PARTE QUARTA Maggiore Mandella (2458-3143 d.C.)

27

Com’era quel vecchio esperimento di cui ci parlavano nelle lezioni di biologia alle superiori? Prendi una planaria e insegnale a uscire a nuoto da un labirinto. Poi riducila in poltiglia e dalla da mangiare a una planaria stupida e, toh!, la planaria stupida è capace anch’essa di uscire dal labirinto.

Io mi sentivo in bocca un saporaccio di maggior-generale.

Per la verità, sospettavo che avessero perfezionato le tecniche, dai tempi in cui studiavo alle superiori. Tenendo conto della dilatazione temporale, avevano avuto a disposizione 450 anni per le ricerche e gli sviluppi.

Non è che per il mio aggiornamento a Stargate tritassero i maggior-generali e me li servissero con salsa olandese. Non mi diedero da mangiare niente per tre settimane, anzi, tranne il glucosio. Glucosio ed elettricità.

Mi rasarono ogni pelo che avevo sul corpo, mi fecero un’iniezione che mi ridusse a uno strofinaccio, mi attaccarono dozzine di elettrodi sulla testa e sul corpo, mi immersero in una vasca di fluorocarbonio ossigenato, e mi collegarono a un CSVA, cioè a un "computer a situazione di vita accelerata". E ci pensò quello a tenermi occupato.

Penso che la macchina abbia impiegato circa cinque minuti per farmi il ripasso di tutto quello che avevo imparato in precedenza in fatto di arti marziali (scusate l’espressione). Poi cominciò a insegnarmi le novità.

Imparai il modo migliore per usare qualunque arma, da una pietra a una bomba nova. E non solo intellettualmente: era appunto quello, lo scopo degli elettrodi. Cinestesi a feedback negativo, controllata ciberneticamente: mi sentivo le armi nelle mani e vedevo come me la cavavo a maneggiarle. E continuavo e continuavo, fino a quando non ci riuscivo alla perfezione. L’illusione della realtà era totale. Usai una lancia insieme a un gruppo di guerrieri Masai, nell’incursione contro un villaggio, e quando abbassai gli occhi vidi che il mio corpo era lungo e nero. Imparai di nuovo a tirare di spada con un uomo dall’aria crudele, vestito in modo strano, in un cortile della Francia del Diciottesimo secolo. Me ne stetti nascosto su un albero con un fucile Sharps e sparai contro uomini in uniforme azzurra che attraversavano strisciando un campo fangoso, in direzione di Vicksburg.

In tre settimane uccisi parecchi reggimenti di spettri elettronici. A me pareva che fosse passato più di un anno, ma il CSVA fa degli scherzi strani al senso del tempo.

L’apprendimento dell’uso di quelle inutili armi esotiche era solo una parte minima dell’addestramento. Anzi, era la parte più rilassante. Perché, quando non ero in cinestesi, la macchina manteneva completamente inerte il mio corpo e mi imbottiva il cervello con i dati e le teorie militari di quattro millenni. E non potevo dimenticare niente! Almeno finché ero in quel barattolo.

Ci tenete a sapere chi era Scipione l’Africano? Io no. La grande luce della Terza guerra punica. "La guerra è il regno del pericolo, e perciò il coraggio, soprattutto, è la prima qualità del guerriero" affermava von Clausevitz. E non dimenticherò mai la sublime poesia di: "L’avanguardia si muove normalmente in colonna con in testa il quartier generale del plotone, seguito da una Squadra laser, la squadra delle armi pesanti, e la Seconda squadra laser; la colonna si affida all’osservazione per proteggersi sui fianchi, salvo quando le condizioni del terreno e della visibilità impongono di inviare sui fianchi piccoli distaccamenti di sicurezza, nel qual caso il comandante dell’avanguardia assegnerà un sergente del plotone…" e così via. È tratto dal Manuale dei Comandanti delle Piccole Unità del Comando della Forza d’Attacco, come se si potesse chiamare manuale — da mano — qualcosa che occupa due intere schede a microfiche, 2000 pagine.

Se ci tenete a diventare esperti ferratissimi ed eclettici di una materia che vi ripugna, arruolatevi nella FENU e iscrivetevi al corso per ufficiali.

Centodiciannove persone, e io ero responsabile per centodiciotto, contando me stesso ma non contando il commodoro, che presumibilmente era in grado di badare a se stessa.

Non avevo incontrato nessuno della mia compagnia durante le due settimane di rieducazione fisica che seguirono la lunga seduta con il CSVA. Prima delle presentazioni dovevo incontrarmi con l’Ufficiale dell’Orientamento Temporale. Chiesi un appuntamento e il suo segretario disse che il colonnello si sarebbe incontrato con me dopo cena al Circolo Ufficiali del Livello Sei.

Scesi presto al Sesto Livello, pensando di cenare un po’ in anticipo, ma non avevano altro che spuntini. Così masticai una specie di fungo che aveva un sapore vagamente simile alle lumache e assorbii il resto delle calorie sotto forma di alcool.

— Maggiore Mandella? — Io ero occupatissimo con la settima birra e non avevo visto avvicinarsi il colonnello. Feci per alzarmi, ma lui mi accennò di restare seduto e si lasciò cadere pesantemente sulla sedia di fronte a me.

— Sono in debito con lei — disse. — Mi ha salvato da almeno metà serata di noia. — Mi porse la mano. — Jack Kynock, per servirla.

— Colonnello…

— Non mi chiami colonnello, e io non la chiamerò maggiore. Noi vecchi fossili dobbiamo… conservare le nostre prospettive, William.

— Per me va benissimo,

Egli ordinò una specie di drink che non avevo mai sentito nominare. — Da dove cominciamo? L’ultima volta che lei è andato sulla Terra è stato nel 2007, secondo i documenti.

— Esatto.

— Non le era piaciuta molto, eh?

— No. — Tutti zombie, robot felici.

— Be’, poi è migliorata. E poi è peggiorata. Grazie. — Un soldato gli portò il drink: un intruglio gorgogliante che sul fondo del bicchiere era verde e si schiariva fino ad arrivare a un color chartreuse in alto. Il colonnello lo sorseggiò. — Poi sono andati meglio, poi peggio, poi… non lo so. Questione di cicli.

— E adesso com’è?

— Be’… non ne sono sicuro. Arrivano fasci di rapporti e roba del genere, ma è difficile setacciare la propaganda. Io non ci sono più tornato da duecento anni. Allora andava piuttosto male. Dipende dai punti di vista.

— Sarebbe a dire?

— Oh, vediamo. C’era parecchio subbuglio. Ha mai sentito parlare del Movimento Pacifista?

— Non mi pare.

— Uhm, il nome trae in inganno. In realtà era una guerra, anzi una guerriglia.

— Credevo di essere in grado di darle nome, grado e numero di matricola di tutti i partecipanti a tutte le guerre, partendo da quella di Troia — dissi, e il colonnello sorrise — ma devono averne lasciata fuori una.

— E per un’ottima ragione, è stata combattuta dai veterani… reduci da Yod-38 e Aleph-40, ho sentito dire. Li avevano congedati tutti insieme ed essi avevano deciso che potevano impadronirsi della FENU, sulla Terra. Hanno avuto un notevole appoggio da parte della popolazione.

— Però non hanno vinto.

— Siamo ancora qui. — Fece roteare il drink e i colorì cambiarono. — In verità, ne so soltanto quello che ho sentito dire. L’ultima volta che sono stato sulla Terra, la guerra era finita, a parte qualche sabotaggio sporadico. E non era precisamente l’argomento ideale per una conversazione.

— Mi sorprende un po’ — dissi io. — Be’, più di un po’. Il fatto che la popolazione della Terra abbia fatto qualcosa… contro la volontà del governo.

Il colonnello rispose con un grugnito che non voleva dire né sì né no.

— E soprattutto una rivoluzione — continuai. — Quando ci siamo stati noi, non si riusciva a convincere nessuno a dire una parola contro la FENU… O contro uno qualunque dei governi locali, in quanto a questo. Erano tutti condizionati fino alle orecchie ad accettare le cose come stavano.

— Ah. Anche questo è ciclico. — Il colonnello si appoggiò alla spalliera della sedia. — Non è una questione di tecnica. Se volesse, il governo terrestre potrebbe controllare tutto… ogni pensiero ed ogni azione di ogni cittadino, dalla culla alla tomba.

"Non lo fanno perché sarebbe fatale. Perché c’è in corso una guerra. Prenda come esempio il suo caso: ha subito qualche condizionamento motivazionale, mentre era nel barattolo?"

Riflettei per un istante. — Se anche fosse, non ne sarei necessariamente informato.

— È vero. In parte è vero. Ma mi creda sulla parola, hanno lasciato stare quella parte del suo cervello. Ogni cambiamento nella sua posizione verso la FENU O questa nuova guerra, o la guerra in generale, deriva esclusivamente dalle sue nuove conoscenze. Nessuno ha pasticciato con le sue motivazioni basilari. E dovrebbe sapere perché.

Nomi, dati, cifre sfrecciarono tintinnando nel labirinto delle mie nuove conoscenze. — Tet-17, Sed-21, Aleph-14. Il Laszlo… — Il Rapporto della Commissione d’Emergenza Laszlo, giugno 2106.

— Esatto. E, per estensione, la sua stessa esperienza su Aleph-1. I robot non sono buoni soldati.

— Lo sarebbero stati — dissi io. — Fino al Ventunesimo secolo. Il condizionamento comportamentistico avrebbe realizzato il sogno dei generali. Avrebbe fatto un esercito con tutte le caratteristiche migliori delle SS, dei pretoriani, dell’Orda d’Oro, degli Arditi di Mosby e dei Berretti Verdi.

Il colonnello rise, alzando il bicchiere. — E poi metta quell’esercito contro una squadra di uomini con i moderni scafandri da combattimento. Finirebbe in due minuti.

— Purché ogni uomo della squadra pensasse a se stesso. E combattesse disperatamente per restar vivo. — I soldati della generazione che aveva causato il rapporto Laszlo erano stati condizionati dalla nascita a conformarsi all’idea che qualcun altro si era fatto del combattente ideale. Facevano un magnifico lavoro collettivo, erano totalmente assetati di sangue, non attribuivano grande importanza alla sopravvivenza personale… e i taurani li avevano fatti a pezzi. Anche i taurani combattevano senza pensare a se stessi. Però lo sapevano fare meglio, ed erano sempre più numerosi.

Kynock riprese il bicchiere e guardò i colori. — Ho visto il suo profilo psicologico — disse. — Prima che venisse qui e dopo la seduta nella vasca. È sostanzialmente lo stesso, prima e dopo.

— È rassicurante. — Feci segno che mi portassero un’altra birra.

— Forse no.

— Come? Dice che non sarei un buon ufficiale? Questo l’avevo detto io fin dal principio. Non sono un capo.

— Giusto in un certo senso, sbagliato in un altro. Vuol sapere cosa dice quel profilo?

Scrollai le spalle. — Non è riservato?

— Sì — disse Kynock. — Ma adesso lei è maggiore. Ha diritto di vedere il profilo di chiunque sia ai suoi ordini.

— Immagino che non riservi molte sorprese. — Ma ero un po’ incuriosito. Quale animale non è affascinato da uno specchio?

— No. Dice che lei è un pacifista. Un pacifista fallito, per la verità, il che le causa una lieve nevrosi. Che lei riesce a sopportare trasferendo sull’esercito il peso della colpa.

La birra era così fredda che mi fece male ai denti. — Anche questa non è una sorpresa.

— Se lei dovesse uccidere un uomo, piuttosto di un taurano, non so esattamente se ne sarebbe capace. Anche se deve conoscere mille modi diversi per farlo.

A questo non seppi cosa rispondere. Il che probabilmente significava che aveva ragione lui.

— E in quanto all’essere un capo, un certo potenziale ce l’ha. Ma andrebbe bene come insegnante o come ministro: potrebbe guidare gli altri grazie all’empatia, alla pietà. Lei desidera imporre agli altri le sue idee, non la sua volontà. E questo vuol dire che ha ragione lei, e che sarebbe un pessimo ufficiale, se non si desse un’assestata.

Provai l’impulso di ridere. — La FENU doveva saperlo, questo, quando mi ha spedito al corso addestramento ufficiali.

— Ci sono altri parametri — disse il colonnello. — Per esempio, lei è adattabile, ragionevolmente intelligente, analitico. Ed è una delle undici persone che ce l’hanno fatta a sopravvivere durante tutta la guerra.

— Sopravvivere è una virtù, in un soldato semplice. — Non resistetti alla tentazione di dirlo. — Ma un ufficiale deve dare esempio di valore. Affondare con la nave. Continuare a passeggiare sul ponte come se nulla fosse, per dimostrare che non ha paura.

Kynock si schiarì la gola. — No, quando è a mille anni luce dal suo rincalzo.

— Comunque, non quadra. Perché mi hanno trascinato qui da Paradiso per offrirmi l’occasione di "darmi un’assestata", quando probabilmente un terzo di quelli che sono qui a Stargate potrebbero diventare ufficiali migliori di me? Dio, la mentalità militare!

— Sospetto che c’entri almeno la mentalità burocratica. Lei ha un’anzianità imbarazzante per un soldato semplice.

— Tutta questione di dilatazione temporale. Ho preso parte a tre sole campagne.

— Non ha importanza. Inoltre, sono sempre due campagne e mezza in più di quanto sopravviva in media un soldato. La propaganda farà probabilmente di lei un eroe popolare.

— Un eroe popolare. — Sorseggiai la birra. — Dov’è John Wayne, adesso che abbiamo veramente bisogno di lui?

— John Wayne? — Il colonnello scosse il capo. — Non sono mai stato nel barattolo, vede. Non sono esperto di storia militare.

— Lasci perdere.

Kynock finì di bere e chiese al soldato di portargli — giuro! — un "rum Antares".

— Be’, io dovrei essere il suo Ufficiale d’Orientamento Temporale. Cosa vuole sapere del presente? Di quello che passa per il presente.

Io pensavo ancora ad altro. — Non è mai stato nel barattolo?

— No, ci vanno solo gli ufficiali destinati al combattimento. Il computer e l’energia che lei ha usato per tre settimane basterebbero a far funzionare la Terra per parecchi giorni. Costa troppo, per noi scaldaseggiole.

— Le sue decorazioni dicono che ha combattuto.

— Combattente onorario. — Il rum Antares era un bicchiere alto e sottile, con un po’ di ghiaccio che galleggiava sul liquido color ambra pallido. Sul fondo c’era un globulo rosso vivo, grosso quanto un’unghia, circondato da filamenti ondeggianti.

— Cos’è quella roba rossa?

— Cannella. Oh, non so che estere, con dentro cannella. Molto buono… Vuole assaggiare?

— No, prenderò un’altra birra, grazie.

— Giù al livello uno, la macchina-biblioteca ha uno schedario di orientamento temporale, che il mio staff aggiorna costantemente. Può interpellarla, se ha qualche domanda specifica. Io voglio soprattutto… prepararla all’incontro con la sua Forza d’Attacco.

— Come? Sono tutti cyborg? Cloni?

Kynock rise. — No, è illegale clonare gli umani. Il problema principale è che lei, ehm, è eterosessuale.

— Oh, ma non è un problema. Sono tollerante.

— Sì, il profilo indica che lei… è convinto di essere tollerante, ma il problema non è esattamente questo.

— Oh. Sapevo già cosa stava per dire. Non i particolari, ma la sostanza.

— Nella FENU vengono arruolati solo individui emotivamente stabili. So che le sarà difficile accettarlo, ma l’eterosessualità è considerata una disfunzione emotiva. Relativamente facile da guarire.

— Se credono di poter guarire me…

— Si calmi, lei è troppo vecchio. — Bevve un sorso, delicatamente. — Non sarà difficile andare d’accordo con loro come immagina…

— Aspetti. Vuol dire che nessuno… che nella mia compagnia sono tutti omosessuali? Tranne me?

— William, sulla Terra sono tutti omosessuali. Tranne un migliaio o giù di lì: reduci e inguaribili.

— Ah — Cosa potevo dire? — Mi sembra un modo drastico per risolvere il problema demografico.

— Forse. Però funziona. La popolazione terrestre è stabile, un po’ al di sotto del miliardo. Quando una persona muore o lascia il pianeta, ne viene attivata un’altra.

— Non "nasce".

— Nasce, sì, ma non nel modo antiquato. Il vecchio termine, ai suoi tempi, era "i bambini in provetta", ma naturalmente non adoperano le provette.

— Be’, è già qualcosa.

— In ogni nido c’è un utero artificiale che si prende cura di una persona per i primi otto o dieci mesi dopo l’attivazione. Quella che lei chiamerebbe nascita avviene in un periodo di giorni; non è l’evento drastico e traumatico di una volta.

Il Mondo nuovo, pensai. — Niente traumi della nascita. Un miliardo di omosessuali perfettamente adattati.

— Perfettamente adattati secondo i criteri terrestri attuali. Io e lei li potremmo trovare un po’ strani.

— È un eufemismo. — Buttai giù il resto della birra. — E lei, lei, uhm… è omosessuale?

— Oh, no — disse Kynock. Mi rilassai. — Per la verità, comunque, non sono più neanche eterosessuale. — Si batté una mano sull’anca, traendone uno strano suono. — Sono stato ferito, ed è risultato che avevo una rara disfunzione del sistema linfatico, e non potevo rigenerarmi. Non sono altro che metallo e plastica dalla cintola in giù. Per adoperare la parola che ha usato lei, sono un cyborg.

Incredibile, come usava dire mia madre. — Oh, soldato — dissi al cameriere — portami uno di quei rum Antares. — Starmene lì seduto in un bar con un cyborg asessuale che probabilmente era l’unica persona normale, oltre me, su tutto quello stramaledetto pianeta.

— Doppio, per favore.

28

Sembravano abbastanza normali, mentre entravano nella sala delle conferenze dove tenemmo il primo raduno, il giorno dopo. Piuttosto giovani e un po’ impettiti.

Quasi tutti erano usciti dal nido solo da sette o otto anni. Il nido era un ambiente isolato e controllato, in cui potevano entrare solo pochi specialisti, pediatri e insegnanti. Quando un individuo lascia il nido all’età di dodici o tredici anni, si sceglie un nome (il cognome è quello del genitore-donatore dal punteggio genetico più alto) ed è a tutti gli effetti legali un adulto in prova, con un’istruzione equivalente a quella che avevo io dopo il primo anno al college. Quasi tutti continuano a studiare per specializzarsi, ma ad alcuni viene assegnato un impiego e cominciano subito a lavorare. Vengono seguiti molto attentamente, e chiunque presenti segni di sociopatia, come ad esempio tendenze eterosessuali, viene spedito in un istituto correzionale. O guarisce, o resta lì fino alla fine dei suoi giorni.

A vent’anni, tutti vengono arruolati nella FENU. In maggioranza, lavorano dietro a una scrivania per cinque anni e poi vengono congedati. Pochi fortunati, circa uno su ottomila, vengono invitati a offrirsi volontari per l’addestramento al combattimento. Rifiutare è "sociopatico", benché significhi una rafferma di altri cinque anni. E le probabilità di sopravvivere per quei dieci anni sono così infinitesimali da essere trascurabili: nessuno, in effetti, è mai sopravvissuto. La possibilità migliore è che la guerra finisca prima dei tuoi dieci anni (soggettivi) di servizio militare. E sperare che la dilatazione temporale metta parecchi anni tra l’una e l’altra delle tue battaglie.

Poiché puoi calcolare di andare in combattimento circa una volta ogni anno soggettivo, e poiché ad ogni battaglia sopravvive una media del 34 per cento, è facile calcolare le probabilità che hai di arrivare vivo allo scadere dei dieci anni. Sono circa due millesimi dell’uno per cento. Oppure, per dirla in un altro modo, prendi una vecchia pistola a sei colpi e gioca alla roulette russa con quattro camere cariche su sei. Se ce la fai per dieci volte di fila, senza decorare la parete di fronte, congratulazioni! Sei un borghese. Poiché nella FENU ci sono circa sessantamila soldati combattenti, si può calcolare che in dieci anni ne sopravvivano 1,2. Io non facevo troppo conto di essere quel fortunato, anche se ero già arrivato a metà strada.

Quanti dei giovani soldati che riempivano l’auditorio sapevano di essere spacciati? Cercavo di abbinare le facce ai fascicoli che avevo studiato per tutta la mattinata, ma era difficile. Erano stati scelti tutti secondo la stessa serie di parametri rigorosi, ed erano straordinariamente simili: alti ma non troppo, muscolosi ma non massicci, intelligenti ma non del tipo che pensa troppo… e la Terra era razzialmente molto più omogenea di quanto fosse stata nel mio secolo. Quasi tutti avevano un’aria vagamente polinesiana. Solo due, Kaybanda e Lin, sembravano rappresentanti puri di tipi razziali. Mi chiesi se gli altri li tormentavano, per questo.

Quasi tutte le donne erano straordinariamente belle, e io non ero certo in condizioni di fare lo schizzinoso. Ero celibe da più di un anno, da quando avevo detto addio a Marygay, lassù in Paradiso.

Mi chiesi se qualcuna di loro potesse presentare qualche traccia di atavismo, o fosse disposta ad assecondare l’eccentricità del suo comandante. "Si fa assoluto divieto ad ogni ufficiale di avere legami sessuali con i suoi subordinati." Un bel modo di dirlo. "La violazione del presente articolo è punibile con la confisca di tutti i fondi e la riduzione al rango di soldato semplice o, se la relazione danneggia l’efficienza in combattimento, con l’esecuzione sommaria." Se tutti i regolamenti della FENU si fossero potuti violare con la disinvoltura e la continuità con cui veniva violato quello, sarebbe stato un esercito molto allegro.

Ma nessuno dei ragazzi mi attirava. Tuttavia, l’aspetto che avrebbero assunto ai miei occhi di lì a un anno, non potevo prevederlo.

At-tenti! - Era il tenente Hilleboe. Tornò ad onore dei miei nuovi riflessi che non scattassi in piedi anch’io. Nell’auditorio scattarono tutti.

— Sono il tenente Hilleboe e sono il vostro secondo ufficiale di campo. — Una volta, era il grado di Primo Sergente. È un segno inequivocabile: quando un esercito è in circolazione da troppo tempo cominciano a esserci troppi ufficiali.

La Hilleboe si fece avanti, da vero soldato duro, professionista. Probabilmente urlava ordini allo specchio tutte le mattine, quando si faceva la barba. Ma avevo visto il suo profilo e sapevo che era stata in azione una volta sola, e del resto solo per un paio di minuti. Aveva perso un braccio e una gamba, e l’avevano fatta diventare ufficiale, più o meno come era capitato a me, in seguito ai test che avevano fatto nella clinica di rigenerazione.

Diavolo, magari era stata una persona simpaticissima prima di subire quel trauma; era già abbastanza orribile farsi ricrescere un arto, figurarsi due.

Lei stava facendo il tipico discorsetto da sergente, severo ma giusto: non fatemi perdere tempo con le sciocchezze, rispettate la scala gerarchica, quasi tutti i problemi si possono risolvere al quinto grado della scala (capi plotone).

Mi dispiacque di non avere avuto più tempo per parlare con lei. Il Comando della Forza d’Attacco aveva forzato i tempi per spedirci a quella prima adunata — dovevamo salire a bordo dell’astronave il giorno dopo — e io avevo scambiato solo poche parole con i miei ufficiali.

E non era abbastanza, perché era ormai evidente che la Hilleboe, e io avevamo idee piuttosto diverse sul modo di mandare avanti una compagnia. È vero che mandarla avanti era compito suo; io comandavo soltanto. Ma quella donna stava creando una situazione potenziale "buono-cattivo", servendosi della scala gerarchica per isolarsi dagli uomini e dalle donne che le erano subordinati. Io avevo avuto intenzione di essere meno altezzoso, e di dedicare un’ora ogni due giorni ai soldati che volessero venire da me per espormi le loro lagnanze o le loro proposte, senza bisogno dell’autorizzazione dei loro superiori diretti.

Entrambi avevamo ricevuto lo stesso tipo d’informazioni durante le tre settimane trascorse nel barattolo. Era interessante che fossimo arrivati a conclusioni tanto diverse sul comando. La politica della Porta Aperta, per esempio, aveva dato buoni risultati negli eserciti "moderni" dell’Australia e dell’America. Mi sembrava particolarmente appropriata per la nostra situazione, in cui tutti sarebbero rimasti chiusi in gabbia per mesi o addirittura per anni. Avevamo adottato quel sistema a bordo della Sangre Y Victoria, l’ultima astronave militare su cui avevo prestato servizio, e mi era sembrato che servisse a calmare le tensioni.

La Hilleboe li aveva fatti mettere in riposo mentre teneva la sua arringa organizzativa; fra poco li avrebbe sbattuti sull’attenti e avrebbe presentato me. Di cosa potevo parlare? Avevo avuto intenzione di pronunciare qualche frase prevedibile e di spiegare la mia politica della Porta Aperta, e poi di passarli al commodoro Antopol, che avrebbe detto qualcosa a proposito della Masaryk II. Ma avrei fatto meglio a rinviare la spiegazione, e ad avere un lungo scambio di vedute con la Hilleboe: anzi, sarebbe stato meglio se fosse stata lei a presentare quella politica agli uomini e alle donne, per non dare l’impressione che fossimo in disaccordo.

Mi salvò il mio ufficiale esecutivo, il capitano Moore. Arrivò precipitosamente da una porta laterale — andava sempre a precipizio, quello, come una meteora grassoccia — mi lanciò un rapido saluto e mi consegnò una busta contenente i nostri ordini di battaglia. Ebbi un piccolo dialogo, sottovoce, con il commodoro, e lei convenne che non sarebbe stato un gran male dire dove eravamo diretti, anche se, tecnicamente, la truppa "non era tenuta a saperlo".

Una delle cose di cui non ci dovevamo preoccupare, in quella guerra, erano le spie nemiche. Con una buona mano di vernice, un taurano potrebbe riuscire a camuffarsi da fungo ambulante. Ma susciterebbe inevitabilmente qualche sospetto.

La Hilleboe ordinò l’attenti e disse diligentemente che sarei stato un buon comandante; che la guerra l’avevo fatta fin dal principio, e se avevano intenzione di sopravvivere fino alla fine della ferma avrebbero fatto bene a seguire il mio esempio. Non disse che ero un mediocre soldato con una particolare abilità nel venire mancato dai tiri nemici. E neppure che mi ero congedato dall’esercito alla prima occasione e che c’ero ritornato solo perché sulla Terra le condizioni di vita era insopportabili.

— Grazie, tenente. — Presi il suo posto sul podio. — Riposo. — Aprii il foglio che conteneva i nostri ordini. — Ho qui una bella notizia e una brutta notizia insieme. — Quella che cinque secoli prima era una barzelletta, adesso era solo una constatazione. — Questi sono i nostri ordini di combattimento per la campagna di Sade-138. La bella notizia è che probabilmente non combatteremo, non subito, almeno. La brutta notizia è che diventeremo un bersaglio."

A queste parole si agitarono un po’, ma nessuno disse qualcosa o distolse gli occhi da me. Ottima disciplina. O forse era soltanto fatalismo; non sapevo se si facevano un quadro realistico del loro futuro. Della mancanza di un futuro, cioè.

— Abbiamo l’ordine… di trovare il più grande pianeta portale in orbita intorno alla collapsar Sade-138 e di costruirvi una base. Poi resteremo alla base fino a quando non ci daranno il cambio. Almeno due o tre anni, probabilmente.

"In questo periodo, quasi sicuramente verremo attaccati. Come molti di voi probabilmente sapranno, il comando della Forza d’Attacco ha scoperto un certo schema ripetitivo nei movimenti dei nemici da una collapsar all’altra, e si spera di risalirlo, seguendolo a ritroso nel tempo e nello spazio, fino a scoprire il pianeta patrio dei taurani. Per il momento, i nostri possono soltanto inviare forze d’intercettazione, e ostacolare l’espansione nemica.

"In un’ampia prospettiva, è quello che ci hanno ordinato di fare. Saremo una delle varie dozzine di unità d’assalto impiegate nelle manovre di blocco sulla frontiera nemica. Non vi ripeterò mai a sufficienza quanto è importante la nostra missione… se la FENU riuscirà a impedire al nemico di espandersi, potremo circondarlo. E vincere la guerra."

Preferibilmente prima che siamo crepati tutti. — Una cosa voglio che sia chiara: può darsi che veniamo attaccati il giorno stesso dello sbarco, può darsi che occupiamo indisturbati il pianeta per dieci anni e ce ne torniamo a casa. — Fesso chi ci crede. — In ogni caso, ognuno di noi dovrà mantenersi sempre in forma perfetta. Durante il viaggio seguiremo un programma regolare di ginnastica e faremo un ripasso dell’addestramento. Specialmente per quanto riguarda le tecniche di costruzione… dovremo erigere la base e gli impianti difensivi nel più breve tempo possibile.

Dio, cominciavo a parlare da ufficiale. — Qualche domanda? — Non ce ne furono. — Allora vorrei presentarvi il commodoro Antopol. Commodoro?

Il commodoro non cercò neppure di nascondere la propria noia mentre accennava, di fronte a quel branco di terragnoli, le caratteristiche e le prestazioni della Masaryk II. Io avevo imparato quasi tutto ciò che lei diceva per mezzo dell’alimentazione forzata nel barattolo, ma l’ultima cosa che disse colpì la mia attenzione.

— Sade-138 sarà la collapsar più lontana mai raggiunta dagli umani. Non è neppure nella galassia vera e propria, e si trova invece nella Grande Nube di Magellano, a una distanza di circa 150.000 anni-luce.

"Il nostro viaggio richiederà quattro balzi tra collapsar e durerà quattro mesi soggettivi. Le manovre d’inserimento nelle collapsar ci faranno restare indietro di circa trecento anni rispetto al calendario di Stargate, quando saremo arrivati a Sade-138."

Ecco altri settecento anni che se ne andavano, se vivevo abbastanza a lungo per tornare indietro. Non che facesse molta differenza: Marygay era come se fosse morta, ormai, e non esisteva altra persona al mondo che significasse qualcosa per me.

— Come ha detto il maggiore, non dovete lasciarvi illudere da queste cifre. Anche il nemico è diretto verso Sade-138: può darsi che ci arriviamo lo stesso giorno. La parte matematica della situazione è complicata, ma potete crederci sulla parola: sarà una corsa con poco distacco.

"Maggiore, ha altro da aggiungere?"

Feci per alzarmi. — Ecco…

At-tenti! — urlò la Hilleboe. Dovevo imparare ad aspettarmelo.

— Solo che vorrei incontrarmi con i miei ufficiali, dal grado quattro in su, per qualche minuto. Sergenti dei plotoni, portate le vostre truppe all’Arca di Carico 67 alle 0400 di domattina. Fino a quel momento siete in libertà. Rompete le righe.


Invitai i cinque ufficiali nel mio alloggio e tirai fuori una bottiglia di vero cognac francese. Mi era costata due mesi di stipendio, ma che altro potevo fare del mio danaro? Investirlo?

Distribuii i bicchieri, ma l’Alsever, il dottore, rifiutò. Invece ruppe una piccola capsula, se l’accostò al naso e aspirò profondamente. Poi cercò, senza riuscirci troppo, di nascondere la sua espressione euforica.

— Per prima cosa, affrontiamo l’unico problema personale serio — dissi, versando il cognac. — Sapete tutti che non sono omosessuale?

Un coro misto di sissignore e nossignore.

— Ritenete che questo… complicherà la mia posizione come comandante? Nei confronti della truppa?

— Signore, io non… — cominciò Moore.

Lasciamo perdere il "signore" — dissi io — almeno tra di noi. Quattro anni fa, secondo il mio tempo soggettivo, ero un soldato semplice. Quando non è presente nessuno della truppa, io sono solo Mandella, o William. — Ebbi l’impressione che fosse uno sbaglio, nel momento stesso in cui lo dissi. — Continua pure.

— Ecco, William — continuò Moore — potrebbe essere stato un problema cento anni fa. Tu sai come la pensava la gente, allora.

— Per la verità non lo so. Tutto quel che so del periodo dal Ventunesimo secolo a oggi è la storia militare.

— Oh, be’. Allora era, uhm, era… come dire? — Moore agitò le mani.

— Era un reato — fece laconicamente l’Alsever. — Era il periodo in cui il Consiglio Eugenetico cercava di abituare la gente all’idea dell’omosessualità universale.

— Il Consiglio Eugenetico?

— Fa parte della FENU. Ha autorità esclusivamente sulla Terra. — L’Alsever aspirò profondamente la capsula vuota. — Lo scopo era di impedire alle persone di fare i bambini nel modo biologico. Perché: 1) mostravano una deplorevole mancanza di buon senso nella scelta del partner genetico; e 2) il Consiglio riteneva che le differenze razziali avessero lo spiacevole effetto di dividere inutilmente l’umanità; con un controllo totale delle nascite, in poche generazioni sarebbe invece stato possibile fare in modo che tutti appartenessero a un’unica razza.

Non sapevo che fossero arrivati a tanto. Ma immagino che fosse logico. — E tu approvi? Come medico?

— Come medico? Non ne sono certa. — L’Alsever si tolse dalla tasca un’altra capsula e la rotolò tra pollice e indice, guardando nel vuoto. O fissando qualcosa che noialtri non potevamo vedere. — In un certo senso, semplifica il mio lavoro. Molte malattie non esistono più. Ma non credo che conoscano la genetica come immaginano di conoscerla. Non è una scienza esatta: potrebbero commettere qualche grave errore, e i risultati si vedrebbero solo dopo parecchi secoli.

Si spezzò la capsula sotto il naso e inalò due volte, profondamente. — Ma come donna, sono completamente favorevole. — La Hilleboe e la Rusk approvarono con energici cenni del capo.

— Per non dover sopportare la gravidanza e il parto?

— Anche. — L’Alsever strabuzzò comicamente gli occhi, guardando la capsula, e diede un’ultima fiutata. — Ma soprattutto, è per… non dover… avere un uomo. Dentro di me. Devi capire. È disgustoso.

Moore rise. — Se non hai mai provato, Diana, non puoi…

— Oh, stai zitto. — Lei gli lanciò la capsula vuota, scherzosamente.

— Ma è del tutto naturale — protestai io.

— Sì, e lo è anche saltare sugli alberi da un ramo all’altro. Scavare con un fuscello per dissotterrare le radici. Progresso, mio caro maggiore; progresso.

— Comunque — disse Moore — è stato un reato solo per un breve periodo. Poi è stato considerato una… una …

— Disfunzione guaribile — disse l’Alsever.

— Grazie. E adesso, be’, è così rara che… non credo che gli uomini e le donne abbiano qualche forte idea preconcetta al riguardo, in un senso o nell’altro.

— È solo un eccentricità — disse Diana, in tono magnanimo. — Non è come se mangiassi i bambini.

— Esatto, Mandella — disse la Hilleboe. — Io non provo nessun sentimento diverso nei tuoi confronti, per questa faccenda.

— Io… io… ne sono lieto. — Era magnifico. Cominciavo a rendermi conto che non avevo la più vaga idea di come dovessi comportarmi, socialmente. Quasi tutto il mio comportamento "normale" era basato su un complesso, tacito codice d’etichetta sessuale. Adesso dovevo trattare gli uomini come se fossero donne e viceversa? Oppure trattare tutti quanti come fratelli e sorelle? Era una gran confusione.

Finii il cognac e posai il bicchiere. — Bene, grazie per le vostre, assicurazioni. Quello che volevo chiedervi… Sono certo che avrete tutti qualcosa da fare, gli addii e tutto il resto. Non voglio tenervi prigionieri.

Se ne andarono tutti, tranne Charlie Moore. Insieme decidemmo di prenderci una sbronza monumentale, facendo il giro di tutti i bar e di tutti i circoli ufficiali del settore. Ne girammo dodici e probabilmente saremmo riusciti a girarli tutti, ma poi decisi che era meglio dormire qualche ora prima del raduno del giorno seguente.

L’unica volta che Charlie mi fece delle proposte, lo fece con molta delicatezza. Spero che anche il mio rifiuto fosse altrettanto delicato… ma pensavo che in poco tempo avrei acquisito una notevole pratica.

29

Le prime astronavi della FENU avevano avuto una loro bellezza fragile e delicata. Ma, con le varie migliorie tecnologiche, la resistenza strutturale era diventata più importante della diminuzione della massa (una delle vecchie astronavi si sarebbe piegata su se stessa a fisarmonica, se avesse tentato una manovra a venticinque gravità) e le conseguenze si vedevano nella progettazione: tozza, pesante, dall’aria funzionale. L’unica decorazione era il nome MASARYK II, stampigliato in lettere azzurrocupo sullo scafo color ossidiana.

La nostra navetta passò sopra il nome mentre puntava sul vano di carico, e là c’era un gruppo di uomini e di donne piccolissimi che provvedevano alla manutenzione dello scafo. Prendendoli come punti di riferimento, ci accorgemmo che le lettere erano alte un centinaio di metri buoni. L’astronave era lunga un chilometro (per l’esattezza 1036,5 metri, diceva la mia memoria latente) e larga circa un terzo (319,4 metri).

Ma questo non voleva dire che a bordo ci fosse spazio da ballarci dentro. L’astronave ospitava nel suo ventre sei grossi caccia a tachioni e cinquanta missili robotizzati. La fanteria era rincantucciata in un angolo. "La guerra è il regno dell’attrito" aveva scritto Cadetto von Clausewitz; e io avevo l’impressione che lo avremmo constatato di persona.

Avevamo ancora sei ore prima di entrare nella vasca antiaccelerazione. Scaricai la mia cassetta nella minuscola cabina che sarebbe stata la mia casa per i prossimi venti mesi e me ne andai in giro a esplorare.

Charlie era arrivato prima di me al salone e al privilegio di essere il primo a valutare la qualità del caffè della Masaryk II.

— Bile di rinoceronte — disse.

— Almeno non è soia — dissi io, bevendo una cauta sorsata. Pensai che entro una settimana avrei avuto nostalgia della soia.

Il salone ufficiali era un cubicolo di tre metri per quattro, con pareti e pavimento di metallo, una macchina per il caffè e un lettore di biblioteca. Sei sedie dure e un tavolo con una macchina per scrivere.

— Un posticino allegro, no? — fece Charlie. Batté pigramente il tasto dell’indice generale sulla macchina-biblioteca. — Un sacco di testi sulla teoria militare.

— Benissimo. Per rinfrescarci la memoria.

— Hai fatto domanda tu per l’addestramento da ufficiale?

— Io? No. Ordini.

— Almeno hai una giustificazione. — Batté sul pulsante d’accensione e guardò la luce verde che si spegneva. — Io ho fatto domanda. Non mi avevano detto che effetto avrebbe fatto.

— Già. — Non, si riferiva a problemi sottili, come il peso della responsabilità o cose simili. — Dicono che l’effetto svanisce un po’ alla volta. — Tutte le informazioni che ti trasmettono a forza: un continuo bisbiglio silenzioso.

— Ah, eccovi. — La Hilleboe entrò e ci scambiammo i saluti. Diede una rapida occhiata scrutatrice alla stanza, e fu facile capire che quell’arredamento spartano godeva di tutta la sua approvazione. — Vuole parlare alla compagnia, prima che entriamo nelle vasche antiaccelerazione?

— No, non lo ritengo… necessario. — Per poco non avevo detto "opportuno". L’arte di tenere a guinzaglio i subordinati è difficile e delicata. Mi rendevo conto che avrei dovuto ricordare continuamente alla Hilleboe che non era lei, a comandare.

Oppure avrei potuto scambiarmi i gradi con lei. Lasciarle assaporare le gioie del comando.

— Per favore, raduni tutti i comandanti dei plotoni e ripassi con loro la sequenza dell’immersione. Poi faremo esercitazioni per acquistare una maggiore rapidità. Ma per il momento, ritengo che alla truppa faccia bene qualche ora di riposo. — Soprattutto se avevano i postumi della sbronza come il loro maggiore.

— Sissignore. — La Hilleboe girò sui tacchi e se ne andò. Un po’ stizzita, perché quello che le avevo detto di fare sarebbe stato più propriamente un compito per Riland o la Rusk.

Charlie calò la sua massa grassoccia su una delle sedie durissime e sospirò. — Venti mesi in questa macchina unta e bisunta. Insieme a quella lì. Merda!

— Be’, se sarai cortese con me, non ti farò alloggiare insieme a quella donna.

— D’accordo. Sono il tuo schiavo per l’eternità. A partire, diciamo, da venerdì prossimo. — Guardò nella tazza e decise di non bere i fondi del caffè. — Sul serio, la Hilleboe sarà un problema. Cos’hai intenzione di fare con lei?

— Non lo so. — Anche Charlie si comportava da insubordinato, ovviamente. Ma lui era il mio ufficiale esecutivo, ed era al di fuori della scala gerarchica. Inoltre, un amico dovevo pur farmelo. — Magari si addolcirà, una volta che saremo sotto peso.

— Sicuro.

Tecnicamente, eravamo già sotto peso, perché stavamo avanzando lentamente verso la collapsar di Stargate a una gravità. Ma era solo per la comodità dell’equipaggio: è difficile chiudere le botole in caduta libera. Il viaggio vero e proprio sarebbe incominciato solo quando fossimo entrati nelle vasche.


Il salone era troppo deprimente, e così Charlie e io impiegammo le ultime ore di mobilità per esplorare l’astronave.

Il ponte sembrava una comune centrale di computer: avevano rinunciato al lusso dei videoschermi. Ci fermammo a rispettosa distanza mentre l’Antopol e i suoi ufficiali effettuavano l’ultima serie di controlli prima di calarsi nelle vasche e di affidare i nostri destini alle macchine.

Per la verità c’era un oblò, una bolla di plastica robustissima, in sala navigazione, a prua. Il tenente Williams non aveva niente da fare: la parte preinserzione del suo lavoro era completamente automatizzata. Perciò fu ben lieto di farci da guida.

Batté un’unghia sull’oblò. — Spero che in questo viaggio non dobbiamo servircene.

— Come mai? — chiese Charlie.

— Lo usiamo solo se ci perdiamo. — Se l’angolo di inserzione deviava d’un millesimo di radiante, poteva darsi che noi finissimo dalla parte opposta della galassia. — Possiamo farci un’idea approssimativa della nostra posizione analizzando gli spettri delle stelle più luminose. Come le impronte digitali. Identificatene tre, e possiamo effettuare la triangolazione.

— E poi trovate la collapsar più vicina e ritornate sulla pista giusta — dissi io.

— È proprio quello, il problema. Sade-38 è l’unica collapsar di cui conosciamo l’esistenza nelle Nubi di Magellano. Sappiamo che c’è solo grazie ai dati catturati al nemico. Anche se riuscissimo a trovare un’altra collapsar, nel caso che ci perdessimo nella Nube, non sapremmo come inserirci.

— Magnifico.

— Ma in realtà non saremmo veramente persi — disse Williams, con un’espressione abbastanza perversa. — Potremmo chiuderci nelle vasche, puntare verso la Terra e lanciarci a tutta forza. Ci arriveremmo in circa tre mesi, tempo della nave.

— Sicuro — dissi io. — Ma centocinquantamila anni nel futuro. — A venticinque gravità, puoi arrivare a nove decimi della velocità della luce in meno di un mese. E a partire da quel momento, sei nelle braccia di sant’Albert Einstein.

— Be’, è un inconveniente, sicuro — disse Williams. — Ma almeno scopriremmo chi ha vinto la guerra.

Ti veniva fatto di chiederti quanti soldati avessero tagliato la corda in quel modo. C’erano quarantadue Forze d’Attacco perdute, non si sapeva bene né dove né come. Era possibile che tutte stessero viaggiando nello spazio normale, a una velocità prossima a quella della luce, e che ricomparissero a Stargate o sulla Terra, una dopo l’altra, nei secoli futuri.

Era un sistema comodo per imboscarti, perché, una volta che uscivi fuori dalla catena dei balzi tra collapsar, rintracciarti era praticamente impossibile. Purtroppo, la sequenza dei balzi era preprogrammata dal Comando della Forza d’Attacco; il navigatore umano entrava in scena solo se un errore di calcolo ti mandava a finire in un posto sbagliato, e schizzavi fuori in una parte diversa dello spazio.


Charlie e io andammo a ispezionare la palestra, abbastanza grande per ospitare una dozzina di persone alla volta. Lo pregai di preparare un elenco, in modo che tutti potessero esercitarsi per un’ora al giorno, quando non eravamo nelle vasche.

La sala mensa era solo un po’ più spaziosa della palestra, e anche facendo quattro turni, i pasti si sarebbero consumati spalla a spalla. E il salone della truppa era ancora più deprimente di quello degli ufficiali. Prima che quei venti mesi fossero passati, mi sarei trovato alle prese con un bel problema, per quanto riguardava il morale della truppa.

L’officina dell’armiere era grande quanto la palestra, la mensa e i due saloni messi insieme. Era indispensabile, dato il gran numero delle armi per fanteria che erano state realizzate nel corso dei secoli. L’arma fondamentale era ancora lo scafandro da combattimento, anche se era molto perfezionato rispetto al primo modello in cui mi avevano infilato poco prima della campagna di Aleph-zero.

Il tenente Riland, l’ufficiale armiere, sovrintendeva al lavoro dei quattro subordinati, uno per plotone, che effettuavano un ultimo controllo della sistemazione delle armi. Era probabilmente il compito più importante, se si pensava a quello che poteva succedere, a venticinque gravità, a tutte quelle tonnellate di esplosivi e di sostanze radioattive.

Ricambiai il saluto di Riland. — Tutto a posto, tenente?

— Sissignore, a parte quelle maledette spade. — Da usarsi nei campi di stasi. — Non riusciamo a orientarle in modo che non si pieghino. Speriamo solo che non si spezzino.

Non riuscivo a capire neppure lontanamente i principi che stavano alla base del campo di stasi; l’abisso tra la fisica moderna e il mio diploma nella stessa materia era ampio quanto il tempo che separava Galileo da Einstein. Ma gli effetti li conoscevo.

Niente poteva muoversi a una velocità superiore ai 16,3 metri al secondo all’interno del campo, che era un volume emisferico (sferico nello spazio) del raggio di circa cinquanta metri. All’interno, non esistevano radiazioni elettromagnetiche: niente elettricità, niente magnetismo, niente luce. Dallo scafandro, potevi vedere quello che ti circondava in un monocromatismo spettrale: il fenomeno mi era stato spiegato elegantemente come "trasferimento di fase della quasi-energia filtrante da una realtà tachionica adiacente". Per me, era come se mi avessero parlato del flogisto.

Il risultato, comunque, era che rendeva inutile tutte le armi belliche convenzionali. Persino una bomba nova, dentro al campo, era un pezzo di materia inerte. E qualunque essere, terrestre o taurano, preso dentro al campo senza un adeguato isolamento, sarebbe morto in una frazione di secondo.

All’inizio era parso che avessimo trovato l’arma assoluta. C’erano stati cinque scontri in cui intere basi taurane erano state spazzate via senza perdite umane al suolo. Bastava semplicemente portare il campo vicino ai nemici (quattro soldati robusti potevano farcela, in una gravità di tipo terrestre) e poi guardarli morire mentre scivolavano dentro alla parete opaca del campo. Quelli che trasportavano il generatore erano invulnerabili, eccettuati i brevi periodi durante i quali dovevano spegnerlo per orientarsi.

Ma quando il campo era stato usato per la sesta volta, i taurani si erano preparati. Indossavano tute protettive ed erano armati di lance affilate, con le quali potevano trapassare gli scafandri dei portatori del generatore. Dopo quella volta, i portatori erano sempre andati in giro armati.

Si era avuta notizia di solo altre tre battaglie del genere, sebbene dodici Forze d’Attacco fossero partite con il campo di stasi. Le altre stavano ancora combattendo, o erano ancora in viaggio, oppure erano state annientate. Impossibile saperlo, a meno che tornassero indietro. E non dovevano tornare, se i taurani erano ancora padroni del "loro" territorio: quella era "diserzione davanti al nemico", il che significava la pena capitale per tutti gli ufficiali (anche se correva voce che venivano semplicemente sottoposti al lavaggio del cervello, ricondizionati e ributtati nella mischia).

— Useremo il campo di stasi, signore? — chiese Riland.

— Probabilmente. Non all’inizio, a meno che i taurani non siano già là. Non mi affascina l’idea di vivere dentro a uno scafandro. — E non mi andava neanche l’idea di usare spada, zagaglia e coltello da lancio, anche se con quelle armi avevo spedito nel Valhalla una notevole quantità di illusioni elettroniche.

Diedi un’occhiata all’orologio. — Be’, sarà meglio che scendiamo nelle vasche, capitano, ad assicurarci che siano tutti sistemati. — Avevamo ancora due ore, prima che cominciasse la sequenza dell’inserzione.

La sala delle vasche sembrava un’enorme fabbrica chimica. Aveva un diametro di cento metri abbondanti ed era piena zeppa di ingombranti apparecchiature dipinte di un uniforme grigioscuro. Le otto vasche erano disposte quasi simmetricamente intorno all’ascensore centrale, e la simmetria era guastata dal fatto che una di esse era grande circa il doppio delle altre. Era destinata al comando, per tutti gli ufficiali superiori e gli specialisti.

Il sergente Blazynski uscì da dietro una delle vasche e salutò. Non ricambiai il saluto.

— Cosa diavolo è quello? — In quell’universo grigio, avevo visto una macchia di colore.

— Un gatto, signore.

— Davvero. — E grosso, anche, e color arancione vivo. Sembrava ridicolo, drappeggiato sulle spalle del sergente. — Mi faccia riformulare la domanda: cosa diavolo ci fa qui un gatto?

— È la mascotte della Squadra manutenzione, signore. — Il gatto alzò la testa quanto bastava per soffiare di malavoglia contro di me, poi tornò alla sua flaccida apatia.

Guardai Charlie, e quello scrollò le spalle. — Mi sembra una crudeltà — disse. E al sergente: — Non se lo godrà molto. A venticinque gravità, sarà ridotto a un mucchietto di pelo e di budella.

— Oh, no, signore. Signori. — Il sergente scarruffò il pelo della bestiola, sulle spalle. C’era inserita una presa per il fluorocarbonio, identica a quella che avevo io sopra l’anca. — L’abbiamo comprato in un magazzino di Stargate, già modificato. Ormai ce l’hanno moltissime astronavi, signore. Il commodoro ci ha firmato i moduli.

Be’, ne aveva il diritto; la Squadra manutenzione era agli ordini miei e suoi, congiuntamente. E l’astronave era sua. — Non potevate prendere un cane? — Dio, i gatti li odiavo. Sempre in giro a curiosare.

— No, signore, non si adattano. Non sopportano la caduta libera.

— Avete dovuto fare qualche adattamento speciale? Nella vasca? — chiese Charlie.

— No, signore. Avevamo una cuccetta in più. Magnifico: voleva dire che sarei finito in vasca con quell’animale. — Abbiamo dovuto solo accorciare le cinghie.

"Occorre un tipo di droga diverso per rafforzare le pareti delle cellule, ma era compreso nel prezzo."

Charlie grattò il gatto dietro l’orecchio. Quello fece sommessamente le fusa, ma non si mosse. — Mi sembra stupido. L’animale, voglio dire.

— Lo abbiamo drogato in anticipo. — Non c’era da meravigliarsi che fosse così inattivo: la droga rallenta il metabolismo al punto necessario per mantenere esclusivamente le funzioni vitali.

— Credo sia tutto in regola — dissi io. Forse era utile, per via del morale. — Ma se comincia a venirmi tra i piedi, lo riciclerò personalmente.

— Sì, signore — disse il sergente, visibilmente sollevato, convinto che io non avrei mai fatto una cosa simile a quel delizioso batuffolo di pelo. Mettimi alla prova, amico.

Così avevamo visto tutto. Restava una cosa sola, al di qua dei motori: l’enorme stiva dove attendevano i caccia e i missili, fissati alle massicce imbragature. Io e Charlie scendemmo a dare un’occhiata, ma non c’erano finestre da questa parte del vano stagno. Sapevo che ce n’era una all’interno, ma la camera era a vuoto d’aria, e non valeva la pena di cominciare il ciclo per riempirla e scaldarla solo per soddisfare la nostra curiosità.

Cominciavo veramente a sentirmi in soprannumero. Chiamai la Hilleboe e lei disse che era tutto a posto. Avevamo un’altra ora da far passare: tornammo in salone e facemmo organizzare dal computer una partita di Kriegspieler, che cominciava giusto a diventare interessante quando suonò il preallarme dei dieci minuti.

Le vasche di accelerazione avevano una "emivita di guasto" di cinque settimane; ossia c’erano cinquanta probabilità su cento che tu potessi restarci immerso per cinque settimane senza che saltasse una valvola o un tubo e che tu finissi spiaccicato come un verme sotto un tacco. In pratica, doveva capitare un caso d’emergenza eccezionale, per dovere usare le vasche per un’accelerazione superiore alle due settimane. E noi dovevamo starci solo dieci giorni, in quella prima tappa del viaggio.

Cinque settimane o cinque ore, del resto, erano lo stesso, per quanto riguardava quelli che stavano nelle vasche. Quando la pressione saliva a livello operativo, perdevi il senso del tempo. Il corpo e il cervello diventavano come cemento. I sensi non fornivano informazioni, e ti potevi divertire per parecchie ore semplicemente cercando di sillabare il tuo nome.

Perciò non mi sorprese affatto se pareva che non fosse passato neanche un minuto quando mi ritrovai improvvisamente asciutto, formicolante per il ritorno delle sensazioni. Sembrava di essere a un congresso di asmatici in un campo di fieno; trentanove persone e un gatto che tossivano e sternutivano per liberarsi degli ultimi residui del fluorocarbonio. Mentre stavo slacciandomi le cinghe, la porta laterale si aprì, inondando la vasca d’una luce dolorosamente intensa. Il gatto uscì per primo e tutti gli altri si affrettarono a seguirlo. Per salvare la mia dignità, me ne andai per ultimo.

Fuori c’era un centinaio di persone, e tutti si stiracchiavano e si massaggiavano per liberarsi dai crampi. Dignità! Circondato da centinaia di metri quadrati di giovani carni femminee, le guardai in faccia e in preda alla disperazione cercai di risolvere mentalmente un’equazione differenziale di terz’ordine, per inibire il riflesso galante. Era un espediente temporaneo, ma mi servì per arrivare all’ascensore.

La Hillaboe stava urlando ordini e metteva in fila la truppa, e mentre le porte si richiudevano, notai che tutti quelli di un plotone avevano una lividura leggera e uniforme, dalla testa ai piedi. E venti paia di occhi pesti. Avrei dovuto parlarne tanto con la Squadra manutenzione quanto con il servizio medico.

Dopo essermi rivestito.

30

Restammo a una gravità per tre settimane, con qualche breve periodo di caduta libera per controllare la rotta, mentre la Masaryk II descriveva una lunga, stretta ellisse allontanandosi dalla collapsar Resh-10, e ritornava indietro. In quel periodo andò tutto bene: tutti si adattarono alla routine di bordo. Li feci lavorare il meno possibile, e li sottoposi invece a un intenso ripasso dell’addestramento e a parecchia ginnastica… per il loro bene, anche se non ero tanto ingenuo da illudermi che se ne rendessero conto.

Dopo circa una settimana a una gravità, il soldato semplice Rudkoski, l’aiutante del cuoco, aveva improvvisato una distilleria, e produceva otto litri giornalieri di alcool etilico al 95%. Non avevo nessuna intenzione di impedirglielo, dato che la vita a bordo era già abbastanza squallida, e non me ne importava, purché si presentassero sobri in servizio. Ma ero curioso di sapere come riuscisse a dirottare le materie prime dalla nostra ecologia a circuito chiuso, e come facessero i soldati a pagarsi da bere. Perciò mi servii della scala gerarchica a rovescio, incaricando l’Alsever di scoprirlo. Lei lo chiese a Jarvil, che lo domandò a Carreras, che andò a fare quattro chiacchiere con Orban, il cuoco. Saltò fuori che era stato il sergente Orban a organizzare tutto, e che lasciava a Rudkoski la parte più sporca del lavoro: e moriva dalla voglia di vantarsene con qualcuno degno della sua fiducia.

Se qualche volta avessi consumato i pasti insieme alla truppa, avrei capito che stava succedendo qualcosa di strano. Ma la congiura non si estendeva fino al livello degli ufficiali.

Per mezzo di Rudkoski, Orban aveva organizzato un’economia basata sull’alcool. Le cose andavano così:

Ogni pasto includeva un dessert molto ricco di zucchero — gelatina, crema o budino — che tu eri libero di mangiare, se riuscivi a sopportarne il sapore. Ma se era ancora sul tuo vassoio quando lo presentavi allo sportello del riciclaggio, Rudkoski ti dava un gettone da dieci centesimi e rovesciava il dolce zuccherato in una vasca a fermentazione. Aveva due vasche da venti litri, una delle quali "lavorava" mentre si riempiva l’altra.

Il gettone da dieci centesimi era la base di un sistema che ti consentiva di comprare mezzo litro di alcool etilico puro (gusto a scelta) per cinque dollari. Una squadra di cinque persone che saltasse i dessert poteva comprarsi circa un litro alla settimana: abbastanza per una festicciola, ma non abbastanza per costituire un attentato alla salute di tutti.

Quando Diana Alsever mi portò queste informazioni, portò anche una bottiglia di Boiata Rudkoski… "Boiata" intesa alla lettera: era un sapore riuscito male. La bottiglia aveva salito la scala gerarchica perdendo solo due dita di contenuto.

Il sapore era una combinazione spaventosa tra la fragola e i semi di comino. Con la depravazione abbastanza frequente tra le persone che bevono di rado, Diana ne era entusiasta. Mi feci portare un po’ d’acqua ghiacciata, e dopo un’ora lei era completamente partita. In quanto a me, me ne versai un bicchiere e non lo finii.

Quando Diana fu ben avviata sulla strada verso l’oblio, mormorando al proprio fegato un soliloquio rassicurante, all’improvviso alzò la testa e mi fissò con franchezza infantile.

— Tu hai un grosso problema, maggiore William.

— Molto meno grave di quello che avrai tu domani mattina, tenente medico Diana.

— Oh, non proprio. — Si agitò una mano davanti alla faccia, in un gesto ebbro. — Un po’ di vitamine, un po’ di giù… cosio, un centimetro cubo di adren… alina se il resto non serve. Tu… tu… hai un vero… problema.

— Senti, Diana, non vorrai che io…

— Tu hai bisogno… di un appuntamento con quel simpatico caporale Valdez. — Valdez era il consulente sessuale maschile. — Lui ha l’empatia. Ti farà diventare…

— Ne abbiamo già parlato, ti ricordi? Voglio restare come sono.

— Questo vale per tutti. — Diana si asciugò una lacrima che era probabilmente alcool all’uno per cento. — Sai che ti chiamano il Vecchio Investito. No, non così.

Fissò prima il pavimento, poi la parete. — Il Vecchio Invertito, ecco cosa.

Mi ero aspettato di peggio. Ma non tanto presto. — Non me ne importa. Affibbiano sempre un soprannome ai comandanti.

— Lo so ma… — All’improvviso si alzò, barcollando un pochino. — Ho bevuto troppo. Sdraiati. — Mi voltò la schiena e si stiracchiò così forte da farsi scricchiolare le giunture. Poi ci fu il fruscio di una lampo, e lei sgusciò fuori della tunica, la scavalcò e si avviò in punta di piedi verso il mio letto. — Vieni, William. È un’occasione unica.

— Per amor di Dio, Diana. Non sarebbe giusto.

— È tutto giusto — ridacchiò lei. — E poi, sono un dottore. Ho una mentalità clinica; non mi darà fastidio neanche un po’. Aiutami con questo coso. — Dopo cinquecento anni, continuavano a metterli dietro, i fermagli dei reggiseni.

Un gentiluomo di un certo tipo l’avrebbe aiutata a spogliarsi e poi sarebbe uscito con discrezione. Un gentiluomo di un altro tipo si sarebbe precipitato fuori dalla porta. Poiché non appartenevo a nessuna delle due categorie, mi avvicinai, deciso a stare al gioco.

Per fortuna, forse, lei si addormentò prima che avessimo avuto il tempo di cominciare. Restai ad ammirarla a lungo e poi, immensamente imbarazzato, riuscii a raccogliere tutta la sua roba e a rivestirla.

La sollevai dal letto, dolce peso, e poi mi resi conto che se qualcuno mi avesse visto mentre la riportavo nella sua cabina, sarebbe diventata lo zimbello di tutti per il resto della campagna. Chiamai Charlie, gli dissi che avevamo bevuto un po’ e che Diana si era sentita male e gli chiesi se era disposto a venire da me per bere qualcosa o per aiutarmi a riportare a casa la cara dottoressa.

Quando Charlie bussò, lei era innocentemente abbandonata su una sedia, e russava piano.

Charlie la guardò e sorrise. — Medico, cura te stesso. — Gli offrii la bottiglia e un avvertimento. La fiutò e fece una smorfia.

— Che cos’è, vernice?

— Una porcheria che hanno combinato i cuochi. Distillazione sotto vuoto.

Charlie la posò con cautela, come se potesse esplodere. — Prevedo un imminente calo di clienti. Un’epidemia di morti per avvelenamento… Diana ha bevuto davvero questo schifo?

— Be’, i cuochi hanno ammesso che l’esperimento non era riuscito. Gli altri sapori evidentemente sono potabili. Sì, l’ha bevuto e le è piaciuto.

— Bella questa… — Charlie scoppiò a ridere. — Accidenti! Allora, tu la prendi per le gambe e io per le braccia?

— No, senti, prendiamo un braccio per ciascuno. Magari riusciamo a farla camminare.

Diana gemette un po’ quando l’alzammo dalla sedia, aprì un occhio e disse: — Ciao, Charliiie. — Poi richiuse l’occhio e si lasciò trascinare fino alla sua cabina. Lungo il percorso non ci vide nessuno, ma la sua compagna di cuccetta, la Laasonen, era alzata e leggeva.

— Ha proprio bevuto quella roba, eh? — Guardò l’amica con ironia affettuosa. — Qua, lasciate che vi aiuti.

Fra tutti e tre, riuscimmo a metterla a letto. La Laasonen le scostò i capelli dagli occhi. — Aveva detto che era un esperimento.

— È più devota alla scienza di me — disse Charlie. — E ha anche lo stomaco più forte.

Sarebbe stato meglio che non lo avesse detto.

Diana ammise timidamente che non ricordava più niente di quello che era successo dopo il primo bicchiere, e parlando con lei dedussi che era convinta che Charlie fosse sempre stato presente. Il che era un bene, naturalmente. Ma, oh, Diana, mia deliziosa eterosessuale potenziale, permettimi di offrirti una bottiglia di ottimo scotch, la prima volta che arriveremo in porto. Fra settecento anni.

Tornammo nelle vasche per il salto da Resh-10 a Kaph-35. Furono due settimane a venticinque gravità; poi altre quattro settimane di routine a una gravità.

Io avevo annunciato la mia politica della porta aperta, ma in pratica non ne approfittò nessuno. Vedevo pochissimo la truppa, e quelle occasioni erano sempre negative: li interrogavo sul ripasso dell’addestramento, facevo ramanzine, e qualche volta tenevo lezioni. Ed era raro che quelli parlassero in modo intelligibile, se non per rispondere a una domanda diretta.

Quasi tutti conoscevano l’inglese come lingua madre o come seconda lingua, ma in quei quattrocentocinquant’anni era tanto cambiato che li capivo a malapena, soprattutto se lo parlavano in fretta. Per fortuna, durante il primo addestramento avevano imparato tutti l’inglese del Ventunesimo secolo: quella lingua, o dialetto, era la lingua franca temporale, grazie alla quale un soldato del Venticinquesimo secolo poteva comunicare con qualcuno che era stato contemporaneo dei suoi nonni di diciannove generazioni prima. Se l’istituzione dei nonni esisteva ancora.

Pensai al mio primo comandante, il capitano Stott — che avevo odiato cordialmente, insieme con tutto il resto della compagnia — e cercai di immaginare ciò che avrei provato se lui fosse stato un deviante sessuale e se io fossi stato costretto a imparare un’altra lingua per sua comodità.

Quindi avevamo dei problemi di disciplina, sicuro. Ma era già un miracolo che ci fosse la disciplina. Di questo era responsabile la Hilleboe, e per quanto personalmente avessi poca simpatia per lei, dovevo riconoscere che sapeva far filare la truppa.

Quasi tutte le scritte scarabocchiate sulle pareti della nave alludevano a improbabili geometrie sessuali tra il secondo ufficiale di campo e il suo comandante.


Da Kaph-35 balzammo a Sarnk-78, e da lì ad Ayin-129 e finalmente a Sade-138. In generale, i balzi erano di poche centinaia d’anni-luce, ma l’ultimo fu di 140.000, il più lungo da collapsar a collapsar mai compiuto da un veicolo con uomini a bordo.

Il tempo trascorso nel passare da una collapsar all’altra era sempre lo stesso, indipendentemente dalla distanza. Ai tempi in cui avevo studiato fisica io, si pensava che la durata di un balzo fosse esattamente zero. Ma un paio di secoli dopo, avevano effettuato un complicato esperimento con onde guida e avevano dimostrato che in effetti il balzo durava una piccola frazione di un nanosecondo. Non sembra molto, ma avevano dovuto ricostruire la fisica partendo dalle fondamenta già quando avevano scoperto il balzo tra collapsar; e avevano dovuto smontarla di nuovo quando avevano accertato che ci voleva del tempo per andare da A a B. I fisici ne discutevano ancora.

