2 Palazzi

Quando Alder giunse al porto, la Farflyer era ancora ormeggiata al molo e prendeva a bordo un carico di legname; lui sapeva di non essere un passeggero gradito in quella nave. Salì su una piccola e malconcia imbarcazione costiera, ormeggiata vicino alla Farflyer, la Pretty Rose.

Sparviere gli aveva dato una lettera d’imbarco firmata dal re e marchiata con la runa della pace. — Il re me l’ha inviata perché la usassi se avessi cambiato idea — aveva spiegato il vegliardo, sbuffando. — Servirà a te. — Il capitano della nave, dopo averla fatta leggere dal commissario di bordo, diventò assai rispettoso e si scusò per lo spazio angusto e la lunghezza del viaggio. La Pretty Rose era diretta a Havnor, certo, però era una nave costiera, che trasportava modeste quantità di merci di porto in porto, e avrebbe potuto impiegare un mese per circumnavigare la costa sudorientale della Grande isola e raggiungere la città del re.

Lui non aveva nessuna fretta, disse Alder. Perché anche se temeva il viaggio in mare, temeva ancor di più la fine della traversata.

Dal novilunio al semilunio, Alder conobbe un periodo di pace. Il gattino grigio era un viaggiatore robusto e audace; per tutto il giorno dava la caccia ai topi a bordo della nave, ma di notte si raggomitolava fedele sotto il suo mento o al suo fianco; e con grande stupore, quella creaturina calda continuava a tenerlo lontano dal muro di pietra e dalle voci che lo chiamavano dal lato opposto della barriera. Non del tutto, però. Non a tal punto da fargliele dimenticare completamente. Erano là, appena oltre il velo del sonno nell’oscurità, appena oltre il chiarore del giorno. Dormendo sul ponte in quelle notti calde, Alder spesso apriva gli occhi per assicurarsi che le stelle si muovessero, ondeggiando al dondolio della nave ormeggiata, seguendo il loro corso nel cielo verso ovest. Era ancora un uomo tormentato. Ma per metà mese d’estate lungo le coste di Kameber e Barnisk e della Grande isola, poté volgere le spalle ai propri fantasmi.

Per giorni interi il gattino diede la caccia a un topo quasi delle sue dimensioni. Vedendolo trascinare orgoglioso la preda sul ponte, uno dei marinai lo chiamò Tiro. E ad Alder quel nome piacque.

Attraversarono lo stretto di Ebavnor ed entrarono nella baia di Havnor. Sulla distesa d’acqua illuminata dal sole, a poco a poco apparvero in lontananza, emergendo dalla foschia, le torri bianche della città al centro del mondo. Alder era in piedi a prua quando giunsero a destinazione e, alzando lo sguardo vide sul pinnacolo della torre più alta un bagliore di luce argentea, la spada di Erreth-Akbe.

A quel punto avrebbe voluto rimanere a bordo, continuare il viaggio ed evitare di scendere a terra nella grande città e presentarsi a gente di rango elevato con una lettera per il re. Sapeva di non essere un messaggero adatto a tale incarico. Perché un onere così gravoso era toccato proprio a lui? Com’era possibile che uno stregone di campagna che non sapeva nulla delle questioni importanti e delle arti profonde dovesse compiere quei viaggi di terra in terra, da mago a monarca, dai vivi ai morti?

Aveva detto qualcosa del genere a Sparviere. — Non sono cose alla mia portata — aveva fatto notare. Il vegliardo lo aveva osservato un poco, poi, chiamandolo con il suo vero nome, aveva replicato: — Il mondo è vasto e strano, Hara, ma non più vasto e strano della nostra mente. Pensa a questo, qualche volta.

Dietro la città, il cielo fu oscurato da un temporale nell’entroterra. Le torri ardevano bianche sullo sfondo nero violaceo, e i gabbiani si libravano sopra di esse come scintille di fuoco svolazzanti.

La Pretty Rose attraccò, venne abbassata la passerella. Questa volta i marinai lo salutarono e gli augurarono buona fortuna mentre si metteva lo zaino in spalla. Alder raccolse il cesto coperto in cui era accovacciato paziente Tiro, e sbarcò.

Le strade erano numerose e affollate, ma la via da seguire per raggiungere il palazzo era chiara, e non gli rimase che seguirla e dire che aveva una lettera per il re da parte dell’arcimago Sparviere.

E lo disse molte volte.

Andò da una guardia all’altra, da un funzionario all’altro, dagli ampi scalini esterni del palazzo ad alte anticamere, scale dalla balaustra dorata, uffici interni con le pareti coperte di arazzi, percorrendo pavimenti di piastrelle e di marmo e di quercia, sotto soffitti a cassettoni, a volta, dipinti, ripetendo la sua magica litania: — Vengo da parte di Sparviere, l’arcimago di un tempo, con una lettera per il re. — Non voleva consegnare la lettera. Un codazzo di gente, una folla di guardie e uscieri e funzionari sospettosi, sussiegosi, che temporeggiavano e ostacolavano, continuava a radunarsi attorno a lui, gli stava appresso e intralciava la sua lenta avanzata nel palazzo.

Poi, all’improvviso, sparirono tutti. Si era aperta una porta. Si richiuse alle sue spalle.

Alder era solo in una stanza silenziosa. Un’ampia finestra dava sui tetti, rivolta a nord-ovest. Le nubi temporalesche si erano dissolte, e la grande vetta grigia del monte Onn si stagliava sopra colline lontane.

Si aprì un’altra porta. Entrò un uomo, vestito di nero, circa della sua stessa età, dai movimenti rapidi, con un volto bello e forte, liscio come bronzo. Andò subito verso di lui.

— Maestro Alder, sono Lebannen.

Tese la destra per toccare la mano di Alder, palmo contro palmo, secondo la consuetudine di Ea ed Enlades. Egli rispose automaticamente a quel gesto familiare. Poi rifletté che avrebbe dovuto inginocchiarsi, o almeno inchinarsi, ma ormai il momento per farlo era passato. Così restò impalato.

— Ti ha inviato lord Sparviere? Come sta? Sta bene?

— Sì, signore. Ti manda… — Alder si frugò frettoloso nella giubba in cerca della lettera, che si era riproposto di porgere al sovrano inginocchiandosi, quando finalmente lo avessero accompagnato nella sala del trono dove il re lo avrebbe atteso seduto sulla sua grossa poltrona… — questa lettera, mio signore.

Gli occhi che lo osservavano erano vigili, cortesi, penetranti come quelli dell’arcimago, ma ancor più imperscrutabili. Mentre prendeva la lettera consegnatagli da Alder, il re disse con modi impeccabili: — Il latore di qualsiasi messaggio da parte sua è il benvenuto e ha i miei più fervidi ringraziamenti… Vuoi scusarmi?

Alder riuscì finalmente a inchinarsi. Il sovrano si avvicinò alla finestra per leggere la lettera.

La lesse almeno due volte, quindi la ripiegò. Il suo viso era impassibile come poco prima. Andò alla porta e parlò a qualcuno nella stanza accanto, poi tornò a girarsi verso il nuovo arrivato. — Prego, siediti con me — disse. — Ci porteranno qualcosa da mangiare. Sei stato tutto il pomeriggio nel palazzo, lo so. Se il capoguardia avesse avuto il buonsenso di informarmi, avrei potuto risparmiarti le ore necessarie per superare le mura e i fossati… Sei stato ospite di lord Sparviere? Nella sua casa sull’orlo della scogliera?

— Sì.

— Ti invidio. Non sono mai stato là. Non lo vedo da quando ci separammo a Roke, ed è trascorsa metà della mia vita da allora. Non ha mai voluto che andassi da lui a Gont. Non è venuto alla mia incoronazione. — Lebannen sorrise, come se si trattasse di cose prive di importanza. — Mi ha dato il regno — disse.

