— Questa sera vi mostreremo otto sistemi per uccidere un uomo senza far rumore. — Il tizio che aveva parlato era un sergente che dimostrava al massimo cinque anni più di me. Quindi, se aveva ucciso un uomo in combattimento, senza far rumore o meno, doveva averlo ucciso quand’era ancora in fasce.
Io conoscevo già ottanta sistemi per ammazzare la gente, ma in genere erano assai rumorosi. Mi sistemai ben diritto sulla sedia, assunsi un’espressione di educata attenzione e mi addormentai a occhi aperti. Quasi tutti gli altri fecero altrettanto. Avevamo imparato che non c’era mai niente di importante nelle lezioni serali.
Il suono del proiettore mi svegliò e rimasi desto mentre un breve nastro esemplificava gli "otto sistemi senza far rumore". Alcuni degli attori dovevano essere stati sottoposti al lavaggio del cervello, perché ci lasciavano la pelle per davvero.
Quando il nastro finì, alzò la mano una ragazza che stava in prima fila. Il sergente le rivolse un cenno con la testa, lei si alzò e si mise in posizione di "riposo". Non era niente male, ma un po’ abbondante intorno al collo e alle spalle. Si diventa tutti così, quando si porta in giro, per un paio di mesi, uno zaino pesante.
— Signore — (dovevamo chiamare "signore" i sergenti, fino alla fine dell’addestramento) — quasi tutti quei sistemi, per la verità, mi sembrano… un po’ scemi.
— Per esempio?
— Per esempio, uccidere un uomo colpendolo alle reni con un attrezzo per scavare trincee. Voglio dire, quando mai, in realtà, si ha solo un attrezzo per scavare trincee, e neanche una pistola o un coltello? E perché non dargli semplicemente una botta in testa?
— Potrebbe avere l’elmo, in testa — disse il sergente, in tono ragionevole.
— E poi, probabilmente i taurani non li hanno neanche, i reni!
Il sergente scrollò le spalle. — Probabilmente non li hanno. — Era l’anno 1997 e nessuno aveva mai visto un taurano; non si erano mai trovati pezzi di taurano più grossi di un cromosoma bruciacchiato. — Ma la loro chimica organica è simile alla nostra, e dobbiamo presumere che siano creature altrettanto complesse. Devono avere delle debolezze, dei punti vulnerabili. Spetta a voi scoprire quali sono.
"Questa è la cosa che più conta. — E il sergente puntò un dito contro lo schermo. — Quegli otto forzati ci hanno lasciato la pelle per il vostro bene, perché impariate a uccidere i taurani, e perché riusciate a farlo, sia che disponiate di un laser da un megawatt o di una limetta di carta smerigliata per le unghie."
La ragazza tornò a sedersi, ma non aveva l’aria molto convinta.
— Altre domande? — Nessuno alzò la mano.
— Okay. At-tenti! — Noi ci alzammo barcollando e lui ci guardò con aria d’attesa.
— Fatti fottere, signore — risuonò il solito coro stanco.
— Più forte!
— Fatti fottere, signore! - Era uno dei motti meno ispirati dell’esercito, per tener su il morale.
— Così va meglio. Non dimenticate, domani ci saranno le manovre prima dell’alba. Rancio alle 0330, prima formazione alle 0400. Chi viene beccato a letto dopo le 0340 ci rimette un gallone. Rompete le righe.
Tirai su la chiusura lampo della tuta e mi avventurai nella neve per andare allo spaccio, a farmi una tazza di soia e una fumata. Sono sempre stato in grado di tirare avanti con cinque o sei ore di sonno, e quello era l’unico momento in cui potevo starmene in pace, fuori dell’esercito per un pochino. Per qualche minuto guardai il giornale facsimile. Un’altra nave era stata fatta fuori, dalle parti del settore di Aldebaran. Era successo quattro anni fa. Stavano allestendo una flotta per la rappresaglia, ma ci sarebbero voluti altri quattro anni per portarla sul posto. Nel frattempo, i taurani sarebbero riusciti a sprangare tutti i pianeti portale.
Tornai in camerata: tutti gli altri erano già in branda e l’illuminazione centrale era spenta. L’intera compagnia era sempre stanca morta, da quando eravamo tornati dalle due settimane d’addestramento sulla Luna. Scaraventai i vestiti nell’armadietto, controllai l’elenco e scoprii che ero nella branda 31. Accidenti, proprio sotto al riscaldamento.
Mi infilai oltre la tenda, cercando di far meno rumore possibile per non svegliare la persona accanto a me. Non riuscivo a vedere chi fosse, ma non me ne importava niente. Mi infilai sotto la coperta.
— Sei in ritardo, Mandella — sbadigliò una voce. Era la Rogers.
— Scusa se ti ho svegliato — mormorai.
— Di niente. — Lei mi sgattaiolò vicino e si appiccicò a me: eravamo come due cucchiai in un cassetto. Era calda e ragionevolmente morbida. Le battei una mano sul fianco, in quello che speravo fosse un gesto fraterno. — ’Notte, Rogers.
— Buonanotte, stallone. — Mi ricambiò il gesto, approfondendo la cosa.
Perché ti capitano sempre quelle stanche quando tu ne hai voglia, e quelle vogliose quando sei stanco tu? Mi prestai all’inevitabile.
— Benone, mettiamoci un po’ di schiena! Squadra della longarina! Muoversi… muovete un po’ quelle chiappe!
Verso mezzanotte era arrivato un fronte d’aria calda e la neve si era trasformata in nevischio. La longarina di permaplastica pesava due quintali, ed era una rogna maledetta maneggiarla, anche quando non era coperta di ghiaccio. Eravamo in quattro, due ad ogni estremità, e trasportavamo quella trave con dita intirizzite. C’era la Rogers, con me.
— Acciaio! — strillò il tipo che stava dietro di me, per spiegare che gli stava sfuggendo la presa. Non era d’acciaio, ma era abbastanza pesante per spaccarti un piede. Tutti lasciammo andare, e schizzammo via. La longarina ci innaffiò di poltiglia nevosa e di fango.
— Accidenti a te, Petrov — disse la Rogers — perché non ti fai sbattere nella Croce Rossa o qualcosa del genere? Questo cazzo di arnese non è mica così pesante. — In generale, le ragazze erano un po’ più circospette di noi, in fatto di linguaggio. La Rogers invece non aveva peli sulla lingua.
— Benone, muovetevi un po’, voi con la longarina… Squadra collante! Presto! Presto!
I nostri due addetti al collante arrivarono di corsa, facendo dondolare i secchi. — Sbrighiamoci, Mandella. Mi si staccano le palle dal gelo.
— Anche a me — disse la ragazza, con più partecipazione che logica.
— Uno… due… issa! — Sollevammo di nuovo la longarina e avanzammo barcollando verso il ponte. Era già completato per tre quarti. Sembrava che il Secondo plotone sarebbe riuscito a batterci. Non me ne sarebbe importato un accidente, ma c’era il fatto che il plotone che finiva per primo il suo ponte se ne tornava indietro in volo. Per tutti gli altri, sei chilometri e mezzo di scarpinata nella palta, e niente riposo prima del rancio.
Mettemmo a posto la longarina, la lasciammo cadere con un tonfo, e sistemammo le morse che dovevano tenerla fissata ai supporti. La femmina incollatrice della nostra squadra cominciò a versare il collante prima ancora che l’avessimo ben fissata. Il suo compagno stava aspettando dall’altra parte. La squadra incaricata della pavimentazione stava aspettando ai piedi del ponte: ognuno di loro teneva sopra la testa come un ombrello un pezzo di leggera, robusta permaplastica. Loro erano asciutti e puliti. Mi chiesi, a voce spiegata, che cavolo avessero fatto per meritarselo, e la Rogers suggerì un paio di possibilità colorite ma improbabili.
Stavamo per ritornare a piazzarci vicino all’altra longarina, quando il comandante dell’esercitazione (si chiamava Dougelstein, ma noi lo chiamavamo "Benone"), suonò il fischietto e urlò: — Benone, soldati maschi e femmine, dieci minuti di sosta. Fumate se avete da fumare. — Si infilò la mano in tasca e fece scattare il comando che riscaldava le nostre tute.
La Rogers e io ci sedemmo sull’estremità della longarina, e io tirai fuori il mio portaerba. Avevo un mucchio di sigarette d’erba, ma ci avevano ordinato di non fumarle prima del rancio serale. L’unico tabacco che avevo era un mozzicone di sigaro lungo otto centimetri. Lo accesi sul fianco della scatola: non era poi troppo cattivo, dopo le prime due o tre boccate. La Rogers ne tirò una boccata anche lei, tanto per mostrarsi socievole, ma fece una smorfia e me lo restituì.
— Andavi a scuola quando ti hanno arruolato? — mi chiese.
— Già. Avevo appena preso un diploma in fisica. Volevo prendere l’abilitazione all’insegnamento.
Lei piegò la testa, pensierosa. — Io studiavo biologia…
— Calza col tipo. — Schivai una manciata di fanghiglia. — Fin dove sei arrivata?
— Sei anni. Maturità scientifica e poi specializzazione tecnica. — Fece strisciare uno stivale per terra, rivoltando una palata di fango e di neve impoltigliata che aveva la consistenza di latte condensato semigelato. — Perché cazzo mai doveva capitare una cosa simile?
Io alzai le spalle. Quella frase non aveva bisogno di una risposta, men che meno della spiegazione che continuava a darci la FENU: l’élite intellettuale e fisica del pianeta che partiva per difendere l’umanità dalla minaccia dei taurani. Merda di soia. Era solo un grosso esperimento, per vedere se riuscivamo a indurre i taurani a impegnarsi in qualche azione al suolo.
"Benone" suonò il fischietto con due minuti d’anticipo, come del resto era da prevedere, ma la Rogers, io e gli altri due addetti alla longarina riuscimmo a starcene seduti ancora per un minuto, mentre le squadre collante e pavimentazione finivano di coprire quella che avevamo già piazzata. Si gelava in fretta, a starsene lì seduti con le tute spente, ma restammo inattivi per una questione di principio.
In realtà non aveva nessun senso, farci addestrare al freddo. Era la tipica logica sfasata dell’esercito. Sicuro, ci sarebbe stato freddo, dove ci mandavano, ma non un freddo da neve o da ghiaccio. Quasi per definizione, un pianeta portale restava sempre a un grado o due dallo zero assoluto — dato che le collapsar non irradiano — e se senti un brivido di gelo vuol dire che sei un uomo morto.
Dodici anni prima, quando io avevo dieci anni, avevano scoperto il balzo tra le collapsar. Lancia un oggetto contro una collapsar a velocità sufficiente, e l’oggetto ti schizza fuori in qualche altra parte della galassia. Non c’era voluto molto tempo per calcolare la formula che prediceva dove sarebbe uscito: l’oggetto viaggia lungo la stessa "linea" (che in realtà è una linea geodetica einsteiniana) che avrebbe seguito se non ci fosse stata di mezzo la collapsar, fino a quando non arriva a un altro campo di collapsar, e allora ricompare, respinto con la stessa velocità con cui si era avvicinato al primo campo. Tempo impiegato nel viaggio tra le due collapsar… esattamente zero.
Questo aveva comportato un sacco di lavoro per i fisici matematici, che erano stati costretti a ridefinire la simultaneità, e poi a fare a pezzettini la relatività generale e a ricostruirla daccapo. E aveva reso felici gli uomini politici, perché adesso potevano spedire a Fomalhaut un’astronave carica di coloni, spendendo meno di quanto costasse una volta spedire un gruppetto di uomini sulla Luna. C’era una quantità di gente che gli uomini politici preferivano vedere su Fomalhaut, a realizzare una gloriosa avventura, anziché a fomentare guai in patria.
Le astronavi erano sempre accompagnate da una sonda automatizzata che le seguiva a una distanza di qualche milione di chilometri. Sapevamo tutto dei pianeti portale, pezzettini di detriti cosmici che turbinavano intorno alle collapsar: la funzione della sonda consisteva nel ritornare indietro a informarci, nel caso che un’astronave fosse andata a sbattere contro un pianeta portale a 0,999 della velocità della luce.
Una catastrofe di questo genere non era mai capitata, ma un brutto giorno una sonda era ritornata indietro da sola, zoppicando. I dati erano stati analizzati, ed era saltato fuori che l’astronave dei coloni era stata inseguita da un altro veicolo spaziale ed era stata distrutta. Il fattaccio era successo dalle parti di Aldebaran, nella costellazione del Toro, latino Taurus, ma poiché "Aldebaraniani" era un po’ lungo da pronunciare, i nemici erano stati battezzati "Taurani".
A partire da quella volta, le astronavi dei coloni si erano messe in viaggio protette da una scorta armata. Spesso la scorta annata si metteva in viaggio da sola, e alla fine il Gruppo Colonizzazione venne abbreviato in FENU, Forza Esplorativa delle Nazioni Unite. Con l’accento su Forza.
Poi qualche genio dell’Assemblea Generale aveva deciso che bisognava piazzare un’armata di fanti e fare la guardia ai pianeti portale delle collapsar più vicine. E questo portò alla Legge per la Coscrizione Elitaria del 1996, e alla creazione dell’esercito più elitario in tutta la storia della guerra.
E perciò adesso noi eravamo lì, cinquanta uomini e cinquanta donne, con quoziente d’intelligenza superiore a 150, e fisico dotato di salute e di forza fuori del comune, a trascinarci elitariamente nel fango e nella neve impoltigliata del Missouri centrale, a meditare sull’utilità della nostra bravura nel costruire ponti su mondi dove l’unico fluido che si può trovare è qualche pozzanghera stazionaria di elio liquido.
Circa un mese dopo, partimmo per l’addestramento finale: le manovre sul pianeta Caronte. Sebbene si stesse avvicinando al perielio, era comunque lontano dal Sole più del doppio di Plutone.
L’astronave tradotta era un "vagone bestiame" convertito, costruito in origine per trasportare duecento coloni, piante e animali vari. Ma non pensate che ci fosse molto spazio, solo per il fatto che noi eravamo soltanto cento. Quasi tutto il posto in più era occupato da una massa di reazione extra, artiglieria e servizi logistici.
Il viaggio richiese in tutto tre settimane: metà ad accelerare a due gravità, metà a decelerare. La nostra velocità massima, quando intersecammo rombando l’orbita di Plutone, si aggirava intorno a un ventesimo della velocità della luce… non abbastanza perché la relatività infilasse tra noi la sua testolina complicata.
Tre settimane passate portandosi addosso un peso doppio del normale… non è precisamente un picnic. Facevamo qualche esercizio con molta prudenza tre volte al giorno e restavamo il più possibile in posizione orizzontale. Comunque, rimediammo parecchie fratture ossee e serie slogature. Gli uomini dovevano portare sospensori speciali per evitare di spargere sul pavimento pezzi d’organi staccati. Era pressoché impossibile dormire: si avevano incubi di soffocare e di venire quasi stritolati, e bisognava rotolarsi periodicamente da una parte e dall’altra, perché il sangue non ristagnasse e non provocasse piaghe da decubito. Una ragazza si era ridotta così male per la stanchezza che poco mancò continuasse a dormire per tutto il tempo, mentre una costola le sfondava la pelle e schizzava fuori.
Io ero già stato nello spazio parecchie altre volte, e così, quando finalmente la smettemmo di decelerare e andammo in caduta libera, per me fu soltanto un sollievo. Ma certuni non c’erano mai stati, a parte il viaggio per andare ad addestrarci sulla Luna, e furono presi da vertigini improvvise e perdita del senso dell’orientamento. Noialtri che non stavamo male continuavamo a pulire, fluttuando qua e là negli alloggiamenti, armati di spugne e di aspiratori per risucchiare i globuli parzialmente digeriti del "Concentrato ad alto contenuto di proteine e a basso residuo, con sapore di carne bovina" (soia).
Ci godemmo uno splendido panorama di Caronte, mentre scendevamo dall’orbita. Comunque, non c’era molto da vedere. Era semplicemente una sfera fioca, biancastra, con qualche chiazza. Atterrammo a circa duecento metri dalla base. Un trattore a cingoli pressurizzato uscì e si agganciò al traghetto, così non fummo costretti a infilarci nelle tute. Sferragliando ci dirigemmo verso l’edificio principale: uno scatolone di plastica grigiastra senza connotati particolari. Dentro, le pareti erano dello stesso colore squallido e scialbo. Il resto della compagnia era seduto ai banchi, a chiacchierare. C’era un posto libero vicino a Freeland.
— Jeff… va un po’ meglio? — Era ancora un po’ pallido.
— Se gli dèi avessero destinato l’uomo a sopravvivere in caduta libera, lo avrebbero equipaggiato con una glottide di ghisa. — Sospirò, pesantemente. — Va un po’ meglio. Muoio dalla voglia di una fumatina.
— Già.
— Mi è sembrato che tu l’abbia presa bene. Avevi viaggiato nello spazio quando frequentavi la scuola, no?
— Tesi sulla saldatura nel vuoto, sicuro. Tre settimane in orbita intorno alla Terra. — Mi sedetti e per la millesima volta allungai la mano per prendere il mio portaerba. E quello continuava a non esserci. L’Impianto Ambiente non voleva aver niente a che fare con la nicotina e il catrame.
— L’addestramento è già stato uno strazio — mugugnò Jeff. Ma questa merda…
— At-tenti! — Ci alzammo in piedi, straccamente, a gruppetti di due e di tre. La porta si aprì ed entrò un maggiore. Mi irrigidii un tantino. Era l’ufficiale di rango più elevato che avessi mai visto. Aveva una fila di nastrini cuciti alla tuta, compreso un nastrino purpureo indicante che era stato ferito in combattimento, nel vecchio esercito americano. Doveva essere stato in quella faccenda dell’Indocina, che comunque era sbollita prima che io nascessi. Ma non sembrava poi tanto vecchio.
— Seduti, seduti. — Fece un cenno con la mano. Poi si piantò i pugni sui fianchi e squadrò la compagnia, con un sorrisetto sulle labbra. — Benvenuti su Caronte. Avete scelto una bellissima giornata per atterrare, fuori la temperatura è estiva, otto virgola quindici gradi assoluti. Si prevedono scarsi cambiamenti per i prossimi due secoli o giù di lì. — Alcuni di noi risero a mezza bocca. — È meglio che vi godiate il clima tropicale qui a Base Miami: godetevelo finché potete. Qui siamo al centro dell’emisfero illuminato dal sole, e quasi tutto l’addestramento si svolgerà sull’emisfero buio. Da quelle parti, la temperatura è freschina: due virgola zero otto gradi assoluti.
"Sarà bene che consideriate tutto l’addestramento compiuto sulla Terra e sulla Luna come un esercizio elementare, ideato per darvi una discreta possibilità di sopravvivere su Caronte. Qui dovrete ripassare tutto il vostro repertorio: utensili, armi, manovre. E vi accorgerete che, a queste temperature, gli utensili non funzionano come dovrebbero, e le armi non vogliono saperne di sparare. E la gente si muove con mooolta prudenza."
Studiò la tabella che aveva in mano. — Per ora, siete quarantanove donne e quarantotto uomini. Due morti sulla Terra, uno congedato per motivi psichiatrici. Dopo aver letto lo schema del vostro programma d’addestramento, francamente sono sorpreso che ce l’abbiate fatta in tanti.
"Ma tanto vale vi dica subito che non sarò scontento se anche solo cinquanta di voi, la metà, supereranno questa fase finale. E l’unico modo per non superarla è morire. Qui. L’unico modo in cui qualcuno ritorna sulla Terra, me compreso, è dopo un turno di combattimento.
"Completerete il vostro addestramento entro un mese. Da qui andrete alla collapsar Stargate, a mezzo anno-luce di distanza. Resterete nella colonia di Stargate 1, il più grosso pianeta portale, fino all’arrivo dei rincalzi. C’è da sperare che l’attesa non duri più di un mese: un altro gruppo deve arrivare qui non appena ve ne sarete andati.
"Quando lascerete Stargate, vi trasferirete vicino a qualche collapsar d’importanza strategica, vi creerete una base militare, e se sarete attaccati combatterete il nemico. Altrimenti, terrete la base fino a nuovo ordine.
"Nelle ultime due settimane qui, il vostro addestramento consisterà nel costruire esattamente una base dello stesso tipo di questa, nell’emisfero buio. Là sarete completamente isolati da Base Miami: niente comunicazioni, niente evacuazioni mediche, niente rifornimenti. Prima che le due settimane siano trascorse, il vostro sistema difensivo verrà messo alla prova da un attacco ad opera di sonde teleguidate. Saranno armate."
Avevano speso tutto quel danaro per noi solo per ammazzarci in addestramento?
— Tutti i membri del personale permanente, qui su Caronte, sono combattenti veterani. Quindi, tutti noi abbiamo dai quaranta ai cinquant’anni. Ma sono convinto che possiamo farcela a starvi dietro. Due di noi staranno sempre con voi e vi accompagneranno almeno fino a Stargate. Si tratta del capitano Sherman Stott, vostro comandante di compagnia, e del sergente Octavio Cortez, vostro primo sergente. Signori?
Due uomini seduti in prima fila si alzarono con gesti sciolti e si girarono verso di noi. Il capitano Stott era un po’ più piccolo del maggiore, ma pareva uscito dallo stesso stampo: faccia dura e liscia come la porcellana, un mezzo sorriso cinico, un centimetro esatto di barba che incorniciava il mento largo; e dimostrava trent’anni al massimo. Al fianco portava una grossa pistola, del tipo a polvere da sparo.
Il sergente Cortez era un’altra storia: un racconto dell’orrore. Aveva la testa rapata e di forma assurda, appiattita da una parte, dove era stato evidentemente asportato un pezzo di calotta cranica. La faccia era molto scura, segnata da rughe e cicatrici. Gli mancava metà dell’orecchio sinistro, e i suoi occhi erano espressivi quanto i pulsanti di una macchina. Aveva una combinazione di baffi e di barba, sistemata in modo da sembrare che un magro bruco bianco gli stesse attorcigliato attorno alla bocca. Su chiunque altro, il suo sorriso da ragazzino sarebbe apparso simpatico, ma mi parve l’essere più brutto e dall’aria più carogna che avessi mai visto. Comunque, se non gli guardavi la testa e prendevi in considerazione solo il metro e ottantatré inferiore della sua persona, poteva passare per la pubblicità "dopo la cura" di un centro per culturisti. Né Stott né Cortez portavano nastrini. Cortez aveva un piccolo laser tascabile, appeso di traverso a un sostegno magnetico sotto l’ascella sinistra. Il laser aveva un’impugnatura di legno allisciata e logorata dall’uso.
— Ora, prima di affidarvi alle cure premurose di questi due signori, permettetemi di avvertirvi ancora:
"Due mesi fa su questo pianeta non c’era anima viva, soltanto l’equipaggiamento abbandonato qui dalla spedizione del 1991. Una squadra di quarantacinque uomini ha vissuto e lottato qui per un mese, per costruire questa base. Ventiquattro, più della metà, sono morti durante i lavori. Questo è il pianeta più pericoloso sul quale gli uomini abbiano mai tentato di vivere, ma i posti dove andrete voi saranno eguali a questo, o anche peggio. I vostri quadri cercheranno di tenervi in vita per il prossimo mese. Ascoltateli… e seguite il loro esempio: tutti loro sono sopravvissuti, qui, più a lungo di quanto dovrete fare voi. Capitano?" Il capitano tornò ad alzarsi, mentre il maggiore usciva.
— At-tenti! - Le ultime due sillabe furono come un’esplosione, e tutti noi balzammo in piedi.
— Ora vi dirò una cosa, una volta sola, quindi farete bene ad ascoltare attentamente — ringhiò lui. — Qui noi siamo in combattimento, e in combattimento c’è una sola punizione per la disobbedienza e l’insubordinazione. — Si strappò dal fianco la pistola e la strinse per la canna, come una clava. — Questa è una pistola automatica modello 1911 dell’esercito, calibro 45, ed è un’arma primitiva ma molto efficiente. Il sergente e io siamo autorizzati a usare le armi per uccidere, al fine di imporre la disciplina. Non costringeteci a farlo, perché lo faremo. Lo faremo. - Rimise a posto la pistola. La chiusura automatica della fondina fece udire uno scatto secco, in un silenzio di morte. — Tra me e il sergente Cortez, abbiamo ucciso più persone di quante ce ne siano in questa stanza. Abbiamo combattuto entrambi nel Vietnam dalla parte degli americani ed entrambi siamo entrati nella Guardia Internazionale delle Nazioni Unite più di dieci anni fa. Ho rinunciato a un avanzamento al grado di maggiore per avere il privilegio di comandare questa compagnia, e il primo sergente Cortez ha rinunciato al grado di vicesergente maggiore, perché siamo entrambi combattenti, e questa è la prima situazione di combattimento dopo il 1987.
"Tenete bene in mente quanto vi ho detto mentre il primo sergente vi insegna più dettagliatamente quali saranno i vostri doveri sotto questo comando. Se ne occupi lei, sergente." Girò sui tacchi e uscì a grandi passi. L’espressione della sua faccia non era cambiata di un millimetro, durante l’intera arringa.
Il primo sergente si mosse come una pesante macchina con una gran quantità di cuscinetti a sfere. Quando la porta si richiuse con un sibilo, girò ponderosamente su se stesso per fronteggiarci e disse: — Riposo, seduti — con tono sorprendentemente gentile. Sedette su un tavolo, che scricchiolò, ma lo resse.
— Ora, il capitano parla in modo da spaventarvi e io ho una faccia che fa spavento, ma tutti e due lo facciamo per il vostro bene. Voi lavorerete a stretto contatto con me, quindi farete bene ad abituarvi a questa cosa che ho qui penzolante davanti al mio cervello. Probabilmente non vedrete molto il capitano, se non alle manovre.
Si toccò la parte piatta della testa. — E a proposito di cervello, il mio ce l’ho ancora quasi tutto, nonostante gli sforzi in contrario dei cinesi. Tutti noi vecchi veterani arruolati nella FENU siamo dovuti passare attraverso gli stessi criteri di selezione che sono serviti per arruolare voi in base alla Legge di Coscrizione Elitaria. Quindi sospetto che tutti voi siate svegli e duri… ma tenete presente che il capitano e io siamo svegli e duri ed esperti.
Sfogliò l’elenco, senza guardarlo veramente. — Ora, come ha detto il capitano, durante le manovre c’è un solo provvedimento disciplinare. Pena capitale. Ma normalmente noi non dobbiamo uccidervi, se disobbedite: Caronte ci risparmia il disturbo.
"Nelle camerate, sarà un’altra storia. Non ci interessa molto quel che fate là dentro. Grattatevi l’uccello tutto il giorno e scopate tutta la notte, per noi non fa nessuna differenza… Ma una volta che vi mettete le tute e uscite fuori, pretendiamo una disciplina da fare invidia a un centurione. Ci saranno delle situazioni in cui basterà un solo atto da stupidi per ammazzarci quanti siamo.
"Comunque, la prima cosa che dobbiamo fare è sistemarvi negli scafandri da combattimento. L’armiere vi sta aspettando in camerata; vi sistemerà uno alla volta. Andiamo."
— Ora, so bene che sulla Terra vi hanno spiegato quello che può fare uno scafandro da combattimento. — L’armiere era un ometto parzialmente calvo, e non portava i gradi sulla tuta. Il sergente Cortez ci aveva detto di chiamarlo "signore", perché era tenente. — Però ci tengo a insistere su un paio di punti, e magari ad aggiungere qualcosa che i vostri istruttori sulla Terra non hanno chiarito bene o non potevano sapere. Il vostro primo sergente ha consentito a prestarsi per la dimostrazione. Sergente?
Cortez sgusciò fuori dalla tuta e salì sul piccolo podio dove stava ritto uno scafandro da combattimento, aperto come un’ostrica a forma d’uomo. Il sergente vi si infilò a ritroso, insinuò le braccia nelle maniche rigide. Si udì uno scatto, e lo scafandro si chiuse con un sospiro. Era verde vivo, con il nome CORTEZ stampigliato in lettere bianche sull’elmo.
— Mimetizzazione, sergente. — Il verde sbiadì, diventò bianco, poi grigio sporco. — È una buona mimetizzazione per Caronte e per quasi tutti i vostri pianeti portale — disse Cortez, e sembrava che parlasse da un pozzo profondo. — Ma ci sono parecchie altre combinazioni possibili. — Il grigio si chiazzò e si ravvivò in una combinazione di verdi e di marroni: — Giungla. — Poi si uniformò in un ocra chiaro: — Deserto. — Marrone scuro, più scuro, poi un nero fondo e opaco: — Notte o spazio.
— Molto bene, sergente. A quanto ne so, questa è la sola caratteristica dello scafandro che sia stata messa a punto dopo il vostro addestramento. Il comando è intorno al polso sinistro, e ammetto che è scomodo. Ma quando riuscite a trovare la combinazione giusta, è facile inserirla.
"Ora, sulla Terra non avete fatto molti addestramenti con gli scafandri. Non volevamo che vi abituaste a usarli in un ambiente amico. Lo scafandro da combattimento è l’arma personale più mortale che sia mai stata costruita, ma chi l’adopera può ammazzarsi per imprudenza con estrema facilità. Si giri, sergente.
"Esempio. — L’armiere batté le dita su di una grossa protuberanza quadrata tra le spalle. — Pinne di scarico. Come sapete, lo scafandro fa di tutto per mantenervi a una temperatura confortevole, quali che siano le condizioni meteorologiche esterne. Il materiale dello scafandro è l’isolante più perfetto che si potesse trovare, compatibilmente alle esigenze meccaniche. Perciò queste pinne diventano calde, in particolare in rapporto alle temperature dell’emisfero buio, quando disperdono il calore del corpo.
"È sufficiente che vi appoggiate con la schiena a un macigno di gas congelato: qui in giro ce n’è in abbondanza. Il gas sublimerà, disperdendosi più rapidamente di quanto possa farlo attraverso le pinne: fuggendo, premerà contro il "ghiaccio" circostante e lo frantumerà… e in un centesimo di secondo circa, vi troverete con l’equivalente d’una bomba a mano che vi esplode proprio sotto al collo. Non ve ne accorgerete neanche.
"Le variazioni sul tema hanno ucciso undici persone, nei due ultimi mesi. Ed esse stavano semplicemente costruendo un gruppo di baracche.
"Immagino vi rendiate conto della facilità con cui i waldo, i servomeccanismi, possono uccidere voi o i vostri compagni. Qualcuno vuole stringere la mano al sergente? — L’armiere si interruppe, si avvicinò e gli afferrò il guanto. — Lui ha molta pratica. Fino a quando non ce l’avrete anche voi, siate estremamente prudenti. Potreste grattarvi perché sentite prurito e finireste per spezzarvi la schiena. Ricordate, la reazione è semilogaritmica: una pressione di due chili sviluppa una forza di cinque; tre chili, una forza di dieci; quattro, ventitré; cinque, quarantasette. Molti di voi possono esercitare una stretta superiore ai cinquanta chili. Teoricamente, con questa forza amplificata, potreste spezzare in due una trave d’acciaio. In realtà, distruggereste il materiale dei vostri guanti, e almeno qui su Caronte morireste molto in fretta. Sarebbe una gara tra la decompressione e il congelamento rapido. Qualunque dei due la vincesse, morireste egualmente.
"Anche i waldo delle gambe sono pericolosi, sebbene l’amplificazione sia meno esagerata. Fino a quando non sarete davvero esperti, non cercate di correre né di saltare. Probabilmente inciampereste, e questo significa che altrettanto probabilmente morireste.
"La gravità di Caronte è tre quarti di quella normale della Terra, quindi non è poi tanto male. Ma su un mondo veramente piccolo, come la Luna, potreste spiccare un balzo correndo e non ridiscendere per venti minuti, continuando semplicemente a veleggiare sull’orizzonte. Magari andando a sbattere contro una montagna alla velocità di ottanta metri al secondo. Su di un piccolo asteroide, sarebbe una cosa da niente raggiungere la velocità di fuga e partire per un giro non programmato nello spazio intergalattico. È un modo molto lento di viaggiare.
"Domattina, cominceremo a insegnarvi come si fa a restare vivi dentro questa macchina infernale. Per il resto del pomeriggio e della serata, vi chiamerò uno alla volta per adattarvi gli scafandri. È tutto, sergente."
Cortez andò alla porta e girò lo zipolo che faceva entrare l’aria nel portello stagno. Una fila di lampade a infrarossi si accese per impedire all’aria di gelare nell’interno. Quando le pressioni furono eguali, chiuse lo zipolo, sbloccò la porta ed entrò, bloccandola alle sue spalle. La pompa ronzò per circa un minuto, evacuando il vano stagno; poi lui uscì e bloccò la porta esterna.
Era un meccanismo molto simile a quelli sulla Luna.
— Prima voglio il soldato semplice Ornar Almizar. Voialtri potete andare in cerca delle vostre brande. Vi chiamerò con l’altoparlante.
— Ordine alfabetico, signore?
— Sì. Circa dieci minuti l’uno. Se il tuo nome comincia per Z, tanto vale che vada a letto.
Quella era la Rogers. Probabilmente stava proprio pensando al letto.
Il sole era un aspro punto bianco, direttamente sulla verticale. Era molto più luminoso di quanto mi aspettassi: poiché eravamo a ottanta unità astronomiche di distanza, era luminoso solo la seimilaquattrocentesima parte di quanto lo era visto dalla Terra. Comunque, irradiava ancora all’incirca la luce di un potente lampione.
— La luce è considerevolmente più forte di quella che avrete su un pianeta portale. — La voce del capitano Stott crepitò nel nostro orecchio collettivo. — Rallegratevi, perché così potrete vedere dove mettete i piedi.
Eravamo schierati in fila indiana sul marciapiedi di permaplastica che collegava la camerata con la baracca delle provviste. Per tutta la mattina ci eravamo esercitati a camminare al coperto, e questo non era molto diverso, a parte lo scenario esotico. Sebbene la luce fosse abbastanza fioca, potevi vedere chiaramente fino all’orizzonte, poiché non c’era di mezzo un’atmosfera. Un precipizio nero che pareva troppo regolare per essere naturale si stendeva da un orizzonte all’altro, e passava a circa un chilometro da noi. Il suolo era nero come l’ossidiana, cosparso di chiazze di ghiaccio bianco o azzurrognolo. Accanto alla baracca delle provviste c’era una montagnola di neve in un bidone con la scritta OSSIGENO.
Lo scafandro era abbastanza comodo, ma ti dava la sensazione strana di essere contemporaneamente una marionetta e il burattinaio. Tu eserciti l’impulso di muovere la gamba, e lo scafandro lo raccoglie e lo ingrandisce, e ci pensi lui, a muoverti la gamba.
— Oggi ci limiteremo a camminare intorno all’area della compagnia, che nessuno lascerà. — Il capitano non portava la sua pistola calibro 45, a meno che non la tenesse come portafortuna dentro allo scafandro, ma aveva un dito laser, come tutti noi. E il suo probabilmente era collegato.
Tenendoci a un intervallo di circa due metri l’uno dall’altro, scendemmo dalla permaplastica e seguimmo il capitano sulla roccia liscia. Camminammo prudentemente per circa un’ora, allontanandoci a spirale, e finalmente ci fermammo, dopo essere arrivati al limite esterno del perimetro.
— Ora fate molta attenzione, tutti quanti. Andrò fino a quella lastra di ghiaccio azzurro. — Era un lastrone molto grande, a una ventina di metri di distanza. — E vi mostrerò qualcosa che farete bene a imparare, se ci tenete a restare vivi.
Il capitano si incamminò con una dozzina di passi sicuri. — Per prima cosa devo scaldare una roccia… giù i filtri. — Io premetti il pulsante sotto l’ascella e il filtro scivolò al suo posto, sopra il mio trasformatore d’immagini. Il capitano puntò il dito verso una roccia nera grande più o meno come una palla da pallacanestro, e lanciò contro di essa una breve raffica. Il bagliore fece rotolare sopra di noi e più oltre un’ombra lunghissima del capitano. La roccia si schiantò in un mucchio di schegge nebulose.
— Queste qui non impiegano molto tempo a raffreddarsi. — Si fermò e ne raccolse un pezzo. — Questa probabilmente è venti o venticinque gradi. State a vedere. — Gettò la roccia "calda" sul lastrone di ghiaccio. Quella slittò, pattinò in giro in un ghirigoro pazzesco e schizzò via lateralmente. Il capitano gettò un’altra scheggia, che si comportò allo stesso modo.
— Come sapete, voi non siete perfettamente isolati. Queste rocce hanno più o meno la temperatura delle suole dei vostri stivali. Se cercherete di stare in piedi su una lastra d’idrogeno, vi capiterà la stessa cosa. Solo che la roccia è già morta.
"La ragione di questo comportamento è che la roccia crea un contatto liscio con il ghiaccio, una minuscola pozzanghera d’idrogeno liquido, e scivola a un’altezza di poche molecole sopra il liquido, su un cuscino di vapore d’idrogeno. Di conseguenza, in rapporto al ghiaccio, la roccia e voi diventate come un cuscinetto a sfere senza attrito, e non è possibile stare in piedi, senza un attrito sotto agli stivali.
"Dopo che avrete vissuto nello scafandro per un mese o più, dovreste essere in grado di sopravvivere a una caduta, ma per ora non ne sapete abbastanza. State a vedere."
Il capitano si fletté e balzò sul lastrone. I piedi slittarono via, e lui si contorse e si girò su se stesso a mezz’aria, atterrando sulle mani e sulle ginocchia. Sdrucciolò via e si fermò in piedi sul terreno gelato.
— L’importante è impedire che le pinne di scarico entrino in contatto con il gas gelato. In confronto al ghiaccio sono calde come una fornace, e un contatto provocato da un peso qualsiasi produce un’esplosione.
Dopo la dimostrazione, camminammo in giro per un’altra ora o giù di lì e ritornammo agli alloggiamenti. Superato il vano stagno, dovemmo continuare a camminare in giro per un po’, in modo che gli scafandri arrivassero alla temperatura ambiente. Qualcuno si avvicinò e accostò l’elmo al mio.
— William? — Aveva il nome MCCOY stampigliato sulla visiera.
— Ciao, Sean. Qualcosa di speciale?
— Mi stavo giusto chiedendo se avevi qualcuno con cui dormire stanotte.
Giusto: me ne ero dimenticato. Lì non c’era l’assegnazione delle brande. Ciascuno si sceglieva il compagno. — Sicuro, voglio dire, uh, no… no, non l’ho ancora chiesto a nessuno. Sicuro, se vuoi…
— Grazie, William, ci vediamo dopo. — La guardai allontanarsi e pensai che, se qualcuno era capace di dare un’aria sexy a uno scafandro da combattimento, quella doveva essere Sean. Ma per la verità, non ci riusciva neanche lei.
Cortez decise che ci eravamo scaldati abbastanza, e ci accompagnò nella sala scafandri, dove, camminando a ritroso, li infilammo ai loro posti e li agganciammo alle piastre di ricarica. (Ogni scafandro aveva un pezzettino di plutonio capace di fornirgli energia per parecchi anni, ma eravamo tenuti a farli funzionare il più possibile con le batterie a carburante.) Dopo un po’ di trambusto, tutti riuscimmo ad agganciare, e ricevemmo il permesso di uscirne fuori: novantasette pulcini nudi che sgusciavano da uova color verde vivo. Era freddo - tutto, l’aria, il pavimento e specialmente gli scafandri — e ci precipitammo piuttosto disordinatamente verso gli armadietti.
Infilai tunica, calzoni e sandali e continuai ad aver freddo. Presi la gavetta e mi misi in fila per la soia. Tutti quanti saltellavano per scaldarsi.
— C-che f-freddo, non ti pare, M-Mandella? — Questa era la McCoy.
— Non voglio neanche pensarci. — Smisi di saltellare e mi massaggiai il più energicamente possibile, mentre tenevo la gavetta con una mano. — È freddo almeno quanto lo era il Missouri.
— Ugh… vorrei… che avessero messo… qualche fottuto riscaldamento… in questo posto. — A risentirne gli effetti più degli altri sono sempre le donne piccole. La McCoy era la più minuta della compagnia, una bambola dal vitino di vespa che arriva appena a un metro e mezzo.
— Hanno attaccato il condizionatore d’aria. Ormai non ci vorrà molto.
— Vorrei… essere… un pezzo d’uomo… grande e grosso… come te.
Ma io ero contento che non lo fosse.
Subimmo la prima perdita il terzo giorno, mentre imparavamo a scavare le buche.
Con un simile quantitativo di energia accumulato nelle armi di un soldato, non sarebbe molto pratico scavare una buca nel suolo gelato con piccone e badile. Comunque, si potrebbero lanciare bombe a mano per tutto il giorno senza ottenere altro che depressioni poco profonde… perciò il metodo abituale consiste nel praticare un foro nel terreno con il laser a mano, buttarci dentro una carica a orologeria dopo che si è raffreddato e, idealmente, riempire la buca con qualcosa. Naturalmente, non ci sono molti pezzi di roccia a disposizione, su Caronte, a meno che tu non abbia già scavato una buca, con l’esplosivo, nei pressi.
L’unica difficoltà in questa procedura consiste nell’allontanarsi. Per mettersi al sicuro, ci dissero, bisogna essere dietro qualcosa di veramente solido, o trovarsi almeno a cento metri di distanza. Hai a disposizione circa tre minuti dopo avere sistemato la carica, ma non puoi scappare via di corsa. È troppo pericoloso, su Caronte.
L’incidente avvenne mentre stavamo facendo una buca veramente profonda, del tipo che occorre per un grosso bunker sotterraneo. Dovevamo aprire una buca con l’esplosivo, e poi scendere sul fondo del cratere e ripetere la procedura varie volte, fino a quando non fosse profonda a sufficienza. Dentro al cratere adoperavamo cariche a cinque minuti, ma il tempo era appena sufficiente: bisognava andare piano, quando si risaliva all’orlo del cratere.
Tutti, più o meno, avevamo aperto una doppia buca: tutti tranne io e tre altri. Credo che fossimo i soli che prestarono veramente attenzione, quando la Bovanovitch si mise nei guai. Tutti noi eravamo a duecento metri buoni di distanza. Con il mio trasformatore d’immagini attivato a circa quaranta, la vidi scomparire oltre l’orlo del cratere. Poi, riuscii soltanto ad ascoltare la sua conversazione con Cortez.
— Sono sul fondo, sergente. — Le normali comunicazioni radio venivano sospese, durante le manovre come quella: erano autorizzati a trasmettere solo Cortez e l’allievo in azione.
— Bene, portati al centro e sposta i detriti. Prendila con calma. Non c’è bisogno di precipitarsi fino a quando non avrai strappato la linguetta.
— Sicuro, sergente. — Ci giungevano piccoli echi di rocce tintinnanti: gli stivali di lei facevano da conduttori del suono. Per parecchi minuti non disse niente.
— Trovato il fondo. — Sembrava un po’ ansimante.
— Ghiaccio o roccia?
— Oh, è roccia, sergente. Quella roba verdastra.
— Usa una regolazione bassa, allora. Uno virgola due, dispersione quattro.
— Accidenti, sergente, ci metterò un’eternità.
— Sicuro, ma dentro quella roba ci sono cristalli idrati… riscaldala troppo in fretta e potrai creare delle fratture. Allora dovremmo lasciarti lì dentro, ragazza. Morta e insanguinata.
— Okay, uno virgola due, dispersione quattro. — L’orlo interno del cratere si illuminò di guizzi rossi: il riflesso della luce del laser.
— Quando sarai arrivata a una profondità di circa mezzo metro, portalo a dispersione due.
— Ricevuto. — Impiegò esattamente diciassette minuti, di cui tre a dispersione due. Potevo immaginare quanto fosse anchilosato il braccio con cui sparava.
— Adesso riposati per qualche minuto. Quando il fondo del foro non sarà più luminoso, arma la carica e buttagliela dentro. Poi esci camminando, capito? Ne hai tutto il tempo.
— Capito, sergente. Camminando. — Aveva un tono nervoso. Be’, non capita spesso di doversi allontanare in punta di piedi da una bomba a tachioni da venti microton. Per qualche minuto ascoltammo il suo respiro.
— Ecco che va. — Un lieve suono strisciante: la bomba che scivolava in basso.
— Adagio e calma, adesso. Hai cinque minuti.
— S-sì. Cinque. — I passi della ragazza cominciarono, lenti e regolari. Poi, dopo che ebbe cominciato a salire il pendio, i suoni divennero meno regolari, un po’ più frenetici. E con solo quattro minuti a disposizione…
— Merda! — Un lungo rumore raschiante, poi acciottolii e tonfi. — Merda, merda.
— Cosa succede, soldato?
— Oh, merda. — Silenzio. — Merda!
— Soldato, se non vuoi che ti faccia fucilare, dimmi che cos’è successo!
— Io… merda, sono incastrata. Una fottuta frana… merda… Fate qualcosa! Non posso muovermi, merda, non posso muovermi, non posso, non posso…
— Silenzio! A che profondità?
— Non riesco a muovere, merda, queste fottute gambe. Aiutatemi!…
— E allora, maledizione, adopera le braccia… spingi! Puoi muovere una tonnellata con ogni mano. — Tre minuti.
Ella smise di imprecare e cominciò a mormorare, in russo, credo, con voce sommessa e monotona. Stava ansimando, e si sentivano le pietre che rotolavano via.
— Sono libera. — Due minuti.
— Vai, più in fretta che puoi. — La voce di Cortez era piatta, imperturbabile.
A meno novanta secondi lei comparve, strisciando, oltre l’orlo. — Corri, ragazza… È meglio che tu corra. — Lei corse per cinque o sei passi e cadde, sdrucciolò per qualche metro e si rialzò, riprendendo a correre; cadde ancora, tornò a rialzarsi…
Sembrava che andasse molto svelta, ma aveva coperto soltanto trenta metri quando Cortez disse: — Bene, Bovanovitch, buttati a pancia a terra e resta immobile. — Dieci secondi, ma lei non aveva sentito, o voleva solo arrivare un po’ più lontana, e continuò a correre, a grandi balzi imprudenti, e proprio quando era al punto culminante di un balzo vi furono un lampo e un rombo, e qualcosa di grosso la colpi sotto al collo, e il suo corpo decapitato roteò nello spazio, lasciando dietro di sé una spirale rosso-nera di sangue che si congelava all’istante e scendeva dolcemente al suolo: una scia di polvere cristallina che nessuno disturbò quando raccogliemmo le pietre per coprire la cosa dissanguata che giaceva alla sua estremità.
Quella sera Cortez non ci fece lezione, non comparve neanche per il rancio. Noi eravamo tutti molto educati l’uno con l’altro, e nessuno aveva paura di parlarne.
Io andai in branda con la Rogers — tutti andarono in branda con un buon amico — ma lei voleva solo piangere, e pianse così a lungo, così disperatamente che fece piangere anche me.
— Squadra A… muoversi! — E noi dodici avanzammo in una fila irregolare verso il bunker simulato. Era a circa un chilometro di distanza, in fondo a un percorso a ostacoli accuratamente preparato. Potevamo muoverci in fretta, poiché quasi tutto il ghiaccio era stato rimosso dal campo, ma nonostante i dieci giorni di esperienza non ce la sentivamo di andare a un’andatura più svelta di un trotto tranquillo.
Io portavo un lanciagranate carico con bombe da esercitazione di un decimo di microton. Tutti avevamo le dita laser regolate a zero virgola zero otto, dispersione uno: poco più di una lampada tascabile. Era un attacco simulato… il bunker e il suo difensore robot costavano troppo perché si potesse pensare di adoperarli una volta e poi buttarli via.
— Squadra B, seguiteli. Comandanti di squadra, prendete il comando.
Ci avvicinammo a un gruppo di macigni che si trovavano circa a metà strada, e la Potter, il mio comandante di squadra, disse: — Fermatevi e mettetevi al coperto. — Ci raccogliemmo dietro le rocce e aspettammo la Squadra B.
A malapena visibili negli scafandri anneriti, i dodici, uomini e donne, ci passarono accanto con un fruscio. Non appena furono lì al sicuro, si avviarono verso sinistra, fuori della nostra visuale.
— Fuoco! — Cerchi rossi di luce danzarono più avanti, dove il bunker era appena visibile. La portata massima di quelle granate da esercitazione era cinquecento metri; ma io speravo di avere fortuna, perciò puntai il lanciagranate sull’immagine del bunker, lo tenni inclinato a un angolo di quarantacinque gradi e feci partire una salva di tre colpi.
Il bunker rispose al fuoco prima ancora che le mie granate arrivassero a terra. I suoi laser automatici non erano più potenti di quelli che adoperavamo noi, ma un colpo diretto avrebbe disattivato il trasformatore d’immagini, lasciandoci ciechi. Il bunker stava sparando a casaccio, senza neppure avvicinarsi ai macigni dietro i quali stavamo nascosti.
Tre lampi fulgidissimi, come magnesio, ammiccarono simultaneamente a trenta metri dal bunker. — Mandella! Credevo che tu sapessi maneggiare quel coso!
— Accidenti, Potter… arriva a mezzo chilometro soltanto. Quando saremo più vicini, lo colpirò giusto sul tetto, tutte le volte.
— Sicuro. — Io non replicai. Non sarebbe stata in eterno al comando della squadra. E poi, non era stata una cattiva ragazza, prima che il potere le desse alla testa.
Poiché il granatiere è l’assistente del comandante di squadra, io ero collegato alla radio della Potter, e potevo sentire la Squadra B che parlava con lei.
— Potter, qui è Freeman. Perdite?
— Qui Potter… no, sembra che stiano concentrando il fuoco su di voi.
— Già, ne abbiamo perduti tre. Adesso ci troviamo in una depressione a ottanta, cento metri più avanti di voi. Possiamo coprirvi, quando siete pronti.
— Okay, cominciate. — Uno scatto sommesso: — Squadra A, seguitemi. — La Potter sgusciò fuori del riparo della roccia e accese il faro color rosa pallido sotto il suo accumulatore. Io accesi il mio e uscii per correre al suo fianco, mentre il resto della squadra si apriva a ventaglio. Nessuno sparò mentre la Squadra A ci copriva con il suo fuoco.
Tutto quel che riuscivo a sentire era il respiro della Potter e il sommesso scricchiolio dei miei stivali. Non riuscivo a vedere molto, e perciò, con un colpo di lingua, alzai il trasformatore d’immagini fino a un’intensificazione pari al logaritmo di due. L’immagine diventò un po’ confusa, ma adeguatamente luminosa. Sembrava che il bunker avesse inchiodato a dovere la Squadra A: venivano arrostiti mica male, quelli. Rispondevano al fuoco esclusivamente con i laser. Dovevano avere perduto il granatiere.
— Potter, qui Mandella. Non dovremmo cercare di distogliere un po’ il fuoco dalla Squadra B?
— Non appena riuscirò a trovare una copertura adatta. Qualcosa in contrario, soldato? — lei era stata promossa caporale giusto per la durata dell’esercitazione.
Tagliammo verso destra e ci sdraiammo dietro un lastrone di roccia. Quasi tutti gli altri trovarono un riparo nelle immediate vicinanze, ma alcuni dovettero sdraiarsi per terra.
— Freeman, qui Potter.
— Potter, qui è Smith. Freeman è fuori uso; Samuels è fuori uso. Siamo rimasti solo in cinque. Copriteci un po’, in modo che possiamo arrivare…
— Ricevuto, Smith. — Click. - Aprite il fuoco, Squadra A. La B è nei guai.
Sbirciai oltre lo spigolo della roccia. Il mio cercabersaglio diceva che il bunker era a circa trecentocinquanta metri di distanza, ancora abbastanza lontano. Puntai in alto il lanciagranate e ne sparai tre, poi lo abbassai di un paio di gradi e ne lanciai altre tre. Le prime passarono oltre il bersaglio mancandolo di una ventina di metri; poi la seconda salva divampò direttamente davanti al bunker. Cercai di mantenere quell’angolazione e lanciai quindici granate, il resto del caricatore, in quella direzione.
Avrei dovuto accovacciarmi dietro la roccia per ricaricare, ma volevo vedere dove sarebbero finite le mie quindici bombe, e perciò tenni gli occhi fissi sul bunker mentre tendevo il braccio all’indietro per sganciarmi dalle spalle un altro caricatore…
Quando il laser colpì il mio trasformatore d’immagini, ci fu un bagliore rosso così intenso che parve attraversarmi gli occhi e rimbalzare sulla parete interna del cranio. Dovettero passare solo pochi millesimi di secondo, prima che il trasformatore si sovraccaricasse e si spegnesse, ma l’immagine residua, verde viva, mi bruciò gli occhi per parecchi minuti.
Poiché ero ufficialmente "morto", la mia radio si spense automaticamente; e io dovevo restare dov’ero fino alla fine della finta battaglia. Senza altre percezioni sensoriali che il tocco della mia pelle (che era dolorante, dove aveva sfolgorato il trasformatore d’immagini) e il ronzio nelle orecchie, mi sembrò un tempo spaventosamente lungo. Alla fine, un elmo urtò contro il mio.
— Tutto a posto, Mandella? — La voce della Potter.
— Mi dispiace, sono morto di noia venti minuti fa.
— Alzati e prendi la mia mano. — Obbedii; strascicando i piedi, tornammo agli alloggiamenti. Dovemmo impiegare più di un’ora. Lei non disse altro, per tutto il percorso — quello è un sistema un po’ scomodo per comunicare — ma dopo che fummo entrati dal vano stagno e ci fummo scaldati un po’, mi aiutò a togliermi la tuta. Mi preparai a una blanda ramanzina, ma quando lo scafandro si aprì, prima ancora che i miei occhi si riabituassero alla luce, lei mi afferrò per il collo e mi piantò un bacio umido sulla bocca.
— Bel tiro, Mandella.
— Eh?
— Non hai visto? No, naturalmente… l’ultima salva, prima che venissi colpito… quattro centri diretti. Il bunker ha deciso che era stato messo fuori combattimento, e tutto quello che abbiamo dovuto fare è stato camminare per il resto del percorso.
— Magnifico. — Mi grattai la faccia, sotto gli occhi, e si staccarono dei pezzi di pelle secca. La Potter ridacchiò.
— Dovresti vederti. Sembri…
— Tutto il personale a rapporto in sala riunioni. — Era la voce del capitano. Di solito, erano cattive notizie.
La Potter mi consegnò tunica e sandali. — Andiamo. — La sala riunioni, che era anche la sala rancio, era appena in fondo al corridoio. Sulla porta c’era una fila di pulsanti per dare il "presente"; schiacciai quello sotto il mio nome. Quattro nomi erano coperti da strisce d’adesivo nero. Andava bene, quattro soltanto. Non avevamo perduto nessuno, durante le manovre di quel giorno.
Il capitano era seduto sulla pedana rialzata, il che almeno significava che non dovevamo passare per la solita stupida procedura dell’at-tenti! La sala si riempì in meno di un minuto. Lo squillo d’un campanello indicò che tutti erano presenti all’appello.
Il capitano Stott non si alzò. — Ve la siete cavata abbastanza bene, oggi. Non è rimasto ucciso nessuno, contrariamente a quello che mi aspettavo. Da questo punto di vista avete superato le mie previsioni, ma da tutti gli altri avete fatto schifo.
"Sono lieto che abbiate saputo badare a voi stessi, perché ognuno di voi rappresenta un investimento di oltre un milione di dollari, e un quarto di vita umana.
"Ma in questa battaglia simulata contro un robot molto stupido, trentasette di voi sono riusciti a mettersi sul raggio laser e a farsi ammazzare in modo simulato, e poiché i morti non hanno bisogno di cibo, voi non avrete bisogno di cibo per i prossimi tre giorni. I caduti di questa battaglia avranno diritto solo a due litri d’acqua e a una razione di vitamine al giorno."
Sapevamo che non era il caso di lanciare gemiti o altro, ma c’erano espressioni abbastanza disgustate, soprattutto sulle facce con le ciglia strinate e un rettangolo di pelle scottata, color rosa carico, intorno agli occhi.
— Mandella.
— Signore?
— Tu sei il più bruciacchiato di tutti. Il tuo trasformatore d’immagine era regolato sul normale?
Oh, merda. — No, signore. Logaritmo di due.
— Vedo. Chi era il tuo comandante di squadra per le esercitazioni?
— Facente funzioni di caporale Potter, signore.
— Soldato Potter, sei stato tu a ordinargli di usare l’intensificazione dell’immagine?
— Signore, io… non ricordo.
— Non ricordi. Bene, come esercizio per la memoria, puoi unirti ai morti. Va bene così?
— Sì, signore.
— Bene. I morti faranno un ultimo pasto questa sera, e a partire da domani, niente razioni. Qualche domanda? — Probabilmente intendeva scherzare. — Bene. Rompete le righe.
Scelsi il rancio che sembrava promettere il maggior contenuto di calorie, e portai il mio vassoio vicino alla Potter.
— Che razza di gesto donchisciottesco. Comunque, grazie.
— Di niente. Tanto, già intendevo perdere qualche chilo. — Io non riuscivo proprio a vedere dove avesse del peso di troppo.
— Io conosco un buon esercizio — dissi io. Lei sorrise senza alzare gli occhi dal vassoio. — Hai qualcuno, per questa notte?
— Avevo pensato di chiedere a Jeff…
— Allora sarà meglio che ti sbrighi. Sta sbavando dietro a Maejima. — Bene, era la verità. Ci sbavavano tutti.
— Non lo so. Magari dovremmo risparmiare le forze. Il terzo giorno…
— Andiamo. — Le grattai leggermente con un’unghia il dorso della mano. — Non siamo stati insieme dopo il Missouri. Magari ho imparato qualcosa di nuovo.
— Magari. — lei alzò la testa verso di me, con aria furba. — Okay.
In effetti, era lei che aveva imparato un trucco nuovo. Lo chiamava il cavatappi francese. Non volle dirmi, però, chi glielo aveva insegnato. Mi sarebbe piaciuto stringergli la mano, a quel tipo. Quando avessi recuperato le forze.
Le due settimane di addestramento intorno a Base Miami ci costarono undici vite. Dodici, se contate anche Dahlquist. Credo che dover passare il resto della tua vita su Caronte, senza una mano e senza le due gambe, sia più o meno come morire.
Foster fu schiacciato da una frana e Freeland ebbe un’avaria allo scafandro che lo fece congelare prima che avessimo il tempo di portarlo dentro. Quasi tutti gli altri erano tipi che non conoscevo altrettanto bene. Ma ci dispiacque per tutti. E quelle morti sembravano solamente spaventarci, anziché indurci alla prudenza.
E poi via, nell’emisfero buio. Un apparecchio ci portò là a gruppi di venti e ci scaricò accanto a un mucchio di materiale da costruzione, graziosamente immerso in uno stagno di elio II.
Adoperammo i grappini per tirar fuori il materiale dallo stagno. Non è prudente andarci dentro a guado, perché quella roba ti si arrampica addosso ed è difficile capire cosa ci sia sotto: potresti mettere un piede su un lastrone di idrogeno e non avere la fortuna occorrente.
Io avevo proposto che cercassimo di far evaporare lo stagno con i nostri laser, ma dieci minuti di fuoco concentrato non bastarono ad abbassare decentemente il livello dell’elio. E non bolliva neanche: l’elio II è un "superfluido", e quel po’ d’evaporazione che c’era, avveniva regolarmente, su tutta la superficie. Niente punti più caldi, e quindi niente bollicine.
Non dovevamo usare le luci, per "non venire avvistati". C’era il chiarore delle stelle, in abbondanza, con il trasformatore d’immagini alzato al logaritmo di tre o di quattro, ma ogni fase d’amplificazione comportava una perdita dei dettagli. Al logaritmo di quattro il paesaggio appariva come un rozzo quadro monocromatico, e non riuscivi a leggere i nomi sugli elmi degli altri, a meno che non fossero proprio davanti a te.
Comunque, il paesaggio non era molto interessante. C’era una mezza dozzina di crateri di media grandezza aperti dalle meteore (tutti esattamente con lo stesso livello di elio II) e una vaga impressione di piccole montagne appena oltre l’orizzonte. Il terreno accidentato aveva la consistenza d’una ragnatela gelata: ogni volta che posavi il piede, sprofondavi di un centimetro, con uno scricchiolio sinistro. Finiva per darti ai nervi.
Impiegammo quasi tutta la giornata per tirar fuori la roba dallo stagno. Dormicchiammo a turno: si poteva dormire in piedi, seduti, oppure sdraiati a pancia in giù. Io non dormivo bene in nessuna di quelle posizioni, e perciò non vedevo l’ora che il bunker fosse costruito e pressurizzato.
Non potevamo costruirlo sottoterra, perché si sarebbe riempito di elio II, perciò la prima cosa da fare era costruire una piattaforma isolante, un sandwich di permaplastica e vuoto a tre strati.
Io facevo funzioni di caporale, con una squadra di dieci uomini. Stavamo trasportando gli strati di permaplastica sul posto scelto per la costruzione — due uomini ce la facevano facilmente a portarne uno — quando un "mio" uomo scivolò e cadde sul dorso.
— Accidenti, Singer, stai attento a dove metti i piedi. — Avevamo avuto un paio di morti in quel modo.
— Scusami, caporale. Ho inciampato.
— Già, ma stai attento. — Si rialzò, tutto a posto, e lui e il suo compagno collocarono la lastra e tornarono indietro per prenderne un’altra.
Tenni d’occhio Singer. Pochi minuti dopo, stava praticamente barcollando, e non è facile riuscirci in quello scafandro corazzato e cibernetico.
— Singer! Dopo aver messo giù la lastra, voglio darti un’occhiata.
— Okay. — Finì faticosamente il suo compito e poi arrivò ondeggiando.
— Fammi dare un’occhiata alle letture. — Aprii lo sportello che aveva sul petto per vedere il monitor medico. La temperatura era di due gradi troppo alta; la pressione sanguigna e il ritmo cardiaco erano entrambi elevati. Non fino alla linea rossa, comunque.
— Ti senti male o qualcosa del genere?
— Diavolo, Mandella. Mi sento okay, solo un po’ stanco. Da quando sono caduto ho un po’ di vertigini.
Spinsi con il mento la combinazione del medico. — Doc, qui Mandella. Vuoi venire qui per un minuto?
— Sicuro. Dove sei? — Agitai il braccio e lui lasciò lo stagno e arrivò.
— Qual è il problema? — Gli mostrai le letture di Singer.
Lui sapeva cosa volevano dire anche tutti gli altri quadranti e ammennicoli vari, perciò impiegò un po’ di tempo. — A quel che posso dire io, Mandella… scotta soltanto.
— Diavolo, questo potevo dirlo anch’io — fece Singer.
— Forse è meglio che tu gli faccia dare un’occhiata dall’armiere. — Due di noi avevano fatto un corso accelerato di manutenzione degli scafandri. Erano i nostri "armieri".
Con un colpo di mento chiamai Sanchez e gli chiesi di venire subito con la cassa degli attrezzi.
— Fra un paio di minuti, caporale. Sto trasportando una lastra.
— Bene, mettila giù e vieni qui subito. — Cominciavo a sentirmi a disagio. Mentre lo aspettavamo, il medico e io guardammo meglio lo scafandro di Singer.
— Uh-oh — disse Doc Jones. — Guarda qui. — Girai intorno a Singer e guardai quello che mi indicava. Due delle pinne dello scambiatore di calore si erano piegate e deformate.
— Cosa c’è? — chiese Singer.
— Sei caduto sullo scambiatore di calore, giusto?
— Sicuro, caporale… proprio così. Non deve funzionare più tanto bene.
— Credo che non funzioni per niente - fece Doc.
Arrivò Sanchez con la sua cassetta diagnostica e gli spiegammo cos’era successo. Lui guardò lo scambiatore di calore, poi vi innestò un paio di spine e ottenne una lettura digitale sul piccolo monitor portatile. Non sapevo che cosa stesse misurando, ma risultò zero con otto decimali.
Sentii un clic sommesso. Sanchez aveva attivato con un colpo di mento la mia frequenza personale. — Caporale, questo qui è spacciato.
— Cosa? Non puoi rabberciare quello stramaledetto coso?
— Forse… forse ci riuscirei, se potessi smontarlo. Ma non c’è la possibilità…
— Ehi! Sanchez? — Singer parlava sulla frequenza generale. Trovato cos’è che non va? — Ansimava.
Clic. - Tienti addosso i pantaloni, uomo, ci stiamo lavorando. Clic. - Non durerà fino a quando avremo pressurizzato il bunker. E non posso lavorare sullo scambiatore di calore dall’esterno dello scafandro.
— Hai uno scafandro di ricambio, no?
— Ne ho due, del tipo taglia universale. Ma non c’è il posto per… ehi, dico…
— Giusto. Vai a scaldarne uno. — Diedi un colpo di mento all’interruttore generale. — Stai a sentire, Singer. Dobbiamo tirarti fuori da quel coso. Sanchez ha uno scafandro di scorta, ma per fare lo scambio, dobbiamo costruirti attorno una casa. Capito?
— Uh-uh.
— Senti, faremo una cabina con te dentro, e la collegheremo all’unità ambiente. In questo modo potrai respirare mentre ti cambierai.
— Mi sembra molto compis… compil… plicato.
— Avanti, vieni con me…
— Mi riprendo subito uomo, lasciami solo riposare…
Lo afferrai per il braccio e lo guidai sul sito della costruzione. Lui camminava a zig-zag. Doc gli prese l’altro braccio, e tra tutti e due gli impedimmo di cadere.
— Caporale Ho, qui il caporale Mandella. — La Ho era la responsabile dell’unità ambiente.
— Vattene, Mandella, ho da fare.
— Avrai da fare ancora di più. — Le spiegai il problema, in fretta. Mentre il suo gruppo si affrettava ad adattare l’unità (per questo, bastavano solo un tubo per l’aria e un riscaldatore) feci portare dalla mia squadra sei lastre di permaplastica, per poter costruire una grossa cabina attorno a Singer e allo scafandro di scorta. Avrebbe avuto l’aria di un’enorme cassa da morto, un metro quadrato per sei metri di lunghezza.
Deponemmo lo scafandro sulla lastra che sarebbe stata il pavimento della bara. — Okay, Singer, andiamo.
Nessuna risposta.
— Singer, andiamo.
Nessuna risposta.
— Singer! — Lui stava lì, in piedi. Doc Jones controllò i dati.
— È andato, uomo. Ha perso i sensi.
La mia mente turbinò. Poteva esserci posto per un’altra persona, dentro la cabina. — Dammi una mano, su. — Presi Singer per le spalle e Doc lo prese per i piedi. Lo stendemmo cautamente alla base dello scafandro vuoto.
Poi mi sdraiai anch’io, sopra lo scafandro. — Okay, chiudete.
— Senti, Mandella, se c’è qualcuno che deve entrare lì dentro, quello sono io.
— Vai a farti fottere, Doc. È compito mio. È uno dei miei uomini. — Suonava tutto sbagliato. William Mandella, il giovane eroe.
Quelli alzarono la lastra, di taglio — aveva due aperture per i tubi d’uscita e d’entrata dell’unità ambiente — e cominciarono a saldarla alla tavola di fondo con un sottile raggio laser. Sulla Terra avremmo usato semplicemente il collante, ma lì l’unico fluido era l’elio, che ha un sacco di proprietà interessanti, ma decisamente non è adesivo.
Dopo dieci minuti circa eravamo completamente murati dentro. Sentivo l’unità ambiente che ronzava. Accesi la luce del mio scafandro, per la prima volta da quando eravamo atterrati nell’emisfero notturno, e il chiarore fece danzare delle chiazze purpuree davanti ai miei occhi.
— Mandella, qui è Ho. Resta nella tua tuta almeno due o tre minuti. Stiamo pompando dentro aria calda, ma torna indietro trasformata in liquido. — Per un po’, restai a guardare le chiazze purpuree che svanivano.
— Okay, è ancora freddo, ma puoi farcela. — Feci scattare il mio scafandro. Non si aprì completamente, ma non faticai molto a sgusciarne fuori. Era ancora abbastanza freddo da staccarmi la pelle dalle dita e dal deretano, mentre ne uscivo.
Dentro quella specie di bara, dovetti strisciare a piedi in avanti per raggiungere Singer. Via via che mi allontanavo dalla mia lampada, si faceva rapidamente più buio. Quando feci scattare lo scafandro di Singer, una zaffata di fetore caldissimo mi investì in piena faccia. Nella luce fioca, aveva la pelle paonazza e piena di macchie. La respirazione era superficiale, e vedevo le palpitazioni del cuore.
Per prima cosa sganciai i tubi dell’evacuazione — una faccenda molto sgradevole — e poi i biosensori; e quindi ebbi il problema di estrargli le braccia dalle maniche.
Farlo da soli è molto facile. Ti giri e ti rigiri da una parte e dall’altra, e le braccia vengono fuori. Ma farlo dall’esterno è tutta un’altra faccenda: dovevo girargli il braccio e poi infilare sotto la mano e muovere di conserva il braccio dello scafandro… e ci vuole molta forza per una simile manovra.
Quando fui riuscito a tirargli fuori un braccio, tutto diventò più facile; mi limitai ad avanzare strisciando, misi i piedi sulle spalle dello scafandro, e lo tirai per il braccio già libero. Lui scivolò fuori dall’involucro, come un’ostrica che esce dal guscio.
Aprii lo scafandro di scorta e con un mucchio di spinte e strattoni riuscii a infilargli dentro le gambe. Agganciai i biosensori e il tubo d’evacuazione anteriore. L’altro avrebbe dovuto metterselo da solo: è troppo complicato. Per l’ennesima volta, mi dissi che era una fortuna non essere nato femmina; le donne devono portare due di quegli stramaledetti cateteri, invece di uno solo più un semplice tubo.
Lasciai le braccia di Singer fuori dalle maniche. Lo scafandro sarebbe stato comunque inutile per qualunque genere di lavoro: i waldo devono venire adattati su misura a ogni individuo.
Singer sbatté le palpebre. — Man… della. Dove… cavolo…
Glielo spiegai, adagio, e lui sembrò capire quasi tutto. — Adesso devo chiuderti, quindi infilarmi nello scafandro. Dirò alla squadra di tagliare l’estremità di questo scatolone e poi ti tirerà fuori. Capito?
Egli annuì. Era uno strano spettacolo: quando annuisci o scrolli le spalle dentro a uno scafandro, quel gesto non comunica affatto il suo significato.
Mi infilai nel mio scafandro, agganciai tutto quello che c’era da agganciare e con un colpo di mento attivai la frequenza generale. — Doc, credo che si stia riprendendo. Adesso tirateci fuori di qui.
— Provvediamo. — Era la voce della Ho. Il ronzio dell’unità ambiente fu sostituito da un cicalio, poi da una pulsazione. Evacuavano la cabina per evitare un’esplosione.
Un angolo della saldatura diventò rovente, poi incandescente, e un luminoso raggio cremisi entrò, come una lancia, passando a una trentina di centimetri dalla mia testa. Mi rannicchiai per scostarmi il più possibile. Il raggio risalì lungo la saldatura e intorno ai tre spigoli, fino al punto di partenza. L’estremità della cabina cadde, lentamente, trascinando dietro di sé filamenti di permaplastica sciolta.
— Mandella, aspetta che torni a indurirsi.
— Non sono tanto stupido, Sanchez.
— Ecco, vai. — Qualcuno mi gettò una fune. Così sarebbe andata molto meglio che se avessi dovuto trascinarlo fuori da solo. Feci passare un lungo tratto sotto le braccia di Singer, e poi glielo annodai dietro al collo. Quindi mi trascinai fuori per aiutare gli altri a tirare, il che era sciocco… c’era già una dozzina di persone pronte a cominciare.
Singer ne venne fuori sano e salvo, e si stava addirittura tirando su a sedere, quando Doc Jones andò a leggergli i dati. Tutti venivano a chiedermi com’era andata e a congratularsi con me, quando all’improvviso la Ho disse: — Guardate! — e tese il braccio verso l’orizzonte.
Era un’astronave nera, che arrivava a tutta velocità. Ebbi appena il tempo di pensare che non era giusto, che non dovevano attaccarci fino agli ultimi giorni, e l’astronave ci arrivò sopra la testa.
Ci buttammo tutti al suolo, istintivamente, ma l’astronave non attaccò. Accese i razzi frenanti e scese, atterrando sui pattini. Poi si girò slittando e venne a fermarsi vicino al sito della costruzione.
Tutti avevano già capito, e se ne stavano lì intorno, vergognandosi, quando dall’astronave uscirono due figure chiuse negli scafandri.
Una voce ben nota gracchiò sulla frequenza generale. — Ognuno di voi ci ha visti arrivare, e non uno di voi ha fatto fuoco con il laser. Non sarebbe servito a niente, ma avrebbe almeno dimostrato un po’ di spirito combattivo. Avete a disposizione una settimana o meno prima che si faccia sul serio, e siccome il sergente e io saremo qui, io pretendo che dimostriate un po’ più di volontà di vivere. Facente funzione di sergente Potter.
— Qui, signore.
— Sceglimi dodici persone per caricare. Abbiamo portato cento piccole robosonde per allenarvi al tiro al bersaglio, in modo che abbiate almeno qualche possibilità di combattere quando arriverà un bersaglio vivo.
"Adesso muovetevi. Abbiamo solo trenta minuti, prima che l’astronave ritorni a Miami."
Io controllai, e in realtà rimase per una quarantina di minuti.
Avere lì il capitano e il sergente in realtà non cambiava di molto la situazione: eravamo egualmente abbandonati a noi stessi: quei due si limitavano a osservare.
Una volta sistemato il pavimento, bastò un giorno soltanto per completare il bunker. Era un rettangolo grigio, privo di aperture, a parte la bolla del vano stagno e quattro finestre. Sul tetto era montato un laser da un megawatt, girevole. L’operatore — non era possibile chiamarlo "cannoniere" — stava su un sediolo e stringeva con entrambe le mani gli interruttori del tipo detto "a uomo morto". Il laser non avrebbe sparato, finché lui avesse stretto uno degli interruttori. Se li avesse mollati, il laser si sarebbe puntato automaticamente su qualunque oggetto aereo in movimento e avrebbe sparato a volontà. All’intercettazione primaria e al puntamento provvedeva un’antenna alta un chilometro, montata accanto al bunker.
Era l’unico sistema che avesse qualche probabilità di funzionare, dato che l’orizzonte era così vicino e i riflessi umani erano così lenti. Non era possibile ricorrere all’automazione completa, perché in teoria potevano anche avvicinarsi astronavi amiche.
Il computer di puntamento poteva scegliere anche tra dodici bersagli che comparissero simultaneamente, sparando per primi a quelli più grossi. E li avrebbe centrati tutti e dodici nello spazio di mezzo secondo.
L’installazione era parzialmente protetta dal fuoco nemico a mezzo di un efficiente strato ablativo che copriva tutto, tranne l’operatore umano. Ma d’altra parte, quelli erano interruttori del tipo "a uomo morto". Un uomo solo, lassù, a vegliare sugli ottanta che stavano dentro. Nell’esercito sono bravissimi, con questo tipo di aritmetica.
Quando il bunker fu completato, una metà di noi rimase sempre lì dentro (ci sentivamo molto bersagli) e si faceva a turno a far funzionare il laser, mentre l’altra metà usciva per le manovre.
A quattro chilometri circa dalla base c’era un grosso "lago" di idrogeno ghiacciato; una delle nostre manovre più importanti consisteva nell’imparare a muoverci su quella roba pericolosissima.
Non era troppo difficile. Non potevi starci sopra in piedi, quindi dovevi sdraiarti sul ventre e slittare.
Se avevi qualcuno che ti dava la spinta iniziale, mettersi in moto non costituiva un problema. Altrimenti, dovevi brancicare con le mani e con i piedi, spingendoti con tutta la forza possibile, fino a quando cominciavi a muoverti, a piccoli balzi. Una volta messo in moto, continuavi ad andare fino a quando c’era ghiaccio. Potevi sterzare un po’ premendo forte mano e piede dalla parte giusta, ma in quel modo non ce la facevi a rallentare e a fermarti. Quindi la cosa migliore era non andare troppo forte e mettersi in modo che non fosse l’elmo a subire l’urto al momento dell’arresto.
Facemmo tutto quello che ci avevano fatto fare nell’emisfero di Miami: esercitazioni con le armi, demolizione, schemi d’attacco. Lanciammo anche le sonde verso il bunker, a intervalli irregolari. E così, dieci o quindici volte al giorno, gli operatori dovevano dimostrare la loro abilità lasciando andare le maniglie non appena si accendevano le luci che segnalavano il nemico in avvicinamento.
Feci anch’io un turno di quattro ore, come tutti gli altri. Ero nervoso, fino al primo "attacco", quando mi resi conto che in realtà era una cosa da niente. La luce si accese, io lasciai andare gli interruttori, il cannone si puntò, e quando la sonda fece capolino sopra l’orizzonte… zzt! Un bel tocco di colore, quel metallo fuso spruzzato a pioggia nello spazio. Per il resto, non era molto emozionante.
Quindi nessuno di noi era preoccupato per l’imminente "esercitazione finale", perché si pensava che fosse più o meno la stessa cosa.
Il tredicesimo giorno, Base Miami attaccò con due missili simultanei che saettarono da due punti opposti dell’orizzonte, alla velocità di circa quaranta chilometri al secondo. Il laser disintegrò il primo senza la minima difficoltà, ma il secondo arrivò a otto chilometri dal bunker, prima di venire centrato.
Noi stavamo tornando dalle manovre, ed eravamo a circa un chilometro dal bunker. Non avrei visto niente, se non avessi guardato proprio in quella direzione, al momento dell’attacco.
Il secondo missile grandinò direttamente sul bunker in una pioggia di frammenti fusi. Undici pezzi arrivarono a segno, e in base a quanto potemmo ricostruire in seguito, questo fu quanto accadde:
La prima a rimetterci la pelle fu Maejima, la tanto desiderata Maejima; era dentro al bunker, fu colpita alla schiena e alla testa e morì immediatamente. Con l’abbassarsi della pressione, l’unità ambiente scattò al massimo. Friedman stava proprio di fronte alla griglia del condizionatore d’aria, e venne scaraventato contro la parete opposta con tanta forza che perse i sensi: morì di decompressione, prima che gli altri potessero infilarlo nel suo scafandro.
Tutti gli altri riuscirono a muoversi barcollando in quella bufera e a infilarsi negli scafandri, ma quello di Garcia era stato bucato da una scheggia, e fu come se non lo avesse neppure messo.
Prima che noi arrivassimo, avevano spento l’unità ambiente e stavano già saldando le falle nelle pareti. Un uomo stava cercando di ricomporre la poltiglia irriconoscibile che era stata Maejima. Lo sentivo singhiozzare e vomitare. Garcia e Friedman li avevano già portati fuori, per seppellirli. Il capitano prese il comando della squadra riparazioni. Il sergente Cortez condusse in un angolo l’uomo che singhiozzava e tornò da solo a pulire i resti di Maejima. Non ordinò a nessuno di aiutarlo, e nessuno si offrì volontario.
A titolo di esercitazione finale, ci caricarono senza cerimonie a bordo di un’astronave — Earth’s Hope, la stessa che ci aveva portati a Caronte — e ci spedirono a Stargate a poco più di una gravità.
Il viaggio sembrò interminabile, circa sei mesi di tempo soggettivo, e anche molto noioso, ma non fu duro come quello che ci aveva portati a Caronte. Il capitano Stott ci fece ripassare oralmente l’addestramento, giorno per giorno, e quotidianamente facevamo esercizi vari, fino a ridurci come stracci.
Stargate 1 era come l’emisfero buio di Caronte, solo un po’ peggio. La base su Stargate 1 era più piccola di Base Miami, solo un poco più grande di quella che avevamo costruito sull’emisfero notturno, e dovemmo lavorare più di una settimana per aiutare ad ampliare la postazione. La squadra che era già lì fu molto contenta di vederci: specialmente le due donne, che avevano l’aria un po’ sovraffaticata.
Eravamo tutti affollati nella piccola sala mensa, dove il vicemaggiore Williamson, responsabile di Stargate 1, ci comunicò qualche notizia sconcertante:
— Mettetevi tutti comodi. Però scendete dai tavoli, sul pavimento c’è tutto il posto che volete.
"Ho un’idea chiara di quello che avete passato durante l’addestramento su Caronte. Non dirò che sia stata fatica sprecata. Ma là dove siete diretti, le cose saranno molto differenti. Molto più calde."
Fece una pausa, per darci il tempo di capire bene.
— Aleph Aurigae, la prima collapsar che sia stata scoperta, ruota intorno alla stella normale Epsilon Aurigae, in un’orbita della durata di ventisette anni. Il nemico ha una base operativa, non su un regolare pianeta portale di Aleph, bensì su un pianeta in orbita intorno a Epsilon. Non sappiamo molto sul conto di quel pianeta; solo che compie un giro intorno a Epsilon ogni 745 giorni, è grande circa tre quarti della Terra, e ha un’albedo di 0,8, il che significa che è probabilmente coperto di nubi. Non possiamo dire con esattezza che temperatura abbia, ma a giudicare dalla sua distanza da Epsilon, probabilmente è assai più caldo della Terra. Naturalmente, non sappiamo se dovrete lavorare… combattere nell’emisfero illuminato o in quello buio, all’equatore o ai poli. È estremamente improbabile che l’atmosfera sia respirabile… comunque, resterete dentro ai vostri scafandri.
"Adesso voi sapete esattamente quel che ne so io sul posto dove siete diretti. Qualche domanda?"
— Signore — fece Stein con voce strascicata — adesso sappiamo dove stiamo andando… qualcuno sa che cosa dovremo fare quando ci saremo arrivati?
Williamson scrollò le spalle. — Questo dovranno deciderlo il vostro capitano… e il vostro sergente, e il comandante della Earth’s Hope, e il computer logistico dell’astronave. Noi non disponiamo ancora di dati sufficienti per estrapolare una linea d’azione. Potrebbe trattarsi di una battaglia lunga e sanguinosa; potrebbe trattarsi semplicemente di andare a raccogliere i cocci. È concepibile che i taurani abbiano intenzione di avanzare proposte di pace — Cortez sbuffò, a questo punto — e in tal caso voi farete semplicemente parte del nostro spiegamento di forze, del nostro potere contrattuale. Guardò Cortez con aria mite. — Nessuno può dirlo con sicurezza.
Quella notte l’orgia fu divertente, ma era un po’ come cercare di dormire nel bel mezzo di una chiassosa festa sulla spiaggia. L’unico posto abbastanza ampio perché potessimo dormirci tutti era la sala mensa; drappeggiarono qua e là alcune coperte per ricavare degli angoletti intimi, poi scatenarono i diciotto maschi di Stargate, affamati di sesso, sulle nostre donne, che erano condiscendenti e promiscue secondo la tradizione militare (e in ossequio alla legge) ma che avrebbero desiderato soprattutto poter dormire sul terreno solido.
I diciotto uomini si comportarono come se fossero costretti a provare tutte le permutazioni possibili, e la loro prestazione fu impressionante, dal punto di vista strettamente quantitativo, voglio dire. Quelli di noi che tenevano il conto dirigevano un gruppo di plauditori per acclamare i membri più dotati. Credo che sia la parola adatta.
La mattina dopo — e così tutte le altre mattine che passammo su Stargate 1 — scendemmo barcollando dal letto e ci infilammo negli scafandri, per uscire a lavorare alla costruzione dell’"ala nuova". Stargate era destinata a diventare il quartier generale tattico e logistico della guerra, con migliaia di persone in servizio permanente, difeso da mezza dozzina di incrociatori pesanti della classe della Hope. Quando cominciammo noi, c’erano solo due baracche e venti persone: quando ce ne andammo, le persone erano sempre venti, le baracche quattro. Il lavoro era quasi uno scherzo, in confronto a quello nell’emisfero buio di Caronte, perché avevamo luce in abbondanza, e passavamo sedici ore al coperto ogni otto ore di lavoro. E non c’erano attacchi di missili a titolo d’esame finale.
Quando ci riportarono con le scialuppe alla Hope, nessuno era troppo entusiasta di andarsene (anche se alcune delle femmine più richieste dichiararono che erano contente di avere finalmente un po’ di riposo). Stargate era l’ultima missione facile e sicura prima di prendere le armi contro i taurani. E come aveva fatto osservare Williamson il primo giorno, non esisteva la possibilità di prevedere come sarebbero andate le cose.
In maggioranza, non eravamo neppure troppo entusiasti dell’idea di fare un balzo da collapsar a collapsar. Ci avevano assicurato che non ce ne saremmo neanche accorti, che saremmo stati per tutto il tempo in caduta libera.
Io non ne ero convinto. Quando studiavo fisica, avevo seguito i soliti corsi sulla relatività generale e sulle teorie della gravitazione. A quell’epoca conoscevamo solo pochissimi dati diretti… Stargate era stata scoperta quando frequentavo le elementari; ma il modello matematico sembrava abbastanza chiaro.
La collapsar Stargate era una sfera perfetta con un raggio di circa tre chilometri. Era eternamente sospesa in uno stato di collasso gravitazionale, il che significava che la sua superficie precipitava verso il suo centro a una velocità molto prossima a quella della luce. La relatività la puntellava, o almeno le dava l’illusione di esserci… nel modo in cui tutta la realtà diviene illusoria e dipendente dall’osservatore, quando studi la relatività generale. Oppure il buddismo. O quando vieni arruolato.
Comunque, ci sarebbe stato un punto teorico nello spazio-tempo in cui un’estremità della nostra astronave si sarebbe trovata appena al di sopra della superficie della collapsar, e l’altra estremità a un chilometro di distanza (secondo il nostro sistema di coordinate spaziotemporali). In un qualunque universo ragionevole, questo avrebbe causato tensioni che avrebbero fatto a pezzi l’astronave, e noi saremmo stati solo un nuovo milione di chili di materia degenerata che andava a far parte della superficie teorica: chili destinati a precipitare a capofitto nel niente per il resto dell’eternità o a cadere verso il centro in un trilionesimo di secondo. Fate la vostra puntata, signori, e scegliete il sistema di coordinate vincente.
Comunque, avevano ragione loro. Partimmo da Stargate 1, effettuammo qualche correzione di rotta e poi precipitammo, semplicemente, per circa un’ora.
Poi suonò una campana e noi sprofondammo nei cuscini, sotto una decelerazione costante a due gravità. Eravamo arrivati in territorio nemico.
Stavamo decelerando a due gravità da circa nove giorni quando la battaglia ebbe inizio. Distesi nelle nostre cuccette, depressi e storditi, sentimmo due tonfi leggeri: i missili che venivano lanciati. Circa otto ore più tardi, l’altoparlante gracchiò: — A tutto l’equipaggio, attenzione. Qui è il comandante. — Qumsana, il pilota, era solo tenente, ma aveva il diritto di farsi chiamare comandante a bordo dell’astronave, dove era superiore di grado a tutti noi, persino al capitano Stott. — Potete ascoltare anche voi burbe giù nella stiva.
"Abbiamo appena impegnato il nemico con due missili a tachioni da cinquanta gigatoni, e abbiamo distrutto tanto il vascello nemico quanto un altro oggetto che esso aveva lanciato approssimativamente tre microsecondi prima.
"Il nemico ha cercato di raggiungerci durante le ultime 179 ore, tempo dell’astronave. Al momento dello scontro, il nemico si muoveva a una velocità di poco superiore alla metà di quella della luce, relativamente ad Aleph, e si trovava a sole trenta unità astronomiche dalla Earth’s Hope. Si muoveva a 0,47 e relativamente a noi, e quindi saremmo stati coincidenti nello spazio-tempo — (speronati!) — in poco più di nove ore. I missili sono stati lanciati alle 0719, tempo dell’astronave, e hanno distrutto il nemico alle 1540: entrambe le bombe a tachioni sono esplose a meno di mille chilometri dagli oggetti nemici.
"I due missili erano di un tipo il cui sistema di propulsione era già di per se tesso una bomba a tachioni tenuta a stento sotto controllo. Acceleravano a un ritmo costante di 100 gravità, e stavano viaggiando a velocità relativistica nel momento in cui la vicinanza della massa dell’astronave nemica li ha fatti esplodere.
"Non prevediamo ulteriori interferenze da parte di vascelli nemici. La nostra velocità, rispetto ad Aleph, sarà pari a zero tra altre cinque ore; allora cominceremo la traiettoria di ritorno, che richiederà ventisette giorni." Lamenti generali e imprecazioni avvilite. Tutti lo sapevamo già, naturalmente; ma non ci tenevamo a sentircelo ricordare.
E così, dopo un altro mese di ginnastica e di esercitazioni logistiche, a due gravità costanti, potemmo dare la prima occhiata al pianeta che stavamo per attaccare. Gli invasori venuti dallo spazio, sissignori.
Era una falce bianca, accecante, che ci aspettava a due unità astronomiche da Epsilon. Il comandante aveva identificato l’ubicazione della base dei nemici da cinquanta unità astronomiche di distanza; e ci eravamo avvicinati in un ampio arco, tenendo tra noi e loro la massa del pianeta. Questo non significava che ci stessimo avvicinando furtivamente, anzi, tutto il contrario, dato che i nemici lanciarono tre attacchi fallimentari: ma ci metteva in una posizione difensiva più forte. Fino a quando non fossimo dovuti scendere sulla superficie, cioè. Allora solo l’astronave e il suo equipaggio della Flotta Stellare sarebbero stati ragionevolmente al sicuro.
Poiché il pianeta ruotava piuttosto lentamente — una rotazione ogni dieci giorni e mezzo — un’orbita "stazionaria" per l’astronave doveva essere a 150.000 chilometri. Questo dava un senso di sicurezza all’equipaggio dell’astronave, con 9000 chilometri di roccia e 140.000 chilometri di spazio tra la Hope e i nemici. Ma questo comportava un secondo di divario nelle comunicazioni tra noi a terra e il calcolatore da combattimento dell’astronave.
Una persona aveva tutto il tempo di morire mentre quell’impulso di neutrini viaggiava in su e in giù.
I nostri ordini, che erano piuttosto vaghi, ci imponevano di attaccare la base e di impadronircene, cercando di danneggiare al minimo l’equipaggiamento nemico. Dovevamo catturare almeno un nemico vivo. Tuttavia, in nessun caso dovevamo lasciarci prendere vivi. E la decisione non veniva affidata a noi: un impulso speciale del computer da combattimento, e il pezzettino di plutonio che avevi nel generatore di corrente si sarebbe scisso con tutta la sua efficienza dello 0,01%, e di te non sarebbe rimasto altro che del plasma caldissimo in rapida espansione.
Ci legarono con le cinture di sicurezza a bordo di sei ricognitori (un plotone di dodici per ciascuno) e ci lanciarono dalla Earth’s Hope a otto gravità. Ogni ricognitore doveva seguire una rotta accuramente randomizzata per arrivare al punto del rendez-vous, a 108 chilometri dalla base. Contemporaneamente vennero lanciate altre quattordici sonde automatiche, per confondere il sistema antiastronavi del nemico.
L’atterraggio andò quasi alla perfezione. Un solo ricognitore subì lievi danni (per un colpo esploso a poca distanza, parte del materiale ablativo su un lato dello scafo si disperse bollendo: comunque ce la fece ad atterrare e a tornare indietro, mantenendosi a bassa velocità finché rimase nell’atmosfera).
Noi zigzagammo e guizzammo e arrivammo per primi al punto del rendez-vous. C’era solo una piccola difficoltà: il punto si trovava sotto quattro chilometri d’acqua.
Mi pareva quasi di sentire il computer che, a 140.000 chilometri di distanza, digrignava i suoi congegni pensanti, rimuginando su quel nuovo dato. Noi procedemmo esattamente come se stessimo atterrando sul terreno solido: razzi frenanti, caduta, fuori i pattini, urto contro l’acqua, sobbalzo, e poi giù.
Forse la logica consigliava di continuare, e atterrare sul fondo, dato che il ricognitore aveva una linea aerodinamica, e dopotutto l’acqua è solo un fluido come tanti altri; ma lo scafo non era abbastanza resistente per reggere alla pressione di una colonna d’acqua di quattro chilometri. Con noi, sul ricognitore, c’era il sergente Cortez.
— Sergente, dica a quel computer di fare qualcosa! Altrimenti finiremo…
— Oh, piantala, Mandella. Abbi fiducia nel Signore. — La parola "Signore" in bocca a Cortez aveva sempre l’iniziale minuscola.
Si udì una specie di sospiro gorgogliante, e poi un altro, e poi un lieve aumento della pressione contro la mia schiena indicò che il ricognitore stava risalendo. — Sacche di galleggiamento? — Cortez non si degnò di rispondere, o forse non lo sapeva neanche lui.
Era proprio così. Risalimmo fino a dieci o quindici metri dalla superficie e ci fermammo lì sospesi. Oltre l’oblò potevo vedere la superficie, lassù, che scintillava come uno specchio d’argento martellato. Mi chiesi che cosa si provasse a essere un pesce e ad avere un tetto ben definito sopra il mondo.
Vidi un altro ricognitore che si tuffava. Causò una grande nube di bolle e di perturbazioni e poi precipitò, di coda, per un breve tratto, prima che grosse sacche si gonfiassero di colpo sotto le ali a delta. Poi risalì ondeggiando più o meno fino al nostro livello, e restò lì.
— Qui è il capitano Stott. Ascoltate attentamente. C’è una spiaggia, a circa ventotto chilometri dalla vostra posizione attuale, nella direzione in cui si trova il nemico. Procederete fino alla spiaggia con i ricognitori, e di lì provvederete a organizzare l’attacco contro la posizione taurana. — Quello era un miglioramento spettacoloso avremmo dovuto percorrere a piedi solo ottanta chilometri.
Facemmo sgonfiare le sacche, ci sparammo alla superficie e la sorvolammo in formazione spiegata, a bassa quota, in direzione della spiaggia. Impiegammo parecchi minuti. Mentre il ricognitore si fermava scricchiolando, sentii le pompe che ronzavano, per rendere la pressione interna della cabina eguale a quella atmosferica esterna. Prima ancora che il ricognitore avesse smesso di muoversi, il portello d’uscita accanto alla mia cuccetta si aprì. Rotolai fuori sull’ala dell’apparecchio e balzai al suolo. Dieci secondi per trovare un riparo… corsi sulla ghiaia verso il più vicino "filare d’alberi", un groviglio contorto di arbusti alti e sparsi, di un verde azzurrognolo. Mi buttai in mezzo ai rovi e mi voltai a guardare i ricognitori che ripartivano. Le sonde automatiche che erano rimaste si innalzarono lentamente fino a una quota di un centinaio di metri, e poi si dispersero in tutte le direzioni, con un rombo da scardinare le ossa. I veri ricognitori tornarono a scivolare lentamente sott’acqua. Magari era una buona idea.
Non era un mondo terribilmente attraente, ma certo sarebbe stato più facile muoversi lì che nell’incubo criogenico in cui ci avevano addestrati. Il cielo era un fulgore uniforme, argenteo e opaco, che si fondeva completamente con la foschia sull’oceano, al punto che era impossibile indicare dove finiva l’acqua e incominciava l’aria. Onde minute lambivano la spiaggia di ghiaia nera, troppo lentamente e graziosamente in quella gravità che era solo tre quarti di quella terrestre. Anche da cinquanta metri di distanza, l’acciottolio di miliardi di sassi fatti rotolare dalla risacca risuonava foltissimo nelle mie orecchie.
La temperatura dell’aria era 79 gradi centigradi: non era abbastanza caldo per far bollire il mare, sebbene la pressione atmosferica fosse inferiore a quella terrestre. Spirali di vapore salivano rapidamente verso il cielo dalla battigia dove acqua e terra si congiungevano. Mi chiesi come avrebbe fatto a sopravvivere un uomo, lì, senza lo scafandro. L’avrebbe ucciso prima il calore oppure il basso tenore d’ossigeno (la pressione parziale era un ottavo di quella normale della Terra)? Oppure lì c’era qualche microrganismo mortale che li avrebbe battuti entrambi sul tempo?
— Qui è Cortez. Muovetevi tutti, raccoglietevi attorno a me. — Era ritto sulla spiaggia, un po’ alla mia sinistra, e agitava in cerchio la mano sopra la testa. Mi avviai verso di lui, passando tra gli arbusti. Erano fragili, inconsistenti, e sembravano paradossalmente secchi in quell’aria carica di vapore. Non avrebbero offerto certamente un buon riparo.
— Avanzeremo in direzione 0,05 radianti a est di nord. Il Plotone Uno all’avanguardia. Due e Tre seguono a venti metri di distanza, a sinistra e a destra. Il Sette, il plotone del comando, al centro, venti metri dietro il Due e il Tre. Il Cinque e il Sei alla retroguardia, in un fianco chiuso, semicircolare. Tutto chiaro? — Sicuro, eravamo capaci di seguire quella manovra a "punta di freccia" anche da addormentati. — Okay, muoviamoci.
Io ero nel Plotone Sette, il "gruppo del comando". Il capitano Stott mi ci aveva messo non perché mi spettasse d’impartire qualche comando, ma perché avevo studiato fisica.
Il gruppo del comando era, ipoteticamente, il posto più sicuro, protetto com’era dagli altri sei plotoni; venivi assegnato a quello perché, per ragioni tattiche, era meglio che sopravvivessi un po’ più a lungo degli altri. C’era Cortez, per dare gli ordini. C’era Chavez, per rimediare ai difetti di funzionamento degli scafandri. C’era il medico anziano, Doc Wilson (l’unico medico che avesse effettivamente una laurea in medicina), e c’era anche Theodopolis, il radiotecnico: era il nostro legame col capitano, che aveva deciso di restare in orbita.
Poi c’eravamo noialtri, che eravamo stati assegnati al gruppo del comando grazie a specializzazioni o attitudini che normalmente non sarebbero state considerate di indole "tattica". Di fronte a un nemico completamente ignoto, non si poteva mai sapere cosa potesse rivelarsi importante. Perciò io ero lì perché, in tutta la compagnia, ero quello che era arrivato più vicino alla laurea in fisica. La Rogers rappresentava la biologia. Tate la chimica. La Ho era in grado di ottenere un punteggio perfetto nei test Rhine di percezione extrasensoriale, in qualunque momento. Bohrs era un poliglotta, capace di parlare ventun lingue correntemente, idiomaticamente. La facoltà eccezionale di Petrov stava nel fatto che, secondo gli esami, non aveva nella sua psiche una sola molecola di xenofobia. Keating era un abile acrobata. Debby Hollister — detta Lucky, "fortunata" — possedeva una straordinaria capacità di far danaro, e anch’ella aveva un potenziale Rhine costantemente molto elevato.
Quando ci mettemmo in marcia, usammo la combinazione mimetica "giungla" sui nostri scafandri. Ma quella che passava per una giungla, in quei tropici anemici, era troppo rada: e noi sembravamo una banda di sgargianti arlecchini che sfilassero in mezzo a un bosco. Cortez ci ordinò di passare al nero, ma neanche quello andava bene, perché la luce di Epsilon arrivava in modo uniforme da tutte le parti del cielo, e non c’erano ombre, eccettuate le nostre. Finalmente optammo per la mimetizzazione del tipo deserto, color duna.
Il paesaggio cambiò gradualmente mentre marciavamo verso nord, allontanandoci dal mare. Gli steli spinosi — immagino che potrei chiamarli alberi — divennero meno numerosi, ma più grossi e meno fragili; alla base di ognuno di essi c’era una massa aggrovigliata di viticci dello stesso colore verdazzurro, che si espandeva in un cono appiattito del diametro d’una decina di metri. Sulla cima di ogni albero c’era un delicato fiore verde, grande quando la testa di un uomo.
A cinquanta chilometri dal mare, cominciò a spuntare l’erba. Sembrava che rispettasse i diritti di proprietà degli alberi, e lasciava una fascia di terreno spoglio intorno ad ogni cono di viticci. Sul limitare di una di quelle radure, l’erba cresceva sotto forma di timida stoppia verdazzurra, e poi, via via che si allontanava dall’albero, diventava più folta e più alta, fino a quando, in certi punti, ci arrivava alla spalla, là dove la distanza tra un albero e l’altro era eccezionalmente ampia. L’erba aveva una sfumatura più chiara e più verde degli alberi e dei viticci. Cambiammo il colore degli scafandri, passando al verde vivo che avevamo usato su Caronte per ottenere il massimo della visibilità. Finché ci tenevamo in mezzo all’erba più fitta, eravamo discretamente mimetizzati.
Coprivamo oltre venti chilometri al giorno, euforici compravamo dopo avere trascorso dei mesi a due gravità. Fino al secondo giorno, l’unico esemplare della fauna che vedemmo fu una specie di verme nero, grosso un dito, con centinaia di zampe ciliate che sembravano le setole d’uno spazzolino. La Rogers disse che ovviamente dovevano esserci in giro animali più grossi, altrimenti gli alberi non avrebbero avuto motivo di avere le spine. Perciò stavamo doppiamente in guardia, aspettandoci guai da parte tanto dei taurani quanto degli "animali più grossi" non meglio identificati.
Il Secondo plotone, quello della Potter, era all’avanguardia: la frequenza generale era riservata a lei, poiché era probabile che sarebbe stato il suo gruppo ad avvistare per primo gli eventuali guai.
— Sergente, qui Potter — sentimmo tutti. — Movimento più avanti.
— Buttatevi a terra, allora!
— Già fatto. Non credo che ci vedano.
— Primo plotone, portarsi alla destra del Secondo. State giù. Quarto, portarsi a sinistra. Avvertitemi, quando sarete in posizione. Sesto plotone, restare indietro e vigilare la retroguardia. Quinto e Terzo, avvicinarsi al gruppo del comando.
Due dozzine di persone uscirono frusciando dall’erba per unirsi a noi. Cortez doveva aver ricevuto conferma dal Quarto plotone.
— Bene. E voi del Primo?… Okay, benissimo. Quanti sono?
— Noi ne vediamo otto. — La voce della Potter.
— Bene. Quando do l’ordine, aprite il fuoco. Sparate per uccidere.
Sergente… sono solo animali.
Potter… Se hai sempre saputo che aspetto ha un taurano, avresti dovuto dircelo. Sparare per uccidere.
— Ma ci serve…
— Ci serve un prigioniero, ma non possiamo scortarlo per quaranta chilometri fino alla sua base e tenerlo d’occhio mentre combattiamo. Chiaro?
— Sì, sergente.
— Okay. Voi del Settimo, cervelloni e tipi strambi; andremo avanti a guardare. Quinto e Terzo, accompagnateci per proteggerci.
Strisciammo tra l’erba alta un metro, e arrivammo dove quelli del Secondo plotone si erano sparsi in fila, pronti a sparare.
— Io non vedo niente — disse Cortez.
— Avanti, un po’ sulla sinistra. Verdiscuri.
Erano solo di pochissimo più scuri dell’erba. Ma quando avevi visto il primo, riuscivi a vederli tutti: si muovevano lentamente, una trentina di metri più avanti.
— Fuoco! — Cortez sparò per primo. Poi dodici scie cremisi schizzarono e l’erba avvizzì, annerì, scomparve, e gli esseri sobbalzarono convulsamente e morirono mentre cercavano di disperdersi.
— Cessate il fuoco, cessate il fuoco! — Cortez si alzò. — Abbiamo bisogno che ci resti qualcosa… Secondo plotone, seguitemi. Avanzò a grandi passi verso i corpi fumanti, con il dito-laser puntato diritto davanti a sé, simile a un’oscena bacchetta da rabdomante che lo attirasse verso quella carneficina… Mi sentii stringere la gola, e capii che tutti i sadici nastri d’addestramento, tutte le morti orribili durante le esercitazioni non erano bastati a prepararmi a quella improvvisa realtà… che anch’io avevo una bacchetta magica, e potevo puntarla verso un essere vivente e trasformarlo in un pezzo fumante di carne semicotta; io non ero un soldato di professione, non avevo mai voluto esserlo, avrei preferito non doverlo essere mai…
— Okay, Settimo, venite avanti. — Mentre ci stavamo avviando, uno degli esseri si mosse, con un lieve brivido, e Cortez passò sopra di esso il raggio del laser, con un gesto quasi negligente. Il raggio aprì uno squarcio profondo un palmo nel corpo della creatura, che morì, come le altre, senza emettere un suono.
Erano meno alti di noi umani, ma più tozzi. Erano coperti d’una pelliccia verdescura, quasi nera… riccioli bianchi, là dove il pelame era stato strinato dal laser. Sembrava avessero tre gambe e un braccio solo. L’unico ornamento delle teste irsute era una bocca, un umido orificio nero, pieno di piatti denti neri. Erano assolutamente ripugnanti, ma il particolare peggiore non era costituito da una diversità, bensì da una somiglianza… Dove il laser aveva squarciato una cavità interna, si riversavano all’esterno globi venati e lucidi, lattei, e grovigli di organi, e il loro sangue era rosso scuro.
— Rogers, dai un’occhiata, taurani o no?
La Rogers si inginocchiò accanto a uno degli esseri sbudellati e aprì una cassetta piatta di plastica, piena di scintillanti ferri chirurgici. Scelse un bisturi. — C’è un modo per scoprirlo. — Doc Wilson stava a guardare al di sopra della sua spalla, mentre lei incideva metodicamente la membrana che ricopriva parecchi organi.
— Ecco. — Sollevò una massa fibrosa e nerastra tra due dita, in una parodia di schizzinosità, data quell’armatura.
— Allora?
— È erba, sergente. Se i taurani sono erbivori e respirano l’aria, certamente hanno trovato un pianeta straordinariamente simile al loro. — Gettò via la massa nerastra. — Sono animali, sergente, solo fottuti animali.
— Non so — disse Doc Wilson. — Solo perché camminano a quattro zampe, o forse a tre, e mangiano l’erba…
— E va bene, controlliamo il cervello. — La Rogers ne trovò uno che era stato colpito alla testa e scrostò dalla ferita i tessuti superficiali carbonizzati. — Guarda un po’.
Era quasi osso massiccio, lei tirò e scarruffò i peli sulla testa di un altro. — Ma che cosa diavolo ha, come organi sensoriali? Niente occhi, né orecchi, né… — Si rialzò. — In quella fottuta testa non c’è altro che una bocca e dieci centimetri di cranio: e per proteggere un bel niente.
— Se potessi scrollare le spalle, le scrollerei — disse il dottore. Questo non dimostra niente… non è necessario che un cervello abbia l’aspetto d’un gheriglio di noce ammuffito e che sia piazzato dentro alla testa. Magari quel cranio non è osso, magari è quello il cervello, una specie di griglia di cristalli…
— Già, ma quel fottuto stomaco è al posto giusto, e se quelli non sono intestini sono disposta a mangiarmi…
— Sentite — fece Cortez — questo è molto interessante, ma a noi basta sapere se questi cosi sono pericolosi, e poi dobbiamo andare avanti. Non possiamo star qui a…
— Non sono pericolosi — cominciò la Rogers. — Non…
— Medico! Doc! - Qualcuno che era rimasto con la fila dei tiratori agitò le braccia. Doc si avviò di corsa, seguito da tutti noi.
— Cos’è successo? — Mentre correva, Doc si era sganciato la cassetta del pronto soccorso dalle spalle.
— È la Ho. Ha perso i sensi.
Doc spalancò lo sportello del monitor biomedico della Ho. Non ebbe bisogno di guardare molto a lungo. — È morta.
— Morta? — fece Cortez. — Cosa diavolo…
— Un minuto solo. — Doc innestò una spina nel monitor e trafficò con alcuni quadranti della sua cassetta. — Qui sono registrate tutte le letture dei dati biomedici di tutti quanti, per le ultime dodici ore. Sto tornando indietro, dovrei riuscire a… ecco!
— Cosa?
— Quattro minuti e mezzo fa… deve essere successo quando avete aperto il fuoco… Gesù!
— Allora?
— Emorragia cerebrale massiccia. Nessun… — Guardò i quadranti. — Nessun… preavviso, nessuna indicazione di qualcosa fuori dell’ordinario; pressione sanguigna alta, polso elevato, ma normale date le circostanze… niente che… indichi… — Si chinò e aprì lo scafandro della morta. I fini lineamenti orientali erano distorti in una smorfia orribile, con le gengive scoperte. Un fluido viscido scorreva dalle palpebre abbassate, e da ognuno degli orecchi scendeva ancora un rivoletto di sangue. Doc Wilson tornò a chiudere lo scafandro.
— Non ho mai visto niente di simile. È come se le fosse scoppiata una bomba dentro al cranio.
— Oh, merda — disse la Rogers. — La Ho aveva la sensibilità extrasensoriale, no?
— Esatto. — Cortez sembrava pensieroso. — Bene, ascoltate tutti. Comandanti dei plotoni, controllate i vostri effettivi e vedete se qualcuno manca o sta male. Nessun altro, nel Settimo?
— Io… io ho un mal di testa terribile, sergente — disse Lucky.
Altri quattro avevano tremendi mal di testa. Uno di loro affermò di possedere una leggera sensibilità extrasensoriale. Gli altri non lo sapevano.
— Cortez, mi sembra che sia evidente — disse Doc Wilson. — Dovremo girare alla larga da questi… mostri, e soprattutto non dobbiamo far loro del male. Non possiamo rischiare, con cinque persone esposte a quello che, a quanto pare, ha ucciso la Ho.
— Certamente, maledizione, non ho bisogno che me lo venga a dire un altro. Faremmo meglio a muoverci. Ho appena riferito al capitano quello che è successo: è d’accordo che faremmo bene ad allontanarci da qui al più presto possibile, prima di accamparci per passare la notte. Riprendiamo la formazione e continuiamo nella stessa direzione. Quinto plotone, passate all’avanguardia; Secondo, tornate alla retroguardia. Tutti gli altri, come prima.
— E la Ho? — chiese Lucky.
— Ci penserà l’astronave.
Percorso mezzo chilometro, ci furono un lampo e un tuono rombante. Dove prima c’era la Ho, si levò una nuvola luminosa e vaporosa a forma di fungo, che ribollì e si dissolse contro lo sfondo del cielo grigio.
Ci fermammo per passare la "notte" — in realtà il sole sarebbe tramontato solo dopo altre settanta ore — in cima a una piccola altura, a una decina di chilometri dal punto dove avevamo ucciso gli alieni. Ma non erano loro gli alieni, rammentai a me stesso… lo eravamo noi.
Due plotoni si disposero in cerchio intorno agli altri, e noi ci lasciammo cadere esausti. Ad ognuno spettavano quattro ore di sonno e poi due ore di servizio di sentinella.
La Potter venne a sedersi vicino a me. Con il mento, feci scattare la sua frequenza.
— Ciao, Marygay.
— Oh, William. — Attraverso la radio, la sua voce era rauca e crepitante. — Dio, è così orribile.
— Adesso è passato…
— Io ne ho ucciso uno, al primo istante. Gli ho sparato diritto nel… nel…
Le posai una mano su un ginocchio. Il contatto causò un ticchettio di plastica, e io tirai indietro la mano; negli occhi avevo visioni di macchine che si abbracciavano, si accoppiavano. — Non devi sentirti responsabile, Marygay: se una colpa esiste è… è… di tutti noi… in parti eguali, ma con una tripla porzione per Cor…
— Voi soldati piantatela di chiacchierare e dormite. Siete tutti e due di guardia fra due ore.
— Okay, sergente. — La voce di Marygay era triste e stanca in modo insopportabile. Avevo l’impressione che, se avessi potuto toccarla, avrei assorbito quella tristezza come un filo assorbe la corrente, ma tutti e due eravamo prigionieri nel nostro mondo di plastica…
— Buonanotte William.
— ’Notte. — È quasi impossibile eccitarsi sessualmente dentro a uno scafandro, con il tubo dell’evacuazione e tutti i sensori di cloruro d’argento che ti pungolano, ma fu proprio quella la reazione del mio corpo all’impotenza emotiva: forse a causa del ricordo di sonni più piacevoli in compagnia di Marygay, forse a causa del pensiero che in mezzo a tutta quella morte poteva venire presto la morte individuale, si alzò la gru della procreazione per un ultimo tentativo… pensieri deliziosi. Mi addormentai e sognai che ero una macchina, e imitavo le funzioni della vita, e avanzavo goffamente nel mondo, cigolando e sferragliando, e la gente era troppo educata per dire qualcosa, ma mi rideva alle spalle, e l’omino piccolo piccolo che stava seduto dentro alla mia testa, e tirava le leve e le barre e scrutava i quadranti, era esasperato e collezionava quelle offese in vista del giorno in cui…
— Mandella… sveglia, maledizione, è il tuo turno!
Mi trascinai al mio posto, al perimetro del campo, a fare la guardia Dio sapeva per che cosa… ma ero così stanco che non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Finii per allungare la lingua per prendere una compressa di stimolante, pur sapendo che l’avrei pagata più tardi.
Per oltre un’ora restai seduto lì, a scrutare il mio settore, a sinistra, a destra, vicino, lontano, e la scena non cambiava mai, non c’era neppure un alito di vento che smuovesse l’erba.
Poi all’improvviso l’erba alta si aprì e uno degli esseri a tre zampe apparve davanti a me. Alzai il dito, ma non sparai.
— Movimento!
— Movimento!
— Gesù Cri… ce n’è uno proprio…
— Non sparate! Cribbio, non sparate!
— Movimento.
— Movimento. — Guardai a sinistra e a destra, e fin dove potevo vedere io, ogni sentinella del perimetro aveva davanti a sé uno di quegli esseri ciechi e sordi.
Forse la droga che avevo ingerito per star sveglio mi rendeva più sensibile a quello che essi facevano. Mi si aggricciò il cuoio capelluto, e sentii nella mente una cosa informe, la sensazione che si prova quando qualcuno ha detto qualcosa e tu non hai sentito bene, vorresti rispondere, ma non c’è più la possibilità di invitarlo a ripetere ciò che ha detto.
L’essere sedette sulle zampe posteriori, appoggiandosi in avanti sull’unica anteriore. Un grosso orso verde con un braccio rinsecchito. La sua energia penetrava nella mia mente, come una ragnatela di terrori notturni, cercando di comunicare con me, o forse di distruggermi, non lo sapevo.
— Bene, tutti voi al perimetro, indietreggiate, adagio. Non fate movimenti rapidi… Qualcuno ha il mal di testa o qualcosa del genere?
— Sergente, qui è Hollister. — (Lucky.) — Stanno cercando di dire qualcosa… riesco quasi a… no, è soltanto… Tutto quello che riesco a captare è che loro ci giudicano, ci giudicano… ecco, strani. Non hanno paura.
— Vuoi dire che quello che hai davanti non ha…
— No, la sensazione proviene da tutti: pensano tutti la stessa cosa. Non mi chieda come faccio a saperlo, lo so e basta.
— Forse pensano che è stato divertente, quello che hanno fatto alla Ho.
— Forse. Non sento che siano pericolosi. Provano solo curiosità nei nostri confronti.
— Sergente, qui è Bohrs.
— Sì.
— I taurani sono qui almeno da un anno… forse hanno imparato a comunicare con questi… orsacchiotti troppo cresciuti. Magari ci spiano, e trasmettono…
— Non credo che sarebbero comparsi, se fosse così — disse Lucky. — Quando vogliono, possono benissimo nascondersi in modo che noi non li vediamo.
— Comunque — disse Cortez — se sono spie, ormai il danno è fatto. Non credo che sarebbe molto geniale prendere qualche iniziativa contro di loro. So che tutti voi vorreste vederli morti per quello che hanno fatto alla Ho, e anch’io la penso allo stesso modo, ma è meglio che siamo prudenti.
Io non volevo vederli morti, ma avrei preferito non averli visti per niente. Camminavo lentamente a ritroso, verso il centro del campo. L’essere non sembrava disposto a seguirmi. Forse sapeva benissimo che eravamo circondati. Adesso stava strappando l’erba con l’unico braccio e la masticava.
— Okay, tutti voi comandanti di plotone, svegliate gli altri, e fate l’appello. Fatemi sapere se qualcuno sta male. Dite ai vostri che ci mettiamo in marcia fra un minuto esatto.
Non so che cosa si fosse aspettato Cortez, ma naturalmente gli esseri ci seguirono. Non ci circondavano: ma ce n’erano sempre venti o trenta che ci seguivano. Non erano sempre gli stessi, però. Qualcuno se ne andava saltellando e ne arrivavano altri che si univano al corteo. Era evidente che loro non si sarebbero stancati.
Il sergente ci autorizzò a prendere una compressa di stimolante a testa. Altrimenti, non ce l’avremmo fatta a marciare neanche per un’ora. Una seconda pillola mi sarebbe andata benissimo, dopo che la prima smise di fare effetto, ma l’aspetto matematico della situazione lo escludeva: eravamo ancora a trenta chilometri dalla base nemica, quindici ore di marcia a dir poco. E anche se con quelle compresse potevi restare sveglio e pieno d’energia per cento ore, le aberrazioni della capacità di giudizio e delle percezioni crescevano in progressione a palla di neve (ossia a valanga) dopo la seconda ora, fino a quando, in extremis, prendevi sul serio le allucinazioni più bizzarre, e magari rimanevi a esitare per ore prima di decidere se dovevi fare colazione o no.
Sotto l’effetto degli stimolanti artificiali, la compagnia marciò con grande energia per le prime sei ore; alla settima rallentò, e dopo nove ore e diciannove chilometri si arrestò esausta. Gli orsacchiotti non ci avevano mai persi di vista e, secondo Lucky, non avevano mai smesso di "trasmettere". Cortez decise che ci saremmo fermati per sette ore: ogni plotone avrebbe montato la guardia per un’ora intorno al perimetro. Non ero mai stato così felice di essere nel Settimo plotone, perché montammo di guardia per l’ultimo turno, e riuscimmo a farci sei ore di sonno ininterrotto.
Nei pochi istanti in cui rimasi sveglio, dopo essermi finalmente sdraiato, mi giunse il pensiero che la prossima volta che avrei chiuso gli occhi sarebbe potuta essere l’ultima. E in parte per i postumi dell’effetto della droga, in parte per gli errori di quella giornata, mi accorsi che non me ne importava un accidente.
Il nostro primo contatto con i taurani ebbe luogo durante il mio turno di guardia.
Gli orsacchiotti erano ancora là, quando mi svegliai e diedi il cambio a Doc Jones. Si erano ridisposti nella formazione originaria, uno davanti ad ogni sentinella. Quello che sorvegliava me, sembrava un po’ più grosso degli altri, ma per il resto era identico. Intorno al punto in cui stava seduto, tutta l’erba era già stata strappata, perciò di tanto in tanto doveva fare sortite a sinistra o a destra. Ma poi tornava sempre a sedersi davanti a me… a fissarmi, avrei detto, se avesse avuto gli occhi.
Eravamo lì uno di fronte all’altro da un quarto d’ora circa, quando rombò la voce di Cortez:
— Tutti quanti, svegliatevi e nascondetevi!
Obbedii all’istinto: mi buttai al suolo e mi rotolai in mezzo all’erba più alta.
— Vascello nemico sulla verticale. — La voce di Cortez era quasi laconica.
Per l’esattezza, non era proprio sulla verticale, ma stava passando un po’ più a est di noi. Si muoveva lentamente, a un centinaio di chilometri orari, e sembrava un manico di scopa circondato da una bolla di sapone sudicia. L’essere che stava all’interno aveva un aspetto un poco più umano degli orsacchiotti, ma comunque non era un prodigio di bellezza neppure lui. Feci scattare il mio amplificatore d’immagini fino a quaranta logaritmo di due per vederlo un po’ meglio.
Aveva due braccia e due gambe, ma la vita era così sottile che avresti potuto cingerla con le due mani. Sotto quel vitino di vespa c’era una grande struttura pelvica a ferro di cavallo, larga un metro, dalla quale pendevano due lunghe gambe scarne, apparentemente prive di giuntura al ginocchio. Al di sopra del vitino il corpo si allargava di nuovo in un torace di misura non inferiore all’enorme bacino. Le mani sembravano sorprendentemente umane, a parte il fatto che erano troppo lunghe e troppo poco muscolose. E avevano troppe dita. Niente spalle e niente collo. La testa era un’escrescenza d’incubo che spuntava come un gozzo dal petto massiccio. Due occhi che sembravano mucchietti di uova di pesce, un ciuffo di fiori di granturco al posto del naso, e un foro rigidamente aperto che poteva essere la bocca, situata in basso, dove ci sarebbe dovuto essere il pomo d’Adamo. Evidentemente, la bolla di sapone offriva condizioni ambientali ideali, perché quello non portava assolutamente nulla, eccetto la sua pelle increspata, che sembrava cuoio tenuto immerso troppo a lungo nell’acqua bollente, e poi tinto di un arancione pallido. "Egli" non aveva organi genitali esterni, ma neppure niente che facesse pensare a ghiandole mammarie. Quindi optai per il pronome maschile, per difetto.
Ovviamente, o non ci vedeva oppure pensava che facessimo parte del branco degli orsacchiotti. Non si voltò neppure una volta a guardarci, e continuò nella stessa direzione in cui eravamo avviati noi, radianti 0,05 a est di nord.
— Potete tornare a dormire, adesso, se ci riuscirete dopo aver visto quel coso. Si parte alle 0435. — Quaranta minuti.
Poiché il pianeta era avvolto in una coltre opaca di nubi, dallo spazio era stato impossibile vedere com’era fatta e quanto era grande la base nemica. Conoscevamo solo la sua posizione, così come conoscevamo la posizione in cui sarebbero dovuti atterrare i ricognitori. E quindi era facile che anche la base fosse sott’acqua, oppure sotto terra.
Ma alcune delle sonde automatiche erano ricognitori, non soltanto esche; e durante i loro attacchi fasulli contro la base, una era riuscita ad avvicinarsi abbastanza per scattare una foto. Il capitano Stott trasmise via radio una pianta del posto a Cortez, l’unico che avesse un visore nello scafandro, quando arrivammo a cinque chilometri dalla posizione "radio" della base. Ci fermammo, e Cortez chiamò i comandanti dei plotoni, insieme ai membri del Settimo, per conferire. Arrivarono balzelloni anche due orsacchiotti. Noi ci sforzammo di non badare alla loro presenza.
— Okay, il capitano ha trasmesso alcune foto del nostro obiettivo. Ora disegnerò una mappa: voi comandanti dei plotoni copiatela. — Quelli presero blocchi e stili dalle tasche dei "calzoni", mentre Cortez srotolava una grande stuoia di plastica. Le diede una scrollata per randomizzare le eventuali cariche residue, e accese lo stilo.
— Dunque, noi arriviamo da questa direzione. — Tracciò una freccia sul fondo del foglio. — Per prima cosa incontreremo questa fila di baracche, probabilmente alloggi o bunker, ma chi diavolo può sapere… Il nostro obiettivo iniziale consiste nel distruggere questi edifici… l’intera base si trova sul terreno piatto: non abbiamo possibilità di arrivarle addosso di sorpresa.
— Qui Potter. Perché non possiamo saltarle addosso?
— Sicuro, potremmo farlo, e ci ritroveremmo completamente circondati e fatti a pezzi. Prendiamo le baracche.
"E dopo averle prese… tutto quello che posso dirvi è che dovremo decidere sul momento. In base alla ricognizione aerea, possiamo immaginare la funzione di un paio di edifici soltanto… e la faccenda puzza. Magari finiremmo per sprecare un sacco di tempo a demolire l’equivalente dello spaccio truppa, e per ignorare un enorme computer logistico solo perché ha l’aspetto… d’una discarica di rifiuti, o qualcosa del genere."
— Qui Mandella — dissi io. — Non c’è una specie di spazioporto? Mi sembra che dovremmo…
— Arriverò anche a questo, dannazione. C’è un cerchio di baracche tutto intorno al campo, e perciò da qualche parte dovremo pur sfondare, per passare. Questo è il posto più vicino, e c’è meno pericolo di tradire la nostra posizione prima che passiamo all’attacco.
"Non c’è niente, in tutta la base, che abbia effettivamente l’aspetto di un’arma. Ma non vuol dir niente; in ognuna delle baracche si potrebbe nascondere con tutta facilità un laser da un gigawatt.
"Ora, a cinquecento metri circa dalle baracche, al centro della base, arriveremo a questa grande struttura a forma di fiore. — Cortez tracciò un grosso disegno simmetrico che pareva il contorno di un fiore con sette petali. — Che cosa diavolo sia, io lo so quanto voi. Tuttavia ce n’è una soltanto, quindi non dovremo danneggiarla più del necessario. Il che significa… che la faremo a pezzi, se io la riterrò pericolosa.
"Ora, per quanto riguarda il tuo spazioporto, Mandella… non c’è e basta. Niente.
"Quell’incrociatore che la Hope ha fatto fuori, probabilmente era stato lasciato in orbita, così come abbiamo dovuto fare noi con la nostra astronave. Se loro hanno qualcosa di equivalente a un ricognitore o a missili automatici, allora o non li tengono qui, o li hanno nascosti molto bene."
— Qui Bohrs. E allora con che cosa ci hanno attaccati, mentre stavamo scendendo dall’orbita?
— Vorrei tanto saperlo, soldato.
"Ovviamente, non abbiamo nessun metodo per poter stimare quanti sono, almeno direttamente. Le foto del ricognitore non mostrano neppure un taurano a terra nella base. Non significa niente, perché questo è un ambiente alieno anche per loro. Indirettamente, però… contiamo il numero dei manici di scopa, di quei cosi volanti.
"Le baracche sono cinquantuno, e ognuna ha al massimo un manico di scopa. Davanti a quattro baracche non ne è parcheggiato nessuno, però ne abbiamo localizzati quattro in varie altre parti della base. Forse questo significa che ci sono cinquantuno taurani, uno dei quali si trovava lontano dalla base quando la foto è stata scattata."
— Qui Keating. Oppure cinquantun ufficiali.
— Esatto… magari ci sono cinquantamila fanti chiusi in ognuno di quegli edifici. È impossibile dirlo. O magari ci sono solo dieci taurani, ognuno con cinque manici di scopa a disposizione, da usare a seconda dell’umore.
"Abbiamo un elemento a nostro favore: le comunicazioni. Loro evidentemente adoperano una modulazione di frequenza di radiazione elettromagnetica di qualche megahertz."
— Radio!
— Giusto, chiunque tu sia. Identificatevi, quando parlate. Perciò è possibile che loro non riescano a captare le nostre comunicazioni a base di neutrini. Inoltre, immediatamente prima del nostro attacco, la Hope sgancerà una bella bomba sporca, a fissione: la farà esplodere negli strati superiori dell’atmosfera, esattamente sopra la base. Questo li costringerà a servirsi per qualche tempo di comunicazioni in linea di visuale; e anche quelle saranno piene zeppe di scariche.
— E perché non… qui Tate… perché non gli sganciano la bomba proprio sulle ginocchia? Ci risparmierebbero un sacco di…
— Questa osservazione non merita neppure una risposta, soldato. La risposta, comunque, è che potrebbero farlo. E augurati che non lo facciano. Se liquidano la base, lo faranno per la sicurezza della Hope. Dopo che avremo attaccato, e probabilmente prima che siamo abbastanza lontani perché la cosa abbia importanza.
"Possiamo impedire che questo succeda solo se facciamo un buon lavoro. Dobbiamo ridurre la base in condizioni tali che non possa più funzionare. E nello stesso tempo, dobbiamo lasciarla intatta il più possibile. E prendere un prigioniero."
— Qui Potter. Vuol dire almeno un prigioniero.
— Volevo dire quello che ho detto. Uno solo. Potter… sei esentata dal comando del tuo plotone. Manda qui Chavez.
— Bene, sergente. — Il tono di sollievo, nella sua voce, era inequivocabile.
Cortez continuò con la sua pianta e le istruzioni. C’era un altro edificio la cui funzione era ovvia: in cima aveva una grande antenna girevole a forma di piatto. Dovevamo distruggerla non appena i granatieri fossero arrivati a tiro.
Il piano d’attacco era molto elastico. Il nostro segnale d’inizio sarebbe stato il lampo della bomba a fissione. Nello stesso tempo, parecchie sonde automatiche sarebbero state mandate a convergere sulla base, e in questo modo avremmo potuto vedere a cosa ammontavano le loro difese antiastronavi. Avremmo tentato di ridurne l’efficienza senza distruggerle completamente.
Subito dopo la bomba e le sonde automatiche, i granatieri avrebbero disintegrato una fila di sette baracche. Attraverso la breccia, tutti si sarebbero precipitati nella base… e quello che sarebbe successo dopo, nessuno poteva immaginarlo.
Idealmente, saremmo dovuti andare da un’estremità della base all’altra, distruggendo certi obiettivi ed eliminando tutti i taurani tranne uno. Ma era molto improbabile che il piano si realizzasse, poiché si basava sul fatto che i taurani opponessero scarsa resistenza.
D’altra parte, se i taurani avessero dimostrato fin dall’inizio un’evidente superiorità, Cortez avrebbe impartito l’ordine di disperderci. Ognuno aveva un diverso punto cardinale verso cui dirigersi… ci saremmo avviati in tutte le direzioni, e i superstiti dovevano presentarsi al rendez-vous circa quaranta chilometri a est della base. Lì avremmo predisposto un nuovo attacco, dopo che la Hope avesse provveduto ad ammorbidire un po’ la base.
— Un’ultima cosa — gracchiò Cortez. — Magari alcuni di voi la pensano come la Potter, magari la pensano così alcuni dei vostri uomini… che dovremmo andarci piano, senza trasformare l’operazione in un bagno di sangue. La pietà è un lusso, una debolezza che non possiamo permetterci in questa fase della guerra. Tutto quello che sappiamo sul conto dei nemici è che hanno ucciso settecentonovantotto esseri umani. Non hanno dimostrato il minimo riguardo quando si è trattato di attaccare i nostri incrociatori, e sarebbe da sciocchi aspettarsi che lo dimostrino proprio ora, in questa prima operazione al suolo.
"Sono loro i responsabili della fine di tutti i vostri camerati morti durante l’addestramento, e della Ho, e di tutti gli altri che moriranno sicuramente oggi. Io non posso capire come si possa pensare di risparmiarli. Ma questo non fa la minima differenza. Conoscete gli ordini e, che diavolo, tanto vale che lo sappiate: a tutti voi è stata impartita una suggestione postipnotica, che io farò scattare per mezzo di una frase, immediatamente prima dell’inizio della battaglia. Vi faciliterà il lavoro."
— Sergente…
— Silenzio. Abbiamo poco tempo: tornate ai vostri plotoni e istruiteli. Ci muoviamo tra cinque minuti.
I comandanti dei plotoni ritornarono dai loro uomini, lasciando lì Cortez e noi dieci… più tre orsacchiotti che ci giravano intorno e ci venivano di continuo fra i piedi.
Percorremmo gli ultimi cinque chilometri con molta prudenza, tenendoci fra l’erba più alta e attraversando di corsa le radure, qua e là. Quando arrivammo a cinquecento metri dal posto in cui doveva essere la base, Cortez portò avanti il Terzo plotone a compiere una ricognizione, mentre noialtri ci sdraiavamo a terra.
La voce di Cortez ci giunse attraverso la frequenza generale: — È più o meno come ce l’aspettavamo. Avanzate in fila, strisciando. Quando avrete raggiunto il Terzo plotone, seguite il vostro comandante di squadra verso destra o verso sinistra.
Obbedimmo e alla fine ci trovammo con una fila di ottantatré persone, disposte in una linea approssimativamente perpendicolare alla direzione dell’attacco. Eravamo nascosti molto bene, a parte la dozzina di orsacchiotti che spiccavano lungo tutta la linea, masticando erba.
Nella base non c’era segno di vita. Tutte le costruzioni erano di un bianco lucente, uniforme, e non avevano finestre. Le baracche che costituivano il nostro primo obiettivo erano grandi uova lisce, semisepolte, distanti una sessantina di metri l’una dall’altra. Cortez ne assegnò una ad ogni granatiere.
Eravamo divisi in tre squadre: la Squadra A consisteva del plotone due, quattro e sei; la Squadra B dei plotoni uno, tre e cinque; e il plotone del comando era la Squadra C.
— Fra meno di un minuto… Filtri abbassati! Quando dico "fuoco", granatieri, sparate sui rispettivi bersagli. Dio vi aiuti se li mancate.
Ci fu un suono che parve il rutto di un gigante, e un torrentello di cinque o sei bolle iridescenti si innalzò dalla costruzione a forma di fiore. Le bolle si sollevarono a velocità crescente fino a quando furono praticamente fuori di vista: sfrecciavano verso sud, passandoci sopra la testa. Il suolo si illuminò improvvisamente, e per la prima volta dopo molto tempo vidi la mia ombra, lunghissima, e puntata verso nord. La bomba era esplosa in anticipo. Ebbi appena il tempo di pensare che l’anticipo non faceva una grande differenza: avrebbe comunque causato il caos nelle comunicazioni dei nemici…
— Sonde automatiche! — Un veicolo arrivò sibilando, all’incirca all’altezza degli alberi, e una bolla si levò nell’aria per andargli incontro. Quando entrarono in contatto, la bolla scoppiò e la sonda esplose in un milione di minuscoli frammenti. Ne arrivò un’altra dalla direzione opposta, e subì la stessa sorte.
— Fuoco! - Sette lampi abbaglianti di granate da 500 microtoni, e un foltissimo, prolungato spostamento d’aria che avrebbe sicuramente ucciso un uomo non protetto.
— Alzate i filtri. — Una caligine grigia di fumo e di polvere. Zolle di terra che cadevano con il rumore di pesanti gocce di pioggia.
— Ascoltate:
Scozzesi, che con Wallace il sangue versaste;
Scozzesi, che già Bruce più volte seguitaste,
Siate ora benvenuti al letto insanguinato
O alla vittoria!
Lo ascoltai appena, perché stavo cercando di seguire quello che succedeva contemporaneamente dentro alla mia testa. Sapevo che era semplicemente suggestione post-ipnotica, e ricordavo addirittura la seduta, là nel Missouri, in cui me l’avevano imposta: ma questo non serviva a renderla meno impellente. La mia mente vacillava, sotto il peso dei fortissimi pseudo-ricordi: i taurani, grandi grossi e irsuti (completamente diversi da quel che, adesso, sapevamo fossero in realtà) che andavano all’arrembaggio di un’astronave dei coloni, e trangugiavano vivi i bambini piccoli, mentre le madri assistevano, urlando di terrore (i coloni non portavano mai con sé i bambini piccoli, che non avrebbero resistito all’accelerazione), e poi violentavano le donne, causandone la morte, con gli enormi falli purpurei e venati (era ridicolo che potessero provare desiderio per esseri umani), abbrancavano gli uomini e strappavano brani di carne dai loro corpi ancora vivi e li inghiottivano (come se potessero assimilare le proteine aliene)… cento dettagli macabri e orrendi, ricordati nitidamente come gli eventi di un attimo prima, ridicolmente esagerati e assurdi dal punto di vista logico. Ma mentre la mia mente conscia rifiutava quelle sciocchezze, molto più in fondo, nell’animale addormentato in cui custodiamo le nostre vere motivazioni e la nostra morale, qualcosa provava sete del sangue alieno, nella certa convinzione che la cosa più grande che un uomo potesse fare era quella di morire uccidendo uno di quegli orribili mostri…
Sapevo che erano tutte stronzate, e maledicevo gli uomini che si erano presi delle libertà tanto oscene con la mia mente, ma intanto digrignavo i denti e mi sentivo le guance immobilizzate in un ghigno spastico, nella bramosia del sangue… Un orsacchiotto mi venne davanti: sembrava frastornato. Feci per alzare il mio dito laser, ma qualcun altro mi batté sul tempo: la testa dell’essere esplose in una nuvola di schegge d’osso grigio e di sangue.
Lucky gemette, lamentosamente: — Sporchi… luridi, bastardi, fottuti. — I laser lampeggiarono, incrociandosi, e tutti gli orsacchiotti caddero morti.
— State attenti, maledizione — urlò Cortez. — Mirate a quei cosi fottuti… non sono giocattoli!
"Squadra A, muovetevi… nei crateri, per coprire la B."
Qualcuno aveva cominciato a ridere e a singhiozzare. — Che cazzo ti è preso, Petrov? - Era strano sentire Cortez usare quel tono.
Mi girai su me stesso e vidi Petrov, dietro di me e sulla mia sinistra: giaceva in una buca poco profonda, e scavava freneticamente con tutte e due le mani, gridando e gorgogliando.
— Merda! — disse Cortez. — Squadra B! Dieci metri oltre i crateri, mettetevi giù, e in fila. Squadra C… nei crateri insieme alla A.
Mi alzai e coprii quei cento metri in dodici balzi amplificati. I crateri, in pratica, erano abbastanza grandi per nasconderci un ricognitore: avevano diametro d’una decina di metri. Balzai verso il fianco opposto della buca e atterrai accanto a un tale che si chiamava Chin. Non girò neanche la testa quando io atterrai, e continuò a scrutare la base, in cerca di qualche segno di vita.
— Squadra A… dieci metri più avanti della Squadra B, giù in fila. — Mentre Cortez finiva di dare l’ordine, l’edificio davanti a noi ruttò, e una quantità di bolle ne uscì, spargendosi a ventaglio verso le nostre linee. Quasi tutti le videro arrivare e si buttarono giù: ma Chin si stava alzando proprio in quel momento per correre avanti, cosicché andò a sbattere contro una di esse.
La bolla gli sfiorò la parte superiore dell’elmo e scomparve con un lieve schiocco. Chin arretrò di un passo e cadde riverso oltre l’orlo del cratere, lasciando dietro di sé un arco di sangue e di materia cerebrale. Privo di vita, a braccia aperte, scivolò in fondo al pendio, scavando il terriccio col buco perfettamente simmetrico, dove la bolla aveva indiscriminatamente portato via plastica, capelli, pelle, osso e cervello.
— Fermi tutti. Comandanti dei plotoni, riferite le perdite… ricevuto… ricevuto, ricevuto… ricevuto, ricevuto, ricevuto… ricevuto. Ci sono tre morti. Non ce ne sarebbe stato neanche uno se foste stati giù. Quindi, tutti a terra, quando sentite che quella roba parte. Squadra A, completare l’avanzata.
Quelli completarono la manovra senza alcun incidente. — Okay. Squadra C, correre dove stava… Fermi tutti! Giù!
Eravamo già tutti quanti schiacciati a terra. Le bolle passarono oltre, in un arco regolare, a circa due metri dal suolo. Passarono tranquillamente sopra le nostre teste e, a parte una che trasformò un albero in un mucchio di stuzzicadenti, scomparvero in lontananza.
— B, correte più avanti della A di dieci metri. C, prendete il posto della B. Granatieri B, vedete se riuscite a beccare il Fiore.
Due granate straziarono il terreno a trenta o quaranta metri dalla struttura. In una buona imitazione del panico, quella cominciò a eruttare un fiume ininterrotto di bolle… Comunque, nessuna passò a meno di due metri dal suolo. Noi ce ne stavamo curvi, aggobbiti, e continuavamo ad avanzare.
All’improvviso, una crepa apparve nell’edificio e si allargò, fino a raggiungere le dimensioni di una grossa porta. I taurani ne uscirono brulicando.
— Granatieri, cessate il fuoco. Squadra B, fuoco laser a sinistra e a destra… impedite che si disperdano. A e C, avanzare al centro.
Un taurano morì cercando di passare a corsa attraverso un raggio laser. Gli altri restarono dov’erano.
Quando si indossa uno scafandro, è molto difficile correre e nello stesso tempo tenere giù la testa. Bisogna andare da una parte all’altra, come un pattinatore che comincia l’esercizio; altrimenti finisci in volo. Almeno uno dei nostri, qualcuno della Squadra A, balzò troppo in alto e fece la stessa fine di Chin.
Mi sentivo molto intrappolato e bloccato, con una muraglia di fuoco laser da ogni parte e un soffitto basso che significava morte certa. Ma nonostante tutto mi sentivo felice, euforico, perché avevo finalmente la possibilità di uccidere qualcuno di quei perversi mangiabambini. E sapendo che erano tutte balle.
I taurani non opponevano una vera resistenza, a parte le bolle, che del resto erano abbastanza inefficaci, ed evidentemente non erano state ideate come armi antiuomo; e non si ritiravano neppure nell’edificio. Si aggiravano mulinando, ed erano all’incirca un centinaio; ci guardavano avvicinarci. Sarebbe bastato un paio di granate per farli fuori tutti, ma credo che Cortez ci tenesse a prendere un prigioniero.
— Okay, quando dico "via", ci porteremo sui loro fianchi. La Squadra B cesserà il fuoco… Il Secondo e il Quarto plotone a destra, il Sesto e il Settimo a sinistra. La Squadra B marcerà in avanti, in riga, per chiuderli dentro… Via!"
Noi ci lanciammo verso sinistra. Non appena il fuoco del laser cessò, i taurani partirono, correndo in gruppo su una rotta di collisione con il nostro fianco.
— Squadra A, a terra e sparate! Non tirate fino a quando non siete sicuri della mira… se sbagliate potreste uccidere uno dei nostri. E per Dio, salvatemene uno!
Era uno spettacolo terrificante, quell’orda di mostri che veniva verso di noi. Correvano a grandi balzi — le bolle li schivavano — ed erano tutti eguali a quello che avevamo visto volare, prima, sul manico di scopa: tutti nudi, e protetti da una sfera semitrasparente che avvolgeva il loro corpo e si muoveva insieme a loro. L’ala destra cominciò a sparare, mirando agli individui che si trovavano alla retroguardia del branco.
Improvvisamente un raggio laser sfolgorò attraverso i taurani, dall’altra parte: qualcuno aveva mancato il bersaglio. Ci fu un urlo orribile, e io guardai in fondo alla riga: vidi qualcuno, mi pare fosse Perry, che si contorceva per terra, con la mano destra stretta sul moncherino fumante del braccio sinistro, tranciato appena sotto il gomito. Il sangue gli colava fra le dita, e lo scafandro, con i circuiti mimetici scombinati, continuava a passare dal nero al bianco alla giungla al deserto al verde al grigio. Non so per quanto tempo continuai a guardare — il tempo sufficiente perché il medico si precipitasse accanto a lui per prestargli soccorso — ma quando rialzai gli occhi, i taurani mi erano quasi addosso.
Il mio primo tiro fu a casaccio, troppo alto, ma sfiorò la parte superiore della bolla protettiva del primo taurano. La bolla scomparve e il mostro incespicò e cadde a terra, sussultando spasmodicamente. Dal foro della bocca gli uscì una schiuma, prima bianca, poi striata di rosso. Con un ultimo sussulto si irrigidì e si contorse rovesciandosi all’indietro, quasi a ferro di cavallo. Il suo lungo urlo, un sibilo acutissimo, si interruppe quando i suoi camerati lo calpestarono, passandogli sopra. Detestai me stesso per il mio sorriso.
Fu un massacro, sebbene la nostra ala fosse numericamente inferiore: uno contro cinque. I taurani continuavano a venire avanti senza esitare, anche quando dovevano superare la barriera di corpi e di pezzi di corpi che si accumulava, parallela al nostro fianco. Il suolo, in mezzo, era viscido di sangue taurano — tutti i figli di Dio hanno l’emoglobina — e come era avvenuto nel caso degli orsacchiotti, le loro viscere sembravano proprio viscere, al mio occhio inesperto. Il mio elmo riverberava di una risata isterica, mentre li facevamo a pezzi sanguinolenti, e quasi non sentii Cortez gridare.
— Cessate il fuoco… ho detto cessate il fuoco! Maledizione! Catturate un paio di quei bastardi, non possono farvi niente.
Smisi di sparare e feci quello che fecero tutti gli altri. Quando il primo taurano scavalcò il mucchio fumante di carne davanti a me, mi tuffai per placcarlo, per abbrancargli le gambe esili.
Era come abbracciare un grande pallone viscido. Quando cercai di trascinare il taurano a terra, schizzò fuori dalle mie braccia e continuò a correre.
Riuscimmo a fermarne uno, ricorrendo al semplice espediente di ammucchiare sopra di lui mezza dozzina di persone. Nel frattempo gli altri avevano attraversato di corsa il nostro fronte, ed erano diretti verso la fila di grandi serbatoi cilindrici che, come aveva detto Cortez, erano probabilmente magazzini. Alla base di ognuno di essi si era aperta una porticina.
— Il nostro prigioniero l’abbiamo preso - urlò Cortez. — Uccidete!
I taurani erano a cinquanta metri da noi e correvano forte: erano bersagli difficili. I laser si avventarono intorno a loro, guizzando alti e bassi. Uno cadde tagliato in due, ma gli altri, una decina, continuarono a correre, e arrivarono quasi alle porticine prima che i granatieri cominciassero a sparare.
I lanciagranate erano ancora carichi di bombe a 500 microtoni, ma bisognava centrare in pieno i taurani: lo spostamento d’aria sarebbe servito soltanto a farli volar via, illesi dentro le loro bolle.
— Gli edifici! Fate fuori quei fottuti edifici! — I granatieri alzarono la mira e spararono, ma le bombe riuscirono soltanto a bruciacchiare l’esterno candido delle strutture, fino a quando, per caso, una finì dentro a una porta. L’edificio si spaccò nettamente: le due metà schizzarono via, e una nube di macchinari volò in aria, accompagnata da un’immensa fiamma pallida che si increspò e scomparve in un istante. Poi tutti gli altri mirarono alle porte, eccettuato un po’ di tiro a segno contro alcuni taurani, non tanto per colpirli quanto per tenerli lontani e impedire che entrassero. Sembrava che avessero una fretta maledetta.
Nel frattempo, noi cercavamo di centrare i taurani con i laser, mentre quelli correvano a zig-zag e spiccavano balzi, cercando di entrare negli edifici. Avanzammo, stringendoci attorno a loro per quanto ci era possibile senza correre il rischio di venir colpiti dalle granate: tuttavia eravamo ancora troppo lontani per poter mirare bene.
Comunque, li stavamo centrando uno dopo l’altro, e riuscimmo a distruggere quattro dei sette edifici. Poi, quando erano rimasti due alieni soltanto, l’esplosione ravvicinata di una granata ne scaraventò uno a pochi metri dalla porta. Quello si buttò dentro, e parecchi granatieri spararono le loro salve contro di lui: ma mirarono troppo corto oppure le granate esplosero senza far danni contro i fianchi della struttura. Le bombe cadevano tutto intorno, facendo un frastuono infernale, ma all’improvviso il baccano venne sommerso da un grande sospiro, come se un gigante stesse inalando l’aria: e dove prima c’era l’edificio adesso c’era una densa nube cilindrica di fumo che rimpiccioliva nella stratosfera, diritta come se fosse stata tracciata con la riga. L’altro taurano si era trovato esattamente alla base del cilindro: vedevo i pezzi del suo corpo che volavano. Un secondo più tardi, lo spostamento d’aria ci investì: rotolai irresistibilmente, come una girandola, andai a sbattere contro il mucchio di taurani morti e ruzzolai dall’altra parte.
Mi rimisi in piedi e per un secondo fui preda del panico, quando vidi che il mio scafandro era coperto di sangue… Quando mi resi conto che era sangue alieno, mi tranquillizzai: ma continuai a sentirmi immondo.
— Prendete quel bastardo! Prendetelo! - In quella confusione, il taurano prigioniero si era liberato e adesso correva verso l’erba folta. Un plotone s’era lanciato all’inseguimento, e perdeva terreno: ma poi arrivarono correndo tutti quelli della Squadra B e gli tagliarono la strada. Mi avviai anch’io, a balzelloni, per prendere parte al divertimento.
Aveva quattro dei nostri addosso, e intorno c’era un cerchio d’una cinquantina di persone che assistevano alla lotta.
— Disperdetevi, maledizione! Potrebbero essercene altri mille che non aspettano altro che di vederci concentrati in un posto solo. Ci disperdemmo, brontolando. Ma intimamente eravamo sicuri che non ci fossero altri taurani vivi su tutta la faccia del pianeta.
Cortez si avvicinò al prigioniero, mentre io indietreggiavo. All’improvviso i quattro uomini crollarono in mucchio addosso a quell’essere… Persino dalla distanza a cui mi trovavo, riuscii a vedere la schiuma che gli usciva dal foro della bocca. La sua bolla era scoppiata. Suicidio.
— Accidenti! — Cortez era arrivato lì. — Levatevi da quel bastardo. — I quattro uomini si rialzarono e si scostarono, e Cortez, con il laser, affettò il mostro in una dozzina di brandelli frementi. Uno spettacolo consolante.
— Non importa, tanto ne troveremo un altro… Riprendete tutti la formazione a punta di freccia! Andiamo all’assalto del Fiore.
Bene, assaltammo il Fiore, che evidentemente era rimasto senza munizioni (stava ancora ruttando, ma non ne usciva più neanche una bolla), ed era vuoto. Corremmo avanti e indietro per rampe e corridoi, con il dito laser puntato, come bambini che giocassero ai soldati. Non c’era nessuno.
La stessa mancanza di reazione la trovammo anche nell’installazione dell’antenna, il "Salame", e in venti altri edifici principali, e nelle quarantaquattro baracche perimetrali ancora intatte. Dunque: avevamo conquistato dozzine di edifici, quasi tutti adibiti a funzioni incomprensibili, ma non avevamo realizzato la nostra missione principale, che consisteva nel catturare un taurano perché gli xenologi potessero divertirsi a fare esperimenti. Oh, be’, potevano prendersi tutti i pezzi e i frammenti che volevano. Era già qualcosa.
Quando avemmo finito di rastrellare l’ultimo centimetro quadrato della base arrivò un ricognitore con il vero gruppo esplorativo, formato da scienziati. Cortez disse: — Bene, finiamola — e l’ossessione ipnotica svanì.
All’inizio fu molto brutto. Parecchi dei nostri, come Lucky e Marygay, quasi impazzirono per il ricordo del massacro moltiplicato per cento. Cortez ordinò a tutti di prendere una compressa di sedativo: due per i più sconvolti. Io ne presi due senza bisogno che mi venisse ordinato specificamente.
Era stato effettivamente un massacro, un macello indiscriminato… dopo che avevamo messo fuori uso l’arma antiastronave, non avevamo più corso il minimo pericolo. I taurani non sembravano avere la più vaga concezione del combattimento individuale. Noi ci eravamo limitati a imbrancarli come bestiame e a macellarli: e quello era stato il primo incontro tra l’umanità e un’altra specie intelligente. O magari era stato il secondo incontro, contando anche gli orsacchiotti. Che cosa sarebbe potuto accadere, se ci fossimo messi tranquilli e avessimo cercato di comunicare? Ma avevamo ricevuto tutti lo stesso trattamento.
Dopo quell’episodio, trascorsi molto tempo cercando di convincermi che non ero stato io colui che aveva fatto così allegramente a pezzi quegli esseri terrorizzati e in fuga. Nel Ventesimo secolo, avevano stabilito, tra la soddisfazione generale, che la frase: "Io ho solo eseguito gli ordini" non costituiva una giustificazione adeguata per una condotta disumana… Ma che cosa puoi fare, quando gli ordini provengono da quel burattinaio che è l’inconscio?
La cosa peggiore era l’impressione che forse le mie azioni non erano poi tanto inumane. Solo poche generazioni prima, i miei antenati avrebbero fatto la stessa cosa, anche ai loro simili, senza bisogno del condizionamento ipnotico.
Ero schifato della specie umana, schifato dell’esercito e inorridito alla prospettiva di dovere vivere con me stesso per un altro secolo o giù di lì… comunque, c’era sempre il lavaggio del cervello.
Un’astronave con l’unico taurano superstite era riuscita a fuggire, perché la massa del pianeta l’aveva riparata dal fuoco dell’Earth’s Hope mentre si precipitava nel campo della collapsar Aleph. Era corso a casa, pensavo, dovunque fosse, a riferire quello che potevano fare venti uomini con le armi portatili, a cento esseri che fuggivano a piedi, disarmati.
Sospettavo che, la prima volta che gli umani avrebbero incontrato i taurani in un combattimento a terra, avrebbero incontrato una resistenza di tipo ben diverso. E non mi sbagliavo.