Comunque, noi avevamo problemi più urgenti, quando schizzammo fuori dal campo collapsar di Sade-138 a tre quarti della velocità della luce. Era impossibile accertare, sul momento, se i taurani ci avessero preceduti. Lanciammo una sonda pre-programmata che avrebbe decelerato a 300 gravità e avrebbe dato un’occhiata preliminare in giro. Ci avrebbe avvertiti, se avesse scoperto altre astronavi nel sistema, o tracce di attività taurana su qualcuno dei pianeti della collapsar.

Dopo aver lanciato la sonda, ci chiudemmo nelle vasche e i computer incominciarono una nuova manovra evasiva della durata di tre settimane, mentre l’astronave rallentava. Non era un problema; ma tre settimane sono parecchio lunghe da passare congelati nella vasca. Dopo, per un paio di giorni, ci trascinammo in giro come vecchi invalidi.

Se la sonda ci avesse informati che i taurani erano già nel sistema, saremmo scesi immediatamente a una gravità e avremmo cominciato a usare i caccia e le sonde automatiche, armati di bombe nova. O forse non saremmo vissuti tanto a lungo: qualche volta i taurani ce la facevano a liquidare un’astronave poche ore dopo che era entrata in un sistema. Morire nella vasca forse non era il modo migliore di andarsene.

Impiegammo un mese per ritornare a un paio di unità astronomiche da Sade-138, dove la sonda aveva trovato un pianeta che faceva al caso nostro.

Era un pianeta strano, un po’ più piccolo della Terra, ma più denso. E non era il solito mondo criogenico, come quasi tutti i pianeti portale, sia per il colore che irradiava dal suo nucleo, sia perché la S Doradus, la stella più luminosa di tutta la Nube, era distante solo un terzo d’anno-luce.

La caratteristica più strana del pianeta era la mancanza di geografia. Dallo spazio sembrava una palla da biliardo lievemente danneggiata. Il nostro fisico, il tenente Gim, spiegò quelle condizioni indicando che la sua orbita anomala, quasi da cometa, significava probabilmente che aveva trascorso quasi tutta la sua esistenza da "pianeta vagabondo", andandosene da solo alla deriva nello spazio interstellare. C’erano buone probabilità che non fosse mai stato colpito da una grossa meteora fino a quando non era capitato dalle parti di Sade-138 ed era stato catturato… costretto a coabitare con tutti gli altri detriti cosmici che la collapsar si trascinava intorno.

Lasciammo in orbita la Masaryk II (era in grado di atterrare, ma questo avrebbe limitato la sua visibilità e ridotto il tempo di fuga) e trasportammo sulla superficie il materiale da costruzione servendoci dei sei caccia.

Fu un sollievo uscire dall’astronave, anche se il pianeta non era precisamente ospitale. L’atmosfera era un sottile vento freddo di elio e d’idrogeno: faceva troppo freddo perché, anche a mezzogiorno, qualunque altra sostanza potesse esistervi sotto forma di gas.

"Mezzogiorno" era quando la S Doradus stava allo zenith: una scintilla minuscola, d’uno splendore doloroso. La temperatura scendeva lentamente, di notte, da venticinque gradi Kelvin fino a diciassette… e questo causava dei problemi, perché poco prima dell’alba l’idrogeno cominciava a condensarsi e rendeva tutto così viscido che era impossibile far altro che mettersi seduti e aspettare che finisse. All’alba un fievole arcobaleno dai colori pastello offriva l’unica variazione nella monotonia bianca e nera del paesaggio.

Il terreno era traditore, coperto di pezzetti granulari di gas congelato che si spostavano lentamente, incessantemente nella brezza anemica. Bisognava camminare adagio, barcollando, per restare in piedi: delle quattro persone che morirono durante la costruzione della base, tre furono vittime di semplici cadute.

La truppa non fu soddisfatta della mia decisione di costruire le difese perimetrali e antiastronave prima di montare gli alloggi. Era prevedibile, e del resto avevano due giorni di riposo a bordo della nave per ogni "giorno" sul pianeta… il che non era troppo generoso, devo ammetterlo, poiché i giorni sull’astronave erano di 24 ore, e un giorno sul pianeta era di 38,5 ore da un’alba all’altra.

La base venne completata in meno di quattro settimane, ed era davvero una struttura formidabile. Il perimetro, un cerchio del diametro di un chilometro, era protetto da venticinque laser da un gigawatt che potevano puntare sul bersaglio e sparare automaticamente in un millesimo di secondo, reagendo ad ogni oggetto di grandezza significativa tra il perimetro e l’orizzonte. Questa volta, quando il vento soffiava nella direzione giusta e il suolo era umido per l’idrogeno, i piccoli granuli di ghiaccio si appiccicavano l’uno all’altro, formavano una palla e cominciavano a rotolare. Non arrivavano lontano.

Come protezione preventiva, prima che i nemici arrivassero all’orizzonte, intorno alla base c’era un enorme campo minato. Le mine sepolte esplodevano a una sufficiente distorsione del loro campo gravitazionale locale: bastava un solo taurano a farne esplodere una, se le arrivava a meno di venti metri; anche una piccola astronave a un chilometro di quota l’avrebbe fatta esplodere. Erano 2800, quasi tutte bombe nucleari da 100 microtoni. Cinquanta erano bombe a tachioni, dalla potenza devastatrice. Erano sparpagliate a caso in un cerchio che si estendeva per altri cinque chilometri oltre il limite dell’efficacia dei laser.

All’interno della base avevamo i laser individuali, le granate da un microtone e lanciarazzi multipli a tachioni che non erano mai stati provati in combattimento: ce n’era uno per plotone. Come estrema risorsa, accanto agli alloggiamenti era stato creato il campo di stasi. Dentro la sua cupola grigio-opaca, oltre alle armi paleolitiche per combattere l’Orda d’Oro, avevamo sistemato un piccolo incrociatore, nel caso che dovessimo perdere tutti i nostri mezzi spaziali pur vincendo la battaglia. Dodici persone ce l’avrebbero fatta comunque ad arrivare a Stargate. Era meglio non pensare al fatto che gli altri superstiti avrebbero dovuto restarsene lì fino a quando non fossero sopraggiunti i rincalzi… o la morte.

Gli alloggiamenti e gli uffici amministrativi erano tutti sotterranei, per proteggerli dalle armi in linea di visuale. Ma non andava bene per il morale: c’erano liste d’attesa per tutti i lavori all’aperto, per quanto fossero pesanti o pericolosi. Io non avevo permesso che la truppa uscisse all’aperto durante il tempo libero, un po’ perché era pericoloso, un po’ perché sarebbe stata una scocciatura dal punto di vista amministrativo controllare continuamente l’equipaggiamento in entrata e in uscita e star dietro a quelli che erano fuori.

Alla fine dovetti cedere e permettere che uscissero per qualche ora ogni settimana. Non c’era niente da vedere, tranne la pianura squallida e il cielo (che durante il giorno era dominato dalla S Doradus, e la notte dal fioco ovale della Galassia), ma era sempre meglio che guardare le pareti e i soffitti di roccia fusa.

Uno degli sport preferiti consisteva nell’arrivare fino al perimetro e lanciare palle di neve di fronte ai laser, per vedere qual era la palla più piccola capace di metterli in azione. A me sembrava che come divertimento equivalesse a guardare sgocciolare un rubinetto, ma in fondo non c’era pericolo, perché i laser potevano sparare solo in avanti, e avevamo energia in abbondanza.

Per cinque mesi le cose andarono avanti bene. I problemi amministrativi non erano diversi da quelli che avevamo dovuto affrontare a bordo della Masaryk II. E come trogloditi passivi correvamo meno pericoli di quando balzavamo da una collapsar all’altra, almeno fino a quando non fosse comparso il nemico.

Io feci finta di guardare dall’altra parte quando Rudkoski rimontò la distilleria. Tutto ciò che serviva a rompere la monotonia della vita di guarnigione andava benissimo, e i gettoni non solo provvedevano liquori alla truppa, ma servivano anche a giocare d’azzardo. Fui irremovibile solo su due punti: nessuno poteva uscire all’aperto se non era completamente sobrio, e nessuno poteva vendere prestazioni sessuali. Forse ero troppo puritano, ma comunque rientrava nei regolamenti. L’opinione degli specialisti era divisa; il tenente Wilber, lo psichiatra, era d’accordo con me; i consulenti sessuali Kajdi e Valdez no. Ma probabilmente loro facevano danaro a palate, dato che erano i "professionisti" stabili.

Cinque mesi di routine piacevolmente noiosa, e poi ci fu la faccenda del soldato Graubard.


Per ovvie ragioni, negli alloggiamenti le armi erano proibite. Dato l’addestramento ricevuto da quegli individui, anche una rissa a pugni poteva diventare un duello mortale, e non erano tipi che avessero molta pazienza. Cento persone normali, nelle nostre grotte, dopo una settimana si sarebbero prese reciprocamente per la gola, ma quei soldati erano stati scelti a uno a uno per la loro capacità di sopportarsi a vicenda in un ambiente chiuso.

Comunque, le zuffe c’erano lo stesso. Graubard per poco non uccise il suo ex amante Schon, quando questi gli fece uno sberleffo mentre erano in fila alla mensa. Si buscò una settimana di cella d’isolamento (e lo stesso toccò a Schon che l’aveva provocato) e poi consulenze psichiatriche e corvée di punizione. Poi lo trasferii al Quarto plotone, così non avrebbe visto Schon tutti i giorni.

La prima volta che s’incontrarono in un corridoio, Graubard salutò Schon con un furioso calcio alla gola. Diana Alsever dovette costruirgli una trachea nuova. Graubard ebbe un’altra dose più intensiva di detenzione, consulenza e corvée — diavolo, non potevo trasferirlo a un’altra compagnia - e poi per due settimane si comportò bene. Modificai gli orari di lavoro e dei pasti di quei due, in modo che non venissero mai a trovarsi nella stessa stanza. Ma s’incontrarono di nuovo in un corridoio, e questa volta il risultato fu più equilibrato: Schon ne uscì con due costole fratturate, ma Graubard con un testicolo scoppiato e quattro denti di meno.

Se continuava così, mi sarei ritrovato con una bocca in meno da sfamare.

A norma del Codice Universale di Giustizia Militare, avrei potuto ordinare l’esecuzione di Graubard, poiché, tecnicamente, eravamo in combattimento. Forse avrei dovuto farlo subito. Ma Charlie propose una soluzione più umanitaria, e io l’accettai.

Non avevamo lo spazio sufficiente per tenere Graubard in isolamento per sempre, e sembrava che quella fosse l’unica cosa, umana ma pratica, da fare. Ma a bordo della Masaryk II, che ci stava sopra la testa in un’orbita stazionaria, avevamo spazio in abbondanza. Chiamai l’Antopol, che accettò di occuparsi di Graubard. L’autorizzai a buttare nello spazio quel bastardo, se le avesse causato qualche guaio.

Indicemmo un’assemblea generale per spiegare la situazione, in modo che tutti si imprimessero in mente a dovere la lezione di Graubard. Avevo appena cominciato a parlare, in piedi sul podio di roccia con la compagnia seduta davanti a me e gli ufficiali e Graubard dietro di me, quando quel pazzo decise di uccidermi.

Come tutti gli altri, Graubard faceva cinque ore di addestramento alla settimana nel campo di stasi. Sotto un’attenta supervisione, i soldati si esercitavano ad adoperare le spade e le lance e tutto il resto contro fantocci che rappresentavano i taurani. Non so come, Graubard era riuscito a fregare un’arma, un chakra indiano, che è un disco di metallo con l’orlo tagliente come un rasoio. È un’arma difficile, ma quando hai imparato a usarla, può essere molto più efficiente di un normale coltello da lancio. E Graubard era un esperto.

In una frazione di secondo, Graubard mise fuori combattimento i due che gli stavano ai fianchi — colpendo Charlie alla tempia con una gomitata mentre con un calcio spaccava una rotula alla Hilleboe — si sfilò il chakra dalla tunica e lo lanciò contro di me, tutto in successione. Il chakra aveva già coperto metà della distanza che lo separava dalla mia gola, prima che io reagissi.

Istintivamente tesi la mano per dirottarlo, e giusto per un centimetro non ci rimisi quattro dita. L’orlo affilatissimo mi squarciò il palmo della mano, ma riuscii a deviarlo. E Graubard intanto mi si stava buttando addosso, con i denti snudati in un’espressione che mi auguro di non rivedere mai più.

Forse non si rendeva conto che il Vecchio Invertito in realtà aveva solo cinque anni più di lui; che il Vecchio Invertito aveva riflessi da combattente, e tre settimane di addestramento cinestetico a fecdback negativo. Comunque, la cosa fu così facile che quasi mi fece pena.

Egli girò il piede destro verso l’interno: capii che avrebbe fatto un altro passo e poi avrebbe spiccato un balzo frenetico. Accorciai la distanza che ci divideva e, nel momento in cui staccava entrambi i piedi dal pavimento, gli sferrai un violento calcio laterale al plesso solare. Prima di toccare il pavimento era già svenuto.

"Se lei dovesse uccidere un uomo" mi aveva detto Kynock "non so esattamente se ne sarebbe capace". Più di centoventi persone in quella saletta, e l’unico suono era il costante sgocciolio del sangue dal mio pugno serrato al pavimento. "Anche se deve conoscere mille modi diversi per farlo." Se avessi colpito qualche centimetro più in alto o con un’angolazione leggermente diversa, lo avrei ucciso sul colpo. Ma Kynock aveva avuto ragione: mi mancava l’istinto.

Se l’avessi semplicemente ucciso per legittima difesa, i miei guai sarebbero finiti lì, invece di moltiplicarsi all’improvviso.

Un comandante può chiudere sottochiave uno psicopatico rissoso e poi non pensarci più. Ma con un assassino mancato era diverso. E non avevo bisogno di effettuare un sondaggio per capire che giustiziandolo non avrei migliorato i miei rapporti con la truppa.

Mi accorsi che Diana era in ginocchio davanti a me, e cercava di farmi aprire le dita. — Pensa alla Hilleboe e a Moore — mormorai; e alla truppa: — Rompete le righe.

31

— Non fare l’idiota disse Charlie. Sul livido alla testa si teneva una pezza bagnata.

— Non pensi che deva giustiziarlo?

— Smettila di muoverti! — Diana cercava di accostare le labbra della mia ferita, per poterla chiudere con la vernice. Dal polso in giù, mi sentivo la mano come se fosse un pezzo di ghiaccio.

— Non personalmente, no. Puoi incaricare qualcuno. Scelto a sorte.

— Charlie ha ragione — disse Diana. — Metti in un barattolo dei pezzi di carta con i nomi, e falli estrarre a sorte.

Era un bene che la Hilleboe in quel momento dormisse profondamente sull’altra cuccetta. Non avevo bisogno di sentire la sua opinione. — E se il prescelto rifiuta?

— Puniscilo e incarica un altro — disse Charlie. — Non hai imparato niente nel barattolo? Non puoi abdicare alla tua autorità eseguendo pubblicamente un lavoro… che ovviamente dovrebbe essere assegnato a un altro.

— Qualunque altro lavoro, sì. Ma questo… Nessuno, nella compagnia, ha mai ucciso. Darei l’impressione di passare a qualcun altro il compito di sbrigare il mio sporco lavoro morale.

— Se è così maledettamente complicato — disse Diana — perché non schieri la truppa e non spieghi tutto? E poi gli fai tirare le paglie. Non sono bambini, quelli.

C’era stato un esercito in cui si faceva qualcosa del genere, mi diceva un forte pseudoricordo. La milizia marxista, POUM, durante la guerra civile spagnola, nella prima metà del Ventesimo secolo. Lì obbedivi a un ordine solo se ti veniva spiegato dettagliatamente; e potevi rifiutarti di eseguirlo se non aveva senso. Ufficiali e soldati si sbronzavano insieme, non si facevano mai saluti militari e non usavano titoli. Avevano perso la guerra. Ma i loro avversari non si erano certamente divertiti.

— Finito. — Diana mi posò sulle ginocchia la mano inerte. — Non muoverla per una mezz’ora. Quando comincerà a farti male, allora potrai usarla.

Esaminai attentamente la ferita. — Le linee non corrispondono. Non che io mi lamenti.

— Non ne avresti diritto. A lume di logica, dovresti avere solo un moncherino. Niente impianti di rigenerazione, da questa parte di Stargate.

— Il moncherino potresti avercelo in cima al collo — disse Charlie. — Non capisco perché ti fai tanti scrupoli. Avresti dovuto ammazzarlo subito, quel bastardo.

Lo so, accidenti! - Charlie e Diana sussultarono, nel sentirmi sbottare a quel modo. — Scusate, diavolo. Sentite, lasciate che sia io a preoccuparmi.

— Perché non parli di qualcosa d’altro, per un po’? — Diana si alzò e controllò il contenuto della borsa. — Ho un altro paziente da visitare. Cercate di non litigare.

— Graubard? — chiese Charlie.

— Esatto. Per assicurarmi che possa salire sul patibolo senza bisogno di aiuto.

— E se la Hilleboe?…

— Dormirà per un’altra mezz’ora. Manderò giù Jarvil, nel caso servisse. — E corse via.

— Sul patibolo… — Non ci avevo pensato. — Come diavolo facciamo a giustiziarlo? Non possiamo farlo al chiuso, per via del morale. Il plotone d’esecuzione sarebbe molto macabro.

— Sbattilo fuori dal portello stagno. Non sei tenuto a far cerimonie, con lui.

— Probabilmente hai ragione. Non ci avevo pensato. — Mi chiesi se Charlie aveva mai visto il cadavere di qualcuno morto in quel modo. — Magari dovremmo semplicemente scaraventarlo nel riciclatore. Tanto ci finirebbe comunque.

Charlie rise. — Così va bene.

— Ma dovremmo tagliarlo un po’. Lo sportello non è molto largo. — Charlie aveva qualche proposta da fare al riguardo. Jarvil entrò e, più o meno, ci ignorò.

All’improvviso la porta dell’infermeria si spalancò. Un paziente su una barella; Diana che gli camminava svelta a fianco, premendo sul petto dell’uomo, mentre un soldato spingeva. Dietro venivano altri due soldati, ma si fermarono sulla porta. — Qui, vicino alla parete — ordinò Diana.

Era Graubard. — Ha tentato di uccidersi — disse Diana, ma quello era evidente. — Il cuore si è fermato. — Graubard aveva fatto un cappio con la cintura che gli pendeva ancora, lenta, attorno al collo.

Alla parete erano attaccati due grossi elettrodi con impugnature di gomma. Diana li afferrò con una mano, mentre con l’altra apriva la tunica del paziente. — Levate le mani dalla barella! — Staccò gli elettrodi, premette con un piede un interruttore, e li accostò al torace di Graubard. Emisero un ronzio sommesso, mentre il corpo tremava e sussultava. Odore di carne bruciata.

Diana scuoteva la testa. — Prepariamoci a incidere — disse a Jarvil. — Fai venire giù Doris. — Il corpo gorgogliava, ma era un suono meccanico, come di un tubo scarico.

Diana spense l’interruttore con il piede e lasciò cadere gli elettrodi, si tolse un anello dal dito e andò a infilare le braccia nello sterilizzatore. Jarvil cominciò a massaggiare il petto dell’uomo con un liquido maleodorante.

Tra le due ustioni lasciate dagli elettrodi c’era un piccolo segno rosso. Impiegai un momento a capire che cos’era. Jarvil lo cancellò. Io mi avvicinai e controllai il collo di Graubard.

— Togliti dai piedi William, non ti sei sterilizzato. — Diana tastò la clavicola del paziente, misurò un poco più sotto e praticò un’incisione, diritta fino alla base dello sterno. Sgorgò il sangue e Jarvil le porse uno strumento che sembrava un grosso tagliabulloni cromato.

Distolsi gli occhi, ma non potei fare a meno di sentire lo strumento che tagliava le costole. Diana chiese retrattori e spugne e così via, mentre io tornavo a sedermi al mio posto. Con la coda dell’occhio la vidi lavorare all’interno della gabbia toracica, massaggiando direttamente il cuore.

Charlie aveva l’aria di sentirsi come mi sentivo io. Esclamò, debolmente: — Ehi, non sfinirti, Diana. — Jarvil aveva portato il carrello del cuore artificiale e stava tendendo due tubi. Diana prese un bisturi e io tornai a distogliere lo sguardo.


Mezz’ora dopo era ancora morto. Spensero la macchina e lo coprirono con un lenzuolo. Diana si lavò il sangue dalle braccia e disse: — Vado a cambiarmi. Torno fra un minuto.

Mi alzai e andai nel suo alloggio, alla porta accanto. Dovevo sapere. Alzai la mano per bussare ma all’improvviso mi fece un male terribile, come se fosse tagliata da una linea sinistra e Diana aprì immediatamente.

— Cosa… oh, vuoi qualcosa per la mano? — Era semivestita ma non ci faceva caso. — Chiedilo a Jarvil.

— No, non è per questo. Cos’è successo, Diana?

— Oh, be’. — Si infilò la tunica dalla testa, e la sua voce risuonò smorzata. È stata colpa mia, credo. L’avevo lasciato solo per un momento.

— E lui ha tentato di impiccarsi.

— Esatto. — Sedette sul letto e mi offrì la sedia. — Ero andata al bagno, e quando sono tornata indietro era morto. Avevo già mandato via Jarvil perché non volevo che la Hilleboe restasse troppo a lungo senza assistenza.

— Ma, Diana… non ha nessun segno sul collo. Nessun livido, niente.

Lei alzò le spalle. — Non è morto impiccato. Ha avuto un attacco cardiaco.

— Qualcuno gli ha fatto un’iniezione. Proprio sul cuore.

Diana mi guardò curiosamente. — Sono stata io, William. Adrenalina. È la procedura abituale.

Quel punto rosso di sangue si forma solo se ti scosti violentemente dal proiettore mentre ti fanno l’iniezione. Altrimenti il medicinale passa attraverso i pori, e non lascia nessuna traccia. — Era morto quando gli hai fatto l’iniezione?

— Dal punto di vista professionale, direi di sì. — Impassibile. — Niente pulsazioni cardiache, polso, respirazione. Pochissimi altri disturbi presentano gli stessi sintomi.

— Già. Capisco.

— È qualcosa… Che succede, William?

O avevo avuto un’improbabile colpo di fortuna, oppure Diana era un’ottima attrice. — Niente. Già, è meglio che vada a farmi dare qualcosa per la mano. — Aprii la porta. — Mi ha risparmiato un sacco di fastidi.

Lei mi guardò dritto negli occhi. — Questo è vero.


In realtà, però, avevo solo scambiato un guaio con un altro. Benché la dipartita di Graubard avesse avuto parecchi testimoni disinteressati, continuava a correre la voce che lo avessi fatto eliminare dalla dottoressa Alsever, perché non ce l’avevo fatta a ucciderlo da solo e non volevo avere la seccatura di un regolare processo davanti a una corte marziale.

Il fatto era che, a norma del Codice Universale di "Giustizia" Militare, Graubard non avrebbe avuto diritto a nessun processo. Bastava che avessi detto: — Tu, tu e tu. Portate fuori quest’uomo e uccidetelo, prego. — E guai al soldato semplice che si fosse rifiutato di eseguire l’ordine.

In un certo senso, i miei rapporti con la truppa migliorarono. Almeno esteriormente, mi mostravano una maggiore deferenza. Ma sospettavo che, almeno in parte, fosse quel tipo meschino di rispetto che si accorda a qualunque carogna che ha dimostrato di essere pericolosa e instabile.

Così il mio nuovo soprannome era Killer. Proprio quando cominciavo ad abituarmi a Vecchio Invertito.

La base si riassestò rapidamente nella solita routine fatta di addestramento e di attesa. Ero quasi impaziente che i taurani si facessero vedere, solo per venirne fuori, in un modo o nell’altro.

I soldati si erano adattati alla situazione molto meglio di me, per ovvie ragioni. Avevano doveri specifici da compiere e parecchio tempo libero per i soliti rimedi militari contro la noia. I miei doveri erano più variati ma mi davano poca soddisfazione, poiché i problemi che arrivavano fino a me erano più o meno del tipo insolubile; quelli che avevano belle soluzioni chiare, senza ambiguità, venivano sbrigati dagli inferiori di grado.

Non avevo mai avuto una gran passione per gli sport e i giochi, ma cominciai a occuparmene sempre di più: era una specie di valvola di sicurezza. Per la prima volta in vita mia, in quell’ambiente teso e claustrofobico, non potevo rifugiarmi nella lettura o nello studio. Perciò tiravo di scherma con gli altri ufficiali, mi sfinivo con le macchine della ginnastica, e tenevo persino una corda per saltare nel mio ufficio. Quasi tutti gli altri ufficiali giocavano a scacchi, ma di solito erano in grado di battermi, e quando vincevo io avevo l’impressione che l’avessero fatto apposta per ingraziarmi. I giochi di parole erano difficili, perché la mia lingua era un dialetto arcaico che gli altri faticavano a manipolare. E io non avevo né il tempo né l’abilità per imparare alla perfezione l’inglese "moderno".

Per un po’ lasciai che Diana mi imbottisse di droghe psicotrope, ma l’effetto cumulativo fu spaventoso: stavo prendendo il vizio in un modo che all’inizio era troppo sottile per spaventarmi. Così lasciai perdere. Provai un po’ di psicanalisi sistematica con il tenente Wilber. Era impossibile. Sebbene lui sapesse tutto sui miei problemi, da un punto di vista accademico, non parlavamo lo stesso linguaggio culturale: quando mi dava consigli sull’amore e sul sesso era più o meno come se io avessi cercato di insegnare a un servo della gleba del Quattordicesimo secolo come doveva fare per entrare nelle grazie del prete e del padrone.

E quella, in fondo, era la radice del mio problema. Ero sicuro che avrei potuto fronteggiare le pressioni e le frustrazioni del comando; essere chiuso in una grotta con quegli individui che qualche volta sembravano poco meno alieni dei nemici; perfino la quasi certezza che tutto sarebbe finito con una morte dolorosa per una causa priva di valore… purché avessi potuto avere con me Marygay. E la sensazione diventava più intensa via via che passavano i mesi.

Il tenente Wilber a questo punto assumeva un’aria severa e mi accusava di romanticizzare la mia situazione. Lui sapeva cos’era l’amore: era stato innamorato anche lui. E la polarità sessuale della coppia non comportava differenze… d’accordo, questo potevo accettarlo; quell’idea era stata molto comune presso la generazione dei miei genitori, benché già presso la mia avesse trovato una prevedibile resistenza. Ma l’amore, diceva Wilber, l’amore era un fiore delicato; era un fragile cristallo; l’amore era una reazione instabile con un periodo di dimezzamento di circa otto mesi. Scemenze, ribattevo io, e lo accusavo di portare dei paraocchi culturali; trenta secoli di società prebellica avevano dimostrato che l’amore era l’unica cosa che poteva durare fino alla tomba e persino oltre, e se lui fosse nato, invece di essere uscito da un guscio, l’avrebbe saputo senza bisogno che glielo dicessi io! A questo punto lui assumeva un un’espressione ironica e tollerante e ripeteva che ero semplicemente vittima di una frustrazione sessuale autoinflitta e di un’illusione romantica.

Ripensandoci, credo che ci divertissimo a discutere in quel modo. Comunque, non mi guarì.

Avevo un nuovo amico che veniva sempre a sedersi sulle mie ginocchia. Era il gatto, che aveva la solita abilità di sfuggire a coloro che amano i gatti e di attaccarsi a quelli che soffrono di sinusite o che non hanno simpatia per quelle bestiole subdole. Comunque avevamo qualcosa in comune, poiché oltre me era l’unico mammifero maschio eterosessuale esistente a distanza ragionevole. Era castrato, naturalmente, ma date le circostanze non faceva molta differenza,

32

Successe esattamente 400 giorni dopo l’inizio dei lavori di costruzione. Ero seduto alla scrivania, a non controllare il nuovo elenco degli incarichi compilato dalla Hilleboe. Il gatto era sulle mie ginocchia, e faceva rumorosamente le fusa sebbene io rifiutassi di coccolarlo. Charlie era stravaccato su una sedia e leggeva qualcosa al visore. Il telefono squillò, ed era il commodoro.

— Sono qui.

— Cosa?

— Ho detto che sono qui. Una nave taurana è appena uscita dal campo della collapsar. Velocità 0,80 c. Decelerazione trenta gravità. Prendere o lasciare.

Charlie era venuto ad appoggiarsi alla mia scrivania. — Cosa? — Io spinsi giù il gatto.

— Quanto ci vuole prima che possiate inseguirla? — chiesi.

— Non appena riattacchi il telefono. — Tolsi la comunicazione e andai al computer logistico, che era il gemello di quello a bordo della Masaryk II, con cui era collegato direttamente. Mentre cercavo di ricavarne qualche cifra, Charlie manovrava il visore.

Il visore era un ologramma di circa un metro quadrato con uno spessore di mezzo metro, programmato per mostrare le posizioni di Sade-138, del nostro pianeta e di qualche altro frammento di roccia del sistema. C’erano punti verdi e punti rossi per indicare le posizioni delle nostre astronavi e di quelle taurane.

Il computer disse che il tempo minimo che i taurani avrebbero impiegato a decelerare e a tornare verso il nostro pianeta sarebbe stato un po’ più di undici giorni. Ovviamente, ci sarebbe voluta accelerazione e decelerazione massima, per quello: e in tal caso li avremmo beccati come una mosca sul muro. Perciò, come noi, avrebbero combinato a casaccio la direzione di volo e il grado di accelerazione. Sulla base di parecchie centinaia di preesistenti documentazioni sul comportamento dei nemici, il calcolatore era in grado di darci una tabella delle probabilità:


Giorni al contatto Probabilità

11: 0,000001

15: 0,001514

20: 0,032164

25: 0,103287

30: 0,676324

35: 0,820584

40: 0,922685

45: 0,993576

50: 0,999369

28,9554 MEDIANA 0,500000


A meno che, naturalmente, l’Antopol e la sua banda di allegri pirati non riuscissero a eliminarla. Le probabilità, come avevo appreso nel barattolo, erano leggermente inferiori al cinquanta per cento.

Ma sia che ci volessero 28,9554 giorni o due settimane, noi che eravamo sul pianeta dovevamo starcene lì a guardare. Se l’Antopol ce l’avesse fatta, non avremmo dovuto combattere, e infine una guarnigione regolare sarebbe venuta a rimpiazzarci; poi noi ci saremmo trasferiti alla prossima collapsar.

— Non s’è ancora mossa. — Charlie aveva regolato il visore alla scala minima: il pianeta era una sfera bianca delle dimensioni di un grosso melone e la Masaryk II era un punto verde sulla destra, alla distanza di circa otto meloni: era impossibile vederli tutti e due suillo schermo contemporaneamente.

Mentre noi guardavamo, un punto verde schizzò fuori dal punto che rappresentava la nave e se ne allontanò. Uno spettrale numero 2 apparve accanto al puntino e una proiezione nell’angolo in basso a sinistra dello schermo l’identificò: 2 — Missile automatico. Altri numeri della proiezione identificavano la Masaryk II un caccia difensivo planetario e quattordici missili automatici planetari difensivi. I sedici veicoli non erano ancora abbastanza distanti l’uno dall’altro per apparire come puntolini separati.

Il gatto mi si strofinò contro le caviglie; lo presi in braccio e lo accarezzai. — Di’ alla Hilleboe di ordinare l’adunata. Tanto vale dirlo subito a tutti.


Gli uomini e le donne non la presero molto bene, e non potevo biasimarli. Tutti c’eravamo aspettati che i taurani attaccassero molto prima, e quando quelli si erano ostinati a non farsi vivi, si era diffusa l’impressione che il Comando della Forza d’Attacco avesse commesso un errore, e che i nemici non sarebbero mai comparsi.

Volevo che la compagnia cominciasse ad addestrarsi sul serio con le armi: da quasi due anni non avevano più usato armi ad alta energia. Perciò attivai le dita-laser e feci distribuire i lanciagranate e i lanciarazzi. Non potevamo fare le esercitazioni dentro la base per timore di danneggiare i sensori esterni e il cerchio difensivo dei laser. Perciò spegnemmo metà del cerchio di laser e ci spingemmo un chilometro oltre il perimetro: un plotone per volta, accompagnato da me o da Charlie. La Rusk teneva d’occhio gli schermi del preavviso. Se qualcosa si fosse avvicinato, lei doveva lanciare un bengala, e il plotone doveva rientrare nel cerchio prima che il veicolo sconosciuto superasse l’orizzonte: in quel momento i laser difensivi sarebbero entrati automaticamente in azione, e oltre a liquidare il veicolo sconosciuto, avrebbero arrostito il plotone entro 0,02 secondi.

Non potevamo sacrificare niente di quel che c’era alla base per servircene come bersaglio, ma non fu un problema. Il primo razzo a tachioni che sparammo scavò una buca lunga venti metri, larga dieci e profonda cinque: i pezzi di roccia che erano volati via ci offrirono una quantità di bersagli, dal doppio della grandezza d’un uomo in giù.

I soldati erano in gamba, molto più di quanto si fossero dimostrati con le armi primitive nel campo di stasi. Il miglior sistema per le esercitazioni con i laser era una specie di tiro al piattello: bastava appaiare due soldati, metterne uno dietro all’altro e fargli lanciare le pietre a intervalli irregolari. Quello che sparava doveva calcolare la traiettoria della pietra e colpirla prima che toccasse il suolo. Avevano un impressionante coordinamento occhi-mano: forse il Consiglio Eugenetico aveva davvero fatto qualcosa di buono. Quasi tutti facevano centro più di nove volte su dieci, con pietre anche piccole come ciottoli. Il sottoscritto, che non era un prodotto dell’ingegneria genetica, riusciva al massimo a far centro sette volte su dieci; eppure avevo avuto molte più occasioni di far pratica.

Erano altrettanto abili nel valutare le traiettorie con il lanciagranate, che era un’arma molto più versatile di quanto non fosse stata in passato. Invece di sparare bombe da un microtone con una carica propulsiva tipo, aveva quattro cariche diverse e una scelta di bombe da uno, due, tre e quattro microtoni. E per il combattimento a distanza ravvicinata, quando usare i laser era pericoloso, la canna del lanciarazzi si poteva staccare, e la si caricava con un magazzino di proiettili "da caccia". Ogni colpo scagliava una nube in espansione di mille minuscole freccette, che a cinque metri erano mortali e a sei si trasformavano in un vapore innocuo.

Il lanciarazzi a tachioni non richiedeva nessuna abilità. Bastava stare attenti che non ci fosse nessuno alle tue spalle, quando sparavi; lo scarico del razzo era pericoloso per parecchi metri. Per il resto, inquadravi il bersaglio nel mirino e premevi il pulsante. Non dovevi preoccuparti della traiettoria: il razzo, a tutti gli effetti, viaggiava in linea retta. In meno di un secondo raggiungeva la velocità di fuga.

Fece bene al morale della truppa uscire a rovinare un po’ il paesaggio con quei nuovi giocattoli. Ma il paesaggio non reagiva. Per quanto le armi fossero fisicamente impressionanti, la loro efficacia sarebbe dipesa da quello che i taurani avrebbero usato in risposta. Anche una falange greca doveva avere un aspetto assai impressionante, ma non se la sarebbe cavata molto bene contro un uomo solo armato di lanciafiamme.

E come succedeva ad ogni scontro, a causa della dilatazione temporale non si poteva sapere che razza di armi avrebbero avuto i taurani. Poteva darsi che non avessero mai sentito parlare del campo di stasi. E poteva darsi che fossero in grado di pronunciare una parola magica che lo faceva scomparire.

Ero fuori con il Quarto plotone a bruciare pietre, quando Charlie mi chiamò e mi pregò di rientrare d’urgenza. Lasciai il comando a Heimoff.

— Un altro? — La scala dello schermo olografico era tale che il nostro pianeta era grande come un pisello, a circa cinque centimetri dalla X che indicava la posizione di Sade-138. Intorno erano sparpagliati quarantuno puntini rossi e verdi: la proiezione identificava il numero 41 come Incrociatore taurano (2).

— Hai chiamato l’Antopol?

— Sicuro. — Charlie prevenne la domanda successiva. — Ci vorrà quasi un giorno perché il segnale arrivi fin lassù e torni indietro.

— Prima non era mai successo. — Ma naturalmente Charlie lo sapeva.

Forse questa collapsar ha un’importanza particolare, per loro.

— È probabile. — Quindi era quasi certo che avremmo combattuto al suolo. Anche se l’Antopol fosse riuscita a liquidare il primo incrociatore, non avrebbe avuto cinquanta probabilità su cento con il secondo. Era a corto di missili automatici e di caccia. — Non vorrei essere al posto dell’Antopol, adesso.

— Lei finirà solo prima.

— Non lo so. Siamo in forma smagliante.

— Questo raccontalo alla truppa, William. — Charlie regolò la scala dello schermo, in modo che inquadrasse due soli oggetti: Sade-138 e il punto rosso che si muoveva lentamente.


La settimana seguente la passammo guardando i punti che si spegnevano. E se sapevi quando e dove guardare, potevi uscire e vedere mentre succedeva: un punto di luce bianca, aspra e accecante, che svaniva in un secondo circa.

In quel secondo, una bomba nova aveva liberato un’energia un milione di volte superiore a quella di un laser da un gigawatt. Formava una stella in miniatura, dal diametro di mezzo chilometro, calda come l’interno di un sole. Consumava tutto ciò che toccava. La radiazione di un’esplosione poco lontana poteva mettere fuori uso, irreparabilmente, il sistema elettronico di un’astronave: due caccia, uno nostro e uno loro, avevano evidentemente subito quella sorte, e adesso stavano allontanandosi dal sistema, alla deriva, a velocità costante, senza più energia.

In altre fasi della guerra avevamo usato bombe nova più potenti, ma la materia degenerata che veniva usata come combustibile era instabile, in quantità notevoli. Le bombe avevano la tendenza a esplodere quando si trovavano ancora a bordo dell’astronave. Evidentemente i taurani avevano lo stesso problema — oppure avevano copiato il processo da noi — perché anche loro erano scesi a bombe nova che utilizzavano meno di cento chili di materia degenerata. E le lanciavano con il nostro stesso sistema: la testata si divideva in dozzine di pezzi quando si avvicinava al bersaglio, e uno solo di quei pezzi era la bomba nova.

Probabilmente ai nemici sarebbero rimaste ancora alcune bombe dopo aver finito la Masaryk II e il suo corteggio di caccia e di veicoli automatici. Quindi era probabile che noi sprecassimo tempo ed energia, esercitandoci con le armi.

Nella mia coscienza si insinuò un pensiero: potevo raccogliere undici persone a bordo del caccia che avevamo nascosto, al sicuro, dietro il campo di stasi. Era preprogrammato per riportarci a Stargate.

Arrivai addirittura a fare mentalmente l’elenco di quegli undici, cercando di pensare a undici persone che per me erano più importanti del resto. E mi accorsi che sei le avrei pescate a caso.

Ma accantonai quel pensiero. Avremmo avuto una possibilità, magari anche maledettamente buona, anche contro un incrociatore armatissimo. Non sarebbe stato facile farci arrivare una bomba nova abbastanza vicina da includerci entro il raggio mortale.

E poi mi avrebbero buttato nello spazio per diserzione. Quindi non era il caso.


Il morale migliorò quando uno dei missili automatici dell’Antopol liquidò il primo incrociatore taurano. Senza contare i veicoli che aveva lasciato per la difesa planetaria, aveva ancora diciotto missili automatici e due caccia. Deviarono in cerchio per intercettare il secondo incrociatore nemico, che ormai era a poche ore-luce di distanza, ma furono inseguiti da quindici missili automatici taurani.

Uno di quei missili centrò la Masaryk II. I veicoli ancillari continuarono l’attacco, ma fu una disfatta. Un caccia e tre missili fuggirono alla massima accelerazione, imbardando sopra il piano dell’eclittica, e non vennero inseguiti. Li seguimmo con interesse morboso, mentre l’incrociatore nemico tornava indietro per combattere con noi. Il caccia era diretto verso Sade-138, per scappare. Nessuno se la sentì di biasimare l’equipaggio. Anzi, inviammo un messaggio, addio e buona fortuna; quelli non risposero, naturalmente, poiché erano chiusi nelle vasche. Ma il messaggio sarebbe stato registrato automaticamente.

I nemici impiegarono cinque giorni a ritornare verso il pianeta e ad assestarsi in un’orbita stazionaria dall’altra parte. Ci preparammo alla prima, inevitabile fase dell’attacco, che sarebbe stata aerea e completamente automatizzata: i loro missili contro i nostri laser. Misi cinquanta dei miei, tra uomini e donne, dentro al campo di stasi, nel caso che uno dei missili ce la facesse a passare. In realtà era un gesto inutile: il nemico poteva semplicemente starsene lì ad aspettare che spegnessero il campo, e arrostirli nello stesso instante in cui svaniva.

Charlie ebbe un’idea bizzarra, che per poco non accettai.

— Potremmo minare tutto.

— Come sarebbe? — feci io. — Questo posto è già minato, per un raggio di venticinque chilometri.

— No, non le mine e il resto. Parlavo della base vera e propria, qui, sottoterra.

— Continua.

— In quel caccia ci sono due bomba nova. — Indicò il campo di stasi, attraverso duecento metri di roccia. — Potremmo farle rotolare fin quaggiù, innescarle, e poi nasconderci tutti quanti nel campo di stasi e aspettare.

In un certo senso era un’idea allettante. Mi avrebbe tolto la responsabilità di prendere decisioni, affidando tutto al caso. — Ma non credo che funzionerebbe, Charlie.

Egli assunse un’espressione offesa. — Io credo di sì.

— No, senti. Perché funzioni, bisogna che tutti i taurani siano all’interno dei raggio mortale, prima che esploda… ma quelli non si precipiteranno tutti qui dentro dopo aver sfondato le nostre difese. Men che meno se la base sembrasse deserta. Sospetterebbero qualcosa, e manderebbero un drappello in avanscoperta. E quando la presenza del drappello avrà provocato lo scoppio delle bombe…

— Ci ritroveremo al punto di partenza, già. E senza la base. Scusa.

Scrollai le spalle. — Era un’idea. Continua a pensare, Charlie. — Dedicai di nuovo la mia attenzione allo schermo, dove continuava l’impari guerra spaziale. Abbastanza logicamente, il nemico voleva liquidare l’unico caccia che ancora restava, prima di cominciare a darsi da fare con noi. Non potevamo far altro che stare a vedere i puntini rossi che giravano intorno al pianeta e cercare di segnare i nostri successi. Fino a quel momento, il pilota era riuscito a togliere di mezzo tutti i missili automatici: i nemici non avevano ancora sguinzagliato i caccia contro di lui.

Avevo lasciato al pilota il comando di cinque dei laser del nostro cerchio difensivo. Ma non potevano servire a molto. Un laser da un gigawatt scagliava un miliardo di chilowatt al secondo a una portata di cento metri. A una quota di mille chilometri, però, il raggio si attenuava a dieci chilowatt. Poteva causare qualche danno, se colpiva un sensore ottico. Almeno poteva creare un po’ di confusione.

— Ci farebbe comodo un altro caccia. O magari sei.

— Usiamo i missili — dissi io. Avevamo un caccia, naturalmente, e il relativo pilota. Poteva darsi che quella fosse la nostra unica speranza, se ci avessero bloccati nel campo di stasi.

— L’altro quanto è lontano? — chiese Charlie, alludendo al pilota del caccia che era scappato. Regolai l’ingrandimento, e il punto verde apparve a destra dello schermo. — Circa sei ore-luce. — Gli restavano due missili automatici, troppo vicini per apparire come puntolini separati sullo schermo: uno l’aveva usato per coprirsi la ritirata. — Non accelera più, ma fila a nove gravità.

— Non potrebbe aiutarci neanche se volesse. — Gli sarebbe occorso quasi un mese per rallentare.

In quel momento, il punto luminoso che indicava il nostro caccia difensivo si spense. — Merda.

— Adesso incomincia il bello. Devo dire alle truppe di prepararsi a uscire?

— No… Di’ che indossino gli scafandri, nel caso che perdessimo aria. Ma ci vorrà un altro po’, immagino, prima che abbiamo un attacco al suolo. — Aumentai di nuovo la scala. Quattro punti rossi stavano già girando intorno al globo per venire verso di noi.


Misi lo scafandro e tornai negli uffici amministrativi per guardare sui monitor i fuochi d’artificio.

I laser funzionarono perfettamente. Tutti e quattro i missili automatici puntarono simultaneamente su di noi e vennero distrutti. Tutte le bombe nova, tranne una, esplosero al di sotto del nostro orizzonte: l’orizzonte visuale era distante circa dieci chilometri, ma i laser erano montati in alto e potevano far centro a una distanza doppia. La bomba esplosa sul nostro orizzonte si era fusa in un bagliore semicircolare che sfolgorò di un bianco brillante per parecchi minuti. Un’ora dopo, splendeva ancora, arancione scuro, e fuori la temperatura del suolo era salita a cinquanta gradi assoluti, fondendo quasi tutta la neve e mettendo allo scoperto un’irregolare superficie grigiocupa.

Anche il successivo attacco finì in una frazione di secondo, ma questa volta i missili automatici furono otto, e quattro arrivarono a meno di dieci chilometri. La radiazione dei crateri luminescenti alzò la temperatura fin quasi a 300 gradi assoluti. Era superiore al punto di fusione dell’acqua, e cominciai a preoccuparmi. Gli scafandri da combattimento andavano bene anche a più di mille gradi, ma i laser automatici avevano bisogno dei superconduttori a temperature bassissime, per agire in fretta.

Chiesi al computer qual era il limite di temperatura dei laser, e quello stampò in chiaro il TR 398-734-009-265, Alcuni Aspetti dell’Adattabilità dell’Artiglieria Criogenica a un Uso in Ambienti a Temperatura Relativamente Elevata. Conteneva una quantità di consigli pratici sul modo in cui potevamo isolare le armi, se avessimo avuto accesso a una officina d’armeria completamente attrezzata. Osservava che il tempo di reazione dei congegni di puntamento automatico aumentava con l’aumento della temperatura, e che al di sopra di una certa, "temperatura critica", le armi non erano più in grado di puntare. Ma era impossibile predire il comportamento delle singole armi: si sapeva solo che la temperatura critica più alta documentata era 790 gradi, e la più bassa 420 gradi.

Charlie guardava lo schermo. La sua voce era inespressiva, attraverso la radio. — Sedici, questa volta.

— Sorpreso? — Una delle poche cose che conoscevamo della psicologia taurana era una certa ossessione per i numeri, in particolare per i numeri primi e le potenze di due.

— Speriamo che non gliene restino ancora trentadue. — Interrogai in proposito il computer: seppe dire soltanto che finora l’incrociatore aveva lanciato un totale di 44 missili automatici e che si sapeva che alcune navi da battaglia taurane ne portavano anche 128.

Avevamo più di mezz’ora prima che i missili arrivassero. Potevo evacuare tutti nel campo di stasi, dove sarebbero stati relativamente in salvo, se una delle bombe nova fosse riuscita a superare il cerchio. In salvo, ma chiusi in trappola. Quanto tempo avrebbe impiegato a raffreddarsi il cratere, se tre o quattro bombe fossero riuscite a passare, per non pensare poi a quello che sarebbe accaduto se fossero passate tutte e sedici? Non sì poteva vivere in eterno dentro uno scafandro da combattimento, sebbene riciclasse tutto con spietata efficienza. Una settimana era sufficiente per demoralizzarti completamente. Due settimane bastavano a spingerti al suicidio. Nessuno aveva mai resistito per tre settimane, dentro a un campo.

Inoltre, come posizione difensiva, il campo di stasi poteva trasformarsi in una trappola mortale. Il nemico aveva tutti i vantaggi, dato che la cupola è opaca: l’unico modo per scoprire come vanno le cose all’esterno è metter fuori la testa. I taurani non avevano bisogno di entrare, muniti di armi primitive, a meno che non fossero impazienti. Potevano saturare la cupola con il fuoco dei laser e aspettare che noi spegnessimo il generatore. E intanto, potevano assediarci scagliando dentro la cupola lance, pietre, frecce… Noi avremmo potuto rispondere al fuoco, ma sarebbe stato inutile.

Naturalmente, se un uomo fosse rimasto nella base, gli altri avrebbero potuto attendere fuori, dentro la cupola, per la prossima mezz’ora. Se quello non fosse andato a prenderli, avrebbe capito che l’esterno scottava. Formai a colpi di mento la combinazione che mi avrebbe inserito su una frequenza accessibile a tutto il personale dal quinto grado in su.

— Qui il maggiore Mandella. — Suonava ancora come una pessima battuta di spirito.

Spiegai a grandi linee la situazione, e dissi loro di avvertire le truppe che tutti gli effettivi della compagnia erano liberi di trasferirsi nel campo di stasi. Io sarei rimasto e sarei andato a recuperarli se tutto fosse andato bene. Non per magnanimità, naturalmente: preferivo il rischio di venir disintegrato in un nanosecondo a una quasi inevitabile morte lenta sotto la cupola grìgia.

Poi formai la combinazione di Charlie. — Puoi andare anche tu. Provvedo io a tutto, qui.

— No, grazie — disse lui, lentamente. — Preferirei… Ehi, guarda questo.

L’incrociatore aveva lanciato un altro punto rosso, un paio di minuti più indietro degli altri. La proiezione dello schermo l’identificò: era un altro missile automatico. — È strano.

— Bastardi superstiziosi — disse Charlie, senza slancio.

Solo undici persone decisero di raggiungere le cinquanta che avevano avuto l’ordine di andare nella cupola. La cosa non avrebbe dovuto sorprendermi, e invece mi sorprese.

Mentre i missili si avvicinavano, Charlie e io osservavamo i monitor, evitando di guardare lo schermo olografico, tacitamente concordi nel ritenere che era meglio non sapere quando erano a un minuto di distanza, a trenta secondi… E poi, come le altre volte, finì prima che ci rendessimo conto che era cominciato. Gli schermi sfolgorarono bianchissimi, ci fu un brontolio di energia statica, e noi eravamo ancora vivi.

Ma questa volta c’erano quindici buche nuove sull’orizzonte, o ancora più vicino, e la temperatura saliva così rapidamente che l’ultima cifra dell’indicatore era una chiazza amorfa, in movimento. Il numero salì oltre gli 800 e poi cominciò a ridiscendere.

Non avevamo mai visto i missili, durante l’infinitesimale frazione di secondo che i laser impiegavano a puntare e a sparare. Ma poi il diciassettesimo lampeggiò sopra l’orizzonte, zigzagando pazzamente, e si fermò proprio sulla nostra verticale. Per un istante sembrò restare immobile, e poi cominciò a cadere. Metà dei laser l’avevano captato, e sparavano continuamente, ma nessuno poteva mirare: erano tutti bloccati nella precedente posizione di tiro.

Il missile scintillava mentre cadeva, e la lucentezza di specchio del guscio rifletteva il bagliore incandescente dei crateri e il guizzare spettrale del costante, impotente fuoco dei laser. Sentii Charlie trarre un profondo respiro, e il missile scese così vicino che potevi vedere i filiformi numerali taurani incisi sull’involucro e un oblò trasparente, vicino alla punta… poi il motore divampò, e sfrecciò via, all’improvviso.

— Cosa diavolo? — fece Charlie, sottovoce. L’oblò. — Forse era un ricognitore.

— Credo di sì. Quindi non possiamo toccarli, e loro lo sanno.

— A meno che i laser si riprendano. — Non pareva probabile. — È meglio che mandiamo tutti quanti sotto la cupola. E che ci andiamo anche noi.

Egli pronunciò una parola che era un po’ cambiata nel corso dei secoli, ma che aveva ancora un significato inequivocabile. — Non c’è fretta. Vediamo cosa fanno.

Attendemmo per parecchie ore. All’esterno, la temperatura si stabilizzò a 690 gradi — appena inferiore al punto di fusione dello zinco, ricordai assurdamente — e provai i comandi manuali dei laser, ma erano ancora bloccati.

— Ecco che arrivano — disse Charlie. — Altri otto.

Mi avviai verso lo schermo. — Credo che…

— Aspetta! Non sono missili. — La proiezione li identificò tutti e otto con la legenda Trasporto truppe.

— Penso che vogliano prendere la base — disse Charlie. — Intatta.

E magari collaudare nuove armi e nuove tecniche. — Non è un gran rischio per loro. Possono sempre ritirarsi e gettarci una bomba nova sulle ginocchia.

Chiamai la Brill e ordinai di andare a prendere tutti quelli che si trovavano nel campo di stasi, di schierarli con il resto del suo plotone in una linea difensiva intorno ai quadranti nord-est e nord-ovest. Io avrei schierato gli altri sull’altro semicerchio.

— Chissà — fece Charlie. — Forse non dovremmo portare tutti all’aperto. Almeno fino a quando non sappiamo quanti sono i taurani.

Aveva ragione lui. Tenere una riserva, indurre il nemico a sottovalutare le nostre forze. — È un’idea… potrebbero essere solo sessantaquattro, negli otto trasporti. — O centoventotto, o duecentocinquantasei. Sarebbe stato meglio se i nostri satelliti spia avessero posseduto una maggiore capacità di discriminazione. Ma non si può mettere più che tanto, dentro a una macchina grande come un chicco d’uva.

Decisi che i settanta della Brill formassero la nostra prima linea difensiva e ordinai che si schierassero in cerchio nelle trincee preparate all’esterno del perimetro della base. Tutti gli altri sarebbero rimasti sottoterra fino a quando non ci fosse stato bisogno di loro.

Se fosse risultato che i taurani, per superiorità numerica o grazie a una nuova tecnologia, erano in grado di mettere in campo una forza inarrestabile, avrei ordinato a tutti di entrare nel campo di stasi. C’era una galleria che portava dagli alloggiamenti alla cupola, e quelli che si trovavano nella base sotterranea potevano arrivarci sani e salvi. Quelli in trincea si sarebbero dovuti ritirare sotto il fuoco nemico: se qualcuno di loro fosse stato ancora vivo nel momento in cui avrei dato l’ordine.

Chiamai la Hilleboe e dissi a lei e a Charlie di badare ai laser. Se si fossero sbloccati, avrei richiamato la Brill e i suoi; avrei riattivato il sistema di puntamento automatico, e sarei rimasto a godermi lo spettacolo. Ma anche bloccati, i laser potevano essere utili. Charlie segnò i monitor per indicare dove sarebbero andati a puntare i raggi: lui e la Hilleboe potevano farli sparare manualmente, ogni volta che qualcosa si muoveva entro la linea di tiro di un’arma.

Avevamo ancora una ventina di minuti. La Brill stava facendo il giro del perimetro con i suoi, e ordinava di entrare nelle trincee, una squadra alla volta, in modo da creare campi di fuoco incrociati. La chiamai e le dissi di montare le armi pesanti in modo da usarle per incanalare l’avanzata dei nemici verso la linea di tiro dei laser.

Non c’era altro da fare che attendere. Chiesi a Charlie di misurare l’avanzata dei nemici e di tentare di darci un count-down preciso, poi sedetti alla scrivania e presi un blocco, per tracciare uno schema dello schieramento della Brill e vedere se potevo apportare qualche miglioramento.

Il gatto mi saltò sulle ginocchia, miagolando lamentosamente. Non poteva distinguere una persona dall’altra, adesso che eravamo chiusi negli scafandri. Ma nessun altro sedeva mai a quella scrivania. Cercai di accarezzarlo, e lui schizzò via.

La prima riga che tracciai sfondò quattro fogli di carta. Era passato parecchio tempo da quando avevo fatto per l’ultima volta un lavoro delicato stando dentro a uno scafandro. Ricordai che, durante l’addestramento, ci facevano esercitare a controllare i circuiti amplificatori della forza passandoci delle uova dall’uno all’altro. Se ne spaccavano parecchie. Mi chiesi se esistessero ancora le uova, sulla Terra.

Completai lo schema: non sapevo come potevo migliorarlo. In tutte le teorie che mi avevano stipato nel cervello c’erano molti suggerimenti tattici sulle manovre avvolgenti e sugli accerchiamenti, ma dal punto di vista sbagliato. Se a essere circondato eri tu, non avevi molta scelta. Stare lì a combattere. Rispondere prontamente alle concentrazioni di forze del nemico, ma mantenere la flessibilità in modo che il nemico non possa impiegare una diversione per allontanare una parte delle tue forze da qualche sezione prevedibile del tuo perimetro. Utilizzare al massimo l’appoggio aereo e spaziale. Ottimo consiglio. Tieni giù la testa e il mento alto e prega che arrivi la cavalleria. Tieni la tua posizione e non pensare a Dien-bien-phu, ad Alamo e alla battaglia di Hastings.

— Altri otto trasporti truppe — disse Charlie. — Cinque minuti. Il tempo necessario perché gli altri arrivino qui.

Quindi intendevano attaccare in due ondate. Almeno due. Cosa avrei fatto io, al posto del comandante taurano? Non era una domanda troppo assurda: i taurani erano privi d’immaginazione e tendevano a copiare gli schemi umani.

La prima ondata sarebbe stata un attacco suicida, da kamikaze, per ammorbidirci e valutare le nostre difese. Poi la seconda sarebbe stata più metodica, e avrebbe completato il lavoro. O viceversa: il primo gruppo avrebbe avuto a disposizione venti minuti per trincerarsi; poi il secondo l’avrebbe scavalcato e ci avrebbe colpiti duramente in un dato punto… avrebbe sfondato il perimetro e invasa la base.

O forse avevano mandato due gruppi solo perché il due era un numero magico. Oppure erano in grado di lanciare solo otto trasporti truppe alla volta; e sarebbe stato un guaio, perché voleva dire che i trasporti erano grossi. In situazioni diverse i taurani avevano usato trasporti che contenevano da un minimo di quattro soldati a un massimo di centoventotto.

Tre minuti. — Fissai la schiera dei monitor che mostravano varie sezioni del campo minato. Se avevamo fortuna, sarebbero atterrati là, per prudenza. O forse l’avrebbero sorvolato a quota abbastanza bassa da fare esplodere le mine.

Mi sentivo vagamente colpevole. Ero al sicuro nella mia tana, a scarabocchiare, pronto a lanciare ordini. Cosa ne pensavano del loro comandante assenteista quei settanta agnelli votati al sacrificio?

Poi ricordai quello che avevo pensato io del capitano Stott durante la prima missione, quando aveva preferito starsene al sicuro in orbita mentre noi combattevamo al suolo. L’impeto di quel ricordo d’odio fu così forte che dovetti mordermi le labbra per ricacciare la nausea.

— Hilleboe, è in grado di badare al laser da sola?

— Non vedo perché no, signore.

Lasciai cadere la penna e mi alzai. — Charlie, occupati della coordinazione dell’unità: puoi farlo anche meglio di me. Io vado su.

— Non glielo consiglierei, signore.

— Diavolo, William, no. Non fare l’idiota.

— Io non accetto ordini, io li do…

— Non sopravviveresti per dieci secondi, lassù — disse Charlie.

— Correrò gli stessi rischi di tutti gli altri.

— Non hai capito quello che voglio dire. Ti uccideranno loro!

— I nostri? Assurdo. So che non hanno molta simpatia per me, ma…

— Non hai ascoltato le frequenze delle squadre? — No, non parlavano la mia varietà d’inglese, quando comunicavano tra loro. — Pensano che li abbia mandati là fuori per punizione, per vigliaccheria. Dopo che avevi detto loro che erano liberi di andare nella cupola.

— Non è stato così, signore? — fece la Hilleboe.

— Punirli? No, naturalmente no. — Non consciamente. — Li ho mandati su perché mi occorreva… Il tenente Brill non gli ha detto niente?

— No, che io abbia sentito — fece Charlie. — Forse era troppo occupata per sintonizzarsi.

O forse era d’accordo con loro. — Sarà meglio che…

— Là! — urlò la Hilleboe. Il primo trasporto nemico era visibile su uno dei monitor del campo minato; gli altri apparvero dopo un secondo. Arrivavano da tutte le direzioni e non erano neppure distribuiti equamente intorno alla base. Cinque nel quadrante nord-est e uno solo in quello sud-ovest. Trasmisi l’informazione alla Brill.

Ma avevamo previsto esattamente il loro ragionamento: stavano per scendere tutti sul cerchio minato. Uno arrivò abbastanza vicino da fare esplodere uno degli ordigni a tachioni. L’esplosione colpì l’estremità posteriore del veicolo bizzarramente aerodinamico, gli fece compiere una giravolta completa e lo fece precipitare di muso. I portelli laterali si aprirono, e ne strisciarono fuori i taurani. Erano dodici: quattro, probabilmente, erano rimasti dentro. Se tutti gli altri trasporti contenevano sedici soldati, erano numericamente di poco superiori a noi.

Nella prima ondata.

Gli altri sette veicoli atterrarono senza incidenti e, sì, c’erano sedici taurani su ciascuno. La Brill spostò un paio di squadre per conformarsi alla concentrazione delle truppe nemiche, e attese.

I taurani avanzarono rapidi attraverso il campo minato, spiccando balzi all’unisono come robot dalle gambe arcuate e dal torso massiccio, senza variare l’andatura neppure quando uno di loro veniva fatto a pezzi da una mina, il che accadde undici volte.

Quando comparvero all’orizzonte, risultò evidente la ragione di quella distribuzione apparentemente casuale: avevano analizzato in anticipo le linee di avvicinamento che avrebbero offerto loro la massima copertura, grazie ai detriti sollevati dai missili. Ce l’avrebbero fatta ad arrivare a un paio di chilometri dalla base prima che potessimo averli chiaramente sulla linea di tiro. E i loro scafandri avevano circuiti di potenziamento come i nostri: quindi potevano coprire un chilometro in meno di un minuto.

La Brill fece aprire immediatamente il fuoco ai suoi, probabilmente più per tener alto il loro morale che per la speranza di colpire davvero i nemici. Probabilmente qualcuno lo falciarono, anche se era difficile capirlo. Se non altro, i razzi a tachioni facevano una gran scena, trasformando i macigni in ghiaietta.

I taurani risposero al fuoco con qualche arma simile ai razzi a tachioni, o forse esattamente identica. Ma era difficile che facessero centro: i nostri erano al livello del suolo o anche più sotto, e se il razzo non colpiva qualcosa, continuava a procedere in eterno, amen. Comunque colpirono uno dei laser, e la scossa che arrivò fino a noi fu tale da farmi rimpiangere che non ci fossimo rintanati un po’ più giù di venti metri.

I laser da un gigawatt non ci servivano a niente. I taurani dovevano aver calcolato in anticipo la loro linea di tiro, e giravano al largo. Fu una fortuna, perché indusse Charlie a distogliere per un attimo l’attenzione dal monitor dei laser.

— Cosa diavolo…

— Che c’è, Charlie? — Io non distolsi gli occhi dai monitor. Aspettavo che succedesse qualcosa.

— L’astronave, l’incrociatore… è sparito. — Guardai lo schermo olografico. Aveva ragione: le sole luci rosse che restavano erano quelle dei trasporti.

— Dov’è andato? — chiesi, stupidamente.

— Torniamo indietro. — Charlie programmò lo schermo perché tornasse indietro di un paio di minuti, e regolò la scala in modo che nel cubo si vedessero sia il pianeta sia la collapsar. Apparve l’incrociatore, e con esso tre punti verdi. Il nostro "vigliacco", che attaccava l’astronave nemica con due soli missili.

Ma aveva avuto un po’ di aiuto da parte delle leggi della fisica.

Invece di entrare nel campo della collapsar, lo aveva soltanto sfiorato, girandogli intorno, con una traiettoria simile a quella di un sasso scagliato da una fionda. Ne era uscito a nove decimi della velocità della luce, e i missili erano partiti a 0,99 c, puntando diritti verso l’incrociatore nemico. Il nostro pianeta era a circa mille secondi-luce dalla collapsar, e perciò l’astronave taurana aveva avuto solo dieci secondi di tempo per avvistare e fermare entrambi i missili. E a quella velocità, venire colpiti da una bomba nova o da uno sputo era lo stesso.

Il primo missile aveva disintegrato l’incrociatore; l’altro, che lo seguiva a 0,01 secondo, proseguì per piombare sul pianeta. Il caccia mancò il pianeta di poche centinaia di chilometri e schizzò via nello spazio, decelerando al massimo, venticinque gravità. Sarebbe ritornato in un paio di mesi.

Ma i taurani non avevano intenzione di aspettare. Si stavano avvicinando ormai alle nostre linee quanto bastava perché si potesse incominciare a usare i laser; ma erano anche a tiro dei lanciagranate. Un macigno abbastanza grosso poteva ripararli dal fuoco dei laser, ma le granate e i razzi facevano strage.

All’inizio, le truppe della Brill ebbero un vantaggio soverchiante: combattendo dalle trincee, potevano venire colpiti solo da qualche tiro fortunato o da una granata lanciata con eccezionale precisione: i taurani le scagliavano a mano, con una gittata di parecchie centinaia di metri. La Brill aveva perduto quattro uomini, ma sembrava che le forze taurane fossero ridotte a meno della metà degli effettivi con cui erano partite.

Ma poi il terreno era risultato così devastato che in maggioranza i taurani potevano combattere standosene nelle buche. La battaglia rallentò, si ridusse a una serie di duelli individuali con i laser, punteggiata di tanto in tanto dall’intervento delle armi più pesanti. Ma non era il caso di sprecare un razzo a tachioni contro un singolo taurano, quando di lì a pochi minuti sarebbe sopraggiunto un altro contingente di consistenza sconosciuta.

Nel replay olografico c’era qualcosa che mi aveva dato fastidio. E adesso, durante la pausa della battaglia, capii di cosa si trattava.

Quando il secondo missile fosse piombato giù a una velocità prossima a quella della luce, che danni avrebbe causato al pianeta? Mi avvicinai al computer e glielo chiesi: scoprii quale energia sarebbe stata liberata nella collisione, e poi la confrontai con i dati geologici archiviati nella memoria del computer.

Un’energia venti volte maggiore del terremoto più forte mai registrato. Su di un pianeta che era tre quarti della Terra.

Sulla frequenza generale: — A tutti quanti… su! Immediatamente! — Premetti il pulsante che avrebbe ciclato e aperto il portello e la galleria che portava dagli uffici amministrativi alla superficie.

— Cosa diavolo, Will…

— Il terremoto! — Tra quanto? — Muovetevi!

La Hilleboe e Charlie mi furono subito dietro. Il gatto era seduto sulla scrivania, e si leccava, tranquillo. Provai l’impulso irrazionale di metterlo nello scafandro: era in quel modo che lo avevano portato dall’astronave alla base, ma sapevo che non poteva resistere per più di qualche minuto. Poi provai l’impulso più ragionevole di disintegrarlo con il mio dito-laser, ma ormai la porta si era chiusa, e noi stavamo già salendo la scala. Per tutta la salita, e per molto tempo ancora, fui ossessionato dall’immagine di quella bestiola indifesa, intrappolata sotto tonnellate di macerie, a morire lentamente mentre l’aria usciva sibilando.

— Le trincee saranno più sicure? — chiese Charlie.

— Non so — dissi io. — Non mi sono mai trovato in un terremoto. — Forse le pareti della trincea si sarebbero chiuse, stritolandoci.

Mi sorprese trovare tanto buio in superficie. La S Doradus stava tramontando; i monitor avevano compensato la scarsa illuminazione.

Un laser nemico rastrellò la radura alla nostra sinistra, facendo schizzare una pioggia di scintille quando sfiorò il supporto di un gigawatt. Ancora non ci avevano visti. Avevamo deciso, tutti, che saremmo stati più al sicuro nelle trincee, e in tre passi arrivammo alla più vicina.

Lì erano in quattro, tra uomini e donne, e uno era gravemente ferito o morto. Ci calammo, e io alzai l’amplificatore d’immagine al logaritmo di due, per vedere chi erano i nostri compagni di trincea. Eravamo fortunati: uno era un granatiere, e avevano anche un lanciarazzi. Riuscivo a malapena a leggere i nomi sugli elmi. Eravamo nella trincea della Brill, ma lei non si era ancora accorta della nostra presenza. Era all’estremità opposta: sbirciava cautamente oltre l’orlo, e dirigeva due squadre in un’azione di fiancheggiamento. Quando le squadre furono in posizione, al sicuro, tornò indietro. — È lei, maggiore?

— Sì — dissi, guardingo. Mi chiedevo se i nostri compagni di trincea erano fra coloro che volevano la mia pelle.

— Cos’è questa storia del terremoto?

Era stata informata della distruzione dell’incrociatore nemico, ma non dell’altro missile. Glielo spiegai in poche parole.

— Nessuno è uscito dal portello — rispose lei. — Non ancora. Immagino che siano tutti andati nel campo di stasi.

— Già, la distanza era la stessa. — Forse qualcuno era ancora nella base sotterranea, e non aveva preso sul serio il mio avvertimento. Attivai con un colpo di mento la frequenza generale per controllare, e in quel momento si scatenò l’inferno.

Il terreno sprofondò sotto di me e poi risalì, flettendosi: ci colpì con tanta violenza da scagliarci in aria, fuori della trincea. Volammo per parecchi metri, abbastanza in alto per vedere la scacchiera di ovali arancioni e gialli, luminescenti, i crateri formatisi dove si erano fermate le bombe nova. Io atterrai in piedi ma il suolo sussultava e scivolava così forte che era impossibile restare ritti.

Con uno scricchiolio in chiave di basso che potei sentire attraverso lo scafandro, l’arca sgombra sopra la nostra base si sgretolò e sprofondò. Parte del lato inferiore del campo di stasi restò esposta, quando il suolo si fermò: e si assestò al nuovo livello con eleganza altera.

Be’, a parte il gatto, sperai che tutti gli altri avessero avuto il tempo e il buon senso di mettersi al riparo sotto la cupola.

Una figura uscì barcollando dalla trincea più vicina a me, e con un sussulto mi resi conto che non era un essere umano. A quella distanza, il mio laser gli aprì un foro attraverso l’elmo: fece altri due passi e cadde riverso. Un altro elmo si affacciò oltre l’orlo della trincea: ne tagliai netta la parte superiore prima che il taurano potesse alzare la sua arma.

Non riuscivo a orientarmi. La sola cosa che non era cambiata era la cupola a stasi, e appariva identica da qualunque parte la guardassi. I laser da un gigawatt erano tutti sepolti, ma uno si era acceso: un faro luminosissimo che rischiarava una nube turbinante di vapori di roccia.

Evidentemente ero in territorio nemico. Mi avviai sul suolo tremante in direzione della cupola.

Non riuscii a mettermi in contatto con nessuno dei comandanti dei plotoni. Tranne la Brill, erano tutti nella cupola, probabilmente. Potei comunicare con Charlie e la Hilleboe: ordinai a quest’ultima di entrare nella cupola e di stanarli tutti quanti. Se anche la prossima ondata era composta di centoventotto taurani, avremmo avuto bisogno del contributo di tutti.

I tremori del suolo si placarono e io riuscii ad arrivare a una trincea "amica": la trincea dei cuochi, in effetti, poiché c’erano solo Orban e Rudkoski.

— A quanto pare, dovrai ricominciare daccapo con la distilleria, soldato.

— Niente di male, signore. Anche il fegato ha bisogno di un po’ di riposo.

Ricevetti una chiamata dalla Hilleboe e attivai la ricezione con il mento — Signore… qui c’erano solo dieci persone. Gli altri non ce l’hanno fatta.

— Erano rimasti giù? — Mi pareva che avessero avuto tutto il tempo di salire.

— Non so, signore.

— Non importa. Faccia la conta e mi dica quanta gente abbiamo, tutti compresi. — Provai di nuovo la frequenza dei comandanti dei plotoni, e anche questa volta non ottenni risposta.

Per un paio di minuti restammo in attesa del fuoco laser dei nemici, ma non successe niente. Probabilmente aspettavano i rinforzi. La Hilleboe richiamò. — Ne ho trovati solo cinquantatré, signore. Alcuni potrebbero essere svenuti.

— Bene. Dica loro di star fermi fino a… — Poi comparve la seconda ondata: i trasporti ruggirono sopra l’orizzonte, con i reattori puntati verso di noi per decelerare. — Sparate qualche razzo contro quei bastardi! - urlò a tutti la Hilleboe. Ma nessuno era riuscito a tenere stretto un lanciarazzi, quando eravamo stati sbatacchiati di qua e di là. Non c’erano neppure dei lanciagranate, e la distanza era troppo grande perché i laser a mano servissero a qualcosa.

I trasporti erano quattro o cinque volte più grossi di quelli della prima ondata. Uno atterrò a circa un chilometro da noi, fermandosi appena il tempo necessario per scaricare le truppe. Erano più di cinquanta, probabilmente sessantaquattro… moltiplicato otto faceva cinquecentododici. Non ce l’avremmo fatta a ricacciarli.

— Ascoltate tutti, qui è il maggiore Mandella. — Cercai di dare alla mia voce un tono calmo. — Dobbiamo ritirarci subito nella cupola, rapidamente ma con ordine. So che siete sparpagliati un po’ dappertutto in questo inferno. Se appartenete al secondo o al Quarto plotone, restate fermi per un minuto e sparate per coprire il Primo e il Terzo plotone e gli specialisti che si ritirano.

"Primo e Terzo e specialisti, ritiratevi fino a coprire circa la metà della distanza che vi divide dalla cupola, poi mettetevi al coperto e proteggete il Secondo e il Quarto mentre si ritirano. Poi loro arriveranno all’orlo della cupola e copriranno voi mentre percorrerete l’ultimo tratto." Non avrei dovuto usare il verbo "ritirarsi"; nel linguaggio militare non esisteva. Si diceva "azione di sganciamento".

Fu molto più sganciamento che azione. Otto o nove persone sparavano, ma tutte le altre erano in piena fuga. Rudkoski e Orban erano svaniti. Sparai un paio di colpi prendendo la mira con cura, ma senza grandi risultati, poi corsi all’altra estremità della trincea, ne uscii e corsi verso la cupola.

I taurani cominciarono a sparare con i razzi, ma quasi tutti i tiri sembravano troppo alti. Vidi due dei nostri esplodere prima di arrivare a mezza strada: trovai un macigno bello e grosso e mi nascosi. Poi sbirciai fuori e decisi che solo due o tre taurani erano abbastanza vicini da costituire sia pure lontanamente possibili bersagli per i laser, e che era meglio non attirare troppo l’attenzione su di me. Coprii di corsa l’ultimo tratto fino all’orlo dei campo, e mi fermai per rispondere al fuoco. Dopo un paio di colpi, mi accorsi che facevo solo da bersaglio: a quanto potevo vedere, c’era solo un’altra persona che correva ancora verso la cupola.

Un razzo mi sfrecciò accanto, così vicino che avrei potuto toccarlo. Piegai le ginocchia e scattai, ed entrai nella cupola in una posa non esattamente dignitosa.

33

Quando fui dentro, vidi il razzo che mi aveva mancato fluttuare pigramente nella semioscurità, sollevarsi lentamente fino a uscire dalla parte opposta della cupola. Si sarebbe disintegrato nel momento in cui fosse uscito, perché tutta l’energia cinetica che aveva perso rallentando bruscamente a 16,3 metri al secondo sarebbe ritornata sotto forma di calore.

Nove persone giacevano morte, a faccia in giù, appena all’interno del campo. Non era un imprevisto, anche se non si trattava di una di quelle cose che di solito si dicono alle truppe.

Gli scafandri da combattimento erano intatti, altrimenti non sarebbero riusciti ad arrivare fin lì; ma durante quegli ultimi minuti caotici si era danneggiato lo speciale rivestimento isolante che li proteggeva dal campo di stasi. Quindi, non appena erano entrati, ogni attività elettrica dei loro corpi si era arrestata, e questo li aveva uccisi istantaneamente. Inoltre, poiché nessuna molecola nel loro corpo poteva muoversi a una velocità superiore ai 16,3 metri al secondo, si erano immediatamente congelati: la temperatura dei loro corpi si era stabilizzata a 0,426 gradi assoluti.

Decisi di non girarli per vedere i loro nomi. Non ancora. Dovevamo ideare una specie di posizione difensiva prima che i taurani entrassero nella cupola, se avessero deciso di attaccare invece di aspettare.

A gesti, laboriosamente, riuscii a far radunare tutti al centro del campo, sotto la coda del caccia, dove c’erano le armi sulle rastrelliere.

C’erano armi in abbondanza, poiché avevamo previsto di fornire un numero di soldati tre volte maggiore. Dopo aver distribuito a ciascuno uno scudo e una corta spada, tracciai sulla neve una domanda: BRAVI ARCIERI? ALZATE LE MANI. Trovai cinque volontari, e altri tre ne scelsi io, in modo da poter utilizzare tutti gli archi. Venti frecce per arco. Erano le armi a lunga gittata più efficienti di cui potevamo disporre: le frecce erano pressoché invisibili nel lento volo, pesanti e con punte mortali di un cristallo duro come il diamante.

Disposi gli arcieri in cerchio intorno al caccia, le cui pinne li avrebbero protetti parzialmente dai proiettili che fossero arrivati da tergo; tra un arciere e l’altro schierai altre quattro persone: due lancieri, uno armato di "bastone" e uno armato con un’ascia e una dozzina di coltelli da lancio. In teoria, quello schieramento poteva tenere testa al nemico a qualunque distanza, dall’orlo del campo fino al combattimento corpo a corpo.

In pratica, poiché erano seicento contro quarantadue, i taurani potevano entrare con una pietra in ciascuna mano, senza scudi né armi speciali, e ridurci in poltiglia.

Purché sapessero che cos’era un campo di stasi. Sotto ogni altro punto di vista, la loro tecnologia sembrava aggiornata.

Per parecchie ore non accadde nulla. Ci annoiavamo per quanto può annoiarsi chi aspetta di morire. Non potevamo parlare; non c’era niente da vedere tranne l’immutabile cupola grigia, la neve grigia, l’astronave grigia e pochi soldati grigi, tutti identici. Niente da ascoltare, assaporare o fiutare tranne te stesso.

Quelli di noi che ancora provavano qualche interesse per la battaglia sorvegliavano la parte bassa della cupola, in attesa di veder spuntare i primi taurani. Perciò occorse un secondo perché ci rendessimo conto di quello che succedeva, quando incominciò l’attacco. Un nugolo di dardi scese brulicando dall’alto, entrando nella cupola a una trentina di metri dal suolo, diretto verso il centro dell’emisfero.

Gli scudi erano abbastanza grandi perché, piegandosi leggermente, ci si potesse riparare quasi tutto il corpo: quanti videro arrivare i dardi riuscirono a proteggersi senza difficoltà. Quelli che voltavano le spalle o che si erano addormentati accanto all’interruttore, per sopravvivere dovevano affidarsi alla fortuna: non c’era la possibilità di gridare un avvertimento, e un proiettile impiegava solo tre secondi per arrivare dall’orlo al centro della cupola.

Fummo fortunati: i caduti furono solo cinque. Una di essi era un’arciera, la Shubik. Io raccolsi il suo arco e aspettammo: prevedevamo un immediato attacco a terra.

L’attacco non venne. Dopo mezz’ora, feci il giro del cerchio e spiegai a gesti che la prima cosa da fare, se succedeva qualcosa, era toccare la persona alla propria destra: questa avrebbe fatto lo stesso, e così via, lungo tutta la linea.

Forse fu quell’idea a salvarmi la vita. Il secondo attacco con i dardi, un paio d’ore dopo, mi arrivò alle spalle. Mi sentii urtare, urtai a mia volta la persona alla mia destra, mi girai e vidi il nugolo che scendeva. Alzai lo scudo per proteggermi la testa, e i proiettili colpirono un secondo più tardi.

Deposi l’arco per strappare tre dardi dallo scudo, e in quel momento cominciò l’attacco al suolo.

Era uno spettacolo strano, impressionante. Entrarono nel campo in trecento, simultaneamente, quasi spalla a spalla, intorno al perimetro della cupola. Avanzavano al passo: ognuno impugnava uno scudo rotondo, ampio appena a sufficienza per nascondergli il torace massiccio. E scagliavano dardi simili a quelli con cui ci avevano bersagliato prima.

Piazzai lo scudo davanti a me — alla base aveva delle piccole estensioni che servivano a tenerlo ritto — e quando scagliai la prima freccia compresi che avevamo una possibilità di farcela. Colpì un taurano al centro dello scudo, lo trapassò e penetrò nella tuta.

Fu un massacro unilaterale. I dardi non erano molto efficaci, senza il fattore sorpresa, ma quando uno mi passò sopra la testa, arrivando da dietro, mi fece scorrere un lungo brivido tra le scapole.

Con venti frecce uccisi venti taurani. Quelli serravano le file ogni volta che uno di loro cadeva: non era neppure necessario prendere la mira. Quando rimasi senza frecce, provai a rilanciare contro di loro i loro stessi dardi. Ma contro quei piccoli proiettili, i leggeri scudi erano una protezione sufficiente.

Ne uccidemmo più della metà con frecce e lance, prima ancora che arrivassero alla distanza adatta per il corpo a corpo. Sguainai la spada e aspettai. La superiorità numerica era ancora loro: più di tre a uno.

Quando arrivarono a meno di dieci metri, fu il momento di gloria per i nostri armati di chakra. Sebbene quel disco roteante fosse ben visibile e impiegasse più di mezzo secondo per arrivare a segno, quasi tutti i taurani reagirono con la stessa inefficienza, alzando lo scudo per deviarlo. Le pesanti lame temperate e affilate come rasoi tagliarono gli scudi leggeri, come seghe elettriche che affondassero nel cartone.

Il primo scontro corpo a corpo ebbe luogo con i "bastoni", che erano barre metalliche lunghe due metri, terminanti alle estremità in lame a doppio taglio. I taurani avevano un metodo abbastanza agghiacciante, o eroico, a seconda dei punti di vista, per affrontarli. Afferravano semplicemente la lama e morivano. Mentre l’umano cercava di districare l’arma dalla stretta del nemico morto, uno spadaccino taurano, con una scimitarra lunga più di un metro, si faceva avanti e lo uccideva.

Oltre alle spade, avevano una specie di bolo, una lunga corda elastica che terminava con dieci centimetri di qualcosa di simile al filo spinato, e con un piccolo peso per dargli slancio. Era un’arma pericolosa per tutti, amici e nemici: se mancava il bersaglio tornava indietro di scatto, imprevedibilmente, e dove colpiva colpiva. Ma i taurani centravano il bersaglio molto spesso, nascondendosi dietro gli scudi e facendo avvinghiare il filo spinato intorno alle caviglie dei nostri.

Mi misi schiena contro schiena con il soldato Erikson, e lavorando di spada riuscimmo a restare in vita per i minuti che seguirono. Quando i taurani furono ridotti a un paio di dozzine di superstiti, girarono sui tacchi e si avviarono per uscire. Gli scagliammo dietro qualche dardo, colpendone tre, ma non ce la sentivamo di inseguirli. C’era caso che tornassero indietro a ricominciare il massacro.

Eravamo rimasti in piedi in ventotto. Il terreno era coperto da un numero quasi decuplo di taurani morti, ma la cosa non ci diede molta soddisfazione.

Avrebbero potuto ricominciare, con altri trecento. E questa volta l’avrebbero spuntata.

Passammo da un cadavere all’altro, svellendo frecce e lance, e poi tornammo a piazzarci intorno al caccia. Nessuno si prese la briga di recuperare i bastoni. Contai i miei: Charlie e Diana erano ancora vivi (la Hilleboe era stata una delle vittime della tattica taurana del bastone), e così pure due ufficiali specialisti, Wilber e Szydlowska. Rudkoski era ancora vivo, ma Orban s’era buscato un colpo di dardo.

Dopo un giorno d’attesa, cominciammo a pensare che il nemico avesse optato per una guerra di logoramento, anziché ripetere l’attacco al suolo. I dardi continuavano a piovere, non più a sciami, ma a due e a tre e a dieci per volta, e sempre da angolazioni diverse. Noi non potevamo stare sempre all’erta: ogni tre o quattro ore riuscivano a colpire qualcuno.

Dormivamo a turno, due per volta, sopra il generatore del campo di stasi. Poiché stava direttamente sotto il caccia, era il posto più sicuro della cupola.

Di tanto in tanto, un taurano faceva capolino sull’orlo del campo, evidentemente per vedere in quanti eravamo rimasti. Qualche volta scagliavamo una freccia contro di lui, tanto per tenerci in esercizio.

Dopo un paio di giorni, i dardi non piovvero più. Pensai che forse li avevano finiti. O forse avevano deciso di smetterla quando noi ci fossimo ridotti a venti superstiti.

C’era una terza, più probabile, possibilità. Portai uno dei bastoni all’orlo del campo e lo spinsi oltre, un centimetro o giù di lì. Quando lo ritirai, la punta era fusa. La mostrai a Charlie e lui si dondolò avanti e indietro (era l’unico modo per annuire, con uno scafandro addosso): la cosa era già accaduta, una delle prime volte, quando il campo di stasi non aveva funzionato. I taurani l’avevano semplicemente saturato di fuoco laser e adesso aspettavano che ci stufassimo dell’inazione e spegnessimo il generatore. Probabilmente se ne stavano seduti a bordo dei loro trasporti, a giocare all’equivalente taurano del ramino.

Mi sforzai di pensare. Era difficile concentrare la mente su qualcosa, in quell’ambiente ostile, mentre dovevi voltarti indietro ogni due secondi. Era qualcosa che aveva detto Charlie. Proprio ieri. Non riuscivo a rammentare. Allora non avrebbe funzionato: questo era tutto ciò che ricordavo. Poi finalmente ci arrivai.

Chiamai tutti intorno a me e scrissi sulla neve:

PRENDETE BOMBE NOVA DALLA NAVE
PORTATELE AL BORDO DEL CAMPO
SPOSTATE IL CAMPO

Szydlowska sapeva dove trovare gli attrezzi adatti, sul caccia. Per fortuna, avevamo lasciato aperti tutti i portelli prima di attivare il campo di stasi: le serrature erano elettroniche e si sarebbero bloccate. Rastrellammo un assortimento di chiavi inglesi dalla sala macchine e salimmo nella cabina. Lui sapeva come fare a rimuovere la piastra che dava accesso al vano bombe. Lo seguii, strisciando nel tubo largo un metro.

Normalmente, immagino, sarebbe stato buio pesto. Ma il campo di stasi illuminava il vano bombe con lo stesso fioco chiarore senza ombre che c’era all’esterno. Il vano bombe era troppo piccolo per ospitarci entrambi, così io restai a guardare, affacciato all’estremità del tubo.

I portelli avevano anche un comando manuale, e quindi fu facile. Szydlowska girò una manovella e tutto fu a posto. Liberare le due bombe nova dalle imbragature fu un’altra faccenda. Alla fine, lui ritornò in sala macchine a prendere un piede di porco. Ne staccò una e io presi l’altra, e la facemmo rotolare fuori del vano bombe.

Il sergente Anghelov ci stava già lavorando sopra, quando noi due scendemmo. Per armare la bomba bastava svitare la spoletta sulla punta, e infilare qualcosa nell’intercapedine, in modo da far saltare i meccanismi di blocco e le sicure.

Le portammo in fretta e furia sull’orlo, sei persone per bomba, e le posammo una accanto all’altra. Poi facemmo un segnale con le braccia ai quattro in posizione accanto alle maniglie del generatore del campo. Quelli lo sollevarono e percorsero dieci passi nella direzione opposta. Le bombe sparirono, quando l’orlo del campo gli scivolò sopra.

Non ci fu dubbio che le bombe esplosero. Per un paio di secondi, fuori fece caldo quanto all’interno di una stella, e se ne accorse persino il campo di stasi: per un momento un terzo della cupola si illuminò di un rosa cupo, e poi ritornò grigio. Ci fu un lieve senso di accelerazione, come si può provare in un ascensore lento. Questo significava che stavamo scivolando verso il fondo del cratere. Avremmo trovato un fondo solido? Oppure saremmo affondati attraverso la roccia fusa, per restare intrappolati come mosche nell’ambra? Era inutile pensarci. Forse, se fosse accaduto, avremmo potuto aprirci una via d’uscita con il laser da un gigawatt del caccia.

Dodici di noi, almeno.

PER QUANTO TEMPO? scarabocchiò Charlie sulla neve, ai miei piedi.

Era una domanda maledettamente giusta. Io sapevo solo la quantità di energia che liberavano due bombe nova. Non sapevo che razza di sfera infuocata potevano fare, ed era essa a determinare la temperatura al momento della detonazione e la grandezza del cratere. Non conoscevo le capacità termiche della roccia circostante, né il suo punto di ebollizione. Scrissi: UNA SETTIMANA, CHISSÀ? DEVO PENSARCI.

Il calcolatore del caccia avrebbe potuto dirmelo in un millesimo di secondo, ma non parlava. Cominciai a scrivere equazioni sulla neve, cercando di ottenere un massimo e un minimo del tempo che sarebbe occorso perché la temperatura esterna scendesse a 500 gradi. Anghelov, le cui nozioni di fisica erano più aggiornate delle mie, fece i suoi calcoli dall’altra parte del caccia.

La mia risposta diceva da sei ore a sei giorni (anche se, per raffreddarsi in sei ore, la roccia circostante avrebbe dovuto condurre calore come se fosse rame puro) e Anghelov ottenne un minimo di cinque ore e un massimo di quattro giorni e mezzo. Io votai per sei e nessun altro ebbe diritto al voto.

Facemmo del gran dormire. Charlie e Diana giocavano a scacchi scarabocchiando i simboli sulla neve; io non riuscivo a tenere in mente i movimenti dei pezzi. Controllai più volte i miei calcoli, e continuavo a ottenere come risposta sei giorni. Controllai anche i calcoli di Anghelov, e sembravano giusti, ma non cedetti. Non ci avrebbe fatto male restare dentro gli scafandri per un giorno e mezzo in più. Discutemmo giovialmente in concisi segni stenografici.

Eravamo diciannove il giorno che avevamo buttato fuori le bombe. Eravamo ancora diciannove sei giorni dopo, quando mi fermai un attimo, con la mano sull’interruttore del campo. Che cosa ci aspettava là fuori? Sicuramente avevamo ucciso tutti i taurani nel raggio di parecchi chilometri dall’esplosione. Ma poteva esserci stata una forza di riserva molto più lontana, e magari adesso era in paziente attesa sull’orlo del cratere. Però, adesso potevi spingere un bastone attraverso il campo e ritirarlo ancora intero.

Dispersi i miei a intervalli regolari intorno all’area, perché non ci liquidassero tutti con un colpo solo. Poi, pronto a riattivarlo immediatamente se qualcosa fosse andato storto, spensi il campo.

34

La mia radio era ancora sintonizzata sulla frequenza generale: dopo oltre una settimana di silenzio, le mie orecchie furono aggredite da un parlottio chiassoso e felice.

Eravamo al centro di un cratere largo e profondo circa un chilometro. I suoi fianchi erano una lucente crosta nera, screziata di crepe rosse, calda ma non più pericolosa. L’emisfero di terra su cui eravamo noi era sprofondato d’una quarantina di metri buoni nel fondo del cratere, mentre era ancora fuso, perciò adesso ci trovavamo su una specie di piedestallo.

Neppure un taurano in vista.

Ci precipitammo nel caccia, lo chiudemmo, lo riempimmo d’aria fresca e aprimmo gli scafandri. Non mi avvalsi del mio grado per avere il diritto di precedenza nell’uso dell’unica doccia; mi distesi sulla cuccetta antiaccelerazione e aspirai profondamente boccate d’aria che non odoravano di Mandella riciclato.

Il caccia era stato progettato per un massimo di dodici persone, perciò stavamo fuori, a turni di sette, per non esaurire gli impianti ambiente. Io mandai ripetutamente un messaggio all’altro caccia, che era lontano ancora sei settimane, avvertendo che stavamo bene e aspettavamo di venire raccolti. Ero sicuro che avesse almeno sette posti liberi, poiché l’equipaggio normale per una missione di combattimento era formato da tre sole persone.

Era piacevole poter camminare e parlare di nuovo. Sospesi ufficialmente tutte le attività militari per la durata della sosta forzata sul pianeta. C’erano anche diversi superstiti della banda semiammutinata della Brill, ma non mostravano la minima ostilità nei miei confronti.

Giocavamo spesso a una specie di gioco della nostalgia, confrontando le varie epoche che avevamo conosciuto sulla Terra, e chiedendoci come l’avremmo trovata nel futuro in cui saremmo ritornati. Nessuno parlò del fatto che nella migliore delle ipotesi avremmo avuto qualche mese di licenza e poi saremmo stati assegnati a un’altra Forza d’Attacco; un altro giro della ruota.

Ruote. Un giorno Charlie mi chiese di che paese era originario il mio cognome: gli sembrava molto strano. Gli dissi che aveva avuto origine dalla mancanza di un dizionario, e che se fosse stato scritto giusto sarebbe sembrato più strano ancora.

Impiegai una mezz’ora buona a spiegare tutti i particolari. In sostanza, comunque, si riduceva a questo. I miei genitori erano hippies (una specie di subcultura dell’America del tardo Ventesimo secolo, che rifiutava il materialismo e abbracciava un’ampia gamma di strane idee) e vivevano con un gruppo di altri hippies in una piccola comunità agricola. Quando mia madre si era accorta di aspettare un figlio, non aveva voluto sposarsi, perché lo giudicavano convenzionale: sposarsi comportava che la donna assumesse il cognome dell’uomo, per indicare che era sua proprietà. Ma erano inebriati e sentimentali, e avevano deciso di cambiare entrambi il cognome, scegliendone uno identico. Andarono nella città più vicina, e lungo il percorso discussero per decidere quale cognome poteva simboleggiare meglio il legame d’amore esistente tra loro (per poco non mi ritrovai con un cognome assai diverso, e poco diplomatico), e alla fine scelsero Mandala.

Un mandala è un motivo a forma di ruota che gli hippies avevano preso a prestito da una religione straniera, e simboleggiava il cosmo, la mente cosmica, Dio, o non so che altro. Né mia madre né mio padre sapevano come si scrivesse esattamente quella parola, e il magistrato, in città, lo scrisse nel modo che gli sembrava più giusto.

I miei genitori mi avevano poi chiamato William in onore di uno zio ricco, che sfortunatamente era morto povero in canna.

Le sei settimane trascorsero abbastanza piacevolmente: conversavamo, leggevamo, riposavamo. L’altro caccia atterrò accanto al nostro; e aveva nove posti liberi. Riorganizzammo gli equipaggi in modo che ogni caccia avesse a bordo qualcuno capace di rimediare, se la sequenza programmata dei balzi non avesse funzionato a dovere. Io mi assegnai all’altro caccia, nella speranza che avesse qualche libro nuovo. Non ne aveva.

Ci chiudemmo nelle vasche e decollammo simultaneamente.

Finimmo per trascorrere molto tempo nelle vasche, se non altro per non dover vedere sempre le stesse facce tutto il giorno, nell’astronave affollata. Quei periodi aggiunti di accelerazione ci riportarono a Stargate in dieci mesi soggettivi. Naturalmente erano 340 anni (meno sette mesi) secondo l’ipotetico osservatore obiettivo.

C’erano centinaia di astronavi in orbita attorno a Stargate. Brutto segno: con tutta quella gente in coda probabilmente non avremmo avuto nessuna licenza.

Io pensavo che molto probabilmente avrei avuto una corte marziale, comunque, anziché una licenza. Avevo perso l’88 per cento della mia compagnia; e molti erano morti perché non avevano avuto abbastanza fiducia in me da obbedire a un mio ordine, quando era venuto il terremoto. E a Sade-138 eravamo ancora al punto di partenza: adesso là non c’erano taurani, ma neanche la nostra base.

Ricevemmo le istruzioni per l’atterraggio e scendemmo direttamente, senza navette. Allo spazioporto, ci aspettava un’altra sorpresa. Dozzine d’incrociatori erano posati sul campo (un tempo non lo facevano mai, per timore che Stargate venisse colpito), e c’erano anche due incrociatori taurani catturati. Noi non eravamo mai riusciti a prenderne uno intatto.

Sette secoli potevano averci procurato un vantaggio decisivo, naturalmente. Magari stavamo addirittura vincendo.

Entrammo da un portello con la scritta "reduci". Quando l’aria prese a circolare e noi aprimmo gli scafandri, entrò una bellissima, giovane donna con un carrello pieno di tuniche e ci disse, in un inglese dall’accento perfetto, di vestirci e di recarci nella sala delle conferenze, in fondo al corridoio a sinistra.

La tunica dava una strana impressione al tatto: era leggera ma calda. Era la prima cosa che indossavo, a parte lo scafandro da combattimento e la mia pelle, da quasi un anno.

La sala delle conferenze era cento volte troppo grande per noi, che eravamo ventidue. C’era la stessa donna di prima, e ci invitò a farci avanti. Era una cosa sconvolgente: avrei giurato che si era avviata nel corridoio nella direzione opposta, anzi lo sapevo. Ero rimasto affascinato alla vista del suo didietro.

Diavolo, magari adesso avevano i trasmettitori di materia. O il teletrasporto. E lei aveva voluto risparmiarsi la fatica di quei pochi passi.

Ci sedemmo e dopo un minuto un uomo, vestito di una tunica disadorna dello stesso tipo indossato dalla donna e da noi, attraversò il podio, portando sotto le braccia due fasci di grossi taccuini.

Mi voltai indietro e lei era ancora là, in piedi nella corsia. E per complicare le cose, l’uomo era virtualmente il gemello di tutte e due.

L’uomo sfogliò uno dei taccuini e si schiarì la gola. — Questi libri sono per voi, per vostra comodità — disse, anch’egli con accento perfetto. — Non siete tenuti a leggerlo se non volete, perché… siete donne e uomini liberi. La guerra è finita.

Silenzio incredulo.

— Come potrete leggere in questo libro, la guerra è finita duecentoventun anni or sono. Perciò, questo è l’anno duecentoventi. Naturalmente, secondo il vecchio sistema, è il 3138 d.C.

"Voi siete l’ultimo gruppo di soldati che ritorna. Quando ve ne andrete di qui, me ne andrò anch’io. E distruggerò Stargate. Esiste solo come punto di rendez-vous per i reduci e come monumento all’umana stupidità. E alla vergogna. Come potrete leggere voi stessi. Distruggerlo sarà un atto di purificazione."

Smise di parlare e la donna proseguì, senza una pausa. — Mi dispiace per tutto ciò che avete passato, e vorrei poter dire che è stato per una causa giusta, ma come potrete leggere voi stessi, non lo era.

"Anche il patrimonio che avevate accumulato come paghe arretrate e interessi composti, non vale nulla, poiché io non uso più né danaro né credito. E non esiste più un’economia in cui si possano usare queste… cose."

— Come ormai avrete intuito — proseguì l’uomo — io sono, noi siamo cloni di un singolo individuo. Circa duecentocinquant’anni fa, il mio nome era Kalm. Adesso è Uomo.

"Avevo un antenato diretto nella vostra compagnia, il caporale Larry Kalm. Mi rattrista che non sia tornato."

— Io sono più di dieci miliardi di individui, ma una sola coscienza — disse la donna. — Dopo che avrete letto i libri, cercherò di chiarirlo. So che sarà difficile capirlo.

"Nessun altro tipo umano viene attivato, poiché io sono il modello perfetto. Gli individui che muoiono vengono sostituiti.

"Tuttavia vi sono alcuni pianeti su cui gli umani nascono nel modo normale dei mammiferi. Se per voi la mia società fosse troppo aliena, potete recarvi su uno di questi pianeti. Se desiderate partecipare alla procreazione, non vi scoraggerò. Molti veterani mi chiedono di cambiare la loro polarità rendendoli eterosessuali, in modo che si possano inserire più facilmente in quelle società. Questo posso farlo molto facilmente."

Non preoccuparti per me, Uomo: mi basta che mi fai il biglietto.

— Sarete miei ospiti qui a Stargate per dieci giorni, dopodiché verrete condotti dovunque vogliate andare — disse l’uomo. — Vi prego di leggere il libro, nel frattempo. Siete liberi di fare qualunque domanda e di richiedere qualunque servizio. — Si alzarono entrambi e uscirono di scena.

Charlie era seduto accanto a me. — Incredibile — disse. — Loro lasciano… loro incoraggiano… uomini e donne perché facciano di nuovo quello? Insieme?

La femmina Uomo che poco fa era in piedi nella corsia s’era seduta dietro di noi, e rispose prima che io potessi escogitare una risposta ipocrita e ragionevolmente comprensiva: — Non è un giudizio sulla sua società — disse; probabilmente non si rendeva conto che Charlie l’aveva presa come una questione personale. — Ritengo semplicemente che sia necessario, come valvola di sicurezza eugenetica. Nulla indica che sia errata la clonazione di un unico individuo ideale, ma se dovesse risultare che si è trattato di un errore, ci sarà un’adeguata quantità di materiale genetico da cui ripartire.

Gli batté una mano sulla spalla. — Naturalmente, lei non è obbligato a trasferirsi su uno di quei pianeti in cui ci si riproduce. Può restare su uno dei miei. Io non faccio distinzione tra eterosessuali e omosessuali.

Poi salì sul podio per spiegarci dove avremmo alloggiato e dove avremmo mangiato e così via, finché eravamo su Stargate. — Non ero mai stato sedotto da un computer — disse Charlie.


La guerra dei 1143 anni era cominciata per un equivoco ed era continuata perché le due razze erano incapaci di comunicare tra loro.

Quando avevano potuto parlarsi, la prima domanda era stata: — Perché hai cominciato? — E la risposta era stata: — Chi? Io?

I taurani non conoscevano la guerra da millenni, e verso l’inizio del Ventunesimo secolo sembrava che anche l’umanità stesse per rinunciare a quell’istituzione. Ma i vecchi militari erano ancora in circolazione, e molti di loro avevano molto potere. Erano virtualmente padroni del Gruppo Esplorazione e Colonizzazione delle Nazioni Unite, che approfittava delle collapsar appena scoperte per esplorare lo spazio interstellare.

Molte delle prime astronavi avevano subito incidenti ed erano scomparse. Gli ex militari erano sospettosi. Avevano armato i vascelli dei coloni, e la prima volta che avevano incontrato un’astronave taurana l’avevano fatta saltare.

Poi si erano spolverati le medaglie, e il resto era storia.

Comunque, la colpa non era tutta dei militari. Le prove che avevano presentato per addossare ai taurani la responsabilità dei primi incidenti erano ridicole e inconsistenti. Ma nessuno aveva dato retta alle pochissime persone che l’avevano fatto notare.

Il fatto era che l’economia terrestre aveva bisogno d’una guerra, e quella era l’ideale. Offriva un magnifico pozzo senza fondo in cui buttare danaro a palate, ma serviva a unificare l’umanità, anziché a dividerla.

I taurani avevano imparato daccapo la guerra, a modo loro. Non erano mai stati molto efficienti, e a lungo andare avrebbero sicuramente perduto.

I taurani, spiegava il libro, non potevano comunicare con gli umani, perché non avevano il più vago concetto dell’individuo: da milioni d’anni erano cloni naturali. Alla fine, gli incrociatori della Terra avevano avuto equipaggi formati da Uomo, cloni di Kalin, e allora, per la prima volta, le due razze avevano potuto comunicare.

Il libro lo metteva giù come un fatto nudo e crudo. Chiesi a un Uomo di spiegare cosa voleva dire, e cosa c’era di speciale nella comunicazione da cloni a cloni. Lui mi disse che, a priori, non avrei potuto capirlo. Non c’erano parole per spiegarlo, e il mio cervello non sarebbe riuscito ad accogliere i concetti, anche se le parole ci fossero state.

E va bene. Sembrava un po’ strano, ma ero disposto ad accettarlo. Ero disposto ad accettare che il "su" era "giù", se questo significava che la guerra era finita.


Uomo era un’entità piena di delicatezze. Per noi ventidue, si prese la briga di restaurare un piccolo ristorante-taverna e di provvedere al servizio a tutte le ore. (Non vidi mai un Uomo mangiare o bere, e credo che avessero scoperto il sistema per farne a meno). Una sera ero lì seduto a bere birra e a leggere il loro libro, quando Charlie entrò e sedette vicino a me.

Senza preamboli, dichiarò: — Ho intenzione di provare.

— Provare che cosa?

— Donne. Eterosessualità. — Rabbrividì. — Senza offesa… non per niente entusiasmante. — Mi batté sulla mano, con aria distratta. — Ma l’alternativa… Tu hai provato?

— Be’… no, no. — La femmina Uomo era bellissima, ma solo nel senso in cui poteva esserlo un quadro o una statua. Non riuscivo a vederle come esseri umani.

— Non provarlo. — Non si spiegò meglio. — E poi, loro dicono… lui dice, lei dice, che possono tornare a cambiarmi con la stessa facilità. Se non mi piacesse.

— Ti piacerà, Charlie.

— Sicuro, è quel che dicono loro. - Ordinò qualcosa di forte. — Mi sembra contro natura, ecco. Comunque, dato che, ehm, farò il cambio, ti dispiacerebbe se… perché non andiamo su uno stesso pianeta?

— Sicuro, Charlie, sarebbe magnifico. — E lo pensavo davvero. — Hai deciso dove andare?

— Diavolo, non m’importa. Basta andarmene da qui.

— Chissà se Paradiso è ancora…

— No. — Charlie indicò il barista con il pollice. — Ci abita lui.

— Non so. Credo che deva esserci un elenco.

Un uomo entrò nella taverna, spingendo un carrello carico di fascicoli. — Maggiore Mandella? Capitano Moore?

Siamo noi — disse Charlie.

— Questi sono i vostri documenti militari. Spero che li troverete interessanti. Sono stati trasferiti su carta quando la vostra Forza d’Attacco è rimasta la sola che doveva ancora tornare, perché sarebbe stato poco pratico tenere in funzione le normali reti informative per così pochi dati.

Precorrevano sempre le tue domande, anche quando non ne avevi da formulare.

Il mio fascicolo era cinque volte più spesso di quello di Charlie. Probabilmente era più grosso di quello di chiunque altro, poiché a quanto pareva ero l’unico militare sopravvissuto per tutta la durata della guerra. Povera Marygay. — Chissà che razza di rapporto aveva redatto su di me il vecchio Stott. — Aprii il fascicolo.

Fissato alla prima pagina c’era un quadratino di carta. Tutte le altre pagine erano candide, ma quello era ingiallito dal tempo, e si andava sbriciolando agli orli.

La grafia era familiare, troppo familiare anche dopo tanto tempo. La data era di 250 anni prima.

Rabbrividii e mi sentii accecare improvvisamente dalle lacrime. Non avevo mai avuto motivo di credere che lei fosse ancora viva. Ma non avevo mai saputo veramente che fosse morta, prima di vedere quella data.

— William? Che cosa…

— Lasciami stare, Charlie. Per un minuto solo. — Mi asciugai gli occhi e chiusi il fascicolo. Non avrei neppure dovuto leggerlo, quel biglietto. Ora che mi avviavo verso una nuova vita, dovevo abbandonare i vecchi fantasmi.

Ma anche un messaggio dall’oltretomba era una specie di contatto. Riaprii il fascicolo.

11 ottobre 2878

William…

tutto questo è nel tuo fascicolo personale. Ma dato che ti conosco, so che saresti capace di buttarlo via. Voglio essere sicura che tu riceva questo biglietto.

Evidentemente, sono sopravvissuta. Forse sopravviverai anche tu. Raggiungimi.

Ho saputo dalla documentazione che sei andato a Sade-138 e che non tornerai per un paio di secoli. Non è un problema.

Io vado su un pianeta che chiamano Middle Finger, il quinto di Mizar. È a due balzi tra collapsar, dieci mesi soggettivi. Middle Finger è una specie, di riserva per eterosessuali. Lo chiamano "base approvvigionamento controllo eugenetico."

Non importa. C’è voluto tutto il mio danaro, e tutto il danaro di altri cinque veterani, ma abbiamo comprato dalla FENU un incrociatore. E l’usiamo come macchina del tempo.

Quindi io sono una navetta relativistica, e ti aspetto. Non fa altro che allontanarsi di cinque anni-luce da Middle Finger e tornare indietro, molto velocemente. Ogni dieci anni invecchio di circa un mese. Perciò, se tu torni secondo le previsioni e sei ancora vivo, avrò solo ventotto anni quando arriverai qui. Sbrigati!

Non ho mai trovato nessun altro e non voglio nessun altro. Non m’importa se hai novant’anni o trenta. Se non potrò essere la tua amante, sarò la tua infermiera.

Marygay

— Senta, barista.

— Sì, maggiore?

— Conosce un pianeta chiamato Middle Finger? C’è ancora?

— Certo che c’è. Dove dovrebbe essere? — Domanda ragionevole. — Un posto bellissimo. Un pianeta giardino. Certuni non lo considerano abbastanza emozionante.

— Cos’è questa storia? — chiese Charlie.

Porsi al barista il bicchiere vuoto. — Ho appena scoperto dove andremo.

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