Sedendosi, con un cenno invitò Alder a prendere posto di fronte a lui dall’altra parte di un tavolino. Alder guardò il piano del tavolo, intarsiato con motivi sinuosi d’avorio e d’argento, foglie e fiori di sorbo intrecciati a spade sottili.

— Hai fatto buon viaggio? — chiese il re, e chiacchierò del più e del meno mentre venivano serviti piatti di carne fredda e trota affumicata con lattuga e formaggio. Diede ad Alder il buon esempio mangiando con appetito; e versò a entrambi del vino color topazio chiarissimo, in calici di cristallo. Alzò il proprio bicchiere. — Al mio signore e caro amico — brindò.

Il commensale mormorò: — A lui. — E bevve.

Il re parlò di Taon, che aveva visitato alcuni anni addietro… Alder ricordava l’eccitazione di tutta l’isola quando il re era stato a Meoni. Parlò di alcuni musicisti di Taon che erano in città in quel periodo, arpisti e cantori venuti a esibirsi per la corte; forse lui conosceva qualcuno di loro; i nomi, infatti, che il re pronunciò gli erano familiari. Il sovrano era molto bravo a mettere a proprio agio l’ospite, e facevano la loro parte anche il cibo e il vino.

Quando ebbero finito di mangiare, il re versò a entrambi un altro mezzo bicchiere di vino, e disse: — La lettera riguarda te, perlopiù. Lo sapevi? — Il suo tono non era cambiato granché rispetto alle chiacchiere di poc’anzi, e per un attimo Alder rimase interdetto.

— No — rispose.

— Hai idea di che cosa parli?

— Di quello che sogno, forse — fece Alder sottovoce, abbassando lo sguardo.

Il re lo osservò un istante. Non c’era nulla di offensivo nei suoi occhi, ma in quell’esame il sovrano fu più esplicito di quanto non sarebbero stati la maggior parte degli uomini. Poi prese la lettera e gliela porse.

— Mio signore, io leggo pochissimo.

Il sovrano non era sorpreso — alcuni stregoni sapevano leggere, altri no — ma si rammaricò in modo evidente di aver messo in imbarazzo l’ospite. Il colorito bronzeo dorato del suo volto diventò rosso cupo. — Scusami, Alder. Posso leggerti quel che dice lord Sparviere?

— Sì, grazie, mio signore — rispose lui. Di fronte al disagio del sovrano, per un attimo si sentì pari al re, e per la prima volta parlò con naturalezza e cordialità.

Lebannen scorse in fretta le righe introduttive, quindi lesse ad alta voce: — "Alder di Taon, latore di questa missiva, viene chiamato in sogno e contro la propria volontà in quella terra che tu e io attraversammo una volta insieme. Ti parlerà di sofferenza là dove la sofferenza è ormai passata, e di cambiamento là dove nulla cambia. Noi avevamo chiuso la porta aperta da Cob. Ora il muro forse deve cadere. Alder è stato a Roke. Solo Azver lo ha ascoltato. Il re mio signore ascolterà e agirà con la saggezza richiesta in questa circostanza. Alder reca il mio tributo di sempiterno onore e obbedienza al re mio signore. E di sempiterno onore e considerazione per la mia signora Tenar. E reca inoltre un mio messaggio verbale per la mia diletta figlia Tehanu". E firma con la runa dell’Artiglio. — Lebannen staccò lo sguardo dalla lettera e lo fissò negli occhi. — Dimmi cosa sogni — chiese.

Così, una volta ancora, lui raccontò la propria storia.

La espose in breve e non molto bene. Anche se aveva avuto soggezione di Sparviere, l’ex arcimago sembrava un vecchio contadino, ne aveva l’aspetto, l’abbigliamento e il modo di vivere; pareva dunque un uomo del suo stesso rango, e tale semplicità aveva cancellato il suo timore e la sua timidezza. Per quanto gentile e cortese potesse essere, il re aveva un aspetto regale, si comportava da re, era il governante, e per Alder la distanza che li separava era insuperabile. Così si affrettò a raccontare come meglio poteva e, giunto al termine, si sentì sollevato.

Lebannen gli rivolse qualche domanda. Giglio e poi Sula lo avevano entrambi toccato una volta: mai più dopo quella volta? E il tocco di Sula lo aveva bruciato?

Alder allungò la mano. I segni erano quasi invisibili sotto l’abbronzatura di un mese.

— Credo che la gente accanto al muro mi toccherebbe se mi avvicinassi — disse.

— Però tu stai lontano da loro?

— L’ho fatto.

— E non sono persone che conoscevi in vita?

— A volte mi sembra di riconoscere qualcuno.

— Ma mai tua moglie?

— Sono tanti, mio signore. A volte ho l’impressione che lei sia là con loro. Ma non riesco a vederla.

Parlandone, l’incubo cominciò quasi a materializzarsi. Alder fu pervaso di nuovo dalla paura. Pensò che le pareti della stanza potessero dissolversi, che il cielo della sera e la vetta del monte potessero svanire come una tenda scostata, lasciandolo dove si ritrovava sempre, là, su una collina tenebrosa vicino a un muro di pietra.

— Alder.

Alzò lo sguardo, scosso, la testa che gli girava. La stanza sembrava luminosa, la faccia del re dura e vivida.

— Alloggerai qui nel palazzo?

Era un invito, ma Alder riuscì solo ad annuire, accettandolo come un ordine.

— Bene. Darò disposizioni perché domani tu comunichi a Tehanu il messaggio destinato a lei. E so che la Bianca signora desidererà parlare con te.

Alder s’inchinò. Il sovrano si voltò per andarsene.

— Mio signore…

Quello si girò.

— Posso tenere con me il mio gatto?

Nemmeno l’accenno di un sorriso, nessuna traccia di dileggio. — Certo.

— Mio signore, mi dispiace terribilmente portarti notizie preoccupanti!

— Qualsiasi messaggio da parte dell’uomo che ti ha inviato qui mi giunge gradito. Preferisco ricevere cattive notizie da un uomo onesto che menzogne da un adulatore — disse Lebannen, e Alder, cogliendo in quelle parole il vero accento delle proprie isole natie, si sentì un poco rincuorato.

Il re uscì, e subito un uomo si affacciò alla porta da cui lui stesso era entrato. — Se vuoi seguirmi, ti condurrò nella tua stanza, signore — annunciò. Era solenne, anziano e ben vestito, e lui lo seguì, senza sapere se fosse un nobiluomo o un servitore, e non osando quindi chiedergli di Tiro. Nell’anticamera della sala dove aveva incontrato il re, i funzionari e le guardie avevano insistito irremovibili perché lasciasse lì il suo cesto. Il cestino era già stato osservato con sospetto e ispezionato con disapprovazione da una quindicina di funzionari. Alder aveva spiegato altrettante volte che aveva con sé il gatto perché non sapeva dove lasciarlo in città. L’anticamera dov’era stato costretto a posare il fardello era ormai lontana e lui non aveva visto nessun cesto quando l’avevano attraversata, e adesso non l’avrebbe più trovato, era a mezzo palazzo di distanza, dopo un labirinto di corridoi, passaggi, porte…

La sua guida s’inchinò e lo lasciò in una cameretta bellissima, con arazzi, tappeti, una sedia ricamata, una finestra che dava sul porto, un tavolo su cui vi erano un piatto di frutti estivi e una brocca d’acqua. E il suo cesto.

Lo aprì. Tiro uscì tranquillamente, come se avesse grande dimestichezza con i palazzi. Si stiracchiò, annusò le dita del padrone in segno di saluto, e cominciò a esplorare la stanza. Scoprì, dietro una tenda, un’alcova con il letto, e vi saltò sopra. Bussarono piano alla porta. Un giovane entrò con una cassetta di legno senza coperchio. S’inchinò, mormorando: — La sabbia, signore. — Posò la cassetta in un angolo in fondo all’alcova. Fece un altro inchino e se ne andò.

— Bene — disse lui, sedendosi sul letto. Non aveva l’abitudine di parlare al gattino. Il loro era un rapporto di contatto fisico muto e fiducioso. Ma doveva parlare con qualcuno. — Oggi ho conosciuto il re — disse.


Il re dovette conversare con fin troppe persone, prima di potersi sedere sul proprio letto. Innanzitutto, c’erano gli emissari del sommo re dei Karg. Stavano per partire, avendo portato a termine la loro missione a Havnor in modo soddisfacente per loro, ma tutt’altro che proficua per il sovrano.

Lebannen aveva atteso con ansia la visita di quegli ambasciatori, considerandola il culmine di anni di pazienti offerte, inviti e negoziati. Nei primi dieci anni di regno, non era riuscito a concludere nulla con i Karg. Il dio-re di Awabath respingeva le sue proposte di trattati e scambi commerciali, e rimandava a casa i suoi inviati senza neppure ascoltarli, dichiarando che gli dei non parlamentavano con i volgari mortali, tanto meno con i maledetti stregoni. Ma i proclami di impero divino universale del dio-re non furono seguiti dalle flotte di navi cariche di guerrieri piumati che dovevano invadere l’Occidente ateo. Perfino le scorrerie dei pirati che affliggevano da tanto tempo le isole orientali dell’Arcipelago a poco a poco cessarono. I pirati erano diventati contrabbandieri che cercavano di barattare le merci fatte uscire illegalmente da Karego-At in cambio di ferro, acciaio e bronzo dell’Arcipelago, perché le terre dei Karg erano povere di miniere e metallo.

Fu da quei commercianti fuorilegge che giunsero le prime notizie dell’ascesa del sommo re.

A Hur-at-Hur, la grande e povera isola all’estremità orientale delle terre dei Karg, un signore della guerra, Thol, sostenendo di discendere da Thoreg di Hupun e dal dio Wuluah, si era proclamato sommo re di quel territorio. Aveva poi conquistato Atnini, e in seguito, con una flotta e un esercito invasore che comprendeva uomini di Hur-at-Hur e di Atnini, aveva rivendicato la sovranità della ricca isola centrale, Karego-At. Mentre i suoi guerrieri avanzavano combattendo verso Awabath, la capitale, gli abitanti della città insorsero contro la tirannia del dio-re. Massacrarono i sommi sacerdoti, cacciarono i burocrati dai templi, spalancarono le porte, e accolsero felici re Thol sul trono di Thoreg con vessilli e danze nelle strade.

Il dio-re fuggì con i superstiti delle sue guardie e dei suoi sacerdoti nel Luogo delle tombe ad Atuan. Là nel deserto, nel tempio vicino alle rovine devastate dal terremoto del sacrario degli Innominabili, uno dei sacerdoti eunuchi tagliò la gola al dio-re.

Thol si proclamò sommo re delle Quattro terre dei Karg. Non appena ne ebbe notizia, Lebannen inviò degli ambasciatori a salutare il fratello sovrano e assicurarlo delle intenzioni amichevoli dell’Arcipelago.

Seguirono cinque anni di difficile e logorante diplomazia. Thol era un uomo violento su un trono minacciato. Nello sfacelo della teocrazia, il controllo nel suo regno era incerto, tutta l’autorità era traballante. Dei sovrani minori continuavano ad autoproclamarsi tali, e bisognava placarli con la corruzione o ridurli all’obbedienza sconfiggendoli. Da sacrari e caverne uscivano membri di sette che gridavano: "Guai ai potenti!" e predicevano terremoti, maremoti, calamità ai deicidi. Governando un impero agitato e diviso, Thol non poteva certo fidarsi dei ricchi e potenti arcipelagici.

Non significava nulla per lui il fatto che il loro re parlasse di amicizia, agitando l’Anello della pace. I Karg non avevano forse diritto a quell’anello? Era stato forgiato nell’antichità in Occidente, ma molto tempo addietro re Thoreg di Hupun lo aveva accettato in dono dall’eroe Erreth-Akbe, un segno di amicizia tra le terre kargiche e hardiche. Era scomparso, e c’era stata guerra, non amicizia. Ma poi il mago Sparviere aveva trovato l’anello e lo aveva rubato, insieme alla sacerdotessa delle tombe di Atuan, portando entrambi a Havnor. Questo dimostrava la reale fidatezza degli arcipelagici.

Tramite i suoi inviati, con pazienza e con garbo, il re fece notare che l’Anello della pace, in primo luogo, era stato un dono di Morred a Elfarran, un caro simbolo del re e della regina più amati dell’Arcipelago. E anche un oggetto sacro, perché su di esso c’era la runa del Vincolo, un potente incantesimo di benedizione. Circa quattro secoli prima, Erreth-Akbe lo aveva portato nelle terre dei Karg come pegno di pace inviolabile. Ma i sacerdoti di Awabath avevano violato la pace e rotto l’Anello. Poi, una quarantina d’anni addietro, grazie a Sparviere di Roke e Tenar di Atuan, l’Anello era tornato integro. Perché non parlare di pace, dunque?

Quella era la sostanza dei messaggi inviati da Lebannen a re Thol.

E un mese prima, subito dopo la Lunga danza dell’estate, una flotta di navi aveva solcato il passaggio di Felkway, attraversato lo stretto di Ebavnor, entrando infine nella baia di Havnor: lunghe navi rosse dalle vele purpuree, con a bordo guerrieri piumati, emissari dalle vesti sontuose, e alcune donne velate.

"Che la figlia del sommo re Thol, seduto sul trono di Thoreg e discendente di Wuluah, porti l’Anello della pace sul proprio braccio, come lo portava la regina Elfarran di Solea, e che questo sia il segno di pace eterna tra le isole Occidentali e Orientali".

Quello era il messaggio inviato dal sommo re a Lebannen. Era scritto in grandi rune hardiche su un rotolo di pergamena, ma prima di consegnarlo al re, l’ambasciatore di Thol lo lesse a voce alta, in pubblico, al ricevimento degli emissari alla corte di Havnor, con l’intera corte presente per rendere onore agli inviati dei Karg. Fu forse perché l’ambasciatore in realtà non sapeva leggere l’hardico, e recitò le parole a memoria, ad alta voce e lentamente, ma in ogni caso, quelle parole avevano il tono di un ultimatum.

La principessa non disse nulla. Era immobile tra le dieci ancelle o schiave che l’avevano accompagnata a Havnor e lo stuolo di dame di corte che erano state incaricate frettolosamente di badare a lei e renderle onore. La principessa era velata, interamente velata, come usavano a quanto pareva le donne di buona famiglia a Hur-at-Hur. I veli, rossi con ricami dorati, scendevano da una specie di copricapo a tesa piatta, e la principessa sembrava una colonna rossa, un pilastro cilindrico, informe, immobile, silenzioso.

— Il sommo re Thol ci onora grandemente — disse Lebannen, la voce chiara e pacata; poi s’interruppe. La corte e gli emissari attesero. — Sei la benvenuta qui, principessa — riprese, rivolto alla figura velata. La colonna di veli rossi non si mosse.

— La principessa alloggerà nella Casa del fiume, e ogni suo desiderio sia esaudito — ordinò.

La Casa del fiume era uno splendido palazzetto all’estremità settentrionale della città, inserito nelle vecchie mura, con terrazze affacciate sul piccolo fiume Serrenen. L’aveva fatta costruire la regina Heru, e spesso veniva chiamata la Casa della regina. Quando era salito al trono, Lebannen l’aveva fatta restaurare e riarredare, insieme al palazzo di Maharion, chiamato il Nuovo palazzo, che ospitava la corte. Usava la Casa del fiume solo per le festività estive, e a volte per appartarsi in pace qualche giorno.

Una lieve agitazione percorse la schiera di cortigiani. La Casa della regina?

Dopo i rituali convenevoli con gli emissari stranieri, il re lasciò la sala delle udienze. Andò nel proprio spogliatoio, dove poteva godere di tutta la solitudine concessa a un sovrano, in compagnia del suo vecchio servitore, Quercia, che conosceva da una vita.

Sbatté sul tavolo il rotolo di pergamena indorato. — Formaggio in una trappola per topi — sbottò. Stava tremando. Estrasse il pugnale che portava sempre al fianco e trafisse il messaggio del sommo re. — La gatta nel sacco. Merce da comprare alla cieca. L’Anello sul braccio della principessa, e io con il collare al collo.

Quercia lo fissò perplesso e sbigottito. Il principe Arren di Enlad non aveva mai perso le staffe. Da bambino, talvolta piangeva per un attimo, un singhiozzo amaro, poi tutto finito. Era troppo ben educato e ben disciplinato per cedere alla collera. E come re, un re che aveva ottenuto il proprio regno attraversando la terra dei morti, poteva essere severo, ma era sempre, pensava Quercia, troppo orgoglioso, troppo forte per arrabbiarsi.

— Non si serviranno di me! — disse Lebannen, calando di nuovo il pugnale, il volto talmente minaccioso e furioso che il vecchio servitore si ritrasse spaventato.

Il re lo vide. Vedeva sempre le persone attorno a lui.

Rinfoderò il pugnale. Con voce più controllata, disse: — Quercia, giuro che preferisco distruggere Thol e il suo regno piuttosto che permettergli di usarmi come poggiapiedi del suo trono. — Poi trasse un respiro profondo e si sedette per consentire al servitore di togliergli dalle spalle la pesante e preziosa veste da cerimonia.

Quercia non raccontò mai a nessuno una sola parola dello sfogo cui aveva assistito, ma naturalmente ci furono immediate e continue congetture circa la principessa dei Karg e quello che il re avrebbe fatto riguardo a lei… o quello che forse aveva già fatto.

Lebannen non aveva detto di accettare l’offerta della principessa come sua sposa. Tutti erano d’accordo che la ragazza gli era stata offerta in sposa; l’accenno all’Anello di Elfarran celava a stento l’offerta, o l’affare, o la minaccia. Ma non aveva neppure rifiutato. La sua reazione, analizzata di continuo, era stata quella di dire che la principessa era la benvenuta, che bisognava esaudire ogni suo desiderio, e che avrebbe alloggiato alla Casa del fiume: la Casa della regina. Un particolare di certo significativo? D’altro canto, però, perché non nel Nuovo palazzo? Perché mandarla dalla parte opposta della città?

Fin dall’incoronazione a re, nobildonne e principesse di stirpe reale di Enlad, Ea e Shelieth erano venute in visita o in soggiorno a corte. Erano state tutte accolte in modo regale, e il re aveva ballato ai loro matrimoni quando quelle donne si erano accontentate di unirsi a nobiluomini o cittadini facoltosi. Era risaputo che il re apprezzava la compagnia femminile, che amoreggiava volentieri con una bella ragazza, che invitava di buona lena una donna intelligente a consigliarlo, canzonarlo, o consolarlo. Ma nessuna donna o ragazza aveva mai avuto la benché minima e remota probabilità di sposarlo. E nessuna era mai stata alloggiata alla Casa del fiume.

Il re doveva avere una regina, gli rammentavano regolarmente i suoi consiglieri.

"Devi proprio sposarti, Arren" gli aveva detto sua madre, l’ultima volta che l’aveva vista viva.

"L’erede di Morred non avrà nessun discendente?" chiedeva la gente comune.

A tutti lui aveva risposto, in vari modi e vari termini: "Datemi tempo. Devo ricostruire un regno dalle rovine. Lasciatemi edificare una casa degna di una regina, un regno che mio figlio possa governare". E dato che era amato e fidato, e ancora giovane, e un uomo affascinante e persuasivo nonostante la sua austerità, si era sottratto a tutte le fanciulle speranzose. Fino ad allora.

Cosa si nascondeva sotto quei rigidi veli rossi? Chi viveva in quella tenda occultante? Le dame assegnate al seguito della principessa erano tempestate di domande. Era graziosa? Brutta? Era vero che era alta e magra, bassa e muscolosa, bianca come il latte, butterata, con un occhio solo, bionda, con i capelli neri, che aveva quarantacinque anni, che ne aveva dieci, che era una povera idiota, che era di una bellezza intelligente?

Gradualmente, le dicerie cominciarono a orientarsi in una direzione. Era giovane, anche se non una bambina; i capelli non erano né biondi né neri; era abbastanza graziosa, secondo alcune dame di corte; grossolana, secondo altre. Non parlava una parola di hardico, dicevano tutte, e non voleva imparare. Si nascondeva in mezzo alle sue donne, e quando era costretta a uscire dalla sua stanza, si nascondeva in quella tenda di veli rossi. Il re le aveva fatto una visita di cortesia. Lei non si era inchinata, non gli aveva parlato, non aveva fatto alcun gesto, ed era rimasta là immobile come un "camino di mattoni", raccontò esasperata l’anziana lady Iyesa.

Il re le parlava tramite gli uomini che erano stati suoi emissari nelle terre dei Karg e tramite l’ambasciatore karg, che parlava un hardico più che accettabile. Faticosamente, le presentava i propri omaggi e si informava su quali fossero i suoi desideri. I traduttori si rivolgevano alle donne della principessa, che portavano veli più corti e un po’ meno impenetrabili. Le donne si raccoglievano attorno alla colonna rossa immobile e borbottavano e bisbigliavano, poi tornavano dai traduttori, e quelli comunicavano al sovrano che la principessa era soddisfatta e non desiderava nulla.

Era lì da mezzo mese, quando Tenar e Tehanu arrivarono da Gont. Lebannen aveva inviato una nave e un messaggio pregandole di venire, poco prima che la flotta kargica giungesse con la principessa, e per ragioni che non avevano nulla a che vedere né con lei né con re Thol. Ma la prima volta che fu solo con la donna, il re proruppe: — Cosa devo fare con quella? Cosa posso fare?

— Raccontami — disse lei, con aria piuttosto sorpresa.

Aveva trascorso solo un breve periodo con Tenar, anche se si erano scambiati alcune lettere nel corso degli anni; non era ancora abituato a vederla con i capelli grigi, e gli sembrava più piccola di quanto ricordasse; ma con lei, come già quindici anni prima, ebbe subito la sensazione di poter dire qualsiasi cosa e di essere compreso.

— Per cinque anni ho incrementato il commercio e cercato di mantenere buoni rapporti con Thol, perché è un signore della guerra, e io non voglio che il mio regno sia stretto, com’era il regno di Maharion, tra i draghi a ovest e i signori della guerra a est. E perché governo nel segno della pace. E tutto andava abbastanza bene, finché non è successo questo. Finché Thol non mi ha mandato questa ragazza all’improvviso, dicendomi che se voglio la pace devo darle l’Anello di Elfarran. Il tuo anello, Tenar! Tuo e di Ged!

Lei esitò un istante. — La ragazza è sua figlia, dopotutto.

— Cos’è mai una figlia per un re barbaro? Merce. Uno strumento da usare per avvantaggiarsi. Lo sai! Sei nata là!

Non era da lui parlare così, e Lebannen se ne rese conto. S’inginocchiò di colpo, prendendole la mano e mettendosela sugli occhi in segno di contrizione. — Scusami. Questo fatto mi turba in modo irragionevole. Non so che fare.

— Be’, finché non fai nulla, hai un certo margine d’azione… Per caso la principessa ha qualche opinione in proposito?

— Come può averne? Nascosta in quel sacco rosso? Non vuole parlare, non guarda fuori, è come se fosse il palo di una tenda. — Il sovrano provò a ridere. Quel risentimento incontrollabile lo allarmò, e cercò di giustificarlo. — Questo è accaduto proprio quando mi sono giunte notizie preoccupanti dall’Ovest. È per questo che ho chiesto a te e a Tehanu di venire. Non per importunarti con questa sciocchezza.

— Non è una sciocchezza — replicò lei, ma Lebannen accantonò l’argomento, e cominciò a parlare di draghi.

Dato che le notizie giunte dall’Ovest erano davvero preoccupanti, era riuscito a non pensare alla principessa, per la maggior parte del tempo. Si rendeva conto che non era sua abitudine affrontare le questioni di stato ignorandole. Manipolati, si finiva con il manipolare gli altri. Parecchi giorni dopo la loro conversazione, lui le chiese di visitare la principessa, di cercare di farla parlare. In fin dei conti, disse, parlavano la stessa lingua.

— Probabilmente — disse Tenar. — Non ho mai conosciuto nessuno di Hur-at-Hur. Ad Atuan, li chiamavamo barbari.

Il re rimase deluso. Ma naturalmente la donna lo assecondò. In seguito gli comunicò che lei e la principessa parlavano la stessa lingua, o quasi, e che la ragazza non sapeva che esistessero altri idiomi. Aveva pensato che tutti, lì, cortigiani e dame, fossero pazzi maligni, che si burlavano di lei schiamazzando e vociando come animali privi dell’umana favella. A quanto aveva capito, la principessa era cresciuta nel deserto, nel dominio d’origine di re Thol a Hur-at-Hur, ed era stata solo per brevissimo tempo alla corte imperiale di Awabath prima di essere mandata a Havnor.

— È spaventata — spiegò Tenar.

— Così si nasconde nella sua tenda. Cosa crede che io sia?

— Come può sapere cosa sei?

Lebannen corrugò la fronte. — Che età ha?

— È giovane. Ma è già donna.

— Non posso sposarla — dichiarò il sovrano, con improvvisa determinazione. — La rimanderò indietro.

— Una sposa respinta è una donna disonorata. Se la mandi indietro, Thol potrebbe ucciderla perché il disonore non macchi il suo casato. Sicuramente, riterrà che tu intenda disonorarlo.

L’espressione furiosa riapparve sul suo volto.

Lei lo prevenne. — Usanze barbare — disse compassata.

Il re passeggiò avanti e indietro nella stanza. — Benissimo. Ma io non prenderò in considerazione questa ragazza come regina del regno di Morred. È possibile insegnarle a parlare l’hardico? Qualche parola, almeno? Non l’imparerà? Dirò a Thol che un re hardico non può sposare una donna che non parla la lingua del regno. Non m’importa se lui non gradirà la cosa, è uno smacco che merita. E io guadagnerò tempo.

— E le chiederai di imparare la lingua?

— Come faccio a chiederle qualcosa se lei crede che siano tutte ciance incomprensibili? A che serve che io vada da lei? Pensavo che forse potresti parlarle tu, Tenar… Senza dubbio, ti renderai conto che si tratta di una vera e propria soperchieria, di un inganno… servirsi di questa ragazza per far sì che Thol sembri un mio pari… usare l’Anello come trappola, l’Anello che ci hai portato! Non posso nemmeno far finta di perdonare una tale azione. Sono disposto a temporeggiare, a procrastinare, al fine di mantenere la pace. Nient’altro. Perfino questo sotterfugio è ignobile. Di’ alla ragazza ciò che ritieni opportuno. Non voglio avere nulla a che fare con lei.

E uscì in preda a una giusta collera, che si placò lentamente e si trasformò in un sentimento inquietante che assomigliava moltissimo alla vergogna.

Quando gli emissari karg annunciarono che presto sarebbero partiti, Lebannen preparò un messaggio formulato con cura per re Thol. Espresse il proprio apprezzamento per l’onore della presenza della principessa a Havnor, e dichiarò che sarebbe stato un piacere per lui e tutta la corte farle conoscere gli usi e i costumi e la lingua del suo regno. Non fece alcun accenno all’Anello, al fatto di sposarla, o di non sposarla.

Fu la sera dopo il colloquio con lo stregone tormentato di Taon che incontrò per l’ultima volta i Karg e affidò loro la lettera da consegnare al sommo re. Prima la lesse ad alta voce, come aveva fatto l’ambasciatore con la lettera di Thol.

Il diplomatico ascoltò compiaciuto. — Il sommo re sarà contento — disse.

Mentre s’intratteneva a scambiare convenevoli con gli emissari e a mostrare i doni per Thol, Lebannen continuò a meditare sulla disinvoltura con cui era stata accettata la sua evasività. Tutte le sue riflessioni giunsero a una sola conclusione: "Thol sa di avermi incastrato, di avermi affibbiato la principessa definitivamente". Al che, nel proprio intimo, ribatté deciso: "Mai!".

Domandò se l’ambasciatore sarebbe andato alla Casa del fiume a salutare la principessa. L’uomo lo guardò perplesso, quasi gli avessero chiesto se sarebbe andato a salutare un pacco che aveva consegnato. Lui si sentì invadere di nuovo dalla collera. Vide che l’espressione del diplomatico cambiava, facendosi circospetta e conciliante. Sorrise e augurò agli emissari un vento propizio per il viaggio di ritorno alle terre dei Karg. Lasciò la sala delle udienze e andò nella propria camera.

Riti e cerimonie intralciavano gran parte delle sue azioni, e come re doveva trascorrere lunghe ore in pubblico; ma essendo salito su un trono vuoto da secoli, essendo entrato in un palazzo dove non esisteva protocollo, era riuscito a fare in modo che alcune cose fossero come desiderava. Aveva tenuto il cerimoniale fuori dalla camera da letto. Le sue notti gli appartenevano. Augurò la buonanotte a Quercia, che dormiva nell’anticamera, e chiuse la porta. Si sedette sul letto. Era stanco, arrabbiato, e stranamente depresso.

Al collo portava sempre una catenella con attaccata una piccola borsa di stoffa intessuta d’oro. Nella sacca c’era un sassolino: un pezzo opaco di roccia nera, scabra. Lo prese e lo tenne in mano, mentre sedeva e pensava.

Cercò di distogliere la mente da quella stupida faccenda della ragazza karg, pensando allo stregone Alder e ai suoi sogni. Si ritrovò a provare un senso doloroso di invidia nei confronti di Alder, che era andato a Gont, aveva parlato con Ged, era rimasto con lui.

Ecco perché si sentiva depresso. L’uomo che Lebannen chiamava "mio signore", l’uomo che lui aveva amato più di chiunque altro, non gli consentiva di avvicinarlo, non voleva venire lì da lui.

Ged credeva forse che, poiché aveva perso i poteri magici, Lebannen dovesse stimarlo meno, dovesse disprezzarlo?

Data l’influenza esercitata dal potere sulla mente e sul cuore degli uomini, non era un’idea inverosimile. Ma sicuramente l’amico lo conosceva troppo bene per pensare una cosa del genere, e per considerarlo tanto meschino.

Forse, essendo stato davvero suo signore e guida, non riusciva a sopportare di essere suo suddito? Per il vecchio, forse, rappresentava proprio qualcosa di difficilmente sopportabile, il capovolgimento brusco e irrevocabile del loro rango.

Ma Lebannen ricordava benissimo come il vecchio si fosse inginocchiato dinanzi a lui, sul poggio di Roke, all’ombra del drago e di fronte ai maestri di cui egli stesso era stato maestro. Si era alzato e lo aveva baciato, dicendogli di governare bene, chiamandolo "mio signore e caro compagno".

— Mi ha dato il regno — aveva detto ad Alder. Era stato allora che glielo aveva dato. Completamente, liberamente.

Ed era per questo che Ged non voleva venire a Havnor e non permetteva a Lebannen di andare da lui a consultarlo. Gli aveva ceduto il potere… completamente, liberamente. Non voleva dare l’impressione di intromettersi, non voleva proiettare la propria ombra e offuscare la sua luce.

— Sparviere ha cessato di agire — aveva detto il portinaio.

La storia di Alder, però, aveva indotto Ged a mandare lì lo stregone, lì dal re, chiedendogli di agire di conseguenza.

Era davvero strana, quella storia; e ancor più strano che il vecchio amico dicesse che forse il muro stesso sarebbe caduto. Cosa poteva significare? E perché dare tanta importanza ai sogni di un uomo?

Lui stesso aveva sognato i margini della terra tenebrosa, tempo addietro, quando lui e Ged l’arcimago stavano viaggiando insieme, prima che giungessero a Selidor.

E su quell’isola, l’isola situata all’estremo occidente, aveva seguito l’amico nella terra tenebrosa. Oltre il muro di pietra. Scendendo nelle città oscure dove le ombre dei morti erano ferme sulle soglie o camminavano senza meta in strade illuminate solo dalle stelle fisse. Con il compagno, aveva attraversato tutta quella terra, un cammino faticoso, fino a una valle buia di polvere e pietre ai piedi di monti il cui unico nome era Dolore.

Aprì il palmo, guardò il sassolino nero che aveva tenuto stretto, richiuse la mano.

Dalla valle del fiume secco, una volta fatto ciò che dovevano fare, erano saliti sulle montagne, perché era impossibile tornare indietro. Avevano preso lo strada proibita ai morti, arrampicandosi, superando rocce che graffiavano e bruciavano le mani, finché Ged non era più stato in grado di proseguire. Lebannen lo aveva trasportato il più a lungo possibile, poi avevano continuato, strisciando insieme fino alla fine dell’oscurità, la scogliera senza speranza della notte. E così era tornato, con lui, alla luce del sole, al rumore del mare che s’infrangeva sulle sponde della vita.

Era da tempo che non pensava in modo tanto vivido a quel viaggio terribile. Ma il frammento di pietra nera di quelle montagne era sempre sul suo cuore.

E adesso gli sembrava che il ricordo di quella terra, delle tenebre, della polvere, fosse sempre nella sua mente, appena sotto la varietà radiosa di giochi e movimenti dei giorni, sebbene lui distogliesse sempre lo sguardo. Non osava pensarci perché non sopportava l’idea di tornare di nuovo in quel luogo, alla fine… di tornare là da solo, senza un compagno, e per l’eternità. Per starsene immobile, con gli occhi vacui, muto, tra le ombre di una città di tenebra. Dove non avrebbe più visto il sole, né bevuto acqua, né toccato una mano viva…

Si alzò di scatto, scacciando quei pensieri morbosi. Chiuse il sasso nella borsa, si preparò per la notte, spense la lampada e si coricò. La rivide subito: la terra grigia e buia di polvere e roccia. S’innalzava davanti a lui in lontananza trasformandosi in picchi neri scoscesi, ma lì digradava, sempre in discesa, verso destra, perdendosi nell’oscurità assoluta. — Cosa c’è da quella parte? — aveva chiesto a Ged mentre camminavano senza sosta. Il suo compagno gli aveva detto che non lo sapeva, che forse da quella parte non si giungeva alla fine.

Il sovrano si drizzò a sedere, arrabbiato e allarmato dal corso inesorabile dei propri pensieri. Cercò con gli occhi la finestra. Era rivolta a nord. Gli piaceva la vista di Havnor e delle colline che arrivavano fino all’imponente mole dalla vetta grigia del monte Onn. Più a nord, invisibile, al di là di tutta la Grande isola e del mare di Ea, c’era Enlad, la sua terra natia.

Stando a letto, vedeva solo il cielo, un limpido cielo notturno estivo, con il Cuore del cigno che spiccava tra stelle minori. Il suo regno. Il regno della luce, della vita, dove le stelle sbocciavano come fiori bianchi a est e declinavano sfolgoranti a ovest. Non voleva pensare all’altro regno, dove le stelle rimanevano immobili, dove non c’era alcun potere nella mano di un uomo, e non esistevano direzioni giuste da seguire perché le vie non portavano in nessun posto.

Osservando gli astri, di proposito allontanò dalla mente quei ricordi e il pensiero di Ged. Pensò a Tenar: il suono della sua voce, il tocco della sua mano. I cortigiani erano cerimoniosi, molto cauti quando si trattava di toccare il re. Lei, no. Lei posava la mano sulla sua, ridendo. Con lui, era più audace di quanto non fosse stata sua madre.

Rosa, principessa della casa di Enlad, era morta di febbre due anni prima, mentre Lebannen era in viaggio a bordo di una nave per una visita reale a Berila, città di Enlad, e nelle isole a sud. Non aveva saputo della morte della madre finché, giunto in patria, non aveva trovato la città e il casato in lutto.

Adesso lei era in quell’arida terra di tenebra. Se fosse andato là e le fosse passato accanto, lei non lo avrebbe guardato. Non gli avrebbe parlato.

Serrò i pugni. Sistemò meglio i cuscini sul letto, cercò di rilassarsi, di allontanare la mente da quel luogo, di pensare a cose che gli impedissero di tornarvi. Di riportare alla memoria sua madre da viva, alla sua voce, ai suoi occhi scuri sotto gli archi scuri delle sopracciglia, alle sue mani delicate.

O di pensare a Tenar. Sapeva di averle chiesto di venire a Havnor non solo perché lo consigliasse, ma perché lei era la madre che gli rimaneva. Lui voleva quell’amore, voleva darlo e riceverlo. L’amore risoluto che non concedeva attenuanti, che non poneva condizioni. I suoi occhi erano grigi, non scuri, ma lei era capace di leggergli nell’animo guardandolo con una tenerezza penetrante, senza lasciarsi ingannare da quanto lui diceva o faceva.

Il sovrano sapeva di svolgere bene il compito che era stato chiamato a svolgere. Sapeva di essere bravo nel suo ruolo di re. Ma solo con sua madre e con Tenar aveva saputo senza ombra di dubbio cosa significasse essere re.


Lei lo conosceva da quando era giovanissimo, non ancora incoronato. Lo aveva amato fin dal primo momento, per ciò che lui era, per Ged, e per se stessa. Per lei rappresentava il figlio che non spezzava mai il cuore.

Forse, però, Lebannen glielo avrebbe spezzato, se avesse continuato a essere così iroso e disonesto nei confronti di quella povera ragazza di Hur-at-Hur, rifletté lei.

Assisté all’ultima udienza concessa agli emissari di Awabath. Lui le aveva chiesto di essere presente, e lei era contenta di partecipare. Trovando dei Karg a corte al suo arrivo, all’inizio dell’estate, si era aspettata che la evitassero o almeno che la guardassero di traverso: lei, la sacerdotessa rinnegata che insieme al subdolo mago Sparviere aveva rubato l’anello di Erreth-Akbe dal tesoro delle tombe di Atuan, fuggendo con esso a Havnor. Era opera sua se l’Arcipelago aveva di nuovo un re. I Karg avrebbero potuto benissimo fargliene una colpa.

E Thol di Hur-at-Hur aveva ripristinato il culto dei Due dei e degli Innominabili, di cui lei aveva depredato il tempio principale. Il suo tradimento era stato non solo politico ma anche religioso.

Ma era trascorso tanto tempo, più di quarant’anni, quasi abbastanza perché gli accadimenti sembrassero leggenda; e gli uomini di stato ricordavano le cose con senso di deferenza. L’ambasciatore di Thol aveva chiesto l’onore di un’udienza con lei e l’aveva salutata con un rispetto formale e religioso che in parte le era parso autentico. L’aveva chiamata lady Arha, la divorata, la sempre rinata. Erano anni che non le si rivolgevano con tali appellativi, e adesso le sembravano molto strani. Ma provò un intenso e mesto piacere sentendo la propria lingua nativa e scoprendo di saperla ancora parlare.

Così andò a dire addio all’ambasciatore e al suo seguito. Gli chiese di assicurare al sommo re dei Karg che la principessa sua figlia stava bene, e guardò un’ultima volta con ammirazione quegli uomini alti e scarni dai capelli biondi intrecciati, i loro copricapi piumati, le loro armature di maglia d’argento. Quando viveva nelle terre dei Karg, aveva visto pochi uomini della propria razza. Nel Luogo delle tombe, vivevano solo donne ed eunuchi.

Dopo la cerimonia, Tenar si appartò nei giardini del palazzo. La notte estiva era calda e insonne; gli arbusti in fiore dei giardini si agitavano al vento. I rumori della città oltre i muri del palazzo erano come il mormorio di un mare tranquillo. Una coppia di giovani cortigiani passeggiavano avvinti sotto i pergolati; per non disturbarli, la donna camminò tra le fontane e le rose all’estremità opposta del giardino.

Lebannen aveva lasciato l’udienza di nuovo accigliato. Cosa gli stava succedendo? Per quel che ne sapeva Tenar, prima d’allora non si era mai ribellato agli obblighi della sua posizione. Sapeva sicuramente che un re doveva sposarsi e in realtà non era poi così libero di sposare chi desiderava. Era consapevole che un re che non obbediva al popolo era un tiranno. Aveva coscienza del fatto che il suo popolo voleva una regina, voleva eredi al trono. Ma non aveva fatto nulla in proposito. Le donne di corte, spettegolando, non avevano esitato a raccontarle delle numerose amanti del re, nessuna delle quali aveva perso nulla diventando nota come la sua amante. Indubbiamente, il sovrano si era destreggiato benissimo finora, però non poteva pretendere di continuare così per sempre. Perché si era adirato tanto quando re Thol gli aveva offerto una soluzione del tutto appropriata?

Non completamente consona, forse. La principessa rappresentava in parte un problema.

Avrebbe dovuto cercare di insegnare l’hardico alla ragazza. E avrebbe dovuto trovare qualche dama disposta a insegnarle gli usi dell’Arcipelago e l’etichetta di corte, compito che certamente lei stessa non era in grado di svolgere. Lei era più attratta dall’ignoranza della principessa che dalla raffinatezza delle cortigiane.

Le dispiaceva che Lebannen fosse incapace di comprendere il punto di vista della ragazza. Possibile che non riuscisse a immaginare in che situazione si trovasse la poverina? Cresciuta nell’alloggio femminile della fortezza di un signore della guerra in una terra deserta e remota, dove probabilmente non aveva mai visto nessun uomo, a parte il padre, gli zii e qualche sacerdote; costretta a lasciare all’improvviso quella vita immutabile di povertà e di durezza, per affrontare con degli sconosciuti un lungo e spaventoso viaggio in mare; abbandonata tra gente che lei conosceva solo come mostri sanguinari e irreligiosi che abitavano in capo al mondo, non veramente umani perché erano maghi capaci di trasformarsi in animali e uccelli… E lei avrebbe dovuto sposarne uno!

Tenar era riuscita a lasciare la propria gente e venire a vivere tra i mostri e i maghi dell’Ovest perché era con Ged, che lei amava e di cui si fidava. Non era stato facile; spesso le era venuto meno il coraggio. Nonostante il benvenuto datole dalla gente di Havnor, le folle e le acclamazioni, i fiori e le lodi, i dolci appellativi con cui la chiamavano, la Bianca signora, la portatrice di pace, Tenar dell’anello… nonostante tutto ciò, tanto tempo addietro di notte si era rintanata nella propria camera, infelice perché si sentiva così sola, e nessuno parlava la sua lingua, e lei non sapeva nessuna delle cose a cui tutti lì erano abituati. Non appena i festeggiamenti erano terminati e l’Anello era tornato al proprio posto, aveva supplicato il marito di portarla via, e lui aveva mantenuto la promessa, portandola con sé a Gont. Là, lei aveva vissuto nella casa del vecchio mago come pupilla e allieva di Ogion, imparando a essere un’arcipelagica, finché non aveva visto la strada che intendeva seguire nella vita da adulta.

Era più giovane di questa ragazza quando era giunta a Havnor con l’Anello. Ma lei non era cresciuta senza potere, a differenza della principessa. Anche se il suo potere come unica sacerdotessa era stato per lo più rituale, simbolico, Tenar aveva assunto davvero il controllo del proprio destino quando aveva rotto con le odiose usanze della propria educazione e aveva conquistato la libertà per sé e per il prigioniero. Ma la figlia di un signore della guerra poteva controllare, invece, solo cose di poca importanza. Quando il padre si fosse proclamato re, la giovane sarebbe stata chiamata principessa, le avrebbero dato abiti più sfarzosi, più schiave, più eunuchi, più gioielli e poi alla fine sarebbe stata data in sposa; ma il tutto senza poter mai aprire bocca. Del mondo fuori dall’alloggio femminile avrebbe visto appena qualche scorcio attraverso feritoie in muri spessi, nascosta dietro strati di veli rossi.

Lei si riteneva fortunata a non essere nata su un’isola arretrata e barbara come Hur-at-Hur, a non aver mai indossato il feyag. Però sapeva cosa significasse crescere nella morsa di una tradizione ferrea. Doveva fare il possibile per aiutare la principessa, finché si trovava a Havnor. Ma non intendeva rimanervi a lungo.

Passeggiando nel giardino, osservando il luccichio delle fontane nel chiarore stellare, pensò a come e quando sarebbe potuta andare a casa.

Non la infastidivano le formalità della vita di corte, né la consapevolezza che sotto il garbo ribolliva un calderone di ambizioni, rivalità, passioni, complicità e collusioni. Era cresciuta con i rituali e l’ipocrisia e gli intrighi politici, e nulla di tutto ciò la spaventava o la preoccupava. Soffriva semplicemente di nostalgia. Voleva tornare a Gont, da Ged, nella loro casa.

Era venuta a Havnor perché Lebannen aveva mandato a chiamare lei e Tehanu, e anche Ged, se lui avesse voluto seguirle; ma suo marito si era rifiutato di partire, e la figlia non sarebbe partita senza di lei. Questo la spaventava e la preoccupava. Sua figlia non era capace di staccarsi da lei? Era del parere di Tehanu che il re aveva bisogno, non del suo. Ma sua figlia si aggrappava a lei, a disagio e spaesata nella corte di Havnor, come la ragazza di Hur-at-Hur, e al pari della ragazza, silenziosa e isolata.

Dunque Tenar adesso doveva svolgere il ruolo di bambinaia, istitutrice e compagna con entrambe, due ragazze spaventate che non sapevano come impossessarsi del proprio potere, mentre lei non desiderava alcun potere, tranne quello che le avrebbe concesso la libertà di andare a casa e aiutare Ged a curare l’orto.

Sarebbe stato bello poter coltivare rose bianche come queste, a casa. Il loro profumo era così dolce nell’aria notturna. Ma c’era troppo vento sull’Overfell, e d’estate il sole era troppo forte. E probabilmente le capre avrebbero finito con il mangiare le rose.

Alla fine, tornò nel palazzo e attraversò l’ala est fino all’appartamento che occupava con Tehanu. Sua figlia dormiva, poiché era tardi. Una fiamma non più grande di una perla bruciava sullo stoppino di una minuscola lampada di alabastro. Le stanze erano silenziose, buie. Spense la lampada, si coricò, e presto scivolò nel sonno.

Stava percorrendo un corridoio di pietra, stretto, con un alto soffitto a volta. Portava la lampada di alabastro. Il debole ovale di luce veniva inghiottito dall’oscurità davanti a lei e alle sue spalle. Giunse alla porta di una stanza che dava sul corridoio. Nella camera c’erano persone con ali d’uccello. Alcune avevano teste di volatili, falchi e avvoltoi. Erano in piedi o accovacciate, immobili, non la guardavano, non guardavano nulla, gli occhi cerchiati di bianco e di rosso. Le loro ali erano simili a grandi mantelli neri che scendevano lungo il dorso. Capì che non potevano volare. Erano così addolorate, così disperate, quelle persone, e l’aria nella stanza era così viziata che cercò di andarsene, di fuggire, senza riuscire a muoversi; e lottando contro quella paralisi, si svegliò.

C’erano le ombre calde, le stelle alla finestra, il profumo delle rose, il rumore sommesso della città, il respiro di Tehanu addormentata.

Si drizzò a sedere per scuotersi di dosso i resti del sogno. Aveva sognato la Stanza dipinta del Labirinto delle tombe, dove aveva incontrato per la prima volta Ged, quarant’anni prima. Nel sogno, i dipinti sulle pareti avevano preso vita. Ma non era una forza vitale. Era l’eterna non esistenza di coloro che morivano senza rinascita, di quelli maledetti dagli Innominabili: miscredenti, occidentali, stregoni.

Dopo la morte si rinasceva. Quella era la certezza in cui era stata educata. Quando da bambina l’avevano portata alle Tombe perché fosse Arha, la Divorata, le avevano detto che lei sola tra tutta la gente era e sarebbe rinata come se stessa, vita dopo vita. A volte Tenar aveva creduto che fosse vero, ma non sempre, anche quando era la sacerdotessa delle Tombe, e in seguito aveva smesso di crederlo. Sapeva però quello che tutti gli abitanti delle terre dei Karg sapevano, che quando morivano tornavano in un nuovo corpo, che la lampada che si spegneva si riaccendeva nello stesso istante altrove, nel ventre di una donna o nel minuscolo uovo di un pesce o in un seme d’erba portato dal vento, tornando all’esistenza, immemore della vecchia vita, ricominciando daccapo una nuova vita, in un ciclo eterno.

Solo quelli reietti dalla terra stessa, dai vecchi poteri, gli stregoni foschi delle terre hardiche, non rinascevano. Quando morivano — così dicevano i Karg — quelli non si riunivano al mondo vivente, ma andavano in un luogo desolato di semiesistenza dove, alati ma incapaci di volare, né uccelli né umani, dovevano perdurare senza speranza. Con quanto piacere la sacerdotessa Kossil le aveva parlato del terribile destino di quei nemici vanagloriosi del dio-re, delle loro anime condannate ad essere escluse per sempre dal mondo della luce!

Ma l’aldilà di cui Ged le aveva parlato, il luogo dove andava la gente di Ged, quella terra immutabile di polvere e tenebra… era quello meno desolato, meno terribile?

Interrogativi senza risposta si dibattevano nella mente di Tenar: dato che non era più una karg, dato che aveva tradito il luogo sacro, sarebbe andata in quella terra desolata quando fosse morta? E anche Ged vi sarebbe andato? E là si sarebbero incrociati, ignorandosi? Impossibile. Ma… e se lui fosse andato là, e lei fosse rinata, e la loro separazione fosse eterna?

Lei non voleva pensare a certe cose. Era abbastanza chiaro il motivo per cui aveva sognato la Stanza dipinta, tanti anni dopo essersi lasciata alle spalle quel mondo. Era successo perché aveva visto gli emissari, perché aveva parlato di nuovo in kargico, naturalmente. Ma era comunque turbata, spaventata dal sogno. Non voleva tornare agli incubi della propria gioventù. Voleva tornare nella casa sull’Overfell, coricarsi accanto al marito, sentire il respiro di Tehanu addormentata. Ged, quando dormiva, era immobile e silenzioso come un sasso; ma il fuoco aveva leso in parte la gola di Tehanu, e c’era sempre una lieve asprezza nel respiro della ragazza, e lei si era abituata ad amare quel leggero rantolo, notte dopo notte, anno dopo anno. Era la vita, era la vita che tornava, quel caro suono, quel lieve ansito aspro.

Ascoltandolo, finalmente la madre riprese sonno. Se sognò, sognò solo distese aeree e i colori del mattino che si muovevano nel cielo.


Alder si svegliò molto presto. Il suo piccolo compagno aveva trascorso una notte agitata, così come lui stesso. Fu contento di alzarsi, andare alla finestra e sedersi assonnato a osservare il cielo che si schiariva sopra il porto, le barche da pesca che partivano e le vele delle navi che spiccavano tra la foschia nella grande baia, e di ascoltare il brusio e il tramestio della città che si accingeva a iniziare la giornata. Più o meno quando cominciò a chiedersi se fosse il caso di avventurarsi nel labirinto del palazzo per informarsi su cosa dovesse fare, bussarono alla porta. Un uomo portò un vassoio di frutta fresca e pane, una caraffa di latte e una ciotola di carne per il gattino. — Verrò a condurti in presenza del re quando sarà suonata la quinta ora — gli annunciò solenne, poi assai meno cerimonioso gli spiegò come scendere nei giardini del palazzo, se desiderava fare una passeggiata.

Alder, naturalmente, sapeva che c’erano sei ore da mezzanotte a mezzogiorno e sei ore da mezzogiorno a mezzanotte, però non aveva mai sentito suonare le ore, e si chiese cosa quell’uomo intendesse dire.

Scoprì, poco dopo, che lì a Havnor quattro trombettieri sulla loggia da cui si ergeva la torre più alta del palazzo, quella con in cima la snella lama d’acciaio, alla quarta e quinta ora prima di mezzogiorno, a mezzogiorno, e alla prima, seconda e terza ora dopo di esso, suonavano le loro trombe rivolti uno a ovest, uno a nord, uno a est, uno a sud. In tal modo, i cortigiani e i mercanti della città potevano organizzare le loro attività e presentarsi agli appuntamenti all’ora convenuta. Un ragazzo che Alder incontrò passeggiando in giardino gli spiegò tutto questo, un ragazzino magro che indossava una tunica troppo lunga. Spiegò che i trombettieri sapevano quando suonare le loro trombe perché c’erano grandi clessidre nella torre, oltre al pendolo di Ath, che era attaccato alla sommità del torrione e, se fatto oscillare all’inizio esatto dell’ora, si fermava proprio all’inizio dell’ora successiva. E raccontò ad Alder che le melodie dei trombettieri facevano parte del lamento per Erreth-Akbe che re Maharion aveva scritto al ritorno da Selidor, una parte diversa per ogni ora, e solo a mezzogiorno veniva eseguita l’intera melodia. E se si voleva essere in un posto a una certa ora, bisognava tenere d’occhio la loggia, perché i trombettieri uscivano sempre qualche minuto prima, e se c’era il sole alzavano i loro strumenti d’argento perché brillassero e luccicassero. Il ragazzo si chiamava Rody ed era venuto con suo padre, il signore di Metana di Ark, per soggiornare un anno a Havnor, e andava a scuola a palazzo; aveva nove anni, e sentiva la mancanza della madre e della sorella.

Alder tornò nella propria stanza in tempo per l’appuntamento con l’accompagnatore, meno teso del previsto. La conversazione con il ragazzino gli aveva rammentato che i figli dei signori erano bambini, che i signori erano uomini, e che non erano gli uòmini ciò che lui doveva temere.

La guida lo condusse nei corridoi del palazzo, fino a una sala lunga e luminosa con una parete occupata da finestre, affacciate sulle torri di Havnor e i ponti fantastici che s’inarcavano sui canali e balzavano di tetto in tetto e di terrazzo in terrazzo sopra le vie. Alder scorse di sfuggita il panorama mentre indugiava vicino alla porta, incerto se avanzare verso il gruppo di persone all’estremità della sala.

Il re lo vide e gli si avvicinò, lo salutò con gentilezza, lo condusse dagli altri, e li presentò.

C’era una donna sulla cinquantina, piccola e con la pelle molto chiara, capelli grigi e grandi occhi cinerei: Tenar, disse il re sorridendo. Tenar dell’anello. Lei guardò Alder negli occhi e lo salutò sottovoce.

Alla sua destra un uomo che aveva circa l’età del re, vestito di velluto e di lino leggero, con gemme alla cintura e al collo, e un grosso rubino al lobo di un orecchio: il capitano Tosