Paura? Oh, sì, avevo paura… e chi non l’avrebbe avuta? Solo uno sciocco, un suicida o un robot. O un ufficiale di carriera.
Il vicemaggiore Stott camminava avanti e indietro, dietro al piccolo podio nella sala assemblea-mensa-palestra dell’Anniversary. Avevamo fatto il nostro balzo finale da collapsar a collapsar, da Tet-38 a Yod-4. Stavamo decelerando a una gravità e mezzo, e la nostra velocità relativa, rispetto a quella collapsar, era piuttosto rispettabile: 0,90 c. Ci stavano inseguendo.
— Vorrei che vi decideste a rilassarvi un momento e a fidarvi del computer dell’astronave. Il vascello taurano, comunque, non arriverà a tiro per altre due settimane e se continuerete a tremare per due settimane, né voi né i vostri uomini sarete in condizioni di combattere quando verrà il momento. La paura è una malattia contagiosa. Mandella!
Stava sempre attento a chiamarmi "Sergente" Mandella davanti alla compagnia. Ma tutti i presenti a quella riunione erano comandanti di squadra o più: non c’era neanche un soldato semplice in tutto il mazzo. Perciò lasciava perdere i gradi. — Sì, signore.
— Mandella, lei è responsabile dell’efficienza psicologica e non soltanto fisica degli uomini e delle donne della sua squadra. Presumendo che fosse conscio del problema del morale a bordo di questa astronave, e presumendo anche che la sua squadra non sia immune… lei che cosa ha fatto?
— Per quanto riguarda la mia squadra, signore?
Mi fissò per un istante interminabile. — Certo.
— Ne abbiamo parlato, signore.
— E siete arrivati a qualche conclusione sensazionale?
— Con tutto il rispetto, signore, credo che il problema principale sia evidente. I miei sono chiusi in questa nave, diavolo, come tutti quanti, da quattordici…
— Ridicolo. Ciascuno di noi è stato adeguatamente condizionato contro le pressioni del sovraffollamento, e gli uomini arruolati hanno il privilegio di fraternizzare. — Era un modo molto delicato di dirlo. — Gli ufficiali devono osservare l’astinenza, eppure noi non abbiamo il problema del morale.
Se pensava davvero che i suoi ufficiali osservassero l’astinenza, avrebbe fatto meglio a fare una lunga chiacchierata con il tenente Harmony. Ma forse lui intendeva se stesso e Cortez. Aveva ragione al cinquanta per cento, probabilmente. Cortez era piuttosto amico del caporale Kamehameha.
— I terapeuti hanno rafforzato il vostro condizionamento a questo riguardo — continuò Stottf — mentre lavoravano per cancellare il condizionamento all’odio… tutti sanno la mia opinione al riguardo… e magari hanno ordini discutibili, ma sono esperti.
"Caporale Potter. — La chiamò con il grado per ricordare a tutti la ragione per cui non era stata promossa come gli altri. Troppo tenera. — Ne hai "parlato" anche tu con i tuoi?"
— Ne abbiamo discusso, signore.
Il vicemaggiore era capace di lanciare "occhiatacce miti" alla gente. Lanciò occhiatacce miti a Marygay fino a quando lei si decise a continuare.
— Non credo che il sergente Mandella giudicasse imperfetto il condiz…
— Il sergente Mandella è capace di parlare da solo. Voglio la tua opinione. Le tue osservazioni. — Lo disse in modo da far capire che non le voleva affatto.
— Ecco, neanch’io credo che il difetto stia nel condizionamento, signore. Non abbiamo difficoltà a vivere insieme. E che tutti sono spazientiti, stanchi di continuare a fare le stesse cose, da settimane e settimane.
— Allora sono ansiosi di combattere? — Non c’era sarcasmo, nella sua voce.
— Vogliono uscire dall’astronave, signore, uscire dalla routine.
— E usciranno dall’astronave — disse Stott, concedendosi un sorrisetto meccanico. — E allora probabilmente saranno altrettanto impazienti di ritornarci.
Continuò su questo tono, tra botta e risposta, per un bel pezzo. Nessuno se la sentiva di tradurre in parole il fatto fondamentale che i nostri, uomini e donne, avevano avuto a disposizione più di un anno per rimuginare sulla futura battaglia, e potevano diventare solo più apprensivi. E adesso c’era un incrociatore taurano che ci seguiva, e accorciava le distanze… avremmo dovuto affrontarlo prima che mancasse un mese all’assalto al suolo.
Già la prospettiva di arrivare al pianeta portale e di giocare ai soldati era abbastanza brutta. Ma almeno hai una possibilità di influenzare la tua sorte, in un combattimento al suolo. Ma quello schifo di starsene seduti dentro a un guscio, a far parte del bersaglio, mentre l’Anniversary giocava una partita matematica con l’astronave taurana… Essere vivo un nanosecondo e morto un nanosecondo dopo, perché qualcuno ha sbagliato a sistemare il trentesimo decimale… quello mi dava fastidio. Ma provare a dirlo a Stott? Alla fine, dovetti ammettere che non stava facendo la scena. Non riusciva proprio a capire che differenza ci fosse tra la paura e la vigliaccheria. E il fatto che fosse stato appositamente condizionato ad adottare quel punto di vista (e ne dubitavo), o che fosse soltanto matto, e basta, non aveva importanza.
Adesso stava tenendo Ching sui carboni accesi, la solita vecchia scena. Io gualcivo tra le dita l’organigramma che ci aveva consegnato.
Conoscevo quasi tutti i reduci del massacro di Aleph. Nel mio plotone, gli unici nuovi erano Demy, Luthuli e Heyrovsky. Nella compagnia (scusatemi, la "Forza d’Attacco") avevano complessivamente venti rincalzi per i diciannove che avevano perduto nell’incursione su Aleph. Un’amputazione, quattro morti e quattordici psicopatici, vittime di un condizionamento troppo zelante all’odio.
Non riuscivo a mandare giù quel "20 mar 2007" in fondo all’organigramma. Ero nell’esercito da dieci anni, sebbene soggettivamente sembrassero meno di due. La dilatazione temporale, è chiaro. Anche con i balzi tra le collapsar, viaggiare da stella a stella divora il calendario.
Dopo questa incursione, probabilmente avrei potuto congedarmi e farmi mettere in pensione a paga piena… se fossi sopravvissuto all’incursione, e se non avessero cambiato i regolamenti a nostro danno. Veterano con vent’anni di servizio, e venticinque anni di età.
Stott era arrivato alla conclusione quando bussarono alla porta: un colpo solo e molto forte. — Avanti — disse lui.
Un guardiamarina che conoscevo di vista entrò con fare disinvolto e consegnò a Stott un foglio di carta senza dire una parola. Restò lì mentre Stott leggeva, insaccandosi giusto con l’esatta misura di insolenza. Tecnicamente, Stott non faceva parte della gerarchia cui lui apparteneva; e del resto, nella Marina, Stott era antipatico a tutti.
Stott restituì il foglio al guardiamarina e lo fissò senza guardarlo.
— Avvertite le vostre squadre che le manovre evasive preliminari avranno inizio alle 2010, tra cinquantotto minuti. — Non aveva guardato l’orologio. — Per le 2000 tutti dovranno essere nei gusci antiaccelerazione. At-tenti!
Ci alzammo e, senza entusiasmo, scandimmo in coro: — Fatti fottere, signore. — Ci sentimmo molto idioti.
Stott uscì dalla sala a grandi passi. Il guardiamarina gli andava dietro, con un sorrisetto maligno.
Girai l’anello sulla posizione 4, il canale del mio vicecomandante di squadra, e dissi: — Tate, qui Mandella. — Nella sala, tutti gli altri facevano come me.
Dall’anello uscì una voce metallica. — Qui Tate. Cosa succede?
— Chiama gli uomini e digli che dobbiamo essere nei gusci per le 2000. Manovre evasive.
— Merda. Ci avevano detto che mancavano ancora parecchi giorni.
— Penso che sia capitato qualcosa di nuovo. Forse il commodoro ha avuto un’idea brillante.
— Il commodoro può ficcarsela dove dico io. Sei su in salone?
— Già.
— Mi porti una tazza quando arrivi, okay? Con un po’ di zucchero.
— Okay. Venite giù tra una mezz’ora.
— Grazie. Comincio a rastrellarli.
C’era un movimento generale in direzione del distributore di soia. Mi misi in fila dietro il caporale Potter.
— Cosa ne dici, Marygay?
— Io sono solo un caporale, sergente. Non mi pagano per…
— Sicuro, sicuro. Ma dicevo sul serio.
— Be’, non è necessario che sia una faccenda molto complicata. Magari il commodoro vuole semplicemente che proviamo di nuovo i gusci.
— Ancora una volta, prima di quella buona.
— Uhm-uhm. Forse. — Lei prese una tazza e ci soffiò sopra. Aveva un’aria preoccupata; una sottile linea verticale le bisecava lo spazio tra le sopracciglia. — O magari i taurani avevano già un’astronave che ci aspettava da queste parti. Mi sono chiesta spesso perché non fanno come facciamo noi a Stargate.
Scrollai le spalle. — Stargate è un’altra faccenda. Ci vogliono sette o otto incrociatori in movimento continuo, per coprire gli angoli d’uscita più probabili. Noi non possiamo permetterci di coprire più di una collapsar, e non possono permetterselo neanche loro.
— Non lo so. — Marygay non disse più niente, mentre riempiva la tazza. — Magari siamo andati a finire nel loro equivalente di Stargate. O magari hanno dieci volte più astronavi di noi. O cento volte. Chi lo sa?
Io riempii e zuccherai due tazze e ne tappai una. — Impossibile saperlo. — Tornammo a uno dei tavoli, stando attenti alla soia, che nell’alta gravità tendeva a schizzare via.
— Forse Singhe sa qualcosa — disse lei.
— Forse sì. Ma per arrivare fino a lui dovrei passare attraverso la Rogers e Cortez. E Cortez mi salterebbe alla gola, se provassi a disturbarlo in questo momento.
— Oh, io a Singhe posso arrivarci direttamente. Noi… — Mi guardò con aria molto seria, mentre le spuntava qualche fossetta. Noi abbiamo fatto amicizia.
Sorseggiai un po’ di soia bollente e cercai di darmi un tono indifferente. — È per questo che sei sparita mercoledì notte?
— Dovrei controllare il mio elenco — disse Marygay, e sorrise. — Mi pare che lui sia il lunedì, mercoledì e venerdì nei mesi con la erre. Perché? Disapprovi?
— Be’… accidenti, no, naturalmente no. Ma… ma lui è un ufficiale! Un ufficiale di Marina!
— È distaccato presso di noi, e quindi fa parte dell’esercito. Marygay girò l’anello e disse: — Elenco. — E a me: — E tu e la piccola, graziosa Miss Harmony?
— Non è la stessa cosa. — lei bisbigliava nell’anello un numero.
— Sì che lo è. Ci tenevi a farlo con un ufficiale. Depravato. — L’anello belò due volte. Occupato. — Com’è?
— Discreta. — Cominciavo a riprendermi.
— E poi, il guardiamarina Singhe è un perfetto gentiluomo. E per nulla geloso.
— Non lo sono neanch’io — dissi. — Se mai ti facesse soffrire, dimmelo, e gli spaccherò il gnigno.
Lei mi sorrise, al di sopra della tazza. — Se il tenente Harmony facesse soffrire te, dimmelo e le spaccherò il grugno io.
— D’accordo. — Ci stringemmo solennemente la mano.
I gusci antiaccelerazione erano una novità, installata mentre noi riposavamo e facevamo rifornimento a Stargate. Ci consentivano di utilizzare la nave a livelli più vicini a quelli della sua efficienza teorica, quando il motore a tachioni la lanciava ad un’accelerazione superiore alle venticinque gravità.
Tate mi stava aspettando nel vano gusci. Gli altri della squadra giravano qua e là, parlando. Gli diedi la sua soia.
— Grazie. Scoperto qualcosa?
— Purtroppo no. Solo che quelli della Marina non sembrano spaventati, e questo è il loro show. Probabilmente è solo un’esercitazione.
Tate ingollò un po’ di soia. — Diavolo. Per noi comunque è lo stesso. Startene lì seduto a farti schiacciare fin quando sei mezzo morto. Dio, come odio queste cose.
— Oh, non lo so. Potrebbero servire a rendere obsoleta la fanteria, e allora potremmo tornarcene tutti a casa.
— Sicuro. — Arrivò il medico e mi fece l’iniezione.
Attesi fino alle 1950 e poi urlai alla squadra: — Andiamo. Spogliatevi ed entrate nei gusci.
Il guscio somiglia a una tuta spaziale flessibile. Almeno, all’interno è fatto in modo molto simile. Ma invece della piccola unità ambiente, c’è un tubo che entra in cima all’elmo e due che escono dai calcagni, oltre ai due tubi di evacuazione. I gusci sono sistemati a contatto di gomito su leggere cuccette antiaccelerazione: arrivare al tuo è un po’ come muoverti su un gigantesco piatto di spaghetti color oliva.
Quando le spie nel mio elmo mi indicarono che tutti erano nel guscio, premetti il pulsante per allagare il vano. Non potevo vederla, naturalmente, ma immaginavo la soluzione celeste — glicole etilenico e qualcosa d’altro — che saliva schiumando attorno a noi e sopra di noi. Il materiale della tuta, fresco e asciutto, si afflosciò, toccando ogni punto della mia pelle. Sapevo che la mia pressione interna saliva rapidamente per controbilanciare la crescente pressione esterna del fluido. L’iniezione serve proprio a quello: a impedire alle cellule di finire spiaccicate tra il diavolo e il pallido mare azzurro. Però lo sentivi egualmente. Quando il mio manometro indicò 2 (pressione esterna equivalente a una colonna d’acqua della profondità di due miglia nautiche), mi sentivo nello stesso tempo stritolato e gonfio. Alle 2005 la gravità era arrivata a 2,7 e non aumentava. Quando cominciarono le manovre, alle 2010, non sentii la differenza, ma mi sembrò di vedere l’ago che fluttuava un pochino, e mi chiesi quale accelerazione ci volesse per causare quello scondinzolio appena visibile.
Il difetto più grave del sistema è che, ovviamente, chiunque venisse sorpreso fuori del guscio quando l’Anniversary arriva a venticinque gravità si trasformerebbe in marmellata di fragole. Perciò a pilotare e a combattere deve provvedere il computer tattico dell’astronave… che del resto provvede sempre a fare quasi tutto: però è simpatico avere un sovrintendente umano.
Un altro piccolo problema è che, se l’astronave viene danneggiata e la pressione cade, tu esplodi come un melone scaraventato per terra. Se quella che cede è la pressione interna, muori schiacciato in un microsecondo.
Ci vogliono dieci minuti, più o meno, per depressurizzarsi, e altri due o tre per districarti e rivestirti. Non è che tu possa saltare in piedi e cominciare subito a combattere. Solo quattro persone conservano un minimo di mobilità mentre tutti gli altri sono prigionieri dei gusci: quelli della Squadra manutenzione dell’astronave. In pratica, si portano in giro l’intero apparato della camera d’accelerazione, e le loro tute sono veicoli da venti tonnellate. E persino loro devono starsene fermi in un posto, mentre la nave fa manovra.
L’accelerazione finì alle 2038. Si accese una luce verde e con un colpo di mento premetti il pulsante per depressurizzare.
Marygay e io ci stavamo vestendo. I fumi residui del fluido pressurizzante mi davano uno sgradevole senso di vertigine e un po’ di nausea.
— Com’è successo? — Indicai una striatura d’un violaceo acceso che le andava dal seno destro all’anca sinistra.
— È la seconda volta — disse Marygay, pizzicandosi rabbiosamente la pelle. — La prima è stata alla schiena… credo che il guscio non mi aderisca bene: fa le grinze.
— Forse sei dimagrita.
— Che furbo.
Da quando ci avevano adattato gli scafandri, a Stargate, l’assunzione di calorie e gli esercizi fisici erano stati rigorosamente controllati. Non si può usare uno scafandro da combattimento se la sensorpelle, all’interno, non aderisce come uno strato d’olio.
Un altoparlante soffocò il resto dei commenti di Marygay. "A tutto il personale. Attenzione… Tutto il personale dell’esercito, dal grado 6 in su e tutto il personale della marina dal grado 4 in su si presentino in sala istruzioni alle 2130. Attenzione…".
Ripeté la comunicazione due volte. Io andai a sdraiarmi per qualche minuto, mentre Marygay mostrava il livido, nonché il resto della sua persona, al medico e all’armiere. Per la cronaca, non mi sentivo minimamente geloso.
Il commodoro cominciò a parlare. — Non c’è molto da dire, e quel che c’è da dire non è molto divertente.
"Sei giorni fa, il vascello taurano che ci insegue ha lanciato un missile automatico. L’accelerazione iniziale era dell’ordine di ottanta gravità. — Fece una pausa. — Dopo aver proseguito per circa un giorno, ha portato l’accelerazione, improvvisamente, a centoquarantotto gravità. — Gemito collettivo. — Ieri, altro balzo, a 203 gravità. È superfluo aggiungere che è un’accelerazione doppia rispetto a quella dei missili nemici in occasione del nostro ultimo scontro.
"Abbiamo lanciato una salva di missili automatici, quattro, per intersecare quelle che il computer ha previsto essere le quattro più probabili traiettorie future del missile nemico. Uno l’ha azzeccata, mentre noi stavamo effettuando le manovre evasive. Abbiamo stabilito il contatto con l’arma taurana e l’abbiamo distrutta a circa dieci milioni di chilometri da qui."
Praticamente era alla porta accanto. — L’unico dato incoraggiante che abbiamo appreso dal computer è quello rilevato nell’analisi spettroscopica dell’esplosione. Non è stata più potente di quelle osservate in passato, quindi si può dedurre che, se non altro, i loro progressi in fatto di esplosivi non sono paragonabili a quelli in fatto di propulsione. O che forse i taurani non ritenevano necessaria una carica maggiore.
"Questa è la prima manifestazione di un effetto molto importante, che in precedenza aveva interesse solo per i teorici. Dimmi, soldato — fece, puntando il dito verso la Negulesco. — Quanto tempo è passato da quando abbiamo combattuto per la prima volta contro i taurani, ad Aleph?"
— Dipende dal sistema di coordinate — rispose lei, diligentemente. — Per me sono circa otto mesi, commodoro.
— Esattamente. Però voi avete perduto nove anni a causa della dilatazione temporale, mentre manovravamo tra i balzi da collapsar a collapsar. Dal punto di vista tecnologico, poiché non abbiamo effettuato ricerche e sviluppi importanti, durante quel periodo… il vascello nemico viene dal nostro futuro! — Si interruppe per lasciare che la frase facesse l’effetto dovuto.
"Man mano che la guerra continua, questo effetto diverrà sempre più pronunciato. Tuttavia, neppure i taurani hanno modo di rimediare alla relatività, e perciò la cosa tornerà a nostro beneficio più o meno nello stesso numero di casi in cui tornerà a beneficio loro.
"Per il momento, tuttavia, siamo noi a operare in condizioni di svantaggio. E lo svantaggio diventerà sempre più grave via via che l’astronave inseguitrice dei taurani si avvicinerà. Loro possono semplicemente superarci come potenza di fuoco.
"Saremo costretti a ricorrere a schivate folli. Quando arriveremo a cinquecento milioni di chilometri dall’astronave nemica, tutti si infileranno nei gusci e dovremo affidarci al computer logistico, che ci sottoporrà a una rapida serie di cambiamenti randomizzati di direzione e di velocità.
"Sarò molto franco. Finché i taurani dispongono di un missile più di noi, possono finirci. Non ne hanno lanciati altri, dopo il primo. Forse stanno aspettando… — E si asciugò nervosamente la fronte. — O forse ne avevano uno solo. In questo caso, saremo noi a superarli come potenza di fuoco.
"Comunque, tutti dovranno essere nei gusci entro dieci minuti dal segnale. Quando ci troveremo a un miliardo di chilometri dal nemico, voi dovrete mettervi accanto ai rispettivi gusci. Quando saremo a meno di cinquecento milioni di chilometri, voi dovrete esserci dentro, e tutti i compartimenti verranno allagati e pressurizzati. Non potremo stare ad aspettare nessuno.
"Questo è quanto avevo da dire. Vicemaggiore?"
— Parlerò ai miei più tardi, commodoro. Grazie.
— In libertà. — E nessuna di quelle stupidaggini tipo: "Fatti fottere, signore". La Marina le considerava poco dignitose. Ci mettemmo sull’attenti, tutti eccettuato Stott, fino a che il commodoro non fu uscito dalla sala. Poi qualche altro marinaio ripeté: "In libertà" e ce ne andammo. Io andai in sala sottufficiali a cercare un po’ di soia, un po’ di compagnia, e magari anche qualche informazione.
Non sentii altro che ipotesi più o meno oziose, perciò presi la Rogers e andai a letto. Marygay era sparita di nuovo, forse con la speranza di estorcere qualche notizia a Singhe.
Il promesso incontro con il vicemaggiore ebbe luogo la mattina dopo. Ripeté più o meno quanto aveva detto il commodoro, nei termini tipici della fanteria e con la sua voce monotona. Mise in risalto il fatto che tutto quello che sapevamo delle forze di terra dei taurani era che, siccome la loro efficienza astronautica era migliorata, era molto probabile che questa volta fossero in grado di tenerci testa meglio dell’ultima volta.
Questo sollevava una questione interessante. Otto mesi (o nove anni) prima, noi avevamo un vantaggio enorme: i taurani sembravano non capire quello che succedeva. Bellicosi com’erano nello spazio, ci eravamo aspettati che al suolo fossero degli autentici unni. Invece, in pratica s’erano messi in fila per farsi scannare. Uno era riuscito a scappare, e presumibilmente aveva descritto ai suoi simili l’idea del combattimento all’antica.
Ma naturalmente questo non significava che la notizia fosse arrivata per forza di cose anche a quelli lì, i taurani che facevano la guardia a Yod-4. L’unico modo a noi noto per comunicare a velocità superiori a quella della luce consiste nel portare fisicamente il messaggio attraverso balzi successivi da collapsar a collapsar. E non c’era modo di sapere quanti balzi ci fossero tra Yod-4 e la base centrale taurana… perciò questi di Yod-4 potevano essere passivi come gli ultimi che avevamo incontrati, sì, ma potevano anche avere fatto esercitazioni tattiche di fanteria per circa un decennio. Lo avremmo scoperto quando fossimo arrivati sul posto.
Io e l’armiere stavamo aiutando la mia squadra a infilare quelli della Manutenzione nei loro scafandri da combattimento, quando passammo il limite dei mille milioni di chilometri e dovemmo correre a metterci in posizione vicino ai gusci.
Avevamo all’incirca cinque ore da far passare prima di doverci infilare nei nostri bozzoli. Io feci una partita a scacchi con Rabi e persi. Poi la Rogers guidò il plotone in una serie di vigorosi esercizi ginnici, probabilmente per far dimenticare la prospettiva di dover stare semischiacciati dentro ai gusci per almeno quattro ore. Al massimo ci eravamo rimasti per due ore soltanto.
Dieci minuti prima di arrivare ai cinquecento milioni di chilometri, noi comandanti di squadra provvedemmo a far ingusciare tutti. Dopo otto minuti eravamo tutti chiusi e allagati, in balia dei capricci del computer logistico… o al sicuro tra le sue braccia, a seconda dell’umore.
Mentre me ne stavo lì supercompresso, un pensiero sciocco si impadronì del mio cervello e continuò a girare e a girare come una corrente elettrica in un superconduttore. Secondo il formalismo militare, la conduzione di una guerra si divide in due precise categorie: tattica e logistica. La logistica deve provvedere a spostare le truppe, a sfamarle e a fare praticamente tutto, tranne combattere, la qual cosa spetta alla tattica. E adesso stavamo combattendo, ma non avevamo un computer tattico a guidarci all’attacco e alla difesa, bensì un enorme, superefficiente, pacifista commesso alimentarista cibernetico, il computer logistico, segnatevi bene questa parola, logistico.
L’altra parte del mio cervello, forse un po’ meno esasperata, ribatteva che non aveva importanza il nome dato a un computer: è un mucchio di cristalli-memoria, di banchi logici, dadi e bulloni… Se lo programmi per essere Ghengis Khan, un computer tattico, anche se il suo compito abituale consiste nel seguire il mercato azionario o controllare la conversione dei rifiuti organici.
Ma l’altra voce era ostinata, e diceva che, in base a quel tipo di ragionamento, un uomo era un ciuffo di capelli e un po’ d’osso e di carne tigliosa: non importa che genere d’uomo è, e se gli insegni a dovere, puoi prendere un monaco zen e trasformarlo in un guerriero assetato di sangue.
E allora cosa diavolo sei tu, cosa siamo noi, cosa sono io, rispose l’altra parte. Uno specialista saldatore a vuoto, amante della pace, insegnante di fisica, arraffato dalla Legge della Coscrizione Elitaria e riprogrammato per diventare una macchina per uccidere. Tu, io ho ucciso, e mi è anche piaciuto.
Ma quella era ipnosi, condizionamento motivazionale, risposi a me stesso. Adesso non lo fanno più.
E l’unica ragione per cui non lo fanno più, dissi io, è che sono convinti che ucciderai meglio senza. È logico.
A proposito di logica, il problema originale era: perché mandano un computer logistico a fare un lavoro da uomo? O qualcosa del genere… e via daccapo.
La luce verde si accese, e io spinsi automaticamente l’interruttore con il mento. La pressione scese a 1,3, e finalmente mi resi conto che voleva dire che eravamo vivi e che avevamo vinto la prima schermaglia.
Avevo ragione solo in parte.
Mi stavo allacciando la cintura della tunica quando il mio anello mi fece il solletico, e lo alzai per ascoltare. Era la Rogers.
— Mandella, vai a controllare il vano 3. È successo qualcosa: Dalton ha dovuto depressurizzarlo dalla Centrale.
Il vano 3… era la squadra di Marygay! Mi precipitai nel corridoio a piedi nudi e arrivai sul posto proprio mentre aprivano la porta dall’interno della camera a pressione e cominciavano a uscire sparpagliati.
Il primo a uscire fu Bergman. Lo afferrai per un braccio. — Cosa diavolo succede, Bergman?
— Eh? — Mi guardò, ancora stordito, come tutti quelli che uscivano dalla camera. — Oh, sei tu, Mandella. Non lo so. Cosa intendi dire?
Mi infilai oltre la porta, senza mollarlo. — Siete in ritardo, avete depressurizzato in ritardo. Che cos’è successo?
Egli scrollò la testa per schiarirsela. — In ritardo? Come, in ritardo? In ritardo di quanto?
Guardai il mio orologio, per la prima volta. — Non troppo… Gesù Cristo. — Uh, siamo entrati nei gusci alle 0520, no?
— Sì, credo di sì.
Ancora non vedevo Marygay tra le figure che si muovevano tra le file di cuccette e i grovigli di tubi. — Uhm, eravate in ritardo solo di un paio di minuti… ma dovevamo stare sotto pressione per quattro ore soltanto, magari meno. Sono le 1050.
— Uhm. — Bergman scrollò di nuovo il capo. Lo lasciai, passai di nuovo dalla porta e raggiunsi Stiller e Demy.
— Tutti in ritardo, allora — disse Bergman. — Quindi non ci sono difficoltà.
— Uh… — Inutile insistere. — Giusto, giusto… Ehi, Stiller! Hai visto…
Dall’interno: — Medico! Medico!
Stava uscendo qualcuna che non era Marygay. La spinsi bruscamente da parte, mi tuffai oltre la porta, andai a sbattere contro qualcuno e raggiunsi Struve, l’assistente di Marygay, che stava accanto a un bozzolo e parlava, forte e in tono concitato, nel suo anello.
— … e sangue Dio sì che ne abbiamo bisogno…
Era Marygay ancora distesa dentro al guscio ed era…
— … ho sentivo da Dalton…
… coperta da uno strato uniforme e lucente di sangue su ogni centimetro quadrato…
— … quando lei non è uscita…
… cominciava con un grosso livido in alto vicino alla clavicola e continuava giù tra i seni fino a quando superava il sostegno dello sterno…
— … mi sono avvicinato e ho aperto…
… e poi si apriva in uno squarcio che diventava più profondo mentre scendeva lungo il ventre e dove si fermava…
— … sì, è ancora…
… pochi centimetri al di sopra del pube sporgeva un cappio di budella ricoperto dalla membrana…
— … okay, anca sinistra. Mandella…
Marygay era ancora viva, il cuore palpitava, ma la testa striata di sangue penzolava inerte, gli occhi erano rivoltati e si vedevano solo due fessure bianche, e bollicine di schiuma rossa apparivano e scoppiavano all’angolo della bocca ogni volta che esalava un respiro fievole.
— … tatuato sull’anca sinistra. Mandella! Svegliati! Girala e guarda qual è il suo gruppo sanguigno…
— Gruppo zero Rh negativo. Dannazione!… Scusa. Zero negativo. — Non avevo visto quel tatuaggio diecimila volte?
Struve comunicò l’informazione e io mi ricordai all’improvviso dell’astuccio del pronto soccorso che portavo alla cintura, lo sganciai e cominciai a frugarlo.
Arrestare l’emorragia… proteggere la ferita… trattamento antishock: era quel che diceva il manuale delle istruzioni. Ne avevo dimenticato uno, dimenticato uno… liberare le vie respiratorie. Lei respirava, se era questo che intendevano. Come si fa ad arrestare l’emorragia o a proteggere la ferita con una miserabile benda a pressione, quando la ferita è lunga quasi un metro? Il trattamento antishock: quello potevo praticarlo. Tirai fuori la fiala verde, gliela appoggiai contro il braccio e premetti il bottone. Poi posai il lato sterile della benda, molto delicatamente, sopra gli intestini esposti, e le passai la fascia elastica sotto la schiena, la regolai su una tensione quasi zero e la fissai.
— Puoi fare qualcosa d’altro? — chiese Struve.
Mi scostai. Mi sentivo impotente. — Non lo so. A te viene in mente qualcosa?
— Non sono un medico più di quanto non lo sia tu. — Guardò la porta e strinse il pugno, gonfiando il bicipite. — Dove diavolo sono? Hai la morph-plex in quell’astuccio?
— Sì, ma qualcuno mi ha detto di non usarla per le lesioni interne…
— William?
Marygay aveva gli occhi aperti, e cercava di alzare la testa. Mi precipitai a tenerla giù. — Tutto a posto, Marygay. Il medico sta arrivando.
— Cosa… tutto a posto? Ho sete. Acqua.
— No, tesoro, non posso darti dell’acqua, per un po’, almeno. Non potevo dargliela, se doveva finire in chirurgia.
— Perché tutto questo sangue? — disse lei con un filo di voce. Lasciò ricadere la testa all’indietro. — Sono stata cattiva.
— Deve essere stata la tuta — dissi io, rapidamente. — Ricordi le grinze, l’altra volta?
Lei scosse il capo. — La tuta? — Impallidì di colpo e vomitò, debolmente. — Acqua… William, per piacere.
Una voce autoritaria, alle mie spalle: — Prendi una spugna o un pezzo di stoffa intriso d’acqua. — Mi voltai e vidi Doc Wilson con due portabarella.
— Il primo mezzo litro femorale — disse, a nessuno in particolare, mentre guardava sotto la benda a pressione. — Segui il tubo d’evacuazione per un paio di metri e taglialo. Vedi se ha passato del sangue.
Uno degli infermieri piantò un ago lungo dieci centimetri nella coscia di Marygay e cominciò a trasfonderle il sangue da un sacco di plastica.
— Scusate il ritardo — disse Doc Wilson con voce stanca. — C’è molta richiesta. Cosa dicevi della tuta?
— La Potter aveva già avuto due lesioni di poco conto. La tuta non aderisce a dovere, sotto l’effetto della pressione fa le grinze.
Quello annuì distrattamente, mentre le controllava la pressione sanguigna. — Qualcuno mi dia… — Qualcuno gli porse un tovagliolo di carta sgocciolante acqua. — Uh, le avete dato qualcosa?
— Una fiala di Anti-shock.
Doc Wilson appallottolò il tovagliolo di carta e lo mise nella mano di Marygay. — Come si chiama? — Glielo dissi.
— Marygay, non possiamo darti dell’acqua da bere, ma puoi succhiare questo. Adesso ti punterò negli occhi una luce intensa.
Mentre le guardava la pupilla chiese: — Temperatura? — e uno della sanità lesse un numero sulla cassetta degli indicatori e ritirò una sonda. — Ha passato sangue?
— Sì. Un po’.
Doc Wilson posò delicatamente la mano sulla benda a pressione. — Marygay, puoi girarti un po’ sul fianco destro?
— Sì — disse lei lentamente, e puntellò il gomito per far leva. No — disse allora, e si mise a piangere.
— Su, su — fece lui distrattamente, e le spinse il fianco, quanto bastava per guardarle la schiena. — Solo una ferita — borbottò. Ma ha perso un sacco di sangue.
Premette due volte il lato del suo anello, e se l’accostò all’orecchio, scuotendolo. — C’è qualcuno a bottega?
— Harrison, a meno che lo abbiano chiamato da qualche parte.
Si avvicinò una donna, e in un primo momento non la riconobbi, così pallida e scarmigliata, con la tunica chiazzata di sangue. Era Estelle Harmony.
Doc Wilson alzò la testa. Altri clienti, dottor Harmony?
— No — fece lei con voce spenta. — L’addetto alla manutenzione aveva una doppia amputazione traumatica. È vissuto solo pochi minuti. Adesso lo tengono artificialmente in funzione per utilizzarne gli organi per i trapianti.
— E tutti gli altri?
— Decompressione esplosiva. — La Harmony fiutò l’aria. — Posso fare qualcosa, qui?
— Sì, un minuto solo. — Doc Wilson riprovò con l’anello. — Dio lo maledica. Sai dov’è Harrison?
— No… be’, forse potrebbe essere in Chirurgia B, se c’è qualche difficoltà a tenere in efficienza il cadavere. Ma credo che sia tutto a posto.
— Già, bene, diavolo se come…
— Finito! — disse l’infermiere con il sacco del sangue.
— Un altro mezzo litro per via femorale — disse Doc Wilson. — Estelle, ti spiace prendere il posto di uno degli infermieri, qui, e preparare la ragazza per la chirurgia?
— No, almeno avrò qualcosa da fare.
— Bene… Hopkins, va’ su a bottega e porta giù una lettiga e un litro, uhm, due litri di fluorocarbonio isotonico con lo spettro primario. Se sono Merck, sopra ci sarà scritto "spettro addominale". Trovò un lembo della manica che non era macchiato di sangue e ci si asciugò la fronte. — Se trovi Harrison, mandalo in Chirurgia A e digli che prepari la sequenza anestetica per un intervento addominale.
— E portiamo la ragazza in Chirurgia A?
— Giusto. Se non riesci a pescare Harrison, di’ a qualcuno.
E puntò il dito nella mia direzione. — Questo qui, per portare su la paziente all’A; tu vai avanti e prepari la sequenza.
Prese la borsa e guardò nel suo interno. — Potremmo cominciare la sequenza già qui — borbottò. — Ma diavolo, senza parametadone… Marygay? Come ti senti? Lei stava ancora piangendo.
— Mi fa… male.
— Lo so — disse Doc Wilson dolcemente. Rifletté per un secondo poi disse a Estelle: — È impossibile stabilire esattamente quanto sangue ha perduto. Può darsi che lo abbia passato sotto la pressione. E ce n’è un po’ che ristagna nella cavità addominale. Dato che è ancora viva, non credo che l’emorragia sotto pressione sia durata molto. Spero che non ci siano lesioni cerebrali.
Toccò il manometro collegato al braccio di Marygay. — Controlla la pressione sanguigna, e se pensi che sia il caso, dalle cinque centimetri cubi di vasocostrittore. Vado a darmi una ripulita.
Doc Wilson chiuse la borsa. — Hai qualche vasocostrittore, oltre alla fiala pneumatica?
Estelle controllò nella sua borsa. — No, solo la fiala d’emergenza… uh… sì, ho il dosaggio controllato sul vasodilatatore.
— Okay, se devi usare il vasocostrittore e la pressione sale troppo in fretta…
— Le do il vasodilatatore a due centimetri cubi per volta.
— Bene. È un sistema da matti, ma… bene. Se non sei troppo stanca, vorrei che mi assistessi nell’operazione, di sopra.
— Sicuro. — Doc Wilson salutò con un cenno del capo e se ne andò.
Estelle cominciò a fare spugnature al ventre di Marygay con alcool isopropilico. Aveva un odore freddo e pulito. — Qualcuno le ha fatto l’Antishock?
— Sì — dissi io. — Circa dieci minuti fa.
— Ah. Ecco perché Doc era preoccupato… no, hai fatto benissimo. Ma l’Antishock contiene un po’ di vasocostrittore. Altri cinque centimetri cubi potrebbero essere una dose eccessiva. — Continuò a pulire, in silenzio, alzando gli occhi quasi continuamente per controllare l’indicatore della pressione sanguigna.
— William? — Era la prima volta che Estelle dava segno di conoscermi. — Questa don… uhm, Marygay, è la tua amante? La tua amante regolare?
— Infatti.
— È molto carina. — Un’osservazione straordinaria: il corpo di Marygay era sventrato e incrostato di sangue, la faccia tutta macchiata, dove io avevo cercato di asciugare le lacrime. Immagino che solo un dottore, una donna o un innamorato fosse capace di vedere oltre tutto questo e di riconoscere la bellezza.
— Sì, davvero. — Marygay aveva smesso di piangere e teneva gli occhi chiusi, mentre succhiava le ultime gocce d’acqua dalla carta appallottolata.
— Posso darle un altro po’ d’acqua?
— Okay, lo stesso di prima. Non troppo.
Andai nel vano degli armadietti a prendere un tovagliolo di carta. Adesso che i fumi del liquido pressurizzante si erano dileguati, potevo sentire l’odore dell’aria. Non era l’odore giusto. Olio da macchina e metallo bruciato, come l’odore di un’officina per la lavorazione dei metalli. Pensai che avessero sovraccaricato il condizionatore dell’aria. Era già successo, la prima volta che avevano usato le camere antiaccelerazione.
Marygay prese l’acqua senza aprire gli occhi.
— Avete intenzione di mettervi insieme, quando tornerete sulla Terra?
— Probabilmente — dissi io. — Se ci torneremo, sulla Terra. Abbiamo ancora una battaglia.
— Non ci saranno più battaglie — disse Estelle, con voce inespressiva. — Vuoi dire che non l’hai saputo?
— Che cosa?
— Non sai che l’astronave è stata colpita?
— Colpita? — (E allora, come facevamo a essere ancora vivi?)
— Esatto. — Estelle riprese a pulire Marygay. — I vani della Squadra quattro. E il vano armature. A bordo dell’astronave non è rimasto un solo scafandro da combattimento… e non possiamo combattere in mutande.
— Cosa… I vani della squadra? E cos’è successo a quelli che c’erano dentro?
— Nessun superstite.
Trenta persone. — Chi erano?
— Tutto il Terzo plotone. La Prima squadra del Secondo plotone.
Al-Sadat, Busia, Maxwell, Negulesco. — Mio Dio.
— Trenta morti, e non si ha la più vaga idea di quello che è successo. Non si sa neanche se può ricapitare da un momento all’altro.
— Non è stato un missile automatico?
— No, li abbiamo colpiti tutti. E anche il vascello nemico. Non si è registrato niente di niente, su nessuno dei sensori, solo blam! e un terzo della nave è andato distrutto. È già stata una fortuna che non si sia trattato del motore o dell’impianto ambiente. — Io non l’ascoltavo neanche. Penworth, LaBatt, Smithers. Christine e Frida. Tutti morti. Ero stordito.
Estelle prese dalla borsa un rasoio a lama libera e un tubo di gel. — Fai il gentiluomo e guarda dall’altra parte — disse. — Oh, anzi. — Intrise nell’alcool un quadrato di garza e me lo porse. — Renditi utile. Puliscile la faccia.
Mi misi all’opera e Marygay, senza aprire gli occhi, disse: — Che sollievo. Cosa fai?
— Il gentiluomo. E mi rendo utile…
— A tutto il personale: attenzione. A tutto il personale… Non c’erano altoparlanti nella camera a pressione, ma potevo sentire chiaramente quello del vano degli armadietti, oltre la porta. — Tutto il personale dal grado 6 in su, se non direttamente occupato in attività di emergenza medica o manutenzione, si presenti immediatamente in sala assemblee.
— Devo andare, Marygay.
Ella non disse niente. Non sapevo neppure se avesse sentito l’annuncio.
— Estelle. — Mi rivolsi direttamente a lei, e al diavolo il gentiluomo. — Ti dispiace…
— Sì. Ti farò sapere, non appena saremo in grado di dire qualcosa.
— Bene.
— Andrà tutto per il meglio. — Ma la sua espressione era cupa, preoccupata. — Adesso vai — disse sottovoce.
Quando arrivai nel corridoio, l’altoparlante stava ripetendo l’annuncio per la terza volta: Nell’aria c’era un odore nuovo, e non ci tenevo a sapere cosa fosse.
Mentre mi avviavo verso la sala raduno mi ricordai di come ero conciato, e mi infilai nella toeletta vicino alla sala sottufficiali. Il caporale Hamehameha si stava spazzolando frettolosamente i capelli.
— William! Cosa t’è successo?
— Niente. — Aprii un rubinetto e mi guardai nello specchio. Avevo tutta la faccia e la tunica incrostate di sangue secco. — È stata Marygay, il caporale Potter, la sua tuta… be’, evidentemente faceva una grinza, uhm…
— Morta?
— No, ma quasi, uhm, la portano in chirurgia… — Non adoperare l’acqua calda. Il sangue non andrebbe più via.
— Oh. Giusto. — Usai l’acqua calda per lavarmi la faccia e le mani, e ripulii la tunica con quella fredda. — La tua squadra era solo due vani più in là dopo quella di Al, no?
— Sì.
— Hai visto cos’è successo?
— No. Sì. Non quando è successo. — Per la prima volta notai che piangeva: grosse lacrime le rotolavano lungo le guance e le cadevano dal mento. La voce era calma, controllata. Si tirò rabbiosamente i capelli. — È un caos.
Mi avvicinai a lei e le posai la mano sulla spalla. — Non toccarmi! — scattò lei e mi spostò la mano con un colpo di spazzola. — Scusami. Andiamo.
Sulla porta mi sfiorò leggermente il braccio. — William… — Mi guardò con aria di sfida. — Sono contenta che non sia toccata a me. Capisci? È l’unico modo di vedere le cose.
Lo capivo, ma non sapevo se ci fosse davvero da essere contenti.
— Posso riassumere la situazione molto brevemente — disse il commodoro con voce tesa. — Se non altro perché ne sappiamo pochissimo.
"All’incirca dieci secondi dopo che avevamo distrutto il vascello nemico, due oggetti, molto piccoli, hanno colpito l’Anniversary nella parte centrale. In base alle deduzioni, poiché gli oggetti non erano stati avvistati e noi conosciamo i limiti dei nostri apparecchi di rilevamento, sappiamo che si muovevano a una velocità superiore ai nove decimi di quella della luce. Vale a dire, più esattamente, che il loro vettore di velocità perpendicolare all’asse dell’Anniversary era superiore a nove decimi della velocità della luce. Si sono infilati oltre ai campi repulsori."
Quando l’Anniversary si muove a velocità relativistiche, genera due potenti campi elettromagnetici: uno centrato a cinquemila chilometri dall’astronave, e l’altro a circa diecimila chilometri, entrambi allineati sulla direzione del moto del veicolo spaziale. I campi sono mantenuti in funzione da un effetto da autoreattore: raccogliere l’energia del gas interstellare mentre noi ci muoviamo.
Qualunque cosa che possa costituire un pericolo (vale a dire tutto ciò che è abbastanza grande perché lo si possa vedere con una buona lente d’ingrandimento), passa attraverso il primo campo e ne esce con una foltissima carica negativa sulla superficie. Quando entra nel secondo campo, viene allontanato dalla direttrice dell’astronave. Se l’oggetto è troppo grosso per poterlo rispedire via in questo modo, noi possiamo percepirlo a una distanza molto superiore, e manovrare per evitarlo.
— Ritengo sia superfluo farvi notare che si tratta di un’arma formidabile. Quando l’Anniversary è stata colpita, la nostra velocità rispetto al nemico era tale che coprivamo una distanza pari alla nostra lunghezza ad ogni decimillesimo di secondo. Inoltre, ci stavamo muovendo a balzi erratici, con un’accelerazione laterale in costante cambiamento, completamente randomizzata. Perciò gli oggetti che ci hanno colpiti dovevano essere guidati, non semplicemente mirati. E il sistema di guida era incorporato nell’arma, poiché non c’era più un solo taurano vivo, quando siamo stati colpiti. E tutto questo in un involucro non più grosso di un ciottolo.
"Voi siete quasi tutti troppo giovani per ricordare il termine trauma del futuro. Negli Anni Settanta, certuni pensavano che il progresso tecnologico era così rapido che la gente, la gente normale, non era in grado di tenergli testa; non aveva il tempo di abituarsi al presente prima che il futuro gli piombasse addosso. Un certo Toffler creò il termine trauma del futuro per descrivere la situazione. — Il commodoro sapeva assumere anche toni accademici. — Noi ci troviamo in una situazione fisica molto simile a questo concetto teorico. Il risultato è stato una catastrofe. Una tragedia. E come abbiamo detto durante la nostra ultima riunione, non c’è possibilità di rimediare. La relatività ci blocca nel passato dei nemici; la relatività li fa scendere dal nostro futuro. Possiamo solo augurarci che la prossima volta la situazione risulti invertita. E ciò che possiamo fare per contribuire a realizzarlo è ritornare a Stargate, e poi alla Terra, dove forse gli specialisti riusciranno a dedurre qualcosa, ed a ideare una specie di controarma, in base al tipo di danno che queste hanno causato.
"Ora, noi potremmo attaccare dallo spazio il pianeta portale dei taurani, e magari anche distruggere la base, senza usare voi della fanteria. Ma credo che sarebbe un grossissimo rischio. Potremmo… venire abbattuti da un’arma identica a quella che ci ha colpiti oggi, e allora non torneremmo mai a Stargate con informazioni che considero d’importanza vitale. Potremmo inviare una sonda automatica con un messaggio per specificare le nostre deduzioni circa questa nuova arma nemica… ma sarebbe insufficiente. E la FENU si ritroverebbe tecnologicamente molto arretrata.
"Abbiamo perciò stabilito una rotta che ci farà passare intorno a Yod-4, in modo da tenere la collapsar, per quanto è possibile, tra noi e la base taurana. Eviteremo il contatto con il nemico, e torneremo a Stargate il più presto possibile."
Incredibilmente, il commodoro si sedette e si passò le dita sulle tempie. — Tutti voi siete almeno comandanti di squadra o di sezione e quasi tutti avete ottimi precedenti in combattimento. E spero che almeno alcuni di voi firmeranno per la rafferma, allo scadere dei due anni. Coloro che lo faranno verranno probabilmente nominati tenenti, e avranno un primo, vero comando.
"È a costoro che vorrei parlare per qualche minuto, e non come vostro… come uno dei vostri comandanti, ma semplicemente come ufficiale più alto in grado e consigliere.
"Non è possibile prendere decisioni di comando semplicemente valutando la situazione tattica e seguendo la linea d’azione che causerà maggiori danni al nemico con un minimo di morti e di danni per i nostri. La guerra moderna è diventata una cosa molto complessa, soprattutto durante l’ultimo secolo. Le guerre non si vincono semplicemente vincendo una serie di battaglie, ma grazie a una complessa interrelazione fra vittoria militare, pressioni economiche, manovre logistiche, accesso alle informazioni del nemico, posizioni politiche… dozzine, letteralmente dozzine di fattori."
Io ascoltavo, ma l’unica cosa che mi arrivava al cervello era che un terzo dei nostri amici erano stati uccisi meno di un’ora prima, e il commodoro se ne stava là seduto a tenerci una lezione di teoria militare.
— Quindi, qualche volta bisogna rinunciare a una battaglia vittoriosa per contribuire a vincere la guerra. Ed è precisamente quello che faremo.
"Non è stata una decisione facile. Anzi, è stata probabilmente la più difficile di tutta la mia carriera militare, perché, almeno in apparenza, può sembrare una vigliaccheria.
"Il computer logistico calcola che avremmo circa sessantadue probabilità di successo su cento, se tentassimo di distruggere la base nemica. Purtroppo, avremmo solo trenta probabilità di sopravvivenza su cento… poiché alcuni dei piani che porterebbero al successo comportano la necessità di andare a sbattere con l’Anniversary contro il pianeta portale alla velocità della luce.
"Mi auguro che nessuno di voi deva mai trovarsi costretto a fare una scelta del genere. Quando torneremo a Stargate, con ogni probabilità mi manderanno davanti alla corte marziale per viltà di fronte al nemico. Ma ritengo, in tutta sincerità, che le informazioni che si possono ottenere mediante un’analisi dei danni subiti dall’Anniversary siano più importanti della distruzione di una base taurana. — Il commodoro si drizzò sulla seggiola. — Più importanti della carriera di un soldato."
Dovetti reprimere l’impulso di ridere. Certamente, la "viltà" non aveva niente a che vedere con la sua decisione. Certamente, lui non era animato da un sentimento primitivo e antimilitare come la volontà di vivere.
La Squadra manutenzione era riuscita a rattoppare l’enorme squarcio nella fiancata dell’Anniversary e a ripressurizzare quella sezione. Impiegammo il resto della giornata a ripulire, naturalmente senza toccare le preziose prove per le quali il commodoro era disposto a sacrificare la carriera.
Il peggio fu scaraventare nello spazio i cadaveri. Non fu troppo orribile, comunque, se non quando si trattava di maneggiare quelli cui era scoppiata la tuta.
Il giorno dopo, appena smontai, andai nella cabina di Estelle.
— È inutile che tu vada a vederla, adesso. — Estelle sorseggiava il suo drink: una mistura di alcool etilico, di acido citrico e d’acqua, con una goccia di un estere che aveva approssimativamente l’aroma della scorza d’arancio.
— È fuori pericolo?
— No, per un paio di settimane. Lascia che ti spieghi. — Depose il bicchiere e appoggiò il mento sulle dita intrecciate. — In circostanze normali, la ferita sarebbe stata ordinaria amministrazione. Dopo averle sostituito il sangue perduto, avremmo semplicemente cosparso di qualche polverina magica la cavità addominale e l’avremmo richiusa. In un paio di giorni sarebbe stata di nuovo in piedi.
"Ma così ci sono delle complicazioni. Nessuno è mai stato ferito, prima d’ora, dentro a una tuta a pressione. Finora non è saltato fuori niente d’insolito. Ma per qualche giorno dobbiamo sorvegliare attentamente le sue viscere.
"E poi, eravamo molto preoccupati per la peritonite. Sai che cos’è la peritonite?"
— Sì. — Be’, vagamente.
— Perché una parte dell’intestino si è lacerata sotto la pressione. Non abbiamo potuto optare per la profilassi normale perché una quantità di… uhm, contaminazione ha urtato il peritoneo sotto pressione. Per stare sul sicuro, abbiamo dovuto sterilizzare tutto quanto, la cavità addominale e l’intero apparato digerente dal duodeno in giù. Poi, naturalmente, abbiamo dovuto sostituire tutta la flora intestinale normale, che era morta, con una coltura. Anche questa è una procedura abituale, ma di solito non vi si fa ricorso, a meno che la lesione sia molto grave.
— Capisco. — Provavo un po’ di nausea. I dottori non si rendono conto che in generale noi preferiamo non pensare a noi stessi come a dei sacchi animati di pelle, pieni di cose oscene.
— E questa è già di per sé una buona ragione per non andarla a vedere per un paio di giorni. Il ricambio della flora intestinale ha un effetto molto violento sull’apparato digerente… non è pericoloso, dato che è tenuta costantemente sotto osservazione. Ma è stancante e… be’, imbarazzante.
"Con tutto questo, lei sarebbe completamente fuori pericolo, se la situazione clinica fosse normale. Ma stiamo decelerando a una gravità e mezzo, e i suoi organi interni sono stati sbatacchiati qua e là anche troppo. Tanto vale dirtelo: se superiamo le due gravità, lei morirà."
— Ma… ma dovremo superare le due gravità, nella fase finale di avvicinamento! Cosa…
— Lo so, lo so. Ma solo fra un paio di settimane. C’è da sperare che per allora sia sistemata.
"William, fattene una ragione. È già un miracolo che sia sopravvissuta fino all’intervento chirurgico. È molto probabile che non ce la faccia ad arrivare viva sulla Terra. È doloroso: per te è qualcosa di speciale, capisco. Ma ci sono stati già tanti morti… dovresti abituarti all’idea, a rendertene conto."
Buttai giù una lunga sorsata del mio drink, identico al suo, a parte l’acido citrico. — La metti giù dura.
— Forse… no. Sono solo realista. Ho l’impressione che ci aspettino altre morti e altri dolori.
— Non per me. Non appena rimettiamo piede a Stargate, io ritorno borghese.
— Non esserne troppo sicuro. — La solita, vecchia discussione. I buffoni che ci hanno arruolati per due anni sono capacissimi di arruolarci per quattro o…
— O per sei o per venti o per tutta la guerra. Ma non lo faranno. Provocherebbero un ammutinamento.
— Non lo so. Se possono condizionarci a uccidere a un dato segnale, possono condizionarci a fare qualunque cosa. Anche a firmare la rafferma.
Era agghiacciante.
Più tardi cercammo di far l’amore, ma tutti e due avevamo troppe cose cui pensare.
Andai a vedere Marygay per la prima volta circa una settimana dopo. Era sciupata, dimagrita, e sembrava molto confusa. Doc Wilson mi assicurò che era solo per via dei medicinali: non avevano trovato traccia di lesioni cerebrali.
Ella era ancora a letto, e veniva nutrita per fleboclisi. Io cominciavo a guardare nervosamente il calendario. Sembrava che ogni giorno segnasse qualche miglioramento, ma se fossimo arrivati alla collapsar mentre era ancora a letto, non avrebbe avuto una sola possibilità di cavarsela. Non riuscivo a strappare qualche parola incoraggiante a Doc Wilson o a Estelle: dicevano che dipendeva tutto dalla capacità di recupero di Marygay.
Il giorno prima della spinta, la trasferirono dal suo letto alla cuccetta antiaccelerazione di Estelle, nell’infermeria. Era lucida e ormai si nutriva per via orale, ma non ce la faceva ancora a muoversi da sola, a una gravità e mezzo.
Andai a trovarla. — Hai saputo del cambiamento di rotta? Dobbiamo passare da Aleph-9 per tornare a Tet-38. Altri quattro mesi in questo maledetto guscio. Ma altri sei anni di paga da zona di combattimento quando torneremo sulla Terra.
— Bene.
— Ah, pensa a tutte le cose splendide che potremo…
— William.
Dovetti lasciar perdere. Non sono mai stato molto abile a mentire.
— Non cercare di farmi coraggio. Parlami della saldatura nel vuoto, della tua infanzia, di qualunque cosa. Non prendermi in giro dicendomi che tornerò sulla Terra. — Girò la faccia verso la parete. — Ho sentito i dottori che parlavano nel corridoio, una mattina: credevano che dormissi. Ma era semplicemente una conferma di quello che sapevo già, che avevo capito dal modo in cui si comportavano tutti.
"Allora dimmi: sei nato nel Nuovo Messico nel 1975. E poi? Sei rimasto nel Nuovo Messico? Eri bravo a scuola? Avevi degli amici, o eri troppo bravo, come me? Quanti anni avevi quando sei andato a letto per la prima volta con una ragazza?"
Continuammo per un po’ su questo tono, impacciati. Mentre parlavamo mi venne un’idea, e quando lasciai Marygay andai subito a cercare il dottor Wilson.
— Le diamo cinquanta probabilità su cento di sopravvivere, ma è un giudizio arbitrario. Nessuno dei dati pubblicati su questo genere di cose corrisponde esattamente.
"Comunque, è certo che le sue probabilità di sopravvivenza sono tanto migliori quanto è minore l’accelerazione che deve sopportare.
"Certamente. Per quello che vale. Il commodoro farà manovrare il più dolcemente possibile, ma saranno pur sempre quattro o cinque gravità. E tre potrebbero essere già troppe: non lo sapremo finché non sarà finita."
Annuii, impaziente. — Sì, ma credo esista un sistema per esporla a un’accelerazione inferiore a quella cui saremo sottoposti tutti noi.
— Se hai inventato uno schermo antiaccelerazione — disse Doc Wilson, sorridendo — farai bene a precipitarti a brevettarlo. Potresti venderlo per una cifra enorme…
— No, Doc, in condizioni normali non servirebbe a molto: i nostri gusci funzionano meglio, e sono basati sugli stessi principi.
— Spiegati.
— Mettiamo Marygay dentro a un guscio e allaghiamo…
— Aspetta, aspetta. Assolutamente no. Le è capitato quel che le è capitato proprio per colpa di un guscio che aderiva male. E questa volta, dovrà adoperare il guscio di qualcun altro.
— Lo so, Doc, mi lasci spiegare. Non è necessario che il guscio le calzi bene, purché gli attacchi del sistema ambiente funzionino. Il guscio non dovrà essere pressurizzato dall’interno, perché lei non dovrà essere sottoposta a quella pressione di migliaia di chilogrammi per centimetro quadrato dal fluido esterno.
— Non sono sicuro di seguirti.
— È solo un adattamento di… ha studiato fisica, vero?
— Un po’, alla facoltà di medicina. Era il corso in cui riuscivo peggio, dopo il latino.
— Ricorda il principio di equivalenza?
— Ricordo che c’era qualcosa che si chiamava così. Aveva a che fare con la relatività, no?
— Uh-uh. Significa che… non c’è differenza tra il trovarsi in un campo gravitazionale e il trovarsi in una struttura accelerata equivalente… Significa che quando l’Anniversary passa a cinque gravità, l’effetto su di noi è lo stesso ce se fosse ferma su un grosso pianeta, con una gravità superficiale di cinque g.
— Mi sembra ovvio.
— Forse sì. Vuol dire che a bordo nella nave nessun esperimento potrebbe indicarle se sta accelerando o se sta semplicemente fermo su un grosso pianeta.
— Sicuro che c’è. Potresti spegnere i motori e se…
— Oppure potrebbe guardare fuori, sicuro. Ma io mi riferivo a esperimenti in condizioni di laboratorio, isolato.
— Va bene. Lo accetto. E allora?
— Conosce la legge di Archimede?
— Sicuro, la falsa corona… È questo che mi ha sempre colpito, nella fisica: fanno un gran chiasso sulle cose più ovvie, e poi quando si arriva a quelle difficili…
— La Legge di Archimede afferma che quando si immerge qualcosa in un liquido, l’oggetto riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del liquido spostato.
— È logico.
— E questo vale per qualunque tipo di accelerazione o di gravità… In una nave lanciata a cinque gravità, l’acqua spostata, se è acqua, pesa cinque volte di più dell’acqua normale a una gravità.
— Sicuro.
— Quindi, se mette a galleggiare qualcuno in una vasca d’acqua, in modo che non abbia peso, continua a non averne anche quando l’astronave arriva a cinque gravità.
— Un momento, figliolo. Fin qui ci sono arrivato. Ma non funzionerebbe.
— Perché no? — Provai la tentazione di dirgli di occuparsi di pillole e di stetoscopi e di lasciare la fisica a me, ma fu un bene che mene stessi zitto.
— Cosa succede quando lasci cadere una chiave inglese a bordo di un sommergibile?
— Un sommergibile?
— Esatto. Anche quelli funzionano in base al principio di Archimede…
— Uhg! Ha ragione. Gesù. Non ci avevo pensato.
— La chiave inglese cade sul pavimento, esattamente come se il sommergibile non fosse privo di peso. — Doc Wilson guardò nel vuoto, battendo una matita sulla scrivania. — Quello che hai descritto è un sistema molto simile a quello che adoperiamo per curare i pazienti con gravi lesioni alla pelle… ustioni, per esempio… sulla Terra. Ma non offre nessun appoggio agli organi interni, a differenza dei gusci antiaccelerazione, perciò nel caso di Marygay non servirebbe a niente…
Mi alzai per andarmene. — Mi scusi se le ho fatto perdere…
— Fermati un momento. Forse potremmo sfruttare in parte la tua idea.
— E cioè?
Neanch’io ci avevo pensato bene. Naturalmente, il solito modo con cui usiamo i gusci per Marygay non andrebbe bene. — Preferivo non pensarci. Occorre un bel po’ di condizionamento ipnotico per starsene lì sdraiati con il fluorocarbonio ossigenato che ti entra a forza da tutti gli orifici naturali del corpo e da uno artificiale. Toccai la valvola innestata proprio sopra l’osso dell’anca.
— Già, è ovvio, la farebbe a pezzi… cioè, lei intende dire, la bassa pressione…
— È esatto. Non avremo bisogno di migliaia di atmosfere per proteggerla contro un’accelerazione in linea retta a cinque gravità; servono solo per tutte quelle sterzate e schivate… Adesso chiamo la Manutenzione. Scendi nel vano della tua squadra: adopereremo quello. Dalton ti raggiungerà lì.
Mancavano cinque minuti all’ingresso nel campo della collapsar, e io cominciai la sequenza dell’allagamento. Marygay e io eravamo soli, nei gusci; la mia presenza non era necessaria perché all’allagamento e allo svuotamento poteva provvedere il Controllo. Ma è meglio esagerare in fatto di precauzioni, e poi ci tenevo a essere lì.
Era molto meno orribile della procedura normale: non c’era la solita sensazione di essere schiacciati e di scoppiare. All’improvviso ti trovavi pieno di quella roba dall’odore di plastica (non te ne accorgevi, al primo momento, quando si precipitava dentro a sostituire l’aria nei polmoni); e poi c’era una leggera accelerazione, e poi stavi respirando di nuovo l’aria, in attesa che il guscio si aprisse. E poi staccare i cavi e aprire le chiusure lampo e uscire fuori…
Il guscio di Marygay era vuoto. Mi avvicinai e vidi del sangue.
— Ha avuto un’emorragia. — La voce di Doc Wilson echeggiava, sepolcrale. Mi voltai, con gli occhi che mi bruciavano, e lo vidi appoggiato alla porta. Orribilmente, inspiegabilmente, sorrideva.
— Proprio come avevamo previsto. La sta curando il dottor Harmony. Si rimetterà presto.
Dopo una settimana, Marygay camminava; dopo due "fraternizzava" e dopo sei fu dichiarata completamente guarita.
Dieci lunghi mesi nello spazio: esercito, esercito, esercito dal principio alla fine. Ginnastica, corvée prive di senso, lezioni obbligatorie… Si arrivò addirittura a parlare di rimettere in auge la lista dei posti letto, come all’addestramento, ma non ne fecero niente, forse per timore che ci ammutinassimo. Una nuova compagnia ogni notte non sarebbe andata bene per quelli che si erano sistemati in coppie più o meno stabili.
Tutte quelle scemenze, tutta quell’insistenza sulla disciplina militare, mi davano un gran fastidio, soprattutto perché avevo il sospetto che indicassero che l’esercito non aveva alcuna intenzione di lasciarci andare. Marygay diceva che la mia era un’ossessione paranoide: facevano così solo perché non c’era altro sistema per mantenere l’ordine per dieci mesi.
La conversazione, in genere, a parte i soliti mugugni contro l’esercito, verteva sulle ipotesi: quanto poteva essere cambiata la Terra, e che cosa avremmo fatto dopo esserci congedati. Saremmo stati abbastanza ricchi: ventisei anni di paga, tutti in una volta. E con gli interessi composti, i 500 dollari che ci dovevano per il primo mese d’arruolamento erano diventati più di 1500.
Arrivammo a Stargate verso la fine del 2023, data di Greenwich.
La base era cresciuta enormemente nei diciassette anni da quando eravamo partiti per la campagna di Yod-4. Adesso era un edificio grande quanto Tycho City, e ospitava quasi diecimila persone. C’erano settantotto incrociatori della classe dell’Anniversary o più grossi ancora, destinati a partecipare alle incursioni contro i pianeti portale tenuti dai taurani. Altri dieci montavano la guardia a Stargate, e due erano in orbita, in attesa che venissero preparati gli equipaggi e i contingenti di fanteria. Un’altra nave, la Earth’s Hope II, era tornata dal combattimento e aveva aspettato a Stargate un altro incrociatore, per il ritorno.
Aveva perso due terzi del personale, e sarebbe stato antieconomico rimandare un’astronave sulla Terra con sole trentanove persone a bordo. Trentanove borghesi.
Scendemmo sul pianeta con due ricognitori.
Il generale Botsford (il quale era soltanto maggiore quando l’avevamo conosciuto su Caronte, che allora era solo due baracche e ventiquattro tombe) ci ricevette in una sala per conferenze elegantemente arredata. Camminava avanti e indietro davanti a un enorme cubo olografico delle operazioni. Io riuscivo appena a distinguere le etichette, e mi stupiva vedere quanto fosse lontana Yod-4… ma naturalmente le distanze non contano, con i balzi da collapsar a collapsar. Avremmo impiegato dieci volte di più per arrivare ad Alpha Centauri, che era praticamente alla porta accanto, ma che non è una collapsar.
— Voi sapete… — disse, a voce troppo alta; e poi l’abbassò a un tono discorsivo. — Voi sapete che potremmo distribuirvi in altre forze d’attacco e farvi ripartire immediatamente. La Legge sulla Coscrizione Elitaria è stata cambiata: è stata estesa a cinque anni di servizio soggettivo, anziché a due.
"Non vi faremo uno scherzo simile ma, accidenti, non capisco proprio perché almeno alcuni di voi non vogliano restare sotto le armi. Un altro paio di annetti, e gli interessi composti vi renderebbero ricchi per tutta la vita. Sicuro, avete subito gravi perdite… ma era inevitabile: eravate i primi. Adesso tutto sarà più facile. Gli scafandri da combattimento sono stati perfezionati, conosciamo meglio le tattiche dei taurani, le nostre armi sono più efficienti… non c’è motivo di aver paura."
Sedette a capotavola e guardò lungo il suo asse, senza vedere nessuno. — I miei ricordi di combattimento risalgono a più di mezzo secolo fa. Per me era una cosa esaltante, entusiasmante. Devo essere un tipo molto diverso da voi.
O avere dei ricordi molto selettivi, pensai io.
— Comunque, lasciamo perdere. Posso offrirvi un’alternativa, che non comporta l’obbligo di combattere direttamente.
"Siamo a corto di istruttori qualificati. Anzi, potremmo dire che non ne abbiamo neanche uno… perché, idealmente, l’esercito vorrebbe che tutti gli istruttori fossero reduci da combattimenti.
"Voi avete avuto come istruttori i veterani del Vietnam e del Sinai, il più giovane dei quali aveva quarant’anni, quando avete lasciato la Terra. Ventisei anni fa. Perciò abbiamo bisogno di voi e siamo disposti a pagarvi bene.
"Se accettate di diventare istruttori, l’esercito vi offrirà il grado di tenente. Può essere sulla Terra, sulla Luna a paga doppia, su Caronte a paga tripla, o qui a Stargate a paga quadrupla. Inoltre, non è necessario che decidiate su due piedi. Farete tutti un viaggetto sulla Terra, gratis… vi invidio. Io non ci sono tornato da vent’anni, probabilmente non ci tornerò mai… E così potrete avere la soddisfazione di ritornare borghesi. Se non vi piacerà, non avrete altro da fare che entrare in una qualunque sede della FENU per uscirne come ufficiali. E con la libertà di scegliere l’assegnazione.
"Vedo che alcuni di voi sorridono. Penso che dovreste rimandare il giudizio. La Terra non è più come l’avete lasciata."
Si tolse dalla tunica un cartoncino e lo guardò con un mezzo sorriso. — Quasi tutti avete diritto a un accredito di quattrocentomila dollari, tra paga accumulata e interessi. Ma la Terra è sul piede di guerra, e naturalmente sono i cittadini della Terra che pagano le spese, con le tasse. Il vostro reddito vi colloca nella categoria che paga il novantadue per cento d’imposta. I trentaduemila dollari che vi restano potranno durarvi tre anni, se starete molto attenti a come li spendete.
"Poi dovrete cercarvi un lavoro, e l’unico lavoro per cui siete stati addestrati è questo. Non ce ne sono molti altri disponibili: la popolazione terrestre ha superato i nove miliardi, e i disoccupati sono cinque o sei miliardi. E la vostra preparazione è in ritardo di ventisei anni.
"Tenete presente, inoltre, che i vostri amici e le vostre amiche adesso hanno ventisei anni più di voi. Molti dei vostri parenti saranno morti. Immagino che vi sentirete molto soli.
"Ma per informarvi meglio sul conto della Terra, cedo la parola al sergente Siri, che è appena arrivato da laggiù. Sergente?"
— Grazie, generale. — Ebbi l’impressione che ci fosse qualcosa che non andava, nella sua faccia; e poi mi accorsi che aveva il fondo tinta e il rossetto. Le sue unghie erano lisce mandorle bianche.
— Non so da dove cominciare. — Il sergente si succhiò il labbro superiore e ci guardò aggrottando la fronte. — Le cose sono tanto cambiate, da quando ero bambino.
"Ho ventitré anni, e quindi non ero ancora nato, quando voi siete partiti per Aleph… Be’, tanto per cominciare, quanti di voi sono omosessuali? — Nessuno. — In verità, non mi sorprende. Io lo sono, però. — E non stava scherzando. — E credo che lo siano circa un terzo degli abitanti dell’Europa e dell’America settentrionale; ancora di più in India e nel Medio Oriente. Meno nell’America meridionale e in Cina.
"Quasi tutti i governi incoraggiano l’omosessualità, mentre le Nazioni Unite sono ufficialmente neutrali. L’incoraggiano soprattutto perché è l’unico metodo sicuro di controllo delle nascite."
La faccenda mi sembrava un po’ speciosa. Nell’esercito ti prelevano un campione di sperma, lo surgelano, e poi ti praticano la vasectomia. Un sistema assolutamente sicuro.
Quando studiavo, al campus c’erano parecchi omosessuali che sostenevano quell’argomento. E magari il metodo funzionava, a modo suo: mi sarei aspettato che la Terra avesse ben più di nove miliardi di abitanti.
— Quando sulla Terra mi hanno annunciato che avrei dovuto parlare con voi, ho fatto qualche ricerca, soprattutto leggendo i vecchi facsimili e le riviste.
"Molte delle cose di cui avevate paura, non si sono verificate. La fame, per esempio. Anche senza bisogno di sfruttare tutta la terra coltivabile e il mare, riusciamo a dar da mangiare a tutti, e potremmo provvedere anche a un numero doppio di persone. La tecnologia alimentare e la distribuzione imparziale di calorie… Quando voi avete lasciato la Terra c’erano milioni di persone che morivano lentamente di fame. Oggi non ce ne sono più.
"Eravate preoccupati per il crìmine. Ho letto che non si poteva girare per le strade di New York o di Londra o di Hong Kong senza una guardia del corpo. Ma adesso che tutti sono più istruiti e meglio assistiti, e che la psicometria è abbastanza progredita da identificare un delinquente potenziale all’età di sei anni, e da sottoporlo a un’efficace terapia correttiva… be’, il crimine è in costante declino da una ventina d’anni. Probabilmente, oggi nel mondo vengono commessi meno reati gravi di quanti se ne commettessero ai vostri tempi in una sola grande città…"
— Tutto questo va benissimo — interruppe in tono burbero il generale, facendo capire chiaramente che non andava bene affatto. — Ma non collima in modo esatto con quello che ho sentito dire io. Cos’è che chiama "reati gravi"? E gli altri reati?
— Oh, omicidio, aggressioni, violenza carnale: tutti i reati gravi contro la persona. Sono diminuiti enormemente. I reati contro la proprietà, piccoli furti, vandalismi, residenza illegale, questi sono ancora…
— Cosa diavolo è la "residenza illegale"?
Il sergente Siri esitò e poi disse, pudicamente: — Una persona non deve privare gli altri di uno spazio vitale acquisendo illegalmente delle proprietà.
Alexandrov alzò la mano. — Vuol dire che la proprietà privata non esiste più?
— Certo che esiste. Io… io ero proprietario del mio appartamento, prima di venire arruolato. — (Per qualche ragione inspiegabile, sembrava che l’argomento lo imbarazzasse. Nuovi tabù?) — Però ci sono dei limiti.
Luthuli: — E cosa fate ai criminali? A quelli colpevoli di gravi reati? Fate ancora la cancellazione del cervello, ai criminali?
Il sergente Siri sembrò lieto di cambiare argomento: — Oh, no. È considerato molto primitivo. Barbarico. Imprimiamo in loro una personalità nuova e sana; poi vengono reorientati e la società li assorbe senza pregiudizi. Funziona benissimo.
— Ci sono prigioni? — chiese Yukawa.
— Immagino che si potrebbe chiamare prigione un centro correzionale. Fino a quando non hanno terminato la terapia e non vengono rilasciati, gli individui vi vengono trattenuti contro la loro volontà. Comunque, si può osservare che sono finiti lì dentro a causa di un cattivo funzionamento di tale loro volontà.
Io non avevo in progetto di darmi a una vita criminale, perciò lo interrogai su quello che mi preoccupava di più. — Il generale ha detto che più di metà della popolazione campa di elemosine, e che noi non riusciremmo a trovare un lavoro. E allora?
— Non conosco l’espressione "elemosine". Immagino voglia alludere ai disoccupati che ricevono il sussidio governativo. È vero, il governo provvede a noi… io non avevo mai avuto un impiego, prima di venire arruolato. Ero compositore.
"Non vi rendete conto che il problema della disoccupazione cronica ha due facce? Al mondo e alla guerra potrebbero provvedere tranquillamente un miliardo di persone, due miliardi al massimo. Ciò non significa che gli altri se ne stiano in ozio.
"Ogni cittadino ha la possibilità di studiare gratuitamente fino a un massimo di diciotto anni… di cui quattordici obbligatori. Questo e la libertà dalla necessità di cercarsi un lavoro hanno causato una fioritura di attività culturali e artistiche su di una scala che non ha precedenti nella storia dell’umanità… Oggi ci sono più artisti e scrittori di quanti ne siano vissuti durante i primi duemila anni dell’èra cristiana. E le loro opere hanno un pubblico più ampio e più istruito di quanto fosse mai stato possibile in passato."
Valeva la pena di pensarci sopra. Rabi alzò la mano. — Avete già prodotto uno Shakespeare? Un Michelangelo? Il numero non è tutto.
Siri si scostò i capelli dagli occhi con un gesto tipicamente femminile. — Non è una domanda equa. Spetta ai posteri fare paragoni del genere.
— Sergente, quando abbiamo parlato, prima — disse il generale — non mi ha detto che abitava in un edificio che sembrava un enorme alveare, e che nessuno poteva vivere in campagna?
— Be’, signore, è vero che nessuno può abitare su terreni potenzialmente agricoli. E dove abito io, anzi dove abitavo, nel Complesso Atlanta, avevo sette milioni di vicini in quello che, tecnicamente, si potrebbe chiamare un edificio unico… ma non è che ci sentissimo troppo stretti. E si poteva scendere con l’ascensore quando si voleva, e passeggiare nei campi, arrivare anche fino al mare, volendo…
"Bisogna esserci preparati, ecco. Quasi tutte le città non sono più gli agglomerati caotici di edifici che c’erano una volta. Quasi tutte le grandi città sono bruciate durante i grandi disordini per la situazione alimentare nel 2004, prima che le Nazioni Unite si assumessero in proprio il compito di produrre e distribuire il cibo. I pianificatori delle città di solito hanno ricostruito secondo criteri moderni, funzionali.
"Parigi e Londra, per esempio, dovettero venire ricostruite completamente. E quasi tutte le altre capitali del mondo, sebbene Washington sia sopravvissuta. Tuttavia, è solo una massa di monumenti e di uffici: quasi tutti vivono nei complessi circostanti, Reston, Frederick, Columbia."
Poi Siri nominò varie città e cittadine — tutti volevano avere notizie della loro — e in generale sembrava che le cose andassero molto meglio di quanto avessimo previsto.
In risposta a una domanda indelicata, Siri disse che non si truccava solo perché era omosessuale: lo facevano tutti. Io decisi che mi sarei comportato da eccentrico, e mi sarei tenuto la mia faccia.
Ci unimmo ai superstiti della Earth’s Hope II e prendemmo quell’incrociatore per tornare sulla Terra, mentre gli specialisti studiavano le avarie dell’Anniversary. Il commodoro dovette presentarsi a una commissione d’inchiesta ma, a quanto venimmo a sapere, non finì davanti a una corte marziale.
La disciplina era molto allentata, durante il viaggio di ritorno. In quei mesi lessi trenta libri, imparai a giocare a Go, tenni un corso non ufficiale di fisica elementare — e non aggiornata — e mi legai ancora di più a Marygay.
Io non ci avevo pensato molto, ma ovviamente sulla Terra eravamo delle celebrità. Al Capo, il Segretario Generale ci accolse uno per uno, personalmente — era un vecchietto piccolo piccolo e nero nero che si chiamava Yakubu Ojukwu — e c’erano migliaia, forse milioni di spettatori, affollati il più vicino possibile al campo d’atterraggio.
Il Segretario Generale tenne un discorso alla folla e ai giornalisti; poi gli ufficiali della Earth’s Hope II blaterarono le stupidaggini prevedibili, mentre noi stavamo lì, più o meno pazientemente, in quel caldo tropicale.
Prendemmo un grosso elicottero per Jacksonville, dov’era l’aeroporto internazionale più vicino. La città era stata effettivamente ricostruita secondo i criteri che ci aveva descritto Siri. Non si poteva fare a meno di sentirsi impressionati.
Da lontano ci sembrò una montagna grigia, un cono lievemente irregolare, che saliva all’orizzonte e a poco a poco diventava più grande. Stava in mezzo a quella che sembrava un’interminabile coperta a patchwork di campi coltivati, e dozzine di strade e di ferrovie vi convergevano. L’occhio vedeva le strade, fini fili bianchi su cui strisciavano insetti infinitesimali, ma il cervello si rifiutava di integrare quell’informazione in una stima della grandezza di quel coso. Non poteva essere così grosso!
Continuammo ad avvicinarci, mentre le correnti ascensionali ci facevano ballare un po’, fino a quando l’edificio parve diventare un muraglione grigiochiaro che nascondeva completamente la visuale da una parte. Ci avvicinammo ancora e riuscimmo malapena a scorgere dei puntolini, che erano esseri umani; un puntolino era su un balcone, e forse agitava le braccia.
— Non possiamo avvicinarci di più — disse il pilota, nell’altoparlante — senza restare inseriti nel sistema di guida urbano. In tal caso, atterreremmo sul tetto. L’aeroporto è a nord. — Ci inclinammo in virata, attraverso l’ombra della città.
L’aeroporto non mi meravigliò molto. Era il più grande che avessi mai visto, ma di modello convenzionale: un terminal centrale come il mozzo d’una ruota, con le monorotaie che si stendevano per un chilometro o più fino ad altri terminal più piccoli, dove gli aerei caricavano e scaricavano. Scavalcammo completamente i terminal, atterrammo vicino a un aereo di linea stratosferico della Swissair, e andammo a piedi dall’elicottero all’aereo. C’erano i cordoni, lungo il percorso, ed eravamo circondati da una folla plaudente. Con sei miliardi di persone che campavano di sussidi di disoccupazione, non credo che avessero fatto molta fatica a mettere insieme una folla per una circostanza del genere.
Avevo una paura terribile che ci facessero subire altri discorsi, ma salimmo diritti a bordo. Steward e hostess ci portarono sandwich e bevande, mentre la folla veniva dispersa. E non ci sono parole per descrivere un sandwich d’insalata di pollo e una birra fresca dopo due anni di merda riciclata.
Mr Ojukwu ci spiegò che ci avrebbero portato a Ginevra, al Palazzo delle Nazioni Unite, dove quella sera saremmo stati onorati dall’Assemblea Generale. O messi in mostra, pensai io. Ci disse che molti di noi erano attesi dai parenti, a Ginevra.
Mentre prendevamo quota sopra l’Atlantico, l’acqua mi parve di un verde innaturale. Mi incuriosii e presi nota mentalmente di chiederlo alla hostess, ma poi capii da solo la ragione. Era una fattoria. Quattro grandi zattere (dovevano essere enormi, ma non sapevo a che quota ci trovassimo) si muovevano lentamente sulla superficie verde, in tandem, e ognuna lasciava una scia nerazzurra che svaniva lentamente. Prima che atterrassimo venni a sapere che erano alghe tropicali, coltivate come mangime per il bestiame.
Ginevra era un unico edificio, simile a Jacksonville, ma sembrava più piccola, forse per effetto delle montagne naturali che la circondavano. Era coperta di neve, e aveva una sua sommessa bellezza.
Camminammo per un minuto nella neve turbinante — era meraviglioso non trovarsi continuamente a "temperatura ambiente" — per arrivare a un elicottero che ci portò sul tetto dell’edificio; poi giù in ascensore, su un marciapiede mobile, giù con un altro ascensore, un altro marciapiede mobile, poi giù per un ampio corridoio fino alla Thantstrasse 281B, stanza 45, esattamente l’indirizzo che mi avevano dato. Il mio dito si accostò al campanello; avevo quasi paura.
Mi ero adattato abbastanza bene all’idea che mio padre era morto — l’esercito ci aveva dato queste notizie a Stargate — e non mi turbava molto la prospettiva di vedere mia madre diventata improvvisamente ottantaquattrenne. Poco mancò che me ne andassi in cerca di un bar per stordirmi, ma tirai diritto e premetti il pulsante.
La porta si aprì subito. Mia madre era più vecchia, ma non molto cambiata: qualche ruga in più e i capelli bianchi anziché grigi. Ci guardammo in faccia per un secondo e poi ci abbracciammo, e io provai sollievo e sorpresa nell’accorgermi che ero felice di vederla e di stringerla.
Ella mi tolse il mantello e mi spinse nel soggiorno dell’appartamento, e lì ebbi un vero trauma. Mio padre era là in piedi, sorridente ma serio, con l’inevitabile pipa in mano. Provai uno scatto di rabbia contro l’esercito che mi aveva comunicato erroneamente la sua morte… e poi capii che non poteva essere mio padre, dato che sembrava identico a come lo ricordavo dal tempo della mia infanzia.
— Michael? Mike?
Egli rise. — E chi, se no, Willy? — Mio fratello minore, ormai anziano. Non l’avevo più visto dal 1993, quando ero partito per il college. Lui allora aveva sedici anni; due anni dopo era andato sulla Luna con la FENU.
— Ti sei stancato della Luna? — chiesi, stringendogli la mano.
— Eh? Oh… no, Willy, ogni anno passo un mese o due sulla Terra. Non è più come una volta. — Ai tempi in cui avevano incominciato i reclutamenti per la Luna, era inteso che avresti fatto un solo viaggio di ritorno. Il carburante costava troppo caro perché ci fossero dei pendolari.
Sedemmo tutti e tre intorno a un tavolino di marmo, e Mamma passò le sigarette alla droga.
— Sono cambiate tante cose — dissi io, prima che cominciassero a farmi domande sulla guerra. — Raccontatemi tutto.
Mio fratello agitò le mani e rise. — Una bella pretesa! Hai a disposizione un paio di settimane? — Evidentemente faticava a farsi un’idea di come dovesse comportarsi con me. Ero suo nipote, o che cosa? Certo non ero più suo fratello maggiore.
— Comunque, non è a Michael che devi chiederlo — disse Mamma. — I lunatici parlano della Terra più o meno come le vergini parlano del sesso.
— Oh, Mamma…
— Con entusiasmo e ignoranza.
Accesi la sigaretta e aspirai una lunga boccata. Era stranamente dolce.
— I lunatici vivono sulla terra poche settimane all’anno, e passano metà del tempo a dirci come dovremmo far andare avanti le cose.
— Può darsi. Ma durante l’altra metà del tempo osserviamo. Obiettivamente.
— Ecco che arriva il numero dell’obiettività del mio Michael. lei sì appoggiò alla spalliera della poltrona e gli sorrise.
— Mamma, tu sai… oh, diavolo, lasciamo perdere. Willy ha tutto il resto della vita per capirci qualcosa. — Tirò una boccata della sigaretta, e notai che non aspirava il fumo. — Parlaci un po’ della guerra. Abbiamo saputo che hai fatto parte della forza d’attacco che ha combattuto i taurani. Faccia a faccia.
— Già. Non è stato gran che.
— Giusto — disse Mike. — Ho sentito dire che i taurani si sono comportati… da vigliacchi.
— Non esattamente. — Scossi la testa, per schiarirmi le idee. La marijuana mi metteva sonno e mi stordiva. — Era come se non avessero capito cosa succedeva. Sembrava un tiro a segno. Loro si mettevano in fila, e noi gli sparavamo.
— Com’è possibile? — chiese Mamma. — Il telegiornale disse che avevate perduto diciannove dei vostri.
— Hanno detto che sono stati uccisi in diciannove? Non è vero.
— Non ricordo, esattamente.
— Be’, abbiamo effettivamente perduto diciannove persone, ma solo quattro sono state uccise, e nella prima parte della battaglia, prima che ci rendessimo conto di come funzionavano le loro difese. — Decisi di non parlare del modo in cui era morto Chin. Sarebbe stato troppo complicato. — Degli altri quindici, uno è stato colpito da uno dei nostri laser. Ha perso un braccio, ma è sopravvissuto. Tutti gli altri… hanno perso la ragione.
— Cosa? Un’arma dei taurani? — domandò Mike.
— I taurani non c’entrano affatto! È stato l’esercito. Ci avevano condizionati a uccidere tutto quello che si muoveva, una volta che il sergente avesse fatto scattare il condizionamento con alcune parole chiave. Quando i nostri ne venivano fuori, non ce la facevano a sopportare il ricordo. L’idea di essere stati dei macellai. — Scrollai il capo con violenza, un paio di volte. La droga mi faceva fin troppo effetto.
— Sentite, scusatemi. — Mi alzai in piedi, un po’ a fatica. — Sono in piedi da venti…
— Ma certo, William. — Mamma mi prese per il gomito e mi pilotò in una camera da letto e promise di svegliarmi in tempo per i festeggiamenti della sera. Il letto era scandalosamente comodo, ma avrei dormito anche in piedi, appoggiato a un albero nodoso.
La stanchezza, la droga e una giornata troppo intensa; Mamma dovette svegliarmi spruzzandomi dell’acqua in faccia. Mi guidò davanti a un armadio e mi indicò due vestiti come i più adatti all’occasione. Scelsi quello color mattone — l’azzurro-polvere non mi andava — mi feci la doccia e la barba, rifiutai di truccarmi (Mike, che era imbellettato come una bambola, si offrì di aiutarmi); poi mi armai con il foglio delle istruzioni che spiegava come dovevo fare per arrivare all’Assemblea Generale, e me ne andai.
Lungo il percorso mi persi due volte, ma ad ogni crocicchio c’erano dei piccoli computer che fornivano le indicazioni in quattordici lingue.
L’abbigliamento maschile, secondo me, aveva fatto veramente un notevole passo indietro. Dalla vita in su non era tanto male: blusa aderente a collo alto e una corta cappa; ma poi c’era un’alta cintura che non serviva a niente, e dalla quale pendeva un pugnaletto ingemmato, buono forse per aprire le lettere; e poi i pantaloni che si gonfiavano in grandi pieghe e finivano rimboccati dentro a lucidi stivali di cuoio sintetico, a tacco alto, che arrivavano fin quasi al ginocchio. Se avessi avuto anche un cappello piumato, sono sicuro che Shakespeare mi avrebbe ingaggiato a prima vista.
Le donne andavano un po’ meglio. Incontrai Marygay davanti alla sala dell’Assemblea Generale.
— Mi sento completamente nuda, William.
— Però ti sta bene. Comunque, è la moda. — Quasi tutte le donne giovani che avevo incontrato indossavano abiti simili: una semplice camicia con grandi finestre rettangolari, ai lati, dalle ascelle all’orlo. L’orlo finiva dove cominciava l’immaginazione. Per quanto riguardava la difesa del pudore, quelle camicie richiedevano movimenti molto cauti e una grande fiducia nell’elettricità statica.
— Hai già visto la sala? — disse Marygay, prendendomi per un braccio. — Entriamo, Conquistador.
Varcammo le porte automatiche e io mi fermai di colpo. La sala era così grande che a entrarci si aveva l’impressione di essere all’aperto.
La pianta era circolare, e aveva un diametro superiore ai cento metri. Le pareti salivano per sessanta o settanta metri buoni, fino a una cupola trasparente, che ricordavo di avere visto durante l’atterraggio, e sulla quale danzavano e turbinavano vortici grigi di neve. Le pareti erano rivestite di piastrelle di ceramica a mosaico, dai colori sobri: migliaia di figure che rappresentavano cronologicamente le conquiste dell’umanità. Non so per quanto tempo rimasi lì a contemplarle.
Attraversammo la sala e raggiungemmo gli altri duri veterani che stavano prendendo il caffè. Era sintetico, ma sempre meglio della soia. Con mio grande disappunto, venni a sapere che il tabacco, ormai, veniva coltivato raramente sulla Terra: addirittura, a scelta delle autorità locali, era fuori legge in certe zone, per conservare la terra coltivabile. Quello che si poteva trovare costava carissimo e di solito faceva schifo, perché veniva coltivato da dilettanti negli orticelli o addirittura sui balconi. L’unico tabacco buono era quello lunare e aveva un prezzo, be’, astronomico.
La marijuana era abbondante e costava pochissimo. In certi paesi, come gli Stati Uniti, era gratuita: prodotta e distribuita dallo stesso governo.
Ne offrii una sigaretta a Marygay, e lei la rifiutò. — Bisogna che mi ci abitui un po’ per volta. Ne ho fumata una, prima, e per poco non mi ha stesa.
— Anche a me ha fatto lo stesso effetto.
Un vecchio in uniforme entrò nella sala: sul petto aveva una sgargiante macedonia di nastrini, e le spalle erano appesantite ciascuna da cinque stelle. Sorrise benignamente quando una metà dei presenti scattò in piedi. Io mi sentivo troppo borghese, e restai seduto.
— Buonasera, buonasera — disse lui, facendo segno di sedersi. — Sono felice di vedervi qui. Felice di vedere che siete tanti. — Tanti? Un po’ più della metà del numero con cui avevamo incominciato.
— Sono il generale Gary Manker, capo di stato maggiore della FENU. Fra cinque minuti entreremo lì — e accennò con la testa in direzione della sala dell’Assemblea Generale. — Ci sarà una breve cerimonia. Poi sarete tutti liberi di prendervi il meritato riposo: oziate per qualche mese, andate a vedere il mondo, fate quello che volete. Purché teniate alla larga i giornalisti.
"Prima che ve ne andiate, però, vorrei dirvi qualcosa a proposito di quello che avrete voglia di fare dopo questi mesi, quando vi sarete stancati di stare in vacanza, quando comincerete ad essere a corto di danaro… — Come era prevedibile, era la stessa solfa che il generale Botsford ci aveva ammannito a Stargate. — Avrete bisogno di trovare un lavoro, e questo è l’unico lavoro che avrete la certezza di ottenere."
Il generale se ne andò dopo averci annunciato che un suo aiutante sarebbe arrivato di lì a pochi minuti per intrupparci e portarci sul podio. Nell’attesa ci divertimmo a discutere i meriti della rafferma.
Saltò fuori che l’aiutante era una donna giovane e bella che non faticò molto a metterci allegramente in ordine alfabetico (sembrava che dei militari non avesse un’opinione più elevata della nostra) e a condurci in sala.
I delegati delle prime due file avevano lasciato a noi i loro banchi. Io mi sedetti nel posto riservato alla rappresentanza del Gambia e ascoltai, un po’ a disagio, i vari episodi di eroismo e di sacrificio. Il generale Manker esponeva i fatti in modo quasi sempre giusto, però adoperava delle parole leggermente inesatte.
Poi ci chiamarono su, uno a uno, e il dottor Ojukwu consegnò ad ognuno una medaglia d’oro che doveva pesare un chilo. Poi ci tenne un discorsetto sull’umanità unita nella causa comune, mentre le olocamere ci inquadravano con discrezione, a turno. Una visione ispiratrice per quelli che assistevano allo spettacolo da casa. Quindi uscimmo, sfilando tra scrosci d’applausi che mi sembrarono piuttosto opprimenti.
Avevo chiesto a Marygay, che non aveva parenti in vita, di venire a stare con me. C’era una gran folla intorno all’ingresso principale della sala, e quindi ce la filammo dall’altra parte, prendemmo il primo ascensore che trovammo, salimmo parecchi piani e ci perdemmo completamente su una successione di marciapiedi mobili e di altri ascensori. Poi ricorremmo ai piccoli computer dei crocicchi per trovare la strada di casa.
Avevo parlato a Mamma di Marygay e le avevo detto che probabilmente l’avrei portata con me. Si salutarono con calore, e Mamma ci sistemò in soggiorno con un paio di drink e poi andò a preparare la cena. Mike ci raggiunse.
— Troverete la Terra spaventosamente noiosa — disse, dopo i convenevoli d’uso.
— Non saprei — dissi io. — La vita, sotto le armi, non è precisamente affascinante. Qualunque cambiamento sarà…
— Non riuscirai a trovare un lavoro.
— Non nel campo della fisica, lo so: ventisei anni sono più o meno come un’èra geologica…
— Non riuscirai a trovare nessun lavoro.
— Be’, avevo pensato di ricominciare gli studi, magari di andare avanti… — Mike scuoteva il capo.
— Lascialo finire, William. — Marygay si agitò, inquieta. — Penso che sappia qualcosa che noi non sappiamo.
Mio fratello finì di bere e fece roteare il ghiaccio sul fondo del bicchiere, guardandolo fisso. — esatto. Vedete, la Luna è tutta della FENU, borghesi e militari, e ci divertiamo a scambiarci le notizie.
— È un vecchio passatempo militare.
— Uh-uh. Be’, ho sentito dire qualcosa sul vostro conto… — Fece un ampio gesto. — Sul conto di voi veterani, e mi sono preso la briga di controllare. Era proprio vero.
— Lieto di saperlo.
— Sì, immagino. — Mike depose il bicchiere, tirò fuori una sigaretta alla marijuana, la guardò e la rimise nel pacchetto. — La FENU è pronta a ricorrere a qualunque mezzo, meno che il rapimento, per riavervi tutti quanti. Sono loro che controllano la Commissione Collocamento, e potete essere sicuri che verrete giudicati poco qualificati o troppo qualificati per qualunque possibilità d’impiego che vi si offrisse. Eccetto che nell’esercito.
— È sicuro? — chiese Marygay. Ormai ne sapevamo troppo, tutti e due, per protestare che non potevano fare una cosa simile.
— Sicurissimo. Ho un amico nella divisione lunare della Commissione Collocamento. Mi ha mostrato la circolare: è redatta in modo molto elegante. Ma dice: "Non sono assolutamente ammesse eccezioni."
— Magari quando uscirò dalla scuola…
— Non ci entrerai mai, nella scuola. Non ce la farai mai a superare quel labirinto di criteri di qualificazione e di numeri chiusi. E se provassi a insistere, ti diranno che sei troppo vecchio… diavolo, io non potrei entrare in un corso di laurea alla mia età, e…
— Già, ho afferrato l’idea. Io ho due anni più di te.
— Esatto. Quindi la scelta è questa: o vivere per tutta la vita col sussidio di disoccupazione o tornare nell’esercito.
— Non se ne parla neanche — disse Marygay. — Sussidio di disoccupazione.
Mi dichiarai d’accordo. — Se cinque o sei miliardi di persone ce la fanno a campare decentemente senza una professione, posso farcela anch’io.
— Loro ci sono cresciuti dentro — disse Mike. — E non è detto che sia quella che tu chiameresti una vita decente. In generale, fanno i perdigiorno, fumano droga e guardano l’olovisione. Ricevono giusto il vitto sufficiente per controbilanciare le calorie consumate. Carne una volta la settimana, persino nella Categoria A.
— Non sarebbe una novità — dissi io. — Per quel che riguarda il vitto, almeno… È esattamente così che ci davano da mangiare nell’esercito.
"In quanto al resto, come hai appena detto tu, Marygay e io non ci siamo cresciuti, dentro. Non passeremmo il tempo a starcene seduti mezzi rimbecilliti dalle droghe a guardare l’olovisione tutto il giorno."
— Io dipingo — disse Marygay. — Ho sempre desiderato mettermi tranquilla e imparare a dipingere veramente bene.
— E io posso continuare a studiare fisica, anche senza rincorrere una laurea. E potrei darmi alla musica o mettermi a scrivere o… — Mi girai verso Marygay. — O a fare qualcuna delle cose di cui ci ha parlato il sergente a Stargate.
— Entrerete a far parte del Nuovo Rinascimento — disse Mike, con voce piatta, accendendo la pipa. Era tabacco e aveva un profumo delizioso.
Probabilmente notò il mio sguardo avido. — Oh, sono proprio un pessimo ospite. — Tirò fuori delle cartine dalla borsa e arrotolò una sigaretta con mosse esperte. — Ecco qui. Marygay?
— No, grazie… se procurarselo è difficile come dicono, non voglio riprendere l’abitudine.
Mike annuì e riaccese la pipa. — Non è mai servito a niente. È meglio abituarsi a rilassarsi senza ricorrere al tabacco. — Si rivolse a me. — L’esercito vi teneva a corto di sigarette per paura del cancro?
— Sicuro. — Non sarebbe stato simpatico morire in un modo così poco militare. Accesi la sottile sigaretta. — Molto buono.
— Migliore di quello che potrai procurarti sulla Terra. Anche la marijuana lunare è meglio. Non stordisce tanto.
Mamma entrò e venne a sedersi. — La cena sarà pronta fra pochi minuti. Ho sentito che Michael ha ricominciato a fare paragoni ingiusti.
— Perché ingiusti? Con la marijuana terrestre, bastano un paio di sigarette per ridurti a uno zombie.
— Correzione: ti ci riduci tu. È perché non ci sei abituato.
— Okay, okay. E un figlio non deve contraddire sua madre.
— No, quando ha ragione lei — disse Mamma, stranamente senza allegria. — Be’, ragazzi, vi piace il pesce?
Parlammo della fame che avevamo, un argomento abbastanza tranquillo, per un paio di minuti, e poi sedemmo davanti a un’enorme aragosta rossa alla griglia, servita su un letto di rìso. Era il primo pasto come si deve che io e Marygay facevamo dopo ventisei anni.
Come tutti gli altri, il giorno dopo fui intervistato dall’olovisione. Fu un’esperienza esasperante.
Commentatore: — Sergente Mandella, lei è uno dei militari più decorati della FENU. — (Verissimo, a Stargate ci avevano dato una manciata di nastrini a testa.) — Lei ha partecipato alla famosa campagna di Aleph, il primo vero contatto con i taurani, ed è appena ritornato da un attacco contro Yod-4.
Io: — Be’, non si può dire che…
Commentatore: — Prima di parlare di Yod-4, sono sicuro che al nostro pubblico interesserebbe moltissimo una sua impressione personale dei nemici, poiché è uno dei pochissimi che li ha incontrati faccia a faccia. Hanno un aspetto orribile, vero?
lo: — Be’, sì. Immagino che abbiate visto le foto. Quello che non mostrano, però, è il tipo di pelle. È scagliosa e ruvida come quella di una lucertola, però è arancione pallido.
Commentatore: — Che odore hanno? — Odore?
Io: — Non ne ho la minima idea. Dentro a uno scafandro si sente solo il proprio odore.
Commentatore: — Ah, ah, capisco. Quel che voglio sapere da lei, sergente, è quello che ha provato la prima volta che ha visto i nemici… Aveva paura di loro, era disgustato, infuriato o cosa?
— Be’, avevo paura, la prima volta, ed ero disgustato. Soprattutto la paura… ma prima della battaglia, quando un taurano ci è passato in volo sopra la testa. Durante la battaglia, eravamo sotto l’influenza di un condizionamento d’odio… ci avevano condizionati sulla Terra, e poi hanno fatto scattare la suggestione con una frase chiave… E io non sentivo altro che un furore artificiale.
— Li disprezzava… e non ha avuto pietà.
— Giusto. Li abbiamo assassinati tutti, sebbene non tentassero neppure di reagire. Ma quando ci hanno liberati dal condizionamento… be’, non riuscivamo a credere di esserci comportati da macellai. Quattordici dei nostri sono impazziti e tutti gli altri hanno tirato avanti per settimane a tranquillanti.
— Ah — fece il commentatore, con aria distratta, e guardò a lato per un momento. — Lei personalmente quanti ne ha uccisi?
— Quindici, venti… non lo so. Come ho detto, non eravamo padroni di noi. È stato un massacro.
Per tutta l’intervista, il commentatore mi era sembrato un po’ tardo, tendente a ripetersi. E quella sera scoprii il perché.
Marygay e io guardammo l’olovisione insieme a Mike. Mamma era uscita per farsi mettere qualche dente falso (pareva che i dentisti di Ginevra fossero migliori di quelli americani). La mia intervista era in un programma intitolato Pot-pourri, fra un documentario sulle culture idroponiche lunari e il concerto d’un tale che affermava di saper suonare la Doppia fantasia in la maggiore di Telemann con l’armonica. Mi chiesi se ci fosse qualcun altro, a Ginevra o in tutto il mondo, sintonizzato su quel programma.
Be’, il documentario sulle culture idroponiche era interessante e il suonatore d’armonica era un virtuoso, ma la mia intervista era uno schifo.
Commentatore: — Che odore hanno?
Io (fuori campo): — Orribile, una combinazione di verdura marcia e di zolfo. Il fetore penetra attraverso i tubi di scarico dello scafandro.
Mi aveva fatto parlare tanto per registrare un’ampissima gamma di suoni, e con un lavoretto di montaggio aveva ricavato le risposte che voleva lui alle sue domande.
— E come diavolo ha fatto? — chiesi a Mike quando la trasmissione finì.
— Non prendertela con lui — disse Mike, mentre guardava il musicista che, quadruplicato, suonava quattro diverse armoniche. Tutti i mass-media sono censurati dalla FENU. Sono dieci, dodici anni che la Terra non ha più notizie obiettive della guerra. È già tanto che non abbiano messo un attore al tuo posto e non gli abbiano dettato le battute.
— E sulla Luna va meglio?
— Per quanto riguarda le trasmissioni pubbliche, no. Ma poiché lì tutti sono legati alla FENU, è abbastanza facile scoprire quando mentono spudoratamente.
— Ha tagliato completamente la parte sul condizionamento.
— È comprensibile. — Mike alzò le spalle. — Hanno bisogno di eroi, non di automi.
L’intervista di Marygay venne trasmessa un’ora dopo, e anche con lei avevano fatto la stessa cosa. Ogni volta che aveva detto qualcosa contro la guerra o contro l’esercito, sullo schermo appariva un piano d’ascolto della donna che l’intervistava, e che annuiva con aria saggia mentre, fuori campo, una perfetta imitazione della voce di Marygay snocciolava una serie di stupidaggini.
La FENU ci pagava vitto e alloggio per cinque giorni a Ginevra, ed era un posto buono come un altro per cominciare l’esplorazione della nuova Terra. La mattina dopo ci procurammo una guida, che era un libretto spesso un centimetro, e prendemmo l’ascensore per il pianterreno, decisi ad arrivare fino al tetto senza farci sfuggire niente.
Il pianterreno era uno strano miscuglio di storia e d’industria pesante. La base dell’edificio copriva una buona parte di quella che era stata un tempo la città di Ginevra, e parecchi degli antichi edifici erano stati conservati.
In generale, però, era tutto baccano e trambusto: grossi camion che arrivavano dall’esterno, spargendo nuvole di neve; chiatte che sbattevano rombando contro i pilastri del molo (il fiume Rodano passa in mezzo a quella grande distesa); c’erano persino alcuni piccoli elicotteri che trafficavano di qua e di là, coordinando le operazioni e tenendosi alla larga dai sostegni e dalle travature che reggevano il cielo grigio del primo piano, quaranta metri più su.
Era una meraviglia, e saremmo rimasti a guardare per ore e ore, ma saremmo morti congelati in pochi minuti, con quelle cappe leggere che avevamo addosso, in quel vento e in quel freddo. Decidemmo che saremmo tornati un altro giorno, vestiti in modo più pesante.
Il piano di sopra veniva chiamato primo piano, contrariamente alla logica di noi americani. Marygay mi spiegò che in Europa lo hanno sempre numerato in quel modo. (Era buffo: ero stato a un migliaio di anni-luce dal Nuovo Messico, ma quella era la prima volta che avevo attraversato l’Atlantico). Era il cervello dell’organismo, dove stavano i burocrati e gli analisti del sistema e i loro aggeggi criogenici.
Ci fermammo in un grande atrio silenzioso che, stranamente, aveva odore di vetro. Una parete era occupata da un enorme cubo olovisivo che mostrava l’organigramma di Ginevra: un’esile piramide arancione con decine di migliaia di nomi collegati da linee, dal sindaco che stava in vetta fino agli "addetti alla sicurezza dei corridoi" che stavano alla base. I nomi si spegnevano e venivano sostituiti da altri, quando qualcuno moriva o veniva licenziato o promosso o retrocesso. Era una forma lucente e mutevole, e sembrava il sistema nervoso di una creatura fantastica. E in un certo senso, ovviamente, lo era.
Nella parete di fronte al cubo olovisivo c’era una vetrata affacciata su una grande sala: una targa la indicava come KONTROLLEZIMMER. Dietro la vetrata c’erano centinaia di tecnici, in file e colonne ben ordinate, ognuno con la sua console e un olovisore semipiatto circondato da quadranti e interruttori. La sala aveva un’atmosfera elettrica, indaffarata; quasi tutti avevano una cuffia con microfono incorporata, e parlavano con altri tecnici mentre scarabocchiavano su una tabella o manovravano gli interruttori; altri pestavano sui tasti della console, con la cuffia penzolante dal collo. C’erano pochissimi posti vuoti, e i loro proprietari se ne andavano in giro con aria d’importanza. Un distributore automatico di caffè percorreva lentamente una fila, per poi svoltare in quella seguente.
Attraverso il vetro si sentiva appena un lieve brusio, ma all’interno doveva esserci un baccano d’inferno.
Nell’atrio c’erano solo altre due persone, e le sentimmo dire che andavano a vedere "il cervello". Le seguimmo per un lungo corridoio fino a un’altra vetrata, più piccola in confronto a quella affacciata sulla Sala Controllo: dava sui computer che facevano funzionare Ginevra. L’unica illuminazione era costituita dalla fioca, fredda luce azzurra proveniente dalla sala sottostante.
La sala del computer era relativamente piccola, in confronto; più o meno come due campi da tennis. Gli elementi dei computer erano scatoloni grigi di varia grandezza, collegati da un labirinto di gallerie di vetro ad altezza d’uomo che avevano portelli a intervalli regolari. Evidentemente, quel sistema consentiva di accedere a un elemento per volta, per le riparazioni, mentre il resto della sala veniva mantenuto a una temperatura prossima allo zero assoluto, che favoriva la superconduttività.
Sebbene non ci fosse l’attività nervosa della sala controllo, e il frenetico trambusto del piano terreno, nella sua staticità la sala computer era più impressionante. Dava la sensazione di poteri immensi e inconoscibili saldamente imbrigliati: un tempio dell’ordine e dell’intelligenza.
Gli altri due visitatori ci dissero che a quel piano non c’era nient’altro di interessante, solo sale di riunione e uffici, e funzionari indaffarati. Tornammo all’ascensore e salimmo al secondo piano, che era il principale centro commerciale.
Lì la guida ci fu molto utile. La galleria era formata da centinaia di negozi e di mercati "all’aperto", disposti a griglia su una pianta rettangolare, con marciapiedi mobili che si intrecciavano e delimitavano i blocchi in cui erano radunati i negozi dello stesso tipo. Andammo sul corso principale, che era una capricciosa ricostruzione di un villaggio medievale. C’era una chiesa barocca, il cui campanile, grazie a un’illusione olografica, saliva fino al terzo e al quarto piano. Mosaici a muro con scene religiose primitive, ciottoli disposti in motivi complicati, una fontana con l’acqua che sgorgava dalle fauci dei mostri… Comprammo un grappolo d’uva da un fruttivendolo all’aperto (l’illusione svanì quando ritirò un biglietto con le calorie e timbrò il mio libretto annonario) e ci incamminammo lungo gli stretti marciapiedi di mattoni. Ci piacque moltissimo. Ero felice che la Terra avesse ancora il tempo, l’energia e le risorse per realizzare cose del genere.
C’era una scelta vastissima di oggetti e di servizi, e noi avevamo una quantità di danaro, ma avevamo perduto l’abitudine di fare acquisti, credo, e non sapevamo per quanto tempo sarebbe durato il nuovo patrimonio.
(Avevamo effettivamente un patrimonio, nonostante quello che ci aveva detto il generale Botsford. Il padre della Rogers era un avvocato fiscalista formidabile, e lei aveva passato parola: dovevamo pagare le tasse solo per la percentuale stabilita per il nostro reddito medio annuo. Così io mi ritrovavo con 280.000 dollari.)
Saltammo il terzo piano, che era riservato quasi tutto alle comunicazioni, perché l’avevamo girato e rigirato tutto il giorno prima, quando eravamo andati a fare le interviste. Io provai la tentazione di andare a scambiare due parole con il tale che mi aveva combinato lo scherzetto delle dichiarazioni, ma Marygay mi convinse che sarebbe stato inutile.
La montagna artificiale di Ginevra è fatta a gradini, come una torta nuziale: i primi tre piani e il pianterreno hanno un diametro di circa un chilometro e un’altezza di circa cento metri: dal quarto al trentaduesimo piano l’altezza è circa la stessa, ma il diametro è più o meno la metà. I piani dal trentatré al settantadue formano il cilindro superiore, circa 300 metri di diametro per 120 d’altezza.
Il quarto piano, come il trentatreesimo, è un parco: alberi, ruscelli, animaletti. Le pareti sono trasparenti, e quando c’è bel tempo vengono aperte, e il "cornicione", che è anche il tetto del terzo piano, è piantato a fitta foresta. Riposammo per un po’ accanto a un laghetto, guardando la gente che nuotava e gettando pezzetti d’uva ai pesciolini.
Qualcosa mi aveva turbato, subliminalmente, da quando eravamo arrivati a Ginevra; e all’improvviso, circondato da tutta quella gente simpatica, capii di cosa si trattava.
— Marygay — dissi — qui nessuno è infelice.
Ella sorrise. — Chi potrebbe essere triste in un posto come questo? Tutti i fiori e…
— No, no… Intendo dire in tutta Ginevra. Hai visto qualcuno che avesse l’aria insoddisfatta di come vanno le cose? Che…
— Tuo fratello…
— Sicuro, ma anche lui è forestiero. Volevo dire i commercianti e quelli che lavorano e quelli che oziano.
Lei assunse un’aria pensierosa. — Non ci avevo fatto caso. Forse è vero.
— Non ti sembra strano?
— È insolito… ma… — Gettò nell’acqua un chicco intero, e i pesciolini si dispersero. — Ricordi quello che ha detto il sergente omosessuale? Diagnosticano e correggono i tratti antisociali già nella prima infanzia. E quale persona razionale non sarebbe felice, qui?
Io sbuffai. — Metà di costoro sono disoccupati, e l’altra metà svolge dei lavori artificiosi, che sono inutili o che una macchina potrebbe fare assai meglio.
— Ma tutti hanno abbastanza da mangiare, e una quantità di cose di cui occuparsi. Ventisei anni fa non era così.
— Forse — dissi. Non avevo voglia di discutere. — Immagino che abbia ragione tu. — Comunque, la cosa mi infastidiva.
Passammo il resto di quel giorno e tutto il giorno seguente alla sede delle Nazioni Unite (in pratica la capitale del mondo) che occupava il cilindro superiore di Ginevra. Ci sarebbero volute parecchie settimane per vedere tutto. Diavolo, sarebbe stata necessaria una settimana intera solo per visitare il Museo dell’Uomo. Ogni paese ha il suo reparto, con un negozio che vende i prodotti tipici, e qualche volta anche un ristorante che serve i piatti caratteristici. Avevo temuto che le identità nazionali venissero sommerse, che quel nuovo mondo fosse abbondante in fatto di ordine e scarso in fatto di varietà. Ero lieto di essermi sbagliato.
Marygay e io fissammo un itinerario di viaggio mentre visitavamo le Nazioni Unite. Decidemmo di ritornare negli Stati Uniti e di trovare un posto dove stabilirci, e poi rimetterci di nuovo in viaggio per un paio di mesi.
Quando mi rivolsi a Mamma chiedendole consiglio su come dovevo fare per trovare un appartamento, mi sembrò stranamente imbarazzata, come a suo tempo il sergente Siri. Mi disse che avrebbe visto cosa si poteva trovare a Washington, dove sarebbe ritornata il giorno dopo; mio padre aveva lavorato là, e Mamma non aveva ritenuto di trasferirsi dopo ch’egli era morto.
Chiesi a Mike la ragione di quella riluttanza a parlare di alloggi, e lui disse che era una conseguenza degli anni caotici trascorsi tra le rivolte per il cibo e la Ricostruzione. Allora le abitazioni non erano sufficienti; la gente era costretta a vivere a due famiglie per stanza, persino nelle nazioni che erano state ricche. La situazione era instabile e alla fine erano entrate in scena le Nazioni Unite, prima con una campagna propagandistica, e poi con il condizionamento di massa, imponendo l’idea che era una virtù vivere in un’abitazione piccola il più possibile, e che era peccaminoso già desiderare vivere soli o in un’abitazione molto spaziosa. E così nessuno ne parlava.
Molti avevano ancora un residuo di condizionamento, sebbene fossero stati disintossicati oltre un decennio prima. In molti ambienti sociali era giudicato scorretto, imperdonabile o troppo ardito parlare di simili cose.
Mamma ritornò a Washington e Mike sulla Luna, e Marygay e io restammo a Ginevra ancora per un paio di giorni.
Scendemmo dall’aereo all’aeroporto Dulles e prendemmo la monorotaia per Rifton, la città satellite dove abitava Mamma.
Era piacevolmente piccola, dopo Ginevra, sebbene si estendesse su di un’area molto più vasta. Era un simpatico miscuglio di edifici di tipo diverso, quasi tutti a pochi piani, circondati dagli alberi e disposti intorno a un lago. Tutte le costruzioni erano collegate a mezzo di marciapiedi mobili con l’edificio più grande, una cupola dove c’erano i negozi, le scuole e gli uffici. Lì trovammo una guida che ci disse come dovevamo fare per arrivare a casa di Mamma, un duplex sul lago.
Avremmo potuto salire sul marciapiede mobile coperto, ma invece andammo a piedi, costeggiandolo, nella buona aria fredda che odorava di foglie cadute. Al di là della plastica la gente scivolava via sul suo marciapiede, evitando scrupolosamente di guardarci.
Mamma non venne ad aprire la porta, ma scoprimmo che non era chiusa a chiave. Era un appartamentino comodo, molto spazioso in confronto alle cabine delle astronavi, e pieno di mobili del Ventesimo secolo. Mamma dormiva in camera da letto, e Marygay e io ci sedemmo in soggiorno e leggemmo, per un po’.
All’improvviso ci fece trasalire un forte attacco di tosse: veniva dalla stanza da letto. Corsi a bussare all’uscio.
— William? Non sapevo… — Tossendo. — Vieni avanti, non sapevo che fossi…
Era semisdraiata sul letto, con tanti cuscini, la luce accesa, circondata da varie panacee. Aveva un aspetto orribile: era pallidissima, tutta rughe.
Accese una sigaretta drogata, che sembrò calmare la tosse. — Quando sei entrato? Non sapevo…
— Solo pochi minuti fa… Da quando ce l’hai… Da quando sei ammalata…
— Oh, è solo qualcosa che devo aver preso a Ginevra. Mi rimetterò in un paio di giorni. — Ricominciò a tossire, bevve un po’ di denso sciroppo rosso da una bottiglia. Tutte le sue medicine sembravano del tipo comune, commerciale.
— Hai chiamato un dottore?
— Un dottore? Santo cielo, no, Willy. Loro non… non è grave… Non…
— Non è grave? — A ottantaquattro anni. — Per amor di Dio, Mamma.
Andai al telefono, in cucina, e con qualche difficoltà riuscii a mettermi in contatto con l’ospedale.
Nel cubo si formò una ragazza dall’aria scialba, sulla ventina. — Infermiera Donalson, servizio pubblico. — Aveva un sorriso fisso, un’aria di sincerità professionale. Ma, se è solo per questo, sorridevano tutti.
— Mia madre ha bisogno di un medico. Ha un…
— Nome e numero, prego.
— Bette Mandella. — Dettai il nome lettera per lettera. — Quale numero?
— Quello del servizio medico, naturalmente — sorrise la ragazza.
Chiamai Mamma e le chiesi qual era il suo numero. — Dice che non lo ricorda.
— Non importa, signore. Troverò lo stesso il fascicolo. — Spostò il suo sorriso a una tastiera che aveva accanto a sé, e batté qualcosa.
— Bette Mandella? — disse, mentre il sorriso diventava interrogativo. — E lei è suo figlio? Sua madre deve avere passato gli ottant’anni.
— Per favore. È una storia lunga. E mia madre ha veramente bisogno di un medico.
— È uno scherzo?
— Cosa vorrebbe dire? — Ancora una tosse strangolata, dalla camera da letto, ancora peggio. — Davvero… può essere una cosa molto grave, bisogna…
— Ma, signore, Mrs. Mandella ha avuto una classificazione di priorità zero fin dal 2010.
— E cosa diavolo vorrebbe dire?
— Si-gno-re… — Il sorriso si indurì.
— Senta. Faccia finta che io arrivi da un altro pianeta. Che cos’è una "classificazione di priorità zero"?
— Un altro… oh! Io la conosco! — Guardò fuori campo, verso sinistra. — Sonya… vieni un secondo. Non indovineresti mai chi… — Un’altra faccia comparve nel cubo: una bionda svampita il cui sorriso era identico a quello dell’altra infermiera. — Ricordi? Sul giornale di stamattina?
— Oh, sicuro — fece la bionda. — Uno dei soldati… ehi, questo è grande, proprio grande. — La testa si ritirò.
— Oh, Mr Mandella — disse la prima infermiera, in tono espansivo. — Non mi sorprende che lei sia confuso. In realtà è molto semplice.
— E allora?
— Fa parte del Servizio Assistenza Medica Universale. Tutti vengono classificati, al compimento del settantesimo anno di età. Arriva automaticamente da Ginevra.
— E cosa classifica? Che cosa significa? — Ma l’orribile verità era già evidente.
— Be’, stabilisce l’importanza della persona e il livello di trattamento cui ha diritto. La classe tre è come per tutti; la classe due è lo stesso, a parte certi trattamenti di prolungamento della vita…
— E la classe zero non ha diritto a nessuna cura.
— Esatto, Mr Mandella. — E nel suo sorriso non c’era un barlume di pietà o di comprensione.
— Grazie. — Tolsi la comunicazione. Marygay era dietro di me e piangeva in silenzio, a bocca aperta.
Trovai una bombola d’ossigeno per alpinisti in un negozio d’articoli sportivi, e riuscii persino a procurarmi un po’ di antibiotici al mercato nero, per mezzo di un tale che scovai in un bar di Washington. Ma Mamma non era più in grado di reagire a una cura improvvisata da un dilettante. Visse ancora quattro giorni. Quelli del crematorio avevano lo stesso sorriso fisso.
Cercai di parlare con Mike, ma la compagnia dei telefoni non mi permise di effettuare la chiamata fino a quando non ebbi firmato un contratto e rimesso un assegno di 25.000 dollari. Dovetti farmi trasferire il credito da Ginevra. Le pratiche portarono via mezza giornata.
Finalmente riuscii a parlare con lui. Senza preamboli:
— Mamma è morta.
Per una frazione di secondo, le onde radio salirono fino alla luna, e dopo un’altra frazione di secondo ritornarono. Mike trasalì, poi chinò il capo lentamente. — Non mi sorprende. Ogni volta che tornavo sulla Terra, negli ultimi dieci anni, mi chiedevo se l’avrei trovata ancora. Nessuno di noi aveva abbastanza danaro per tenerci in contatto. — A Ginevra ci aveva spiegato che una lettera dalla Luna alla Terra costava 100 dollari di tariffa postale… più 5000 di tasse. Serviva a scoraggiare le comunicazioni con quello che le Nazioni Unite consideravano un branco di anarchici sfortunatamente indispensabili.
Ci commiserammo a vicenda per un po’, poi Mike disse: — Willy, la Terra non è un posto per te e per Marygay; ormai l’avete capito. Venite sulla Luna, dove si può ancora avere una personalità. Dove non buttiamo fuori dal portello la gente quando arriva a settant’anni.
— Dovremmo rientrare nella FENU.
— È vero, ma non dovreste più combattere. Dicono che hanno bisogno di voi come istruttori. E tu potresti studiare, a tempo perso, metterti al corrente dei progressi della fisica… e magari, più tardi, passare alla ricerca.
Parlammo ancora un po’, per un totale di tre minuti. Mi furono restituiti 1000 dollari.
Marygay e io ne parlammo per tutta la notte. Forse la nostra decisione sarebbe stata diversa se non fossimo stati lì, circondati dalla vita e dalla morte di Mamma: ma quando arrivò l’alba, la bellezza fiera, ambiziosa e perfetta della cittadina di Rifton era diventata sinistra, malaugurante.
Facemmo le valigie, trasferimmo il nostro conto alla Credit Union di Tycho e prendemmo la monorotaia per il Capo.
— Nel caso che vi interessi, non siete i soli veterani che sono venuti a reingaggiarsi. — L’ufficiale addetto al reclutamento era un tenente muscoloso di genere imprecisato. Gettai mentalmente in aria una moneta, e venne croce: femmina.
— Secondo le ultime notizie, ce ne sono stati già altri nove — disse con la sua voce da tenore rauco. — E tutti hanno optato per la Luna… Magari ci troverete qualcuno dei vostri amici. — Passò attraverso la scrivania due semplici moduli. — Firmateli e sarete di nuovo nell’esercito. Con il grado di secondo tenente.
Il modulo era una semplice richiesta di venire assegnati al servizio attivo; in realtà la FENU non ci aveva mai mollati, perché la legge sulla coscrizione era stata estesa, ed eravamo semplicemente in licenza indefinita. Scrutai attentamente il foglio.
— Qui non ci sono le garanzie che ci avevano promesso a Stargate.
— Quali garanzie? — lei aveva quel sorriso meccanico che era così tipico della Terra.
— Ci avevano garantito la scelta dell’incarico e della sede. Su questo contratto non c’è niente.
— Non sarà necessario. La FENU…
— Io lo ritengo necessario, tenente. — Restituii il modulo. Lo restituì anche Marygay.
— Lasciatemi controllare. — Quella lasciò la scrivania e sparì in un ufficio. Rimase al telefono per un po’, e poi sentimmo ticchettare una stampatrice.
Ci riportò gli stessi due fogli, con una clausola aggiunta a macchina sotto i nostri nomi:
GARANTITI SEDE SCELTA (LUNA) E INCARICO SCELTO (SPECIALISTA ISTRUTTORE DI COMBATTIMENTO).
Ci fecero una scrupolosa visita medica e ci adattarono degli scafandri da combattimento nuovi. La mattina dopo prendemmo il primo servizio navetta per l’orbita, ci godemmo per qualche ora la gravità zero mentre trasferivano il carico su una navetta a tachioni, e poi sfrecciammo verso la Luna e scendemmo alla Base Grimaldi.
Sulla porta dell’Alloggio Ufficiali in Transito, qualche spiritoso aveva scarabocchiato: "Lasciate ogni speranza, o voi che entrate." Trovammo un cubicolo per due persone e cominciammo a cambiarci per il rancio.
Due colpi all’uscio. — Posta, signori.
Aprii la porta e il sergente che aveva bussato salutò. Lo fissai per un secondo e poi ricordai che ero un ufficiale e ricambiai il saluto. Mi consegnò due fax, identici. Ne diedi uno a Marygay. I nostri cuori dovettero fermarsi simultaneamente:
**ORDINI**ORDINI**ORDINI**ORDINI**ORDINI**
IL PERSONALE SOTTO ELENCATO:
Mandella William 2°TEN (11 575 278) COCOM D COMP GRIATRNS
Potter Marygay 2°TEN (17 386 907) COCOM B COMP GRIATRNS
È RIASSEGNATO A:
2°TEN Mandella: PLCOM 2 PL FDATHETA STARGATE
2°TEN Potter: PLCOM 3 PL FDATHETA STARGATE
PER: comando plotone fanteria nella campagna di Tet-2.
IL PERSONALE SOPRA ELENCATO SI PRESENTI IMMEDIATAMENTE AL BATTAGLIONE TRASPORTO GRIMALDI PER VENIRE TRASPORTATO ALLA NUOVA SEDE.
DA STARGATE TACCBD-1298-8684-1450/4 dicembre 2024 SG ETO: il Comandante FDACOM
**ORDINI**ORDINI**ORDINI**ORDINI**ORDINI**
— Non hanno perso tempo, vero? — disse amaramente Marygay.
— Deve essere un ordine generale. Il Comando della Forza d’Attacco è lontano da qui diverse settimane-luce. Non possono neppure sapere che ci siamo arruolati di nuovo.
— E la nostra… — Marygay non finì la frase.
La garanzia. — Be’, ci hanno dato davvero l’incarico che avevamo scelto. Nessuno aveva garantito che l’avremmo tenuto per più di un’ora.
— È uno schifo.
Scrollai le spalle. — È l’esercito. — Ma avevo due sensazioni inquietanti:
Che avessimo sempre saputo quello che sarebbe successo.
Che stavamo tornando a casa.