Ursula Le Guin I venti di Earthsea

Nell’Ovest oltre l’Ovest

oltre la terra

la mia gente sta danzando

sull’altro vento.

Canzone della donna di Kemay

1 Riparando la brocca verde

Vele lunghe e bianche come ali di cigno portarono la nave Farflyer nell’aria estiva, attraverso la baia, dalle scogliere di Armed Cliffs verso Gont Port. L’imbarcazione scivolò sull’acqua cheta oltre il molo, una creatura del vento così sicura e aggraziata che un paio di cittadini intenti a pescare sul vecchio pontile la accolsero acclamando, agitando la mano per salutare i membri dell’equipaggio e l’unico passeggero in piedi a prua.

L’uomo era di corporatura sottile, con uno zaino smilzo e un vecchio mantello nero, probabilmente uno stregone o un modesto commerciante, non certo una persona ragguardevole. I due pescatori osservarono il trambusto sul molo e sul ponte della nave mentre la Farflyer si preparava a scaricare le stive, e si limitarono a lanciare un’occhiata al passeggero con scarsa curiosità quando questi lasciò la nave e uno dei marinai fece un gesto alle sue spalle, pollice e indice e mignolo della mano sinistra puntati tutti verso di lui, a significare: "Mi auguro di non vederti mai più!".

L’uomo esitò sul molo, mise in spalla lo zaino e s’incamminò per le strade di Gont Port. Erano vie piene di attività, e subito giunse al mercato del pesce, tra schiamazzi di venditori e clienti che contrattavano, avanzando sulle pietre del selciato che luccicavano di squame e di acqua salmastra. Se aveva una direzione da seguire, ben presto si smarrì in mezzo ai carretti e alle bancarelle, alla folla e agli occhi spenti del pesce morto.

Una vecchia piuttosto alta si scostò da una bancarella dopo avere oltraggiato la freschezza delle aringhe e la veridicità della pescivendola. Vedendo che la donna lo fissava torva, lo straniero chiese male accorto: — Saresti così gentile da indicarmi che strada prendere per andare a Re Albi?

— Diamine, vai ad affogarti in una pozza di broda per maiali, tanto per cominciare — sbottò la vecchia, e si allontanò a grandi passi, lasciando l’uomo stupefatto e allibito. Ma la pescivendola, approfittando della circostanza per dimostrare la propria virtù, vociò: — Re Albi, eh? Vuoi andare a Re Albi, eh? Basta chiedere! La casa del vecchio mago, ecco cosa cerchi a Re Albi, secondo me. Sì, dev’essere così. Bene, vai là a quell’angolo e poi sali per via delle Anguille finché non arrivi alla torre…

Dopo che lo straniero ebbe lasciato il mercato, delle strade ampie in salita lo portarono oltre la massiccia torre d’osservazione, fino a una porta della città. Due draghi di pietra a grandezza naturale sorvegliavano il passaggio, denti lunghi quanto il suo avambraccio, occhi scolpiti che fissavano torvi e ciechi la città e la baia. Una sentinella in ozio gli disse che girando a sinistra in cima al viale, si sarebbe trovato a Re Albi. — Prosegui e attraversa il villaggio per raggiungere la casa del vecchio mago — aggiunse il guardiano.

Così il forestiero arrancò lungo la strada, che era piuttosto ripida, e camminando osservò i pendii più scoscesi e il picco lontano del monte Gont, che sovrastava l’isola come una nuvola.

La via era lunga ed era una giornata assai calda. Ben presto l’uomo si tolse il mantello nero e proseguì a capo scoperto in maniche di camicia; non aveva pensato di procurarsi dell’acqua o comprare del cibo, forse per un eccesso di diffidenza e ritrosia, essendo un uomo che non aveva dimestichezza con le città e che non si sentiva a proprio agio con gli sconosciuti.

Dopo parecchie miglia raggiunse un carro che aveva visto a lungo davanti a sé sulla strada polverosa, come una macchia scura in una nuvola di polvere. Il carretto cigolava e scricchiolava, trainato lentamente da un paio di piccoli buoi che parevano vecchi, rassegnati e grinzosi come tartarughe. Lo straniero salutò il carrettiere, che assomigliava ai suoi animali. Quello non disse nulla, ma batté le palpebre.

— Per caso, non c’è una sorgente lungo la strada? — chiese il forestiero.

L’altro scosse lentamente la testa. Trascorso parecchio tempo, disse: — No. — E alcuni istanti dopo, soggiunse: — Non c’è nessuna sorgente.

Proseguirono entrambi, arrancando. Scoraggiato, lo straniero stentava a procedere più veloce dei buoi; l’andatura era di circa un miglio all’ora, forse.

Si rese conto che il carrettiere, muto, gli stava porgendo qualcosa: una grossa brocca di creta, fasciata di vimini. La prese e, constatato che era molto pesante, bevve a volontà; quando la restituì, ringraziando, il peso della brocca era diminuito pochissimo.

— Sali — disse poco dopo quello.

— Grazie. Continuo a piedi. Quanto dista ancora Re Albi?

Le ruote cigolarono. I buoi fecero un sospiro profondo, prima uno, poi l’altro. La loro pelle impolverata aveva un odore gradevole sotto il sole caldo.

— Dieci miglia — rispose il carrettiere. Rifletté, e disse: — O dodici… — Dopo una pausa, concluse: — Non meno di una dozzina.

— Meglio che continui a piedi, allora — fece lo straniero.

Ristorato dall’acqua, riuscì a distanziare i buoi, ma gli animali, il carro e il carrettiere erano ormai parecchio indietro quando sentì l’uomo che nuovamente gli si rivolgeva. — Stai andando dal vecchio mago — disse. Se era una domanda, non sembrava richiedere una risposta. Il viaggiatore proseguì.

Quando aveva imboccato la strada, vi si posava ancora la grande ombra della montagna, ma quando girò a sinistra verso il piccolo villaggio che immaginava fosse Re Albi, il sole sfolgorava nel cielo a ovest, e sotto di esso il mare era come acciaio.

C’erano delle casette sparse, una piccola piazza polverosa, una fontana da cui zampillava un rivoletto d’acqua. Lo straniero si diresse verso di essa, bevve più volte unendo le mani, mise la testa sotto lo zampillo, si strofinò i capelli con l’acqua fresca e lasciò che gli scorresse lungo le braccia; si sedette poi sul bordo di pietra della fontana, osservato in silenzio e con attenzione da tre ragazzini sporchi, due maschi e una femmina.

— Non è il maniscalco — disse uno di loro.

Il viaggiatore si pettinò i capelli bagnati, con le dita.

— Andrà a casa del vecchio mago, stupido — disse la ragazzina.

— Iaauuhh! — fece il bambino, e torse la faccia in una smorfia orribile tirandola con una mano, mentre con l’altra artigliava l’aria.

— Attento, Stony — disse il secondo ragazzine.

— Ti porto là — propose la bambina al viaggiatore.

— Grazie — annuì lo straniero, e si alzò stancamente.

— Non ha nessun bastone, vedi? — disse uno dei due maschi, e l’altro replicò: — Mai detto il contrario. — Con occhi cupi, osservarono entrambi il forestiero che seguiva la bambina e usciva dal villaggio. Si muovevanoverso un sentiero che andava a nord passando tra pascoli rocciosi che digradavano erti a sinistra.

Il sole sfolgorava sul mare. Lo straniero era abbagliato, e l’orizzonte elevato e il vento che soffiava gli procuravano un senso di vertigine. La ragazzina era una piccola ombra saltellante davanti a lui. Si fermò.

— Andiamo — lo esortò lei, ma si fermò a sua volta. Lui la raggiunse lungo il sentiero. — È là — indicò. Lo straniero vide una casa di legno vicino all’orlo della scogliera, ancora un po’ distante.

— Io non ho paura — disse la ragazzina. — Vado a prendere le loro uova spessissimo, e poi il padre di Stony le porta al mercato. Una volta lei mi ha dato delle pesche: la vecchia signora. Stony dice che le ho rubate, ma io non rubo mai. Su, vai. Lei non c’è. Non c’è nemmeno l’altra.

Rimase immobile, indicando la casa.

— Non c’è nessuno, là?

— C’è il vecchio. Il vecchio Sparviere.

L’uomo proseguì. La bambina restò a osservarlo finché non scomparve dietro l’angolo della casa.


Due capre fissarono lo straniero da un ripido campo cintato. Un gruppetto di galline e pulcini beccavano e pigolavano sommessamente qui e là nell’erba alta sotto peschi e susini. Su una scaletta appoggiata al tronco di un albero c’era un uomo; la testa era nascosta dalle foglie, e il viaggiatore vide solo le sue gambe brune e nude.

— Salve — disse, ripetendo poco dopo il saluto e alzando un poco la voce.

Le foglie si mossero, e l’uomo scese svelto dalla scala. Teneva una manciata di susine, e quando si staccò dalla scala, scacciò un paio di api attirate dal succo. Si avvicinò; era un uomo basso, dalla schiena dritta, con capelli grigi legati sulla nuca e una bella faccia segnata dal tempo. Dimostrava una settantina d’anni. Delle vecchie cicatrici, quattro linee bianche, andavano dallo zigomo sinistro alla mascella. Il suo sguardo era limpido, franco, intenso. — Sono mature… anche se domani saranno ancora più buone — disse. E porse la manciata di piccole susine gialle.

— Lord Sparviere — esordì rauco lo straniero. — Arcimago…

Il vecchio annuì brusco. — Vieni all’ombra.

L’uomo lo seguì e fece quello che l’anziano lo invitò a fare: si sedette su una panca di legno all’ombra dell’albero nodoso più vicino alla casa; accettò la frutta, ora sciacquata e servita in un cesto e ne assaggiò un po’. Interrogato, ammise di non avere mangiato nulla quel giorno. Rimase seduto mentre il padrone di casa entrava nell’abitazione e usciva poco dopo con pane e formaggio e mezza cipolla. L’ospite mangiò e bevve una tazza di acqua fresca portatagli dal vecchio. Il vecchio prese qualche susina per fargli compagnia.

— Sembri stanco. Da dove arrivi?

— Da Roke.

L’espressione del vecchio era difficile da interpretare. Si limitò a dire: — Non l’avrei mai immaginato.

— Io sono di Taon, signore. Sono andato da Taon a Roke. E là il lord strutturatore mi ha detto di venire qui. Da te.

— Perché?

Era uno sguardo che incuteva timore.

— Perché tu hai attraversato vivo la terra oscura… - La voce rauca dello straniero si spense.

Il vecchio terminò la frase. — E sono giunto ai lidi lontani del giorno. Sì. Ma quella era una profezia che annunciava l’avvento del nostro re, Lebannen.

— Tu eri con lui, signore.

— Certo. E lui ha acquisito il suo regno, là. Ma io, là, ho lasciato il mio. Quindi, non chiamarmi con nessun titolo. Sparviere, soltanto. E io come devo, chiamarti?

L’uomo sussurrò il proprio nome d’uso. — Alder.

Il cibo, l’acqua, l’ombra e il fatto di potersi sedere gli avevano chiaramente giovato, però aveva ancora un’aria esausta. C’era in lui una tristezza logorante; gli si leggeva chiaro sul viso.

Il vecchio si era rivolto con un tono tagliente, che però era scomparso quando disse: — Rimandiamo la discussione a un altro momento. Tu hai navigato per quasi mille miglia, e ne hai fatte quindici camminando in salita. E io devo innaffiare i fagioli e la lattuga e tutto il resto, dato che mia moglie e mia figlia hanno affidato a me la cura dell’orto. Quindi, riposa un poco. Possiamo parlare con il fresco della sera. O con il fresco del mattino. È raro che ci sia tutta la fretta che un tempo pensavo ci fosse.

Quando tornò mezz’ora dopo, il suo ospite dormiva steso sull’erba fresca sotto i peschi.

L’uomo che era stato arcimago di Earthsea si fermò con un secchio in una mano e una zappa nell’altra, e osservò lo straniero addormentato.

— Alder — bisbigliò. — Qual è il guaio che ti porti appresso, Alder?

Gli sembrava che se avesse voluto sapere il vero nome di quell’uomo, l’avrebbe conosciuto solo pensando, applicandosi con la mente, come avrebbe potuto fare quando era un mago.

Ma non conosceva quel nome, e non lo avrebbe ottenuto concentrandosi, non era un mago.

Non sapeva nulla di quell’Alder, e avrebbe dovuto aspettare che fosse lui stesso a raccontargli. — Mai disturbare i guai che dormono — si disse, e andò a innaffiare i fagioli.


Non appena la luce del sole fu bloccata da una bassa parete di roccia che correva lungo la sommità della scogliera accanto alla casa, il fresco dell’ombra destò il dormiente. L’uomo si drizzò a sedere con un brivido, poi si alzò in piedi, un po’ indolenzito e confusa, con dei semi d’erba tra i capelli. Vedendo che il padrone di casa stava riempiendo dei secchi al pozzo e li portava a fatica nell’orto, andò ad aiutarlo.

— Altri tre o quattro secchi dovrebbero bastare — disse l’ex arcimago, dando acqua con parsimonia alle radici di una fila di giovani cavoli. L’odore del terriccio bagnato era piacevole nell’aria secca e calda. La luce del sole che volgeva al tramonto formava chiazze dorate irregolari sul terreno.

Si sedettero su una lunga panca vicino alla porta della casa per assistere al calar del sole. Sparviere aveva portato fuori una bottiglia e due bicchieri tozzi e spessi di vetro verdognolo. — Il vino del figlio di mia moglie — disse. — Viene da Oak Farm, nella valle Centrale. Una buona annata, sette anni fa. — Era un vino rosso forte che riscaldò subito Alder. Il sole tramontò in un cielo limpido e tranquillo. Gli uccelli sugli alberi del frutteto emisero alcune note conclusive.

Alder era rimasto sbalordito quando aveva appreso dal maestro strutturatore di Roke che l’arcimago Sparviere, l’uomo leggendario che aveva riportato a casa il re dal regno dei morti e poi era volato via in groppa a un drago, era ancora vivo. Era vivo, lo aveva informato lo strutturatore, e viveva a Gont, la sua isola natia. — Ti racconto cose di cui non molti sono a conoscenza — gli aveva detto il maestro — perché penso che tu debba saperle. E penso anche che manterrai il suo segreto.

— Ma allora è ancora arcimago! — aveva esclamato Alder, provando un senso di gioia; aveva infatti causato perplessità e preoccupazione in tutti gli uomini dell’arte il fatto che i saggi dell’isola di Roke, la scuola e il centro della magia dell’Arcipelago, in tutti gli anni del regno di re Lebannen, non avessero designato un nuovo arcimago.

— No — aveva dichiarato lo strutturatore. — Non è affatto un mago.

Il maestro gli aveva spiegato come e perché Sparviere avesse perso il proprio potere; e Alder aveva avuto tempo di riflettere sull’accaduto. Eppure lì, al cospetto di quell’uomo che aveva parlato con i draghi e riportato l’anello di Erreth-Akbe, attraversato il regno dei morti, e governato l’Arcipelago prima del re, tutte quelle storie e quelle canzoni erano ben vive nella sua mente. Pur vedendolo vecchio, contento di curare l’orto, senza alcun potere a parte quello di uno spirito arricchito da una lunga vita di pensiero e azione, Alder vedeva tuttora un grande mago. E dunque lo turbò notevolmente scoprire che Sparviere aveva una moglie.

Una moglie, una figlia, un figliastro… I maghi non avevano famiglia. Uno stregone comune come Alder poteva sposarsi, volendo, ma gli uomini che avevano il vero potere erano celibi. Riusciva a immaginare quell’uomo in groppa a un drago, era abbastanza facile, ma pensare a lui come a un marito e un padre era tutt’altro discorso. Non ci riusciva. Provò. Chiese: — Tua… moglie… È con suo figlio, allora?

Sparviere tornò da molto lontano. I suoi occhi stavano contemplando i golfi a ovest. — No — rispose. — È a Havnor. Con il re.

Dopo un po’, ritornando del tutto, aggiunse: — È andata là con nostra figlia subito dopo la Lunga danza. Lebannen le ha mandate a chiamare, per consultarle. Forse riguardo la stessa questione che ti ha condotto qui da me. Vedremo… Ma la verità è che sono stanco, questa sera, e non molto propenso ad affrontare questioni gravose. E anche tu sembri stanco. Dunque, che ne dici di una scodella di zuppa, magari, e di un altro bicchiere di vino, e poi di una bella dormita? Parleremo domattina.

— Accetto con piacere, signore — rispose Alder. — A parte il sonno. È quello che temo.

Il vecchio impiegò alcuni istanti per afferrare, poi però chiese: — Hai paura di dormire?

— Dei sogni.

— Ah. — Uno sguardo penetrante degli occhi scuri sotto le sopracciglia arruffate e ingrigite. — Mi pare che tu abbia schiacciato un bel pisolino là nell’erba…

— La più bella dormita che abbia fatto da quando ho lasciato l’isola di Roke. Ti sono grato di questo dono, signore. Forse, questa notte dormirò ancora in pace. Quando non capita, però, lotto con i miei sogni, e grido, e mi sveglio, e sono di peso a chi dorme accanto a me. Dormirò fuori, se me lo consenti.

Sparviere annuì. — Sarà una notte gradevole — disse.

Era una notte gradevole, fresca; il vento marino spirava mite dal Sud, le stelle estive rischiaravano tutto il cielo tranne dove si stagliava l’ampia vetta scura del monte. Alder posò sull’erba, nel posto in cui aveva dormito, il pagliericcio e la pelle di pecora che il padrone di casa gli aveva dato.

Sparviere si coricò nella piccola alcova sul lato ovest della casa. Aveva dormito là da ragazzo, quando quella era la casa di Ogion e lui era suo apprendista mago. Tehanu aveva dormito là negli ultimi quindici anni, da quando era diventata sua figlia. Ora che lei e Tenar erano partite, quando si coricava sul letto che divideva con la moglie nell’angolo buio della camera, si sentiva solo, e così aveva cominciato a dormire nell’alcova. Gli piaceva il lettino stretto addossato allo spesso muro di legno della casa, proprio sotto la finestra. Dormiva bene, là. Non quella notte, però.

Prima di mezzanotte, destato da un grido, udendo voci all’esterno, si alzò con un balzo e andò alla porta. Era il suo ospite che lottava con un incubo, tra le proteste assonnate degli abitanti del pollaio. Alder urlò con la voce roca del sogno e poi si svegliò, sussultando in preda al panico e all’angoscia. Chiese scusa al vegliardo e disse che sarebbe rimasto a sedere un po’ sotto le stelle. Sparviere tornò a letto. Non fu più risvegliato, ma fece a sua volta un brutto sogno.

Era in piedi accanto a un muro di pietra vicino alla sommità di un colle, un lungo pendio di erba secca grigia che scendeva perdendosi nell’oscurità. Sapeva di essere già stato lì, in piedi nei pressi della muraglia, ma non sapeva quando, né che posto fosse. C’era qualcuno dall’altra parte della costruzione, il lato in discesa, non molto lontano. Non riuscì a vederne il volto, solo che si trattava di un uomo alto, con addosso un mantello. Sapeva di conoscerlo. L’uomo gli si rivolse usando il suo vero nome. Disse: — Presto sarai qui, Ged.

Raggelando fino al midollo, Sparviere si sollevò a sedere, tendendo lo sguardo per osservare lo spazio della casa attorno a sé, per avvolgersi attorno la realtà della casa come una coperta. Guardò dalla finestra le stelle. E allora il gelo gli penetrò nel cuore. Non erano gli astri dell’estate, cari, familiari, il Carro, il Falco, i Danzatori, il Cuore del cigno. Erano altre stelle, le stelle piccole e immobili della terraferma, che non sorgevano né tramontavano mai. Conosceva i loro nomi, un tempo, quando conosceva i nomi delle cose.

— Lungi! — disse a voce alta, e fece il gesto con cui si respinge la sventura, lo aveva imparato quando aveva dieci anni. Andò con lo sguardo alla porta aperta della casa, all’angolo dietro lo stipite, e gli sembrò di vedere l’oscurità prendere forma, raggrumarsi ed ergersi.

Ma il suo gesto, pur privo di potere, lo svegliò. Le ombre dietro la porta erano solo ombre. Le stelle fuori dalla finestra erano le stelle di Earthsea, che impallidivano al primo riverbero dell’alba.

Si sedette, tenendo la pelle di pecora attorno alle spalle, osservando quelle stelle sbiadire e svanire a poco a poco, osservando a ovest il chiarore crescente, i colori della luce, i giochi e la metamorfosi del giorno imminente. Avvertiva in sé un senso di dolore, e non sapeva perché; un senso di angoscia e struggimento, come per qualcosa di caro e perso, perso per sempre. A quello era abituato; aveva perso molte cose care; ma quella tristezza era così grande che non sembrava appartenergli. Sparviere sentiva il dolore nel cuore stesso delle cose, un senso di agonia perfino nell’arrivo del giorno. Era un residuo del brutto sogno, e non lo abbandonò quando si alzò dal letto.

Accese un fuocherello nel grande camino, e si avvicinò ai peschi e al pollaio prima di preparare la colazione. Alder arrivò dal sentiero che correva a nord lungo la sommità della scogliera; era andato a fare una passeggiata ai primi albori del giorno, disse. Sembrava spossato, e Sparviere fu colpito di nuovo dalla tristezza del suo volto, che rifletteva l’intenso stato d’animo lasciato dal sogno.

Consumarono una tazza dell’orzo denso riscaldato che la gente di campagna di Gont beveva, un uovo sodo, una pesca; mangiarono accanto al focolare, perché l’aria del mattino all’ombra della montagna era troppo fredda per sedere all’aperto. Sparviere si occupò del bestiame: diede da mangiare ai polli, sparse del grano per i colombi, lasciò uscire le capre perché andassero al pascolo. Quando tornò, si sedettero di nuovo sulla panca vicino alla porta. Il sole era ancora nascosto dietro il monte, ma adesso l’aria era secca e calda.

— Ora dimmi cosa ti porta qui, Alder. Ma dato che sei passato a Roke, prima dimmi se le cose vanno bene nella Grande casa.

— Non sono entrato là, signore.

— Ah. — Un tono neutro, ma un’occhiata penetrante.

— Sono stato solo nel Bosco immanente.

— Ah. — Un tono neutro, un’occhiata neutra. — Lo strutturatore sta bene?

— Mi ha detto: "Comunica al mio signore tutto il mio affetto e la mia stima, e digli che vorrei che camminassimo nel bosco insieme come eravamo soliti fare".

Sparviere sorrise con una certa mestizia. Dopo qualche istante, annuì: — Va bene, ma non ti ha mandato da me per dirmi soltanto questo, suppongo.

— Cercherò di essere breve.

— Amico, abbiamo tutto il giorno davanti a noi. E a me piacciono le storie raccontate dal principio.

Così Alder gli raccontò la propria dall’inizio.

Era il figlio di una strega, nato nella città di Elini, a Taon, l’isola degli Arpisti.

Taon era all’estremità meridionale del mare di Ea, non lontano da dove si trovava Solea prima che il mare l’inghiottisse. Quello era il cuore antico di Earthsea. Tutte quelle isole avevano stati e città, re e maghi, quando Havnor era una terra di tribù in lotta e Gont una landa selvaggia in cui regnavano gli orsi. Chi nasceva a Ea o Ebea, a Enlad o Taon, anche se era figlio di uno scavafossi o di una strega, si considerava discendente degli antichi maghi, appartenente alla stirpe dei guerrieri morti negli anni oscuri per la regina Elfarran. Spesso aveva quindi modi cortesi, pur se a volte era caratterizzato da un’eccessiva alterigia, un linguaggio nobile e uno spirito aperto, e la capacità di elevarsi al di sopra dei fatti mondani e della prosaicità, dote di cui diffidava chi invece aveva una mentalità mercantile. "Aquiloni senza corda che li trattenga" dicevano di tali persone i ricchi di Havnor. Ma non li apostrofavano a portata d’orecchio del re, Lebannen della casa di Enlad.

Le migliori arpe di Earthsea erano costruite a Taon, dove c’erano scuole di musica, e molti cantori famosi delle ballate e delle gesta erano nati là, o vi imparavano la loro arte. Elini era solo una piccola città di collina, una cittadina con un mercato, ma senza musica, spiegò Alder, e sua madre era una donna povera, anche se non così povera da patire la fame. Aveva una voglia, una macchia rossa che dal sopracciglio destro le scendeva fino alla spalla. Molte persone con simili difetti diventavano per forza streghe o stregoni, erano "destinate alla stregoneria" diceva la gente. Mora, dunque, imparò le formule magiche e sapeva fare gli incantesimi più comuni; non aveva una vera disposizione per l’arte, ma aveva un modo di fare accattivante che compensava in gran parte le sue scarse doti. Si guadagnava da vivere, e istruì il figlio come meglio poteva. Risparmiò abbastanza da mandarlo come apprendista dallo stregone che diede al ragazzo il suo vero nome.

Del proprio padre, Alder non disse nulla. Non sapeva nulla. Mora non gli aveva mai parlato del padre. Anche se vivevano di rado in castità, era raro che le streghe stessero con un uomo per più di un paio di notti, e raramente ne sposavano uno. Molto più spesso, due di loro vivevano insieme per tutta la vita, e quel genere di unione era chiamato connubio di streghe o legame di femmine. Il figlio di una strega, quindi, aveva una madre o due madri, ma nessun padre. Era cosa risaputa, e Sparviere non chiese nulla a tale riguardo; volle però sapere del suo addestramento.

Lo stregone Sula gli aveva insegnato le poche parole della vera lingua che conosceva, e alcuni incantesimi di ritrovamento e di illusione, per cui Alder non aveva dimostrato alcuna attitudine. Sula si era interessato al ragazzo tanto da scoprire il suo vero dono: Alder era un riparatore. Sapeva ricongiungere. Sapeva ricreare l’integrità delle cose. Un utensile rotto, una lama di coltello o una barra spezzata, una ciotola in frantumi… Alder era in grado di rimettere insieme i frammenti senza che rimanesse alcun segno, e l’oggetto tornava robusto come prima. Così il suo maestro lo mandò in cerca di diversi incantesimi riparatori, che il giovane trovò per lo più tra le streghe dell’isola, con cui lavorò per imparare.

— È una specie di guarigione — commentò Sparviere. — Non è un dono da poco, né un’arte facile.

— Per me era una gioia — disse Alder, abbozzando un sorriso smunto. — Provare gli incantesimi, e a volte scoprire come usare una delle vere parole… Rimettere insieme una botte ormai rinsecchita, con tutte le doghe staccate dai cerchi… È un enorme piacere, vederla ricostruirsi, gonfiarsi fino ad assumere la curvatura giusta, e rimanere dritta, pronta ad accogliere il vino… C’era un arpista di Meoni, un grande arpista, oh, suonava con la forza di un temporale sulle colline, di una tempesta di mare. Maltrattava le corde dell’arpa, le pizzicava e le tirava, nell’impeto della sua arte, e le corde si spezzavano proprio nel momento culminante della musica. Così l’arpista mi assunse perché gli stessi accanto quando suonava, e quando rompeva una corda io la riparavo rapido come la nota stessa, e lui continuava a suonare.

Sparviere annuì con la cordialità di un collega che parla di lavoro. — Hai mai aggiustato il vetro? — domandò.

— Sì, ma è un lavoro lungo e sgradevole — rispose Alder — dato che il vetro quando si rompe va in frantumi.

— Però un grosso buco nel calcagno di una calza può essere anche peggio — commentò Sparviere, e discussero per un po’ dell’arte della riparazione, prima che Alder tornasse alla propria storia.

Era diventato un riparatore, dunque, uno stregone con una modesta clientela, noto localmente per il proprio talento. Quando aveva circa trent’anni, era andato nella città principale dell’isola, Meoni, con l’arpista, che doveva suonare là in occasione di un matrimonio. Una donna andò a cercarlo nel loro alloggio, una giovane, che non aveva mai fatto pratica come strega; aveva però un dono, disse lei, lo stesso dono di Alder, e desiderava che lui le insegnasse. In effetti, risultò più dotata di lui. Pur non sapendo una parola della Vecchia lingua, era in grado di rimettere insieme una brocca rotta o di aggiustare una corda logora e sfilacciata semplicemente con dei movimenti delle mani e una canzone muta che intonava a bocca chiusa con un filo di voce, e aveva guarito arti spezzati di animali e persone, cosa in cui Alder non aveva mai osato cimentarsi.

Così, invece di diventare maestro e allieva, avevano unito le loro abilità apprendendo a vicenda, arricchendo notevolmente le rispettive conoscenze. La giovane tornò a Elini e visse con la madre di Alder, Mora, che le insegnò diversi trucchi utili per presentarsi nel modo migliore e impressionare i clienti, anche se le trasmise ben poco quanto a conoscenze stregonesche vere e proprie. La giovane si chiamava Giglio; lei e Alder lavorarono insieme a Elini e in tutte le città collinari vicine, man mano che la loro fama cresceva.

— E io mi innamorai di lei — disse lui. La sua voce era cambiata quando aveva cominciato a parlare della giovane, perdendo il tono esitante, facendosi concitata e melodiosa.

— Aveva capelli scuri, con una lucentezza che andava sul rosso — aggiunse.

Era stato impossibile nascondere l’amore che l’uomo provava, e lei se n’era resa conto e lo aveva corrisposto. Fosse stata o meno una strega, spiegò Giglio, non le importava; disse che loro due erano nati per stare insieme, nel lavoro e nella vita; lei lo amava e lo avrebbe sposato.

Così si sposarono, e vissero assai felici per un anno, e per la metà del secondo.

— Tutto andò per il meglio finché non giunse il momento della nascita del nostro bambino — raccontò Alder. — Il parto era in ritardo, troppo in ritardo. Le levatrici provarono a provocarlo con erbe e incantesimi, ma era come se il bambino non volesse venire al mondo, non volesse separarsi da lei e nascere. E non nacque. Morì e fece morire anche lei.

Trascorsi alcuni istanti, disse: — Eravamo tanto felici…

— Me ne rendo conto.

— E il mio dolore fu pari alla gioia che avevamo conosciuto.

Il vegliardo annuì.

— Sono riuscito a sopportarlo — continuò Alder. — Sai come vanno le cose… Mi sembrava che a quel punto la mia vita non avesse più molto senso, ma sono riuscito a tollerare il dolore.

— Sì.

— Però in inverno, due mesi dopo la sua morte, feci un sogno. E nel sogno c’era lei.

— Racconta.

— Ero sul fianco di un colle. C’era un muro lungo la sommità della collina, che scendeva attraverso il pendio… un muro basso, come di confine tra dei pascoli. Lei era dall’altra parte di esso, sotto di me, dove c’era più buio.

Sparviere annuì una volta. La sua faccia era diventata una maschera di pietra.

— Mi stava chiamando. Udii la sua voce che pronunciava il mio nome e andai da lei. Sapevo che era morta, lo sapevo nel sogno, ma ero contento di andare… Non la vedevo bene, e andai da lei per osservarla meglio, per starle vicino. Lei tese le mani oltre il muro. Non era più alto del mio petto. Avevo pensato che potesse avere con sé il bambino, invece era sola. Era protesa verso di me, così io allungai le mani e presi le sue.

— Vi siete toccati?

— Volevo andare da lei, però non riuscivo a superare il muro. Le mie gambe si rifiutavano di muoversi. Cercai di attirarla a me, e lei desiderava venire, sembrava potesse farlo, ma c’era quel muro tra noi. Impossibile superarlo. Così lei si sporse oltre l’ostacolo e mi baciò sulla bocca, pronunciando il mio nome. E disse: "Liberami!".

"Pensai che chiamandola con il suo vero nome forse avrei potuto liberarla, portarla dalla parte del muro dove mi trovavo io, e allora dissi: ’Vieni con me, Mevre!’. Ma lei rispose: ’Questo non è il mio nome, Hara, questo non è più il mio nome’. E si staccò dalle mie mani, anche se cercai di tenerla stretta. Gemette: ’Liberami, Hara!’. Ma stava scendendo nell’oscurità. Era tutto tenebra, il pendio in basso sotto il muro. Io gridai il suo nome e il suo nome d’uso e tutti i nomi affettuosi con cui l’avevo vezzeggiata un tempo, ma lei continuava ad allontanarsi. E poi mi svegliai".

Sparviere fissò a lungo il proprio ospite. — Mi hai rivelato il tuo nome, Hara — gli fece notare.

Alder parve un po’ frastornato, ed emise un paio di respiri profondi, poi alzò lo sguardo con un’espressione di mesto coraggio. — Sei la persona più fidata a cui potessi rivelarlo, credo.

Sparviere lo ringraziò con aria solenne. — Cercherò di meritare la tua fiducia — dichiarò. — Dimmi, sai che luogo è quello… e cos’è quel muro?

— Allora non lo sapevo. Adesso so che tu l’hai attraversato.

— Sì. Sono stato su quel colle. E ho attraversato il muro, grazie al potere e all’arte che un tempo possedevo. E sono sceso nelle città dei morti, e ho parlato a uomini che avevo conosciuto quando erano vivi, e a volte loro mi hanno risposto. Ma Hara, che io sappia, tra tutti i grandi maghi della storia di Roke o Paln o Enlades, tu sei il primo uomo che abbia toccato e baciato la sua amata compagna al di là di quel muro.

Alder sedeva a capo chino, le mani serrate.

— Vuoi dirmi com’era il suo tocco? Le sue mani erano calde? Lei era ombra e aria gelida, o come una donna viva? Perdona le mie domande…

— Vorrei poter rispondere, mio signore. A Roke, l’evocatore mi ha rivolto le stesse domande. Non sono in grado di rispondere in modo veritiero. Il mio struggimento per lei era così intenso, la desideravo a tal punto che… forse mi sono illuso che lei fosse com’era da viva. Però, non lo so. In sogno, non tutte le cose sono chiare.

— In sogno, no. Ma non ho mai sentito dire che qualcuno sia giunto a quel muro nel sonno. È un luogo che un mago può cercare di raggiungere, se deve, se ha imparato il modo e ha il potere necessario. Ma senza la conoscenza e il potere, solo i morenti possono…

In quel momento, Sparviere s’interruppe, ricordando il proprio sogno della notte prima.

— Io pensavo fosse un sogno — disse Alder. — Era angoscioso, però mi era caro. Quella visione era straziante, eppure mi aggrappai a quel dolore, me lo tenevo stretto. Lo volevo. E speravo di sognare ancora.

— È successo?

— Sì. Sognai ancora.

Alder ravvisò senza vederla la grande distesa azzurra di aria e di oceano a ovest di dove sedevano. Basse e indistinte, oltre il mare placido, si scorgevano le colline assolate di Kameber. Dietro di esse, il sole stava spuntando radioso sopra il versante nord della montagna.

— Fu nove giorni dopo il primo sogno. Mi ritrovai nello stesso luogo, però più in alto sulla collina. Vidi il muro sotto di me, attraverso il pendio. Scesi correndo, chiamando il suo nome, sicuro di vederla. C’era qualcuno laggiù. Ma quando mi avvicinai, vidi che non era Giglio. Era un uomo, chino accanto al muro, come se lo stesse riparando. Gli chiesi dove fosse mia moglie, ma lui non rispose, né alzò il capo. Vidi cosa stava facendo. Non stava lavorando per riparare il muro, ma cercava di demolirlo, provando a staccare con le dita una grossa pietra. Quella non si muoveva minimamente, e lui disse: "Aiutami, Hara!". Allora mi accorsi che era il mio maestro, Sula, l’uomo che mi aveva dato il nome. È morto da cinque anni ormai. Continuava a tentare di smuovere la pietra con le dita, e si rivolse ancora a me, chiedendomi di aiutarlo, di liberarlo. Poi si drizzò e allungò la mano oltre il muro verso di me, come aveva fatto Giglio, e prese la mia. La sua mano bruciava… tanto era calda o fredda, non so… comunque, sentendo bruciare, mi staccai da lui, e il dolore e la paura mi svegliarono dal sogno.

Alzò la mano, mentre terminava, mostrando un segno scuro sul dorso e sul palmo, simile a un vecchio livido.

— Ho imparato a non lasciarmi toccare da loro — disse sottovoce.

Ged guardò la bocca di Alder. Si notava un segno scuro anche sulle labbra.

— Hara, hai corso un pericolo mortale — disse il vegliardo, anch’egli sottovoce.

— Non è tutto.

Compiendo uno sforzo per rompere il silenzio con la propria voce, Alder proseguì il racconto.

La notte successiva, quando si addormentò di nuovo, si ritrovò sul colle tenebroso e vide il muro che scendeva dalla sommità attraverso il pendio. Andò verso l’ostacolo, sperando di trovarvi la moglie. — Anche se lei non poteva superarlo, e nemmeno io potevo farlo, non m’importava… mi bastava vederla e parlarle — spiegò. Ma, sempre che Giglio ci fosse, non riuscì a scorgerla in mezzo a tutti gli altri; avvicinandosi al muro, infatti, vide dall’altra parte una folla caotica di figure, alcune nitide, altre vaghe, persone che gli sembrava di conoscere e che non conosceva affatto, tutte con le mani protese verso di lui, che gridavano il suo nome: "Hara! Lasciaci venire con te! Hara, liberaci!".

— È terribile sentire pronunciare il proprio vero nome da degli sconosciuti — disse Alder. — Ed è altrettanto terribile essere chiamato dai morti.

Cercò di voltarsi e risalire il pendio, per allontanarsi dal muro, ma le sue gambe avevano la tremenda debolezza del sogno e non volevano portarlo via. Cadde in ginocchio per non essere afferrato e trascinato oltre la muraglia, e chiese aiuto a gran voce, anche se non c’era nessuno che potesse aiutarlo; e così si svegliò, terrorizzato.

Da allora, ogni notte di sonno profondo, si ritrovava sulla collina, nell’erba secca grigia al di sopra del muro, e i morti si accalcavano numerosi nell’oscurità più in basso, supplicandolo e chiamandolo, invocando il suo nome.

— Mi sveglio, e sono nella mia stanza — disse Alder. — Non sono là, su quel colle. Ma so che loro ci sono. E devo dormire. Cerco di svegliarmi spesso, e di dormire di giorno quando posso, ma devo pur dormire. E allora sono là, e ci sono anche loro. E non posso risalire la collina. Se mi muovo, è sempre verso il basso, verso il muro. A volte riesco a volgere le spalle a tutti, poi però mi pare di sentire Giglio in mezzo a loro, che mi chiama e grida, e mi giro per cercarla. E quelli tendono subito le mani verso di me.

Abbassò gli occhi, guardandosi le mani, strette convulsamente.

— Cosa devo fare? — domandò.

Sparviere non rispose.

Una lunga pausa, quindi Alder riprese. — L’arpista di cui ti ho parlato era un buon amico. Dopo qualche tempo si accorse che qualcosa non andava, e quando gli spiegai che non riuscivo a dormire per paura dei miei sogni popolati di morti, mi consigliò e mi aiutò, perché salpassi alla volta di Ea e là parlassi con un mago, un uomo istruito alla scuola di Roke. Non appena quel mago sentì il racconto dei miei sogni, mi disse che dovevo andare a Roke.

— Qual è il suo nome?

— Beryl. Serve il principe di Ea, che è signore dell’isola di Taon.

Il vecchio annuì.

— Disse che lui non era in grado di aiutarmi, però la sua parola valeva quanto l’oro per il capitano della nave. Così m’imbarcai di nuovo. Fu un viaggio lungo, costeggiando al largo Havnor e scendendo nel mare Interno. Credevo che in mare, lontano da Taon, sempre più lontano, forse sarei riuscito a lasciare quei sogni dietro di me. Il mago di Ea aveva chiamato il luogo che sognavo "la terra ferma" e io pensavo che forse mi sarei allontanato da là, navigando in mare. Ogni notte, invece, mi ritrovavo sul fianco di quel colle. E più di una volta nella stessa notte, con il passare del tempo. Due o tre volte, e ogni volta che chiudo gli occhi sono sulla collina, con il muro sotto di me, e le voci che mi chiamano. Così sono come un uomo pazzo di dolore per una ferita, che può trovare la pace solo nel sonno, ma il sonno è il suo tormento, con lo spasimo e l’angoscia dei miseri morti che si accalcano vicino al muro, riempiendolo di paura…

Ben presto, i marinai cominciarono a evitarlo, narrò Alder, di notte perché gridava e li svegliava quando si destava atterrito, di giorno perché pensavano che su di lui ci fosse una maledizione o fosse posseduto da una forza maligna.

— E non hai trovato sollievo a Roke?

— Nel Bosco immanente — rispose lui, e la sua espressione mutò completamente nel pronunciare quelle parole.

Per un attimo, sul volto di Sparviere comparve la medesima espressione.

— Il maestro strutturatore mi portò là, sotto quegli alberi, e riuscii a dormire. Perfino di notte mi fu possibile addormentarmi. Di giorno, se il sole batte su di me, come ieri pomeriggio qui, il calore mi riscalda e i raggi brillano attraverso le mie palpebre, non ho paura di sognare. Ma nel Bosco immanente non avevo alcuna paura, e ho potuto amare di nuovo la notte.

— Dimmi come sono andate le cose al tuo arrivo a Roke.

Pur se oppresso dalla stanchezza, dall’angoscia e dal timore, Alder possedeva l’eloquenza tipica della propria isola; e quello che tralasciò, per evitare di dilungarsi troppo o raccontare all’arcimago cose risapute, Sparviere poteva immaginarlo benissimo, ricordando la prima volta che egli stesso era giunto sull’isola dei Saggi quando era un ragazzo di quindici anni.

Quando aveva abbandonato la nave al molo della città di Thwil, uno dei marinai aveva tracciato sulla passerella la runa della "porta chiusa", perché quel passeggero non tornasse più a bordo. Alder se ne accorse, ma rifletté che il marinaio aveva valide ragioni per farlo. Lui stesso si sentiva di malaugurio, portatore di qualcosa di oscuro. Questo lo rese più timoroso di quanto non sarebbe stato comunque in una città straniera. E Thwil era una città molto singolare.

— Tutte quelle strade confondono l’animo — commentò Sparviere.

— Confondono eccome, mio signore… Scusa, la mia lingua obbedisce al mio cuore, non alla tua volontà…

— Non importa. Un tempo ero abituato ai titoli. Posso essere il signore capraio, se questo ti facilita il discorso. Continua.

Ricevendo indicazioni sbagliate da quelli a cui si rivolse, o fraintendendo quelle ricevute, Alder vagò nel piccolo labirinto collinare di Thwil con la scuola sempre in vista ma senza riuscire ad arrivare a destinazione, finché, ormai disperato, non giunse a una porta disadorna in un muro spoglio che dava su una piazza. Dopo averlo fissato un po’, si rese conto che quel muro era la meta che stava cercando. Bussò, e un uomo con una faccia tranquilla e occhi sereni aprì.

Alder stava per dire di essere stato inviato dal mago Beryl di Ea con un messaggio per il maestro evocatore, ma non ebbe la possibilità di parlare. Il portinaio lo guardò un istante e disse pacato: — Non puoi portarli in questa casa, amico.

Lui non chiese chi non potesse portare con sé. Lo sapeva. Non aveva quasi chiuso occhio nelle ultime notti, sonnecchiando per brevi periodi e destandosi terrorizzato, appisolandosi di giorno, vedendo il pendio d’erba secca che scendeva fin sul ponte assolato della nave, il muro di pietra sulle onde del mare. E al risveglio, il sogno era dentro di lui, con lui, attorno a lui, velato, e sentiva sempre, debolmente, attraverso i rumori del vento e del mare, le voci che gridavano il suo nome. A quel punto, non sapeva se fosse sveglio o addormentato. Era sconvolto dal dolore, dalla paura, e dalla stanchezza.

— Teneteli fuori e lasciatemi entrare — supplicò. — Abbiate pietà, e lasciatemi entrare!

— Aspetta qui — disse l’uomo, con la stessa pacatezza di prima. — C’è una panca… — Indicò, e chiuse la porta.

Alder andò a sedersi sul sedile di pietra. Ricordava di essersi seduto, e ricordava dei ragazzi sulla quindicina che lo guardavano incuriositi mentre gli passavano accanto ed entravano in quella porta, ma rammentava solo in modo frammentario quanto accadde in seguito.

Il portinaio tornò con un giovane che aveva il bastone e il mantello di un mago di Roke. Poi si ritrovò in una stanza, che a quanto capì era la stanza di una pensione. Arrivò il maestro evocatore e cercò di parlare con lui. Ma ormai non era più in grado di comunicare. Tra il sonno e la veglia, tra la stanza soleggiata e la fosca collina grigia, tra la voce dell’evocatore che pronunciava parole e le voci che lo chiamavano al di là del muro, era incapace di pensare e di muoversi, nel mondo dei vivi. Ma nel mondo tenebroso delle voci che lo chiamavano, sarebbe stato facile fare quei pochi passi che lo separavano dal muro e lasciare che le mani protese lo afferrassero e lo stringessero. Se fosse stato uno di loro, lo avrebbero lasciato in pace, pensò.

Poi, a quanto rammentava, la stanza soleggiata era scomparsa del tutto, e lui era di nuovo sulla collina grigia. Ma con lui c’era l’evocatore di Roke: un uomo grande e grosso dalla pelle scura, con un massiccio bastone di tasso che luccicava in quel luogo buio.

Le voci avevano cessato di chiamare. Le persone, le figure che si accalcavano nei pressi del muro, erano sparite. In lontananza si udiva un fruscio, e qualcosa di simile a dei singhiozzi, che si perdevano nell’oscurità.

L’evocatore si accostò al muro e vi posò sopra le mani.

Le pietre erano state smosse, qui e là. Alcune erano cadute sull’erba secca. Alder pensò che avrebbe dovuto raccoglierle e rimetterle a posto, che avrebbe dovuto riparare il muro, ma non lo fece.

L’evocatore si girò verso di lui e gli chiese: — Chi ti ha portato qui?

— Mia moglie, Mevre.

— Chiamala.

Lui rimase muto. Alla fine aprì la bocca, ma non pronunciò il nome vero della moglie, bensì il nome d’uso, quello con cui le si rivolgeva quando lei era viva. Chiamò: — Giglio… — Il suono della parola non aveva nulla che ricordasse un fiore bianco, sembrava il rumore di un sasso caduto nella polvere.

Silenzio. Le stelle brillavano minuscole e fisse nel cielo nero. Alder non aveva mai guardato il cielo in quel luogo, prima di allora. Non riconobbe quelle stelle.

— Mevre! — gridò l’evocatore, e con voce profonda disse alcune parole nella Vecchia lingua.

Alder si sentì mancare il respiro, reggendosi in piedi a stento. Ma nulla si mosse sul lungo pendio che scendeva nell’oscurità informe.

Poi, qualcosa si avvicinò, qualcosa di più chiaro, che risalì la collina, avvicinandosi lentamente. Alder tremò di paura e di desiderio, e mormorò: — Oh, mio dolce amore…

Ma la figura che avanzava era troppo piccola per essere Giglio. Vide che era una creatura che doveva avere circa dodici anni, un bambino o una bambina, non riuscì a capirlo. La presenza ignorò sia lui che l’evocatore, non guardò mai oltre il muro, e si sedette proprio sotto di esso. Alder si avvicinò e guardò in basso, e vide che la giovane creatura stava cercando di allargare le pietre e di staccarle.

L’evocatore stava sussurrando nella Vecchia lingua. La creaturina alzò una volta lo sguardo con indifferenza, e continuò a smuovere le pietre con dita esili che sembravano prive di forza.

Era una vista così orribile che fu assalito da un capogiro; cercò di allontanarsi, dopo di che ricordava solo di essersi svegliato nella stanza soleggiata, steso sul letto, debole, sofferente e infreddolito.

C’erano delle persone che si prendevano cura di lui: una donna sorridente e distaccata, che era l’affittacamere, e un vecchio tarchiato dalla pelle bruna, venuto con il portinaio. Alder lo scambiò per uno stregone medico. Solo dopo averlo visto con il suo bastone di olivo capì che era l’erborista, il maestro di guarigione della scuola di Roke.

La sua presenza portò sollievo, e l’erborista riuscì a farlo dormire. Preparò un infuso e glielo fece bere, e accese un’erba che bruciava lentamente con un odore simile a quello della terra scura dei pineti, e si sedette accanto a lui, intonando un lungo canto sommesso. — Ma io non devo dormire — protestò Alder, sentendo che il sonno lo pervadeva come una grande onda scura. Il guaritore posò la mano calda sulla sua, e un senso di pace si diffuse in Alder, che scivolò nel sonno senza paura. Il contatto con la mano del guaritore lo teneva lontano dal colle tenebroso e dal muro di pietra.

Si svegliò per mangiare un po’, e poco dopo il maestro erborista gli fu di nuovo accanto con l’infuso tiepido insipido e il fumo che sapeva di terra, la cantilena monotona e il tocco della propria mano; così Alder poté riposare.

Il guaritore aveva delle mansioni da svolgere alla scuola, quindi poteva essere lì solo alcune ore durante la notte. In tre notti, Alder riposò abbastanza da riuscire a mangiare e passeggiare un po’ in città di giorno, e pensare e parlare in modo lucido. Il quarto mattino si presentarono nella sua stanza i tre maestri: l’erborista, il portinaio e l’evocatore.

Alder accolse l’evocatore provando un senso di apprensione, quasi di diffidenza. Anche l’erborista era un grande mago, ma la sua arte non era del tutto diversa dal mestiere di Alder, quindi tra loro c’era una certa affinità; senza dimenticare quanto fosse benefica la mano di quell’uomo. L’evocatore, invece, non si occupava di cose corporee, ma dello spirito, della mente e della volontà degli uomini, degli spettri, dei significati. La sua arte era arcana, pericolosa, piena di rischi e minacce. L’evocatore era stato accanto ad Alder in quel luogo, sul confine, al muro. Con lui, l’oscurità e la paura tornarono.

Nessuno dei tre maghi disse nulla, all’inizio. Se avevano una cosa in comune, era una grande capacità di restare in silenzio.

Così fu Alder a parlare, cercando di dire tutto ciò che aveva nell’animo, perché non bisognava tacere nulla.

— Se ho fatto qualcosa di sbagliato che mi ha portato in quel luogo, o ha portato mia moglie da me, o le altre anime… se posso porre rimedio allo sbaglio che ho fatto, lo farò. Solo che non so cosa io possa aver fatto.

— O cosa sei — disse l’evocatore.

Alder restò muto.

— Non molti di noi sanno chi o cosa sono — dichiarò il portinaio. — Abbiamo solo una vaga idea.

— Raccontaci come sei giunto la prima volta al muro di pietra — chiese l’evocatore.

Alder raccontò.

I maghi ascoltarono in silenzio e per un po’, quando lui ebbe terminato, non dissero nulla. Poi l’evocatore domandò: — Hai pensato a cosa significa superare quel muro?

— So che non potrei tornare indietro.

— Solo i maghi possono oltrepassare il muro da vivi, e solo in caso di estremo bisogno. L’erborista può andare con un sofferente fino al muro, ma se il malato lo oltrepassa, lui non lo segue.

L’evocatore era così alto e massiccio e scuro che, guardandolo, Alder pensò a un orso.

— La mia arte evocatoria ci consente di richiamare i morti oltre il muro per un breve periodo, per qualche attimo, se è necessario farlo. Io stesso dubito che esistano necessità tali da giustificare una violazione così grande della legge e dell’equilibrio del mondo. Non ho mai fatto quell’incantesimo. Né ho superato il muro. L’arcimago lo ha fatto, e il re insieme a lui, per sanare la ferita nel mondo provocata dal mago di nome Cob.

— E quando l’arcimago non tornò, Thorion, il nostro evocatore di allora, scese nella terra ferma a cercarlo — disse l’erborista. — Tornò, ma cambiato.

— Non c’è bisogno di parlare di questo — osservò l’uomo grande e grosso.

— Forse bisogna farlo — Replicò l’erborista. — Forse Alder deve saperlo. Thorion si fidò troppo della propria forza, credo. Rimase là troppo a lungo. Pensava di potersi richiamare in vita grazie alla propria arte evocatoria, ma a tornare furono solo la sua capacità, il suo potere, la sua ambizione… la voglia di vivere che non dà vita. Tuttavia, noi ci fidammo di lui, perché lo avevamo amato. Così lui ci divorò. Finché Irian non lo distrusse.

Lontano da Roke, sull’isola di Gont, l’ascoltatore interruppe Alder. — Che nome era, l’ultimo? — chiese.

— Irian.

— Conosci questo nome?

— No, mio signore.

— Nemmeno io. — Dopo una pausa, Sparviere continuò sottovoce, quasi a malincuore. — Però vidi Thorion, là. Nella terra ferma, dove si era avventurato per cercare me. Mi addolorò, vederlo là. Gli dissi che poteva tornare al di qua del muro. — La sua faccia assunse un’espressione cupa, torva. — Parole sbagliate, le mie. Non esistono parole opportune tra i vivi e i morti. Ma anch’io lo avevo amato.

Rimasero seduti in silenzio. Sparviere si alzò di colpo per stirare le braccia e massaggiarsi le cosce. Girellarono entrambi un poco. Alder bevve qualche sorso d’acqua dal pozzo. Il vecchio prese una vanga e un manico nuovo da inserirvi, e si mise al lavoro, levigando l’asta di quercia e assottigliandone l’estremità da incastrare nell’attrezzo.

Disse: — Continua, Alder — e quello proseguì la propria storia.

I due maestri erano rimasti in silenzio per un po’ dopo che l’erborista aveva parlato di Thorion. Alder si fece coraggio e pose una domanda su una cosa a cui pensava spessissimo: chiese in che modo i morti giungevano al muro, e come vi giungessero i maghi.

L’evocatore rispose prontamente: — È un viaggio spirituale.

Il vecchio guaritore parve più indeciso. — Non è con il corpo che oltrepassiamo il muro, dato che il corpo di chi muore rimane qui. E se un mago va là durante una visione, il suo corpo addormentato è sempre qui, vivo. Così chiamiamo quel viaggiatore… ciò che compie il viaggio dal corpo… lo chiamiamo anima, spirito.

— Ma mia moglie mi ha preso la mano — disse. Non poteva raccontare ancora che lei gli aveva baciato la bocca. — Ho sentito il suo tocco.

— Ti è sembrato di sentirlo — replicò l’evocatore.

— Se si sono toccati materialmente, se si è creato un legame… — disse l’erborista all’evocatore — non potrebbe essere per questo che gli altri morti possono andare da lui, chiamarlo, perfino toccarlo?

— Proprio per questo lui deve resistere loro — dichiarò l’evocatore, lanciando un’occhiata ad Alder. I suoi occhi erano piccoli, ardenti.

Lui percepì quelle parole come un’accusa, un’accusa ingiusta. Ribatté: — Io cerco di resistere, mio signore. Ho cercato di farlo. Ma sono così numerosi… e lei è con loro… e soffrono, e mi supplicano.

— Non possono soffrire — disse l’evocatore. — La morte pone fine a tutte le sofferenze.

— Forse l’ombra del dolore è dolore — intervenne l’erborista. — Ci sono montagne in quella terra, e si chiamano Dolore.

Il portinaio fino a quel momento non aveva quasi parlato. Con la sua voce pacata, disse: — Alder è un riparatore, non un rompitore. Non credo che possa rompere questo legame.

— Se lo ha creato, può anche romperlo — fece l’evocatore.

— Lo ha creato lui?

— Non possiedo tale capacità, mio signore — disse Alder, così spaventato dalle loro parole da parlare in tono rabbioso.

— Allora dovrò scendere in mezzo a loro — fece l’evocatore.

— No, amico mio — disse il portinaio; e il vecchio erborista aggiunse: — Di noi tutti, tu sei proprio l’ultimo che dovrebbe farlo.

— Ma questa è la mia arte.

— E la nostra.

— Chi, allora?

Il portinaio disse: — Sembra che Alder sia la nostra guida. Essendo venuto da noi in cerca di aiuto, forse può aiutarci. Andiamo tutti con lui nella sua visione… andiamo al muro, senza oltrepassarlo, però.

Così, quella notte, quando a tarda ora, timoroso, Alder si arrese al sonno e si ritrovò sul colle grigio, gli altri erano con lui: l’erborista, una calda presenza nel gelo; il portinaio, sfuggente e argenteo come il chiarore stellare; e il massiccio evocatore, l’orso, una forza oscura.

Questa volta si trovavano non dove la collina scendeva nelle tenebre, ma sul pendio vicino, rivolti verso la sommità. In quel punto, il muro correva lungo la cresta del colle ed era basso, arrivava poco più su del ginocchio. Sopra di esso, il cielo con le rade stelle minuscole era perfettamente nero.

Non il minimo movimento.

Sarebbe stato arduo salire fino al muro, pensò. Prima, lo aveva sempre avuto sotto di sé.

Ma se fosse riuscito ad andarvi, forse avrebbe trovato Giglio accanto a esso, come la prima volta. Forse avrebbe potuto prenderle la mano, e i maghi l’avrebbero riportata indietro, da lui. O avrebbe potuto scavalcare il muro in quel punto così basso e andare da lei.

Cominciò a risalire il pendio. Era facile, facilissimo… era quasi arrivato.

— Hara!

La voce profonda dell’evocatore lo richiamò indietro come un cappio attorno al collo, come un guinzaglio tirato con forza. Alder incespicò, fece ancora un passo avanti, barcollando, giunto quasi al muro… cadde in ginocchio e tese le mani verso le pietre. Stava gemendo: — Salvatemi! — … ma rivolto a chi? Ai maghi, o alle ombre oltre il muro?

Poi delle mani gli si posarono sulle spalle, mani vive, forti e calde, e Alder si ritrovò nella propria stanza, con il guaritore proprio sulle sue spalle, e la luce fatua che brillava bianca attorno a loro. E nella camera, con lui, c’erano quattro uomini, non tre.

Il vecchio erborista si sedette sul letto di Alder e lo confortò un poco, perché tremava e singhiozzava. — Non posso farlo — continuava a ripetere, sempre senza sapere se stesse rivolgendosi ai maghi o ai morti.

Quando la paura e il dolore cominciarono a diminuire, lui si sentì terribilmente stanco, e guardò quasi senza interesse l’uomo che era venuto nella stanza. Aveva occhi color ghiaccio, capelli e pelle bianchi. Un uomo dell’estremo Nord, di Enwas o Bereswek, pensò Alder.

L’uomo chiese ai maghi: — Cosa state facendo, amici miei?

— Stiamo correndo rischi, Azver — rispose il vecchio erborista.

— Guai sul confine, strutturatore — disse l’evocatore.

Alder percepì il rispetto che avevano per quell’uomo, il sollievo che provavano per la sua presenza, mentre gli raccontavano brevemente quale fosse il problema.

— Se verrà con me, lo lascerete venire? — chiese lo strutturatore quando ebbero terminato e, voltandosi verso Alder, disse: — Non devi aver paura dei tuoi sogni nel Bosco immanente. E dunque non dobbiamo temerli nemmeno noi.

Tutti assentirono. Lo strutturatore annuì e scomparve. Non era lì.

Non era mai stato lì; era solo un’apparizione, una manifestazione incorporea. Era la prima volta che Alder vedeva all’opera i grandi poteri di quei maestri, e tale dimostrazione lo avrebbe spaventato se ormai non fosse stato incapace di stupirsi e provare paura.

Seguì il portinaio all’esterno, nella notte, nelle vie, oltre i muri della scuola, attraverso alcuni campi sotto un alto colle tondeggiante, e lungo un torrente che gorgogliava melodioso e sommesso nell’oscurità delle sue sponde. Davanti a loro c’era un bosco, con gli alberi coronati dalla luce grigia delle stelle.

Il maestro strutturatore si fece loro incontro, avanzando sul sentiero, identico a come era apparso nella stanza. Lui e il portinaio parlarono un minuto, quindi Alder lo seguì nel Bosco immanente.

— Gli alberi sono scuri — disse Alder a Sparviere — ma sotto gli alberi non c’è oscurità. C’è una luce… una luminosità, in quel luogo.

Il suo ascoltatore annuì, abbozzando un sorriso.

— Non appena arrivai là, capii di poter dormire. Avevo la sensazione di avere dormito fin dall’inizio, prigioniero di un sogno maligno, e di essermi finalmente svegliato, là, di essere veramente sveglio: quindi potevo dormire veramente. Lo strutturatore mi condusse in un posto particolare, tra le radici di un albero enorme, su un soffice tappeto di foglie cadute dall’albero, e mi disse che potevo coricarmi lì. E io lo feci, e dormii. Fu un sonno dolcissimo, di una dolcezza indescrivibile.


Il sole di mezzogiorno batteva intenso; entrarono in casa, e il vegliardo mise in tavola pane e formaggio e un pezzo di carne essiccata. Alder si guardò intorno, mentre mangiavano. La casa aveva solo quell’unica stanza rettangolare con la piccola alcova sul lato ovest, ma era ampia e arieggiata, una costruzione solida, con grandi assi e travi, un pavimento lucido, un capiente focolare di pietra. — Questa è una casa splendida — disse Alder.

— Vecchia. La chiamano la casa del vecchio mago. Non perché la occupi io, né per via del mio maestro Aihal che abitava qui, ma per via del suo maestro, Heleth, che insieme a lui placò il grande terremoto. È una buona casa.

Alder dormì ancora un po’ sotto gli alberi, con il sole che brillava su di lui attraverso il fogliame mosso. Anche il padrone di casa riposò, ma non a lungo; quando l’ospite si svegliò, sotto un albero c’era un grosso cesto di piccole susine dorate, e Sparviere era nel pascolo delle capre, intento a riparare una staccionata. Alder andò ad aiutarlo, ma il lavoro era già terminato. Le capre erano sparite da un pezzo.

— Non danno latte, adesso — borbottò il vecchio, mentre tornavano alla casa. — Non hanno nulla da fare, se non trovare nuove fessure per uscire dal recinto. Le tengo per esasperazione… La prima formula magica che ho imparato è stata quella per richiamare le capre andate a zonzo. Me la insegnò mia zia. Ora non mi serve più a nulla; ottengo lo stesso effetto che otterrei se cantassi alle capre una canzone d’amore. Meglio che vada a vedere se sono nell’orto del vedovo. Tu non conosci il tipo di stregoneria necessaria per far tornare a casa una capra, vero?

Le due capre marroni avevano proprio invaso un campetto di cavoli ai margini del villaggio. Alder ripeté la formula che Sparviere gli disse: "Noth hierth malk man, hiolk han merth han!".

Le capre lo guardarono con un misto di circospezione e sdegno e si allontanarono un poco. Delle grida e un bastone agitato nella loro direzione le indussero ad abbandonare il campo di cavoli e a raggiungere il sentiero, dopo di che Sparviere estrasse dalla tasca alcune susine. Promettendo, offrendo, blandendo, lentamente il vegliardo ricondusse le bestie ricalcitranti nel loro pascolo cintato.

— Sono strane creature — fece, chiudendo il cancello. — Non si sa mai come comportarsi con una capra.

Alder rifletté che non sapeva mai come comportarsi con quell’uomo, ma lo tenne per sé.

Quando furono di nuovo seduti all’ombra, l’uomo disse: — Lo strutturatore non è uno del Nord, è un karg. Come mia moglie. Era un guerriero di Karego-At. L’unico uomo, che io sappia, venuto a Roke da quelle terre. I karg non hanno maghi. Diffidano di tutta la magia. Ma rispetto a noi hanno conservato una maggiore conoscenza dei Vecchi poteri della terra. Quest’uomo, Azver, quand’era giovane, sentì parlare del Bosco immanente, e concluse che il centro di tutti i poteri della terra dovesse essere là. Così si lasciò alle spalle le sue divinità e la sua lingua nativa, e partì alla volta di Roke. Giunto alla nostra porta, ci disse: "Insegnatemi a vivere in quella foresta!". E noi gli insegnammo, finché non fu lui a cominciare a insegnare a noi… Così diventò il nostro maestro strutturatore. Non è un uomo cortese, però è fidato.

— Non ho mai avuto paura di lui — spiego Alder. — Per me era facile stargli vicino. Mi portava con sé nel folto del bosco.

Rimasero entrambi in silenzio, pensando alle radure e ai sentieri di quel bosco, alle sue foglie sotto il sole e la luce stellare.

— È il cuore del mondo — disse infine Alder. Sparviere guardò a est, verso le pendici del monte Gont, scure di alberi. — Andrò a passeggiare là — disse. — Nella foresta. Quest’autunno.

Poco dopo chiese: — Raccontami che consigli ti ha dato lo strutturatore, e perché ti ha mandato qui da me.

— Mi disse, mio signore, che del… della terra ferma, tu sapevi più di qualsiasi altro uomo, e dunque forse avresti capito cosa significhi il fatto che le anime di quel luogo vengano da me, supplicandomi di liberarle.

— Ti ha detto come pensa che sia accaduto?

— Sì. A suo avviso, forse mia moglie e io non eravamo capaci di separarci, solo di essere uniti. Pensa che non sia stata opera mia, ma forse di tutti e due insieme, perché ci attiravamo a vicenda, come gocce di argento vivo. Ma il maestro evocatore non era d’accordo. Secondo lui, solo un grande potere magico potrebbe violare così l’ordine del mondo. Poiché anche il mio vecchio maestro Sula mi ha toccato oltre il muro, l’evocatore ritiene che forse ci fosse in lui un grande potere magico rimasto nascosto o mascherato in vita, ma rivelatosi adesso.

Sparviere meditò alcuni istanti. — Quando vivevo a Roke — disse — avrei potuto condividere l’opinione dell’evocatore. Là non conoscevo potere più forte di quello che chiamiamo magia. Nemmeno i Vecchi poteri della terra, credevo… Se l’evocatore che hai conosciuto è l’uomo che penso, giunse a Roke da ragazzo. Il mio vecchio amico Vetch di Iffish lo mandò a studiare da noi. E lui non lasciò mai Roke. Questa è la differenza che c’è tra lui e Azver lo strutturatore. Azver ha vissuto come figlio di un guerriero fino all’età adulta, un combattente egli stesso, tra uomini e donne, nel folto della vita. Conosce per esperienza diretta questioni che i muri della scuola tengono all’esterno. Sa che gli uomini e le donne amano, fanno l’amore, si sposano… Dato che da quindici anni vivo fuori da quei muri, propendo a credere che quella suggerita da Azver sia la pista migliore. Il legame tra te e tua moglie è più forte della divisione tra la vita e la morte.

Alder esitò. — Ho pensato la stessa cosa. Però mi sembra… un’impudenza, crederlo. Ci amavamo, più di quanto non possa esprimere a parole, ma il nostro amore era più grande di qualsiasi altro prima di noi? Era più grande di quello di Morred ed Elfarran?

— Forse non era minore.

— Com’è possibile?

Sparviere lo guardò come se rendesse onore a qualcosa, e gli rispose con una sollecitudine che lo lusingò. — Be’ — disse lentamente — a volte c’è una passione che nel pieno rigoglio viene stroncata dalla sventura o dalla morte. E proprio perché termina al culmine della sua bellezza, è cantata dagli arpisti e celebrata dai poeti… L’amore che sfugge agli anni. Quello era l’amore del giovane re ed Elfarran. E così era il tuo amore, Hara. Non era più grande di quello di Morred, ma il suo era più grande del tuo?

Alder non disse nulla, riflettendo.

— Non esiste maggiore o minore in una cosa assoluta — proseguì il vecchio. — Tutto o nulla, dice il vero innamorato, ed è questa la verità. Il mio amore non morirà mai, dice. Rivendica l’eternità. E giustamente. Come può morire quel sentimento, dato che è la vita stessa? Cosa sappiamo noi dell’eternità? La scorgiamo solo di sfuggita attraverso quel vincolo amoroso.

Parlava sommesso, ma con ardore e trasporto; poi si spostò indietro sulla panca e, trascorsi alcuni attimi, abbozzando un sorriso, continuò: — Ogni giovane campagnolo zotico lo canta, ogni ragazza che sogna l’amore lo sa. Ma non è una cosa con cui i maestri di Roke abbiano dimestichezza. Lo strutturatore forse l’ha conosciuta presto. Io l’ho appresa tardi. Molto tardi. Non troppo tardi. — Guardò l’altro, l’espressione ancora ardente. — Tu l’hai avuta — concluse.

— Sì. — Alder trasse un respiro profondo. Poi disse: — Forse sono insieme, là, nella terra oscura. Morred ed Elfarran.

— No — replicò Sparviere, con desolata certezza.

— Ma se il legame è vero, cosa può romperlo?

— Non ci sono amanti, là.

— Allora, cosa sono, cosa fanno, in quella terra? Tu sei stato là, hai oltrepassato il muro. Hai camminato e parlato con loro. Raccontami!

— Va bene. — Ma Sparviere non disse nulla per un po’. — Non mi piace pensarci — fece. Si strofinò la fronte e aggrottò le ciglia. — Hai visto… Hai visto quelle stelle. Stelle piccole, squallide, che non si muovono mai. Niente luna. Niente levar del sole… Ci sono strade, se si scende la collina. Strade e città. Sulla collina c’è erba, erba morta, ma più giù ci sono soltanto polvere e pietre. Non cresce nulla. Città tenebrose. Le moltitudini di morti stanno immobili nelle vie, o camminano sulle strade senza meta. Non parlano. Non si toccano. Non si toccano mai. — La sua voce era bassa e aspra. — Là, Morred passerebbe accanto a Elfarran senza mai volgere il capo, e lei non lo guarderebbe… Non c’è riunione là, Hara. Nessun legame. Là, la madre non stringe a sé il figlio.

— Ma mia moglie è venuta da me — Replicò Alder. — Ha gridato il mio nome, mi ha baciato la bocca!

— Sì. E dato che il vostro amore non era più grande di qualsiasi amore mortale, dato che tu e lei non siete maghi potenti in grado di cambiare le leggi della vita e della morte, si tratta dunque di qualcos’altro. Qualcosa sta accadendo, sta cambiando. Anche se accade attraverso te e a te, tu sei il suo strumento e non la causa.

Sparviere si alzò, camminò fino all’inizio del sentiero lungo la scogliera, e tornò accanto ad Alder; era teso, eccitato, fremeva quasi, tanta era l’energia che aveva in corpo, come un falco in procinto di gettarsi sulla preda.

— Quando l’hai chiamata con il suo vero nome, tua moglie non ti ha detto: "Questo non è più il mio nome…"?

— Sì — sussurrò Alder.

— Ma com’è possibile? Noi che abbiamo veri nomi li conserviamo quando moriamo, è il nostro nome d’uso che viene dimenticato… Questo è un mistero per i dotti, credimi, ma per quanto ne sappiamo un vero nome è una parola della vera lingua. Ecco perché solo chi ha il dono può conoscere il nome di un bambino e dare tale nome. E il nome vincola l’essere… vivo o morto. Tutta l’arte dell’evocatore risiede in questo… Eppure, quando il maestro ha chiamato tua moglie con il suo vero nome, lei non è andata da lui. Tu l’hai chiamata con il suo nome d’uso, Giglio, e lei è venuta da te. È venuta da te come da colui che la conosceva veramente?

Sparviere guardò fisso Alder, ma come se vedesse qualcos’altro oltre all’uomo che gli sedeva accanto. Poco dopo, proseguì: — Quando il mio maestro Aihal morì, mia moglie era qui con lui; e mentre Aihal moriva, le disse: "È cambiato, è tutto cambiato". Stava guardando oltre quel muro. Da quale parte, non so… E da allora, ci sono stati dei cambiamenti… un re sul trono di Morred, e nessun arcimago di Roke. E altro, ben altro. Ho visto una bambina convocare il drago Kalessin, il Maggiore… e Kalessin è venuto da lei, chiamandola figlia, come anch’io la chiamo. Cosa significa? Cosa significa il fatto che dei draghi siano stati visti sopra le isole dell’occidente? Il re ci ha inviato un messaggio, ha mandato una nave qui al porto di Gont, chiedendo a mia figlia Tehanu di andare da lui per dargli un parere sui draghi. Le gente teme che il vecchio patto sia stato rotto, che i draghi tornino a bruciare campi e città come facevano prima che Erreth-Akbe combattesse con Orm Embar. E adesso, al confine che separa la vita e la morte, un’anima rifiuta il vincolo del proprio nome… Non capisco. So solo che è in atto un cambiamento. Che tutto sta cambiando.

Non c’era paura nella sua voce, soltanto fiera esultanza.

Alder non poteva condividere un simile stato d’animo. Aveva perso troppo ed era troppo stremato a causa della sua lotta contro forze che non era in grado di controllare né comprendere. Ma il suo cuore si mostrò all’altezza di tanto ardimento.

— Possa essere un cambiamento in meglio, mio signore — disse Alder.

— Sia pure così — annuì il vegliardo. — Ma un cambiamento deve avvenire.


Mentre la calura del giorno scemava, Sparviere disse che doveva andare al villaggio. Portò il cesto di susine, in cui aveva messo anche un cestino di uova.

Alder lo accompagnò, e conversarono. Quando si rese conto che il vecchio barattava la frutta e le uova e gli altri prodotti della piccola fattoria con orzo e farina, che la legna che bruciava era raccolta pazientemente nella foresta, che visto che le capre non davano latte doveva razionare il formaggio dell’anno prima, rimase stupito: com’era possibile che l’arcimago di Earthsea campasse alla giornata? La sua gente non lo onorava?

Quando giunse con lui al villaggio, vide che le donne chiudevano la porta al suo arrivo. Il venditore che prese le susine e le uova registrò lo scambio sulla sua tavoletta di legno senza dire una parola, il volto cupo e gli occhi bassi. Sparviere gli si rivolse affabile: — Ti auguro una buona giornata, allora, Iddi… — ma non ottenne risposta.

— Mio signore — chiese l’altro, mentre tornavano a casa — lo sanno chi sei?

— No — disse l’ex arcimago, con un’occhiata in tralice sarcastica. — E sì.

— Ma… — Alder non sapeva esprimere la propria indignazione.

— Sanno che non ho alcun potere stregonesco, ma c’è qualcosa di misterioso in me. Sanno che vivo con una forestiera, una donna kargica. Sanno che la ragazza che chiamiamo nostra figlia è una specie di strega, ma peggio, perché ha la faccia e la mano bruciate dal fuoco, e perché lei stessa ha bruciato il signore di Re Albi, o lo ha spinto giù dalla scogliera, o lo ha ucciso con il malocchio… le loro storie variano. Onorano la casa in cui viviamo, però, perché era la casa di Aihal e di Heleth, e i maghi morti sono buoni maghi… Tu sei un cittadino, Alder, di un’isola del regno di Morred. Un villaggio di Gont è ben altro discorso.

— Ma perché resti qui, signore? Il re sicuramente ti onorerebbe come meriti…

— Non voglio nessun onore — disse il vegliardo, con una veemenza che tacitò del tutto Alder.

Continuarono a camminare. Quando giunsero alla casa costruita sull’orlo della scogliera, Sparviere parlò di nuovo. — Questo è il mio rifugio, il mio nido d’aquila — disse.

Bevvero un bicchiere di vino rosso a cena, e un altro seduti all’esterno a osservare il tramonto. Non chiacchierarono molto. La paura della notte, del sogno, si stava impossessando del giovane.

— Non sono un guaritore — disse il più anziano — ma forse posso fare ciò che ha fatto il maestro erborista per permetterti di dormire.

L’altro lo fissò con aria interrogativa.

— Ho riflettuto, e penso che forse non sia stato affatto un incantesimo a tenerti lontano da quella collina, ma il semplice tocco di una mano viva. Se vuoi, possiamo provare.

Alder protestò, ma Sparviere ribatté: — Tanto, molto spesso trascorro sveglio la metà delle ore notturne. — Così, quella notte, l’ospite si coricò nel letto basso in fondo alla grande stanza, e il padrone di casa gli si sedette accanto, osservando il fuoco e sonnecchiando.

Osservò anche il giovane, e alla fine lo vide addormentarsi; e poco dopo vide che cominciava a tremare nel sonno. Allungò la mano e là mise sulla sua spalla. Il dormiente si agitò un poco, sospirò, si rilassò, e continuò a dormire.

Per Sparviere fu una soddisfazione poter fare almeno quello. Efficace come un mago, si disse con lieve sarcasmo.

Non aveva sonno; la tensione non lo aveva abbandonato. Pensò a tutto quello che Alder gli aveva detto, e a quello di cui avevano parlato nel pomeriggio. Lo rivide sul sentiero accanto al campetto di cavoli intento a recitare la formula per chiamare le capre, e l’altezzosa indifferenza delle capre alle parole prive di potere. Ricordò che un tempo pronunciava il nome dello sparviere, del falco palustre, dell’aquila grigia, chiamandoli a sé dal cielo in un battito impetuoso di ali perché gli ghermissero il braccio con artigli di ferro e lo fissassero negli occhi con torvi occhi dorati… Tutto finito, ormai. Poteva vantarsi, chiamando quella casa il suo nido d’aquila, ma non aveva ali.

Però Tehanu le aveva. Aveva ali di drago su cui volare.

Il fuoco si era spento. Sparviere si strinse nella pelle di pecora, appoggiando la testa al muro, tenendo sempre la mano sulla spalla calda e inerte di Alder. Provava simpatia per lui, e gli dispiaceva che si trovasse in quella situazione.

Doveva ricordarsi di chiedergli di aggiustare la brocca verde, l’indomani.

L’erba vicino al muro era bassa, secca, morta. Non spirava alcun vento che la facesse muovere o frusciare.

Si destò con un sussulto, alzandosi in parte dalla sedia e, dopo un istante di smarrimento, posò di nuovo la mano sulla spalla del giovane, la strinse piano, e mormorò: — Hara! Vieni via, Hara. — Alder rabbrividì, poi si rilassò. Sospirò ancora, si girò sul ventre e rimase immobile.

L’anziano tenne la mano sulla spalla del dormiente. Come aveva fatto, lui, ad arrivare là, al muro di pietra? Non aveva più il potere per andare in quel luogo. Per lui era impossibile trovare la via. Com’era successo la notte precedente, il sogno o la visione di Alder, la sua anima viaggiatrice, lo aveva portato con sé ai margini della terra tenebrosa.

Adesso Sparviere era completamente sveglio. Restò seduto a osservare il riquadro grigiastro della finestra sul lato ovest, piena di stelle.

L’erba sotto il muro… Non cresceva più in basso, dove la collina diventava piana, la piana di quella terra fosca e arida. Aveva detto al giovane che laggiù c’era solo polvere, solo roccia. Vide quella polvere nera, roccia nera. Alvei di torrenti morti dove non scorreva mai acqua. Nessun essere vivente. Nessun uccello, nessun topo selvatico timoroso, nessuno scintillio e ronzio di piccoli insetti, le creature del sole. Solo i morti, con i loro occhi vacui e le facce silenziose.

Ma gli uccelli non morivano?

Un topo, un moscerino, una capra… una capra bianca e marrone, svelta, sfacciata, con gli occhi gialli, Sippy, la capra prediletta di Tehanu morta l’inverno scorso a una veneranda età… dov’era Sippy?

Non nella terra tenebrosa. Era morta, ma non era là. Era dov’era giusto che fosse, nel terreno. Nel terreno, nella luce, nel vento, nell’acqua che sprizzava dalla roccia, nell’occhio giallo del sole.

Allora perché, perché?…


Osservò Alder che riparava la brocca. Panciuta, verde giada, era uno degli oggetti preferiti di Tenar, che l’aveva portata da Oak Farm anni addietro. Gli era scivolata di mano l’altro giorno, mentre la prendeva dalla mensola. Sparviere aveva raccolto i due grossi pezzi e i minuscoli frammenti, riproponendosi di incollarli, perché la brocca potesse fare bella mostra come ornamento, anche se non sarebbe più stato possibile usarla. Ogni volta che vedeva i cocci, che aveva riposto in un cestino, pensando a quanto era stato maldestro, si arrabbiava con se stesso.

Ora, affascinato, guardava le mani del giovane. Snelle, forti, abili, senza fretta, quelle mani cullavano la forma della brocca, lisciando e incastrando e sistemando i cocci di terracotta, esortando e accarezzando, i pollici che blandivano e guidavano i frammenti più piccoli fino a farli combaciare, riunendoli, rassicurandoli. Mentre lavorava, mormorava una cantilena di due parole. Erano parole della Vecchia lingua. Ged lo sapeva, ma non conosceva il loro significato. Il volto di Alder era sereno, completamente privo di tensione e di angoscia: un volto così assorto nel lavoro da sprigionare una calma eterna.

Le mani si separarono dalla brocca, staccandosi dall’oggetto e aprendosi come un fiore che sbocciasse. Sul tavolo di quercia, la brocca era intatta.

Alder la guardò in silenzio, contento.

Quando il vecchio lo ringraziò, l’altro disse: — Non è stato difficile. Le rotture erano nette. È un oggetto ben fatto, e buona terracotta. Sono i lavori scadenti quelli difficili da riparare.

— Ho pensato a un metodo che potrebbe aiutarti a dormire in pace — annunciò Ged.

Si era svegliato ai primi albori del giorno e si era alzato, in modo che il vegliardo potesse andare nel proprio letto e dormire sodo qualche ora; ma quella era chiaramente una soluzione di ripiego.

— Vieni con me — lo invitò il vegliardo, e insieme s’incamminarono verso l’interno dell’isola, imboccando un sentiero che costeggiava il pascolo delle capre e serpeggiava tra poggi, campicelli un po’ trascurati, e insenature della foresta. Gont era un luogo dall’aspetto selvaggio per l’ospite, aspro e caotico, con la montagna irsuta che si stagliava sempre minacciosa.

Mentre camminavano, Sparviere spiegò: — Ho pensato che, se io sono riuscito a fare quel che ha fatto il maestro erborista, a tenerti lontano dalla collina del muro semplicemente toccandoti con la mia mano, forse allora ci sono altri in grado di aiutarti. Sempre che tu non abbia nulla in contrario se si tratta di animali.

— Animali?

— Vedi — iniziò il vecchio, ma non poté continuare, interrotto da una strana creatura che avanzava verso di loro saltellando sul sentiero. Era infagottata in gonne e scialli, e delle piume le spuntavano dalla testa in tutte le direzioni. — Oh, Mastroviere, Mastroviere! — sbraitò.

— Salve, Erica. Adagio, piano — fece Sparviere.

La donna si fermò, dondolando il corpo, le piume in testa ondeggianti, un largo sorriso sul volto. — Lei sapeva che stavi arrivando! — vociò. — Ha fatto il becco dello sparviero con le dita… così, vedi… ha fatto così, e mi ha detto vai, vai, con la mano! Sapeva che stavi venendo!

— E sto proprio venendo.

— A trovarci?

— A trovarvi. Erica, questo è maestro Alder.

— Mastralno — mormorò la donna, calmandosi di colpo mentre includeva la presenza di Alder nella propria coscienza. Indietreggiò, si chiuse in se stessa, si guardò i piedi.

Non portava stivali. Le sue gambe nude erano coperte dal ginocchio in giù di fango liscio marrone che stava seccando. Le gonne, raccolte, avevano l’orlo infilato nella cintura.

— Sei andata a caccia di rane, vero, Erica?

Lei annuì con aria assente.

— Andrò a dirlo a zietta — fece, iniziando sottovoce e terminando con un muggito, e partì di gran carriera tornando sui propri passi.

— È una brava persona — disse Sparviere. — Un tempo aiutava mia moglie. Adesso vive con la nostra strega e l’aiuta. Credo che non avrai nulla in contrario a entrare nella casa di una strega, sbaglio?

— No, assolutamente… non ho nulla in contrario, mio signore.

— Molte persone, sì. Nobili e gente comune, maghi e stregoni.

— Mia moglie Giglio era una strega.

Ged chinò il capo e camminò in silenzio per un po’. — Com’è che tua moglie ha scoperto di possedere il dono, Alder?

— Era qualcosa di innato in lei. Da bambina sanava i rami spezzati degli alberi, e gli altri bambini le portavano i loro giocattoli rotti da aggiustare. Ma quando suo padre la vedeva fare quelle cose, le picchiava le mani. La famiglia di Giglio contava molto nella sua città. Persone rispettabili — raccontò il marito, con voce calma, dolce. — Non volevano che lei frequentasse streghe, dato che questo le avrebbe impedito di sposare un uomo rispettabile. Così lei teneva tutto per sé. E le streghe non volevano avere nulla a che fare con lei, neppure quando cercava di imparare da loro, perché temevano suo padre. Poi un uomo ricco cominciò a corteggiarla, perché era bella, come ti ho detto, mio signore. Più bella di quanto io possa descrivere. E suo padre le disse che doveva sposarsi. Giglio fuggì quella stessa notte. Visse da sola, vagando, per alcuni anni, ospitata qui e là da qualche strega, ma mantenendosi grazie al suo talento.

— Non è una grande isola, Taon.

— Suo padre non la cercava. Diceva che una strega che andava in giro ad aggiustare oggetti non poteva essere sua figlia.

L’altro piegò di nuovo il capo. — Così lei sentì parlare di te, e ti raggiunse.

— Ma mi insegnò molte più cose di quelle che potevo insegnarle io — disse Alder, sincero. — Possedeva un grande dono.

— Ci credo.

Erano giunti a una piccola casa, o una grande capanna, situata in fondo a una valletta, circondata da grovigli di amamelide e ginestra, con una capra sul tetto, e un numero di galline nere macchiettate di bianco che starnazzavano, e una pigra cagnetta da pastore che si alzò per abbaiare, poi cambiò idea e dimenò la coda.

Sparviere andò alla porta bassa, si chinò e guardò dentro. — Ecco, zietta! — esordì. — Ti ho portato un visitatore. Alder, uno stregone dell’isola di Taon. La sua arte è la riparazione, ed è un vero maestro, te lo garantisco, perché l’ho appena visto rimettere insieme la brocca verde di Tenar, tu sai quale intendo, brocca che io da vecchio sciocco maldestro avevo fatto cadere e rotto in tanti pezzi l’altro giorno.

Entrò nella capanna, e Alder lo seguì. Una vecchia sedeva su una sedia imbottita vicino alla porta, da dove poteva guardare l’esterno illuminato dal sole. Delle piume le spuntavano dai capelli bianchi sottili. Una gallina chiazzata le stava accovacciata in grembo. La vecchia sorrise a Ged con dolcezza e gli rivolse un garbato cenno di saluto. La gallina si svegliò, chiocciò e se ne andò.

— Questa è Muschio — disse Sparviere. — Una strega con tante doti, la più grande delle quali è la gentilezza.

In quel modo, rifletté Alder, l’arcimago di Roke avrebbe potuto presentare un grande mago a una grande signora. Fece un inchino. La vecchia piegò il capo e rise un poco.

Fece un gesto circolare con la mano sinistra, rivolgendo al vecchiardo uno sguardo interrogativo.

— Tenar? Tehanu? — disse Sparviere. — Ancora a Havnor con il re, per quel che ne so. Si divertiranno moltissimo là, visitando la grande città e i palazzi.

— Ho fatto delle corone per noi — strillò Erica, sbucando dalla parte più interna della casa, un caos buio e odoroso. — Come re e regine. Visto? — Si lisciò le penne di gallina infilate nei capelli folti. Zietta Muschio, ricordandosi della propria singolare acconciatura, diede qualche debole colpetto alle piume e fece una smorfia.

— Le corone sono pesanti — disse Ged. Delicatamente, le tolse le piume dalle ciocche di capelli più fini.

— Chi è la regina, Mastroviere? — strillò Erica. — Chi è la regina? Bannen è il re, chi è la regina?

— Re Lebannen non ha una regina, Erica.

— Perché no? Dovrebbe averla. Perché no?

— Forse la sta cercando.

— Sposerà Tehanu! — gridò allegra Erica. — La sposerà!

Alder vide che il volto di Sparviere cambiava, si chiudeva, diventava roccia.

Il vecchio disse solo: — Ne dubito. — Stringendo le penne tolte dai capelli di Muschio, le accarezzò adagio. — Sono venuto a chiederti un favore, come sempre, zietta Muschio — aggiunse poi.

La vecchia allungò la mano sana e prese quella del vecchio con tale tenerezza che Alder provò una profonda commozione.

— Vorrei che mi prestassi uno dei tuoi cuccioli.

Muschio assunse un’espressione mesta. Erica, a bocca aperta accanto a lei, rifletté a lungo e poi gridò: — I cuccioli! zietta Muschio, i cuccioli! Ma non ci sono più!

La vecchia annuì, desolata, accarezzando la mano bruna di Sparviere.

— Qualcuno li voleva?

— Il più grande è uscito e forse è corso nella foresta e qualche creatura l’ha ucciso perché non è più tornato, e poi il vecchio Zonzo è venuto e ha detto che aveva bisogno di cani da pastore, che li avrebbe presi tutti e due e li avrebbe addestrati, e zietta glieli ha dati perché davano la caccia ai nuovi pulcini di Fiocchidineve, e si mangiavano là casa, anche.

— Be’, Zonzo forse avrà il suo bel daffare ad addestrarli — commentò Sparviere, abbozzando un sorriso. — Sono contento che li abbia lui, però mi dispiace che non ci siano più, perché volevo prenderne in prestito uno per un paio di notti. Dormivano sul tuo letto, vero, Muschio?

La vecchia annuì, ancora triste. Poi, rasserenandosi un po’, alzò lo sguardo con la testa piegata di lato e miagolò.

Sparviere batté le palpebre, perplesso, ma Erica capì. — Oh! I gattini! — gridò. — Grigina ne ha avuti quattro, e Nerone ne ha ucciso uno prima che potessimo fermarlo, ma ce ne sono ancora due o tre qui in giro, dormono con zietta quasi ogni notte, adesso che i cagnolini se ne sono andati. Micini, micini, micini! Dove siete, micini? — E dopo parecchio trambusto, rumori di lotta e miagolii acuti nell’interno buio della casupola, riapparve stringendo in mano un gattino grigio che si dimenava e protestava. — Eccone uno! — gridò, e lo lanciò a Ged, che lo prese impacciato e fu subito morso.

— Su, buono — disse quello. — Calmati. — Il gattino emise un ringhio in miniatura, e tentò di morderlo ancora. Muschio fece un cenno, e il vecchio le posò la bestiola in grembo. La vecchia l’accarezzò con mano lenta e pesante. Il micino si stese subito, si stirò, la guardò e fece le fusa.

— Puoi prestarmelo per qualche tempo?

La vecchia strega staccò la mano dal gattino e la alzò in un gesto regale che significava chiaramente: "Volentieri. È tuo".

— Sai, maestro Alder fa dei sogni che lo turbano, e ho pensato che forse la vicinanza di un animale di notte potrebbe alleviare il suo turbamento.

Muschio annuì solenne e, guardando il giovane, infilò la mano sotto il micino e lo sollevò verso di lui. Lo prese circospetto. Il gattino non ringhiò, né cercò di mordere. Gli si arrampicò lungo il braccio e gli si aggrappò al collo sotto i capelli, che portava raccolti sulla nuca.

Mentre tornavano alla casa del vecchio mago, con il gattino infilato nella camicia di Alder, Sparviere spiegò: — Una volta, quando ero nuovo del mestiere, mi chiesero di guarire un bambino malato di febbre rossa. Sapevo che il piccolo stava morendo, ma non volevo lasciarlo andare. Cercai di seguirlo. Di riportarlo indietro. Oltre il muro di pietra… E così, con il corpo qua, caddi accanto al letto, giacendo a terra come se anch’io fossi morto. Una strega presente capì cosa era successo, e mi fece portare a casa mia e mettere a letto. E nella mia abitazione c’era un animale che aveva fatto amicizia con me quando ero bambino a Roke, una creatura selvatica venuta da me spontaneamente e rimasta con me. Un otak. Li conosci? Non credo che ci siano nel Nord.

Alder esitò. Rispose: — Ne ho sentito parlare solo in quella parte delle gesta che narra come… come il mago giunse alla corte di Terrenon a Osskil. L’otak cercò di avvisarlo che c’era un gebbeth che gli stava appresso. E il mago si liberò del gebbeth, ma il piccolo animale fu preso e ucciso.

Sparviere proseguì senza parlare per una ventina di passi. — Sì — fece poi. — È questo che si narra. Ebbene, anche il mio otak mi salvò la vita quando a causa del mio comportamento folle mi ritrovai dall’altra parte del muro, con il corpo che giaceva qui e la mia anima smarrita là. L’otak venne da me e mi lavò, come lavano se stessi e i loro piccoli, come fanno i gatti, con una lingua asciutta, pazientemente, toccandomi e riportandomi indietro con il suo tocco, riportandomi nel mio corpo. E il dono che l’animale mi fece non fu solo la vita, ma una conoscenza profonda quanto quello che ho imparato a Roke… Purtroppo, dimentico tutto il mio sapere… Una conoscenza, come ho detto, ma anche un mistero. Qual è la differenza tra noi e gli animali? Il linguaggio? Tutti gli animali parlano in qualche modo, dicendo "vieni" e "bada" e molte altre cose; però non possono narrare storie, e non possono dire bugie. Mentre noi possiamo… Ma i draghi parlano: parlano la vera lingua, la Lingua della creazione, in cui non ci sono bugie, in cui narrare la storia equivale a far sì che la storia si compia! Eppure noi chiamiamo i draghi "animali"… Dunque, forse la differenza non è la lingua. Forse consiste in questo: gli animali non agiscono né bene né male. Fanno ciò che devono fare. Noi possiamo definire quello che fanno dannoso o utile, ma bene e male appartengono a noi, che compiamo una scelta, decidiamo cosa fare. I draghi sono pericolosi, sì. Possono nuocere. Ma non sono malvagi. Sono al di sotto della nostra moralità, per così dire, come qualsiasi animale. O al di là. Non hanno nulla a che fare con la moralità… Noi dobbiamo compiere delle scelte, in continuazione. Agli animali basta esistere e fare. Noi siamo aggiogati, e loro sono liberi. Quindi, essere con un animale significa conoscere un poco di libertà… La notte scorsa, stavo pensando che le streghe spesso hanno un animale come compagno. Mia zia aveva un vecchio cane che non abbaiava mai. Lo chiamava Vaiavanti. E l’arcimago Nemerle, la prima volta che giunsi a Roke, aveva un corvo che lo seguiva ovunque. E ho pensato a una giovane che un tempo conoscevo, che come bracciale portava una piccola lucertola-drago, una harreki. E così alla fine mi sono ricordato del mio otak. Allora ho pensato che se Alder ha bisogno del calore di un tocco per rimanere da questa parte del muro, perché non provare con un animale? Dato che loro vedono la vita, non la morte. Forse un cane o un gatto è efficace quanto un maestro di Roke…

L’idea di Ged si rivelò valida. Il micino, evidentemente felice di avere abbandonato una casa infestata di cani, gatti, galli, e l’imprevedibile Erica, si sforzò di dimostrare che era un animale affidabile e diligente, perlustrando la casa in cerca di topi, stando appollaiato sulla spalla di Alder sotto i suoi capelli quando gli era consentito, e accovacciandosi ronfante a dormire sotto il suo mento non appena il suo padrone si fu coricato. Alder dormì tutta la notte senza sognare, e al risveglio trovò il gattino seduto sul proprio petto, intento a lavarsi le orecchie con un’aria tranquilla e virtuosa.

Quando Sparviere provò a stabilire se fosse maschio o femmina, però, il micio ringhiò e si dibatté. — Va bene — disse il vecchio, affrettandosi a ritrarre la mano. — Come vuoi… O è maschio o è femmina. Questo è certo.

— Non gli metterò nessun nome, in ogni caso — fece lui. — I micini si spengono come fiammelle di candela. E se gli si mette un nome, poi si soffre di più quando muoiono.

Quel giorno, su suggerimento di Alder, andarono a riparare la staccionata, camminando lungo il recinto del pascolo delle capre, Sparviere all’interno, l’altro all’esterno. Quando uno dei due trovava un punto dove le assicelle mostravano segni di marciume o i legacci stavano cedendo, Alder passava le mani lungo il legno, tirando, lisciando e rafforzando, intonando una cantilena quasi impercettibile che gli risuonava in gola e nel petto, la faccia rilassata e assorta.

Una volta il vecchiardo, osservandolo, mormorò: — E io un tempo davo tutto quanto per scontato!

Il suo ospite, assorbito dal proprio lavoro, non gli chiese cosa intendesse dire.

— Ecco — annunciò. — Adesso resisterà. — E proseguirono, seguiti dalle due capre curiose, che spingevano e prendevano a testate i tratti di staccionata riparati, quasi volessero saggiarne la solidità.

Sparviere disse: — Ho pensato che forse sarebbe bene che tu andassi a Havnor.

Alder lo guardò, allarmato. — Ah… io pensavo che forse, visto che adesso pare abbia trovato il modo di stare lontano da… da quel luogo… forse potrei tornare a casa, a Taon. — Mentre lo diceva, però, si rese conto di non essere affatto convinto delle proprie parole.

— Potresti, ma non credo che sarebbe una cosa saggia.

Riluttante, il giovane ammise: — È pretendere troppo, sperare che un gattino difenda un uomo dalle orde dei morti.

— Sì.

— Ma io… cosa dovrei fare a Havnor? — chiese. E, di colpo speranzoso, soggiunse: — Tu verresti con me?

Ged scosse il capo. — Io resto qui.

— Il maestro strutturatore…

— Ti ha mandato da me. E io ti mando dalle persone che dovrebbero sentire il tuo racconto e scoprire cosa significhi… Vedi, Alder, penso che in cuor suo lo strutturatore creda che io sia quel che ero. Crede che io stia semplicemente nascondendomi qui nelle foreste di Gont, e che in caso di estremo bisogno accorrerò. — Il vegliardo guardò i propri indumenti macchiati di sudore e rattoppati, le scarpe impolverate, e rise. — In tutto il mio splendore — disse.

Beeehhh - fece la capra marrone dietro di lui.

— Comunque, Alder, lo strutturatore ha fatto bene a mandarti qui, dato che lei sarebbe stata qui, se non fosse andata a Havnor.

— Lady Tenar?

Hama Gondun. Così l’ha chiamata lo strutturatore stesso — rispose Ged, guardando Alder dall’altra parte della staccionata, gli occhi insondabili. — Una donna a Gont. La donna di Gont. Tehanu.

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