti da qui con sei cingolati, ed un paio li abbiamo spediti a nord di Santa Fe. Inoltre ci sono i consueti dispositivi per la rilevazione di metalli. Normale routine, come tutti quegli avvistamenti.

— Non ne sono sicuro — replicò Weyerland.

— Signore?

— Washington mi ha chiamato due volte al telefono. Intendo dire il grand’uomo in persona, anche lui. È fuori di sé. Lo sa che quella scia di luce è stata vista per migliaia di chilometri quadrati? L’hanno captata in California; sono quasi impazziti da quelle parti.

California — ripeté Falkner, facendo sembrare quella parola indicibilmente oscena.

— Sì, lo so. Ma il pubblico è in allarme. Stanno facendo pressioni sulla Casa Bianca, e la Casa Bianca sta facendo pressione su di noi.

— C’è già Uno-zero-sette in corso, no?

— Su tutti i canali — rispose Weyerland. «107» era il termine in codice che indicava un annuncio in sordina con il quale si spiegava alla gente che quel misterioso oggetto era semplicemente un fenomeno naturale, e che non c’era nulla di cui preoccuparsi. — Ma ne abbiamo trasmessi così tanti, di «107», Tom, che nessuno ci crede più. Noi diciamo «meteora» e tutti traducono «disco volante». Sta arrivando il giorno in cui dovremo cominciare a raccontare la verità.

Quale verità? avrebbe voluto chiedere Falkner, ma non lo fece.

Invece disse: — Dica al presidente che faremo rapporto non appena avremo qualcosa di concreto fra le mani.

— Mi chiami ogni ora — ordinò Weyerland. — Che abbia o no qualcosa di concreto.

Il generale interruppe la comunicazione. Falkner cominciò subito a mettersi in contatto con gli altri. Su quattro canali raccoglieva dati dalle reti di intercettazione collocate lungo tutto il sistema difensivo periferico. Certo, tutte avevano registrato la presenza di un grosso oggetto proveniente dal Polo ad una quota di trentamila metri, che poi aveva ulteriormente preso quota sopra il Manitoba, ed infine si era disintegrato del tutto nel cielo del Nuovo Messico centrale. Be’, d’accordo, c’era stato qualcosa, quella sera. Ma poteva esserci una spiegazione razionale, così come una fantastica, per l’episodio. Si era trattato di una pesante massa ferrosa che era penetrata nella nostra atmosfera e si era arroventata prima di disintegrarsi. Perché fantasticare su astronavi galattiche quando le meteore erano tanto comuni?

Il cingolato di Falkner procedeva in linea retta senza esitazioni, puntando adesso a nord ovest, al di là di Albuquerque, approssimativamente verso la Foresta Nazionale di Cibola. Sulla sua sinistra il colonnello poteva scorgere i fari lontani delle automobili che sfrecciavano sulla Superstrada 40. Si stava avvicinando al Rio Puerco — poco più che un rigagnolo, ora, dopo un autunno senza piogge. Le stelle sembravano straordinariamente vivide, quasi taglienti. Era una notte ideale per la neve, ma sapeva che non sarebbe nevicato. Di malumore, continuò a tormentare il pannello dei comandi davanti a lui, ripetendo quasi a memoria i gesti abituali del suo lavoro.

Il pubblico era preoccupato. Il pubblico! Bastava che un elicottero passasse ronzando sopra le loro teste, ed un milione di persone si precipitava a telefonare alla polizia, asserendo di aver visto un disco volante. Il piccolo spettacolo celeste di quella sera, pensò con rincrescimento Falkner, aveva probabilmente portato una discreta fortuna nelle casse della società telefonica degli Stati delle Montagne, la Tel Tel. Linee sovraccariche tutta la sera. Quella storia doveva essere solo una trovata pubblicitaria orchestrata dalla compagnia. Senza dubbio.

Una delle cose che infastidivano Falkner a proposito delle storie di dischi volanti era la linea ascendente del grafico degli avvistamenti riferiti. Gli avvistamenti sembravano fluttuare in relazione alla temperatura degli eventi internazionali: i primi si erano verificati subito dopo la seconda guerra mondiale, nel nuovo clima di tensione atomica provocato dalla rivalità russo-americana; poi c’era stato un periodo di calma negli anni di Eisenhower, subito seguito da una nuova impennata verso il 1960. Quindi, dopo l’assassinio di Kennedy, i dischi erano tornati a farsi vedere un po’ dappertutto, rivelando una costante tendenza ascendente fino al 1966 o giù di lì, soprattutto in coincidenza con i momenti di maggior tensione dei rapporti con la Cina.

Non si poteva trovare un rapporto tra le apparizioni di meteore e gli eventi politici mondiali; si poteva, tuttavia, ricondurre in qualche modo la psicosi dei dischi volanti all’accrescersi dell’ansietà individuale. Forse il 99 per cento degli avvistamenti, si disse Falkner, erano dovuti ai nervi scossi.

Ma gli altri…

Il guaio era che la qualità degli avvistatori stava cambiando. All’inizio, la maggior parte delle storie di dischi volanti era venuta da matrone in menopausa e da contadinotti con la mascella squadrata, afflitti dal gozzo e con gli occhiali dalla montatura di acciaio, ma gradualmente si era passati da questo tipo di pazzoidi più o meno scontati a gente la cui parola aveva un certo peso. Quando presidenti di banca, poliziotti, congressisti e professori di fisica cominciarono tutti a scorgere forme arrotondate nel cielo, non si poté più parlare di fantasticherie da esaltati. Falkner non poteva negarlo. E, soprattutto dopo il 1975, il numero degli avvistamenti ed il numero degli avvistatoli degni di credito erano cresciuti bruscamente. La banda dei visionali, di coloro che affermavano di aver-viaggiato-a-bordo-di-un-disco-volante, c’era sempre, e Falkner non se ne preoccupava più che tanto. Ma non poteva ignorare gli altri.

Eppure aveva un rapporto stabile e profondo con il suo lavoro, benché di tipo negativo. Non poteva convincersi a credere che i cosiddetti dischi volanti fossero qualcosa di diverso da semplici fenomeni naturali. Se davvero si trattava di navi provenienti dallo spazio, allora il suo incarico al SOA era proprio importante, e quella fitta di amarezza che lo tormentava si sarebbe alleviata. Ma Tom Falkner aveva bisogno di quella fitta, perché gli faceva da sprone. E quindi reagiva in maniera ostile all’ipotesi che il suo lavoro potesse seriamente riguardare eventi concreti, o che potesse avere una sia pur minima importanza per la sicurezza del paese.

Disinserì i banchi-memoria e raccolse le informazioni dei rilevatori di metalli.

Nulla. Nel deserto non erano stati individuati oggetti insoliti.

Si mise in contatto con Bronstein, che si trovava in quel momento centoventi chilometri più a sud, in prossimità del villaggio di Acoma.

— Nessuna notizia? Nessun rapporto?

— Niente, da qui — rispose Bronstein. — Però da Acoma hanno visto la scia nel cielo. Ed anche da Laguna. Il sindaco dice che molti dei suoi paesani sono spaventati a morte.

— Dì loro che non c’è nulla di cui preoccuparsi.

— L’ho già fatto. Ma non serve a niente. È come se avessero visto uno spettro, Tom.

— Allora digli di chiamare un esorcista.

— Tom…

— D’accordo, scusami. Signore. - Falkner sottolineò pesantemente l’intenzione sarcastica. Poi, sbadigliando, aggiunse: — Sai che ci sono gli spiriti anche alla Casa Bianca? È un’ora che gli stanno mettendo il pepe sul sedere, al povero Weyerland. Vogliono dei risultati, o qualcosa.

— Lo so. Mi ha chiamato.

Falkner aggrottò la fronte. Non gli andava a genio l’idea che il suo superiore si mettesse in contatto con il suo assistente. C’era una catena gerarchica da rispettare, in situazioni del genere. Interruppe la comunicazione e passò ad un altro canale. Il cingolato filava veloce verso occidente. Le sensibili antenne sul tettuccio roteavano in cerca di dati, di qualsiasi informazione utile. Un bagliore di metallo nel deserto, e lui l’avrebbe saputo all’istante. I rilevatori termici erano a caccia dei raggi infrarossi emessi da qualsiasi essere vivente più grosso di un topo del deserto. Ogni trenta secondi un raggio laser guizzava via sibilando, rimbalzava centoventi chilometri più oltre e ritornava senza notizie.

Falkner premeva in continuazione pulsanti, girava manopole, inseriva e disinseriva circuiti. Durante ciascuno degli inutili giri di ricognizione nel deserto che seguivano a qualche avvistamento, provava un gelido piacere nel far scorrere le sue mani sul complicato pannello dei comandi, servendosi di tutta la sua apparecchiatura elettronica anche quando era assolutamente sicuro che non avrebbe trovato nulla. Un paio di mesi prima aveva infine capito, in un guizzo di intuizione, che cosa faceva quando si baloccava in quel modo frenetico con l’attrezzatura di bordo: giocava a fare l’astronauta.

Star seduto lì, nel sedile del suo accogliente cingolato era un po’ come essere lanciato in orbita, a centinaia di chilometri di quota, con una capsula spaziale. A parte il fatto, naturalmente, che le sue natiche registravano gli scossoni e gli scricchiolii del veicolo sulla sabbia. Ma aveva davanti a sé l’intero schieramento di luci vivide e piccoli schermi, un’attrezzatura da astronauta da sogno e poteva raccogliere dati a sua completa soddisfazione. Quel paragone non gli aveva fatto piacere, poiché gli riportava alla mente l’inutilità di quelle ricerche e lo stesso desolante fallimento che era stata la sua carriera. Tuttavia continuava con ostinazione a premere pulsanti a caso.

Parlò nuovamente con Topeka. Fece quattro chiacchiere con i ragazzi dei due veicoli settentrionali, uno ormai al di là di Taos e l’altro in prossimità delle città spagnole, dall’altra parte della Foresta Nazionale di Santa Fe. Controllò sul monitor i quattro cingolati meridionali che erano disposti a ventaglio da Socorro a Isleta, ed ancora più a ovest, verso Pie Town. Scambiò qualche commento con Bronstein, il quale si trovava nella zona desolata e disabitata a sud di Acoma, e puntava più o meno alla Riserva Zuni. Tra l’uno e l’altro, provvedevano alla sorveglianza completa dell’area relativa alla traiettoria della meteora avvistata, ma nessuno aveva scoperto nulla. Di tanto in tanto Falkner si inseriva sui vari programmi radiotelevisivi per raccogliere notizie. Evidentemente quella sera c’era un gran numero di persone che gridava «dischi volanti!», poiché gli annunciatori si davano un gran daffare a insistere che si trattava soltanto di una meteora. Da una stazione all’altra Falkner udì le stesse blande affermazioni. Tutte citavano Kelly, di Los Alamos. Chi era Kelly? Forse un astronomo? No, solo «uno del personale tecnico», qualsiasi cosa volesse dire. Probabilmente un portiere. Ma i mezzi di comunicazione utilizzavano la magia della sua appartenenza alla base di Los Alamos come talismano per rassicurare gli ascoltatori preoccupati.

Adesso avevano tirato fuori anche qualche astronomo. Un certo Alvarez, di Monte Palomar, aveva rilasciato una dichiarazione. E lo stesso aveva fatto un tale chiamato Matsuoko, un famoso astronomo giapponese. Alvarez aveva forse visto il globo con i suoi occhi? Nulla nelle sue parole indicava di sì. E Matsuoko? Naturalmente no. Eppure ambedue parlavano in tono saputo di meteore, facendo sottili distinzioni fra meteora e meteorite, soffocando tutte le paure sotto un fiume di frasi rassicuranti. A mezzanotte il governo comunicò alcune delle informazioni ricavate dalle reti di intercettazione e dai satelliti di osservazione. Sì, quella meteora era stata avvistata. No, non c’era nulla da temere. Un semplice fenomeno naturale.

Falkner si sentì male.

Il suo scetticismo radicato ed ostinato riguardo agli Oggetti Atmosferici era pari solo al suo scetticismo radicato ed ostinato nei confronti degli annunci ufficiali del governo. Se il governo si dava tanto da fare per tranquillizzare la gente, allora significava che c’era qualcosa di grosso che destava preoccupazione. Era assiomatico. D’altra parte, allenato com’era a leggere tra le righe dei messaggi ufficiali artefatti, Falkner aveva il profondo e persistente bisogno di credere nella futilità e nella vuotezza della sua stessa missione. Non poteva concedersi il lusso di considerare i dischi come una cosa reale. Però non credeva nemmeno al governo.

Ormai era mezzanotte passata da un pezzo. Diede un’occhiata al collo taurino del suo autista, isolato da lui nel compartimento anteriore, e soffocò uno sbadiglio. Avrebbe viaggiato per tutta la notte. Ad Albuquerque non c’era nulla ad attenderlo, tranne un letto vuoto ed una giornata piena di mozziconi di sigaretta. Sua moglie era in vacanza a Buenos Aires con il suo nuovo marito. Falkner si era ormai abituato a stare solo, ma non gli piaceva molto. C’era chi trovava sfogo nel lavoro, in casi del genere, ma Falkner si diceva sempre che il suo non era un lavoro da adulti.

Alle tre del mattino si trovava proprio sul ciglio delle montagne. C’era una strada che attraversava la foresta nazionale, quella tracciata dai taglialegna, e lui avrebbe potuto prenderla, se lo avesse voluto, ma ordinò al guidatore di voltare. Sarebbe ritornato ad Albuquerque seguendo un lungo tragitto circolare, intorno alla Mesa Prieta, sfiorando il villaggio di Jemez, e poi giù lungo il lato occidentale del Rio Grande fino a casa. A Topeka erano ancora svegli, e forse anche a Washington. Buon per loro, gli eroi.

Il flusso di informazioni sui diversi canali stava diminuendo. Per riempire il tempo, Falkner fece scorrere più volte il nastro registrato con il globo di fuoco. Aveva già raccolto una mezza dozzina di istantanee, prese in diversi punti lungo la traiettoria. Le studiò con attenzione, e dovette ammettere che quell’improvvisa scia ardente doveva aver fatto una certa impressione. Peccato che fosse stato impegnato ad ingozzarsi di liquore e non avesse potuto vederla. Però assomigliava ancora alla scia di una meteora, si disse cocciuto Falkner. Una grossa meteora, ma che c’era di strano? Che dire, allora, di quella che si era andata a schiantare nella foresta siberiana nel 1908, scavando quel po’ po’ di buco? O del gigantesco cratere causato dalla meteora caduta in Arizona? Che cos’erano, se non fenomeni naturali?

E la violenza della radiazione luminosa?

Ne aveva discusso con Bronstein due ore prima.

— Immaginiamo una massa di materia anti-terrena che penetri nella nostra atmosfera — aveva detto Falkner. — Un paio di tonnellate di anti-ferro, diciamo. Un gran turbine di antiprotoni e antineutroni che incontrano e disintegrano la materia terrestre.

— Ma questa è roba vecchia, Tom.

— E allora? È plausibile, no?

— Non abbastanza. Comporta la necessità di postulare una grande massa di antimateria da qualche parte del nostro universo — aveva replicato Bronstein — e non c’è alcuna prova concreta che una massa del genere esista, o addirittura che possa esistere. È un’ipotesi molto più semplice quella di postulare una razza extraterrestre intelligente che abbia inviato qui degli osservatori. Basta che tu applichi il Rasoio di Occam alla tua idea dell’antimateria, e ti renderai conto di quanto sia sballata come teoria.

— Applicati il Rasoio di Occam sulla gola, Bronstein. E spingi forte.

A Falkner piaceva quell’idea, malgrado le obiezioni di Bronstein. Certo, violava la legge dell’ipotesi meno complicata; ma il Rasoio di Occam era uno strumento logico, non una condizione immutabile dell’universo, e non funzionava in ogni condizione. Falkner sbatté più volte gli occhi, desiderando di avere con sé dello scotch. Pallidi segni dell’alba stavano cominciando a rigare il cielo ad oriente. Nella capitale del paese era mattina, e tutti erano già in piedi a creare i consueti ingorghi di traffico. Ora, considerando questo concetto dell’antimateria in modo rigoroso, troviamo…

Qualcosa fece ping su uno dei sistemi di rilevazione esterna del cingolato.

— Ferma il veicolo! — gridò Falkner al guidatore.

Il cingolato si fermò. Il ping no. Con molta circospezione, Falkner esaminò i dati di input e cercò di scoprire che cosa diavolo stesse succedendo. Individuò la causa del disturbo. I rilevatori stavano captando il calore emesso da un essere umano con una massa da quaranta a cinquanta chili, entro un raggio di meno di un chilometro. I rilevatori di metallo confermarono la cosa, fornendo una quantità di dati. Là fuori c’era qualcuno.

La città più vicina si trovava a trenta chilometri di distanza. E nello spazio di venti chilometri non c’era nemmeno una strada. Era una zona desolata, null’altro se non gruppi di arbusti, qualche ciuffo di iucca e di altre erbe locali, e qua e là alcuni alberi di ginepro o di pino cresciuti per sbaglio lì invece che nelle regioni montuose. Niente ruscelli, né stagni, né case. Nulla. E nessuno viveva in quella zona. Quella terra non era buona per nulla. Falkner si disse che il suo rilevatore stava captando qualche campo notturno di boy-scouts, o qualcosa di ugualmente innocente. Nondimeno, doveva controllare. Lasciando il guidatore a bordo del cingolato, Falkner uscì all’esterno.

Da quale parte?

Un migliaio di metri da coprire… era un bel po’, se si riferiva il raggio alla circonferenza e si cominciava a ragionare in termini di superficie. Accese il faro al mercurio che portava sul fianco, ma non gli fu di molto aiuto; in quella luce grigiastra che precedeva l’alba, l’illuminazione artificiale era pressoché inutile. Decise di dare un’occhiata in giro per quindici minuti e poi di chiamare un elicottero per far venire una squadra di ricerca. Il guaio con quei complicati congegni di rilevazione era che in un raggio più ristretto non funzionavano affatto bene.

Scelse una direzione a casaccio e si incamminò sul terreno sabbioso e irregolare. Quando ebbe percorso cinquanta passi, vide, in mezzo ad un gruppetto di alberi di salvia, qualcosa che sembrava un mucchio di vecchi abiti, e vi si diresse correndo, in preda ad una specie di frenetico, terribile eccitamento che non riusciva a capire.

Quando raggiunse il mucchio di abiti, si accorse che si trattava di una donna, bionda, giovane, con un bel viso, a parte le macchie di sangue sulle labbra e sul mento. Era viva, ma sembrava priva di conoscenza. Indossava una specie di tuta spaziale di un modello che Falkner non aveva mai visto prima, con un elaborato sistema di propulsione a razzi, una levigata visiera, ed un tessuto scintillante di una strana bellezza. Sospettò subito che quella ragazza fosse un’osservatrice russa o cinese, costretta a lanciarsi col paracadute in seguito a chissà quale imprevisto nel volo. I lineamenti, naturalmente, erano tutt’altro che cinesi, ma non c’era motivo perché Pechino, in caso di necessità, non assoldasse come spia una bionda di Brooklyn. Se in quei tempi una tuta spaziale cinese aveva quell’aspetto, bisognava levarsi tanto di cappello.

Evidentemente lei aveva avuto, però, un brutto atterraggio. Falkner non era in grado di vedere il suo corpo per intero, ma dal modo in cui se ne stava rannicchiata, sospettò che si fosse spezzata come minimo entrambe le gambe, e magari che avesse delle lesioni interne. Be’, nel cingolato c’era una barella ad energia; l’avrebbe caricata, ricondotta sana e salva in città, e consegnata ai medici. Almeno non proveniva da qualche altra galassia, a meno che non ce ne fosse una lassù che produceva magnifiche bionde.

La visiera si era aperta nella caduta. Falkner vide che la ragazza si stava muovendo, e che sembrava sussurrare qualcosa, ed allora le scostò la visiera trasparente dalle labbra, e si chinò su di lei per ascoltare.

Non parlava in russo: le parole erano troppo liquide. Non parlava cinese: l’inflessione era monotona. Non parlava alcuna lingua che Falkner avesse mai sentito. La cosa lo fece sentire un poco a disagio. Rifiutò di lasciarsi convincere che parlava la lingua di un altro pianeta. Ciò che ascoltava era frutto del delirio. Semplici vaneggiamenti.

Stava dicendo qualcosa in inglese, adesso?

— Se ci aiuteranno… che cosa parlano qui? Inglese. Sì… inglese…

Falkner tornò ad osservare la tuta, si accorse di quanto fosse aliena, e sentì la pelle che gli si accaponava.

Gli occhi della ragazza si aprirono. Occhi bellissimi. Occhi spaventati. Occhi velati dal dolore.

— Aiuto — disse.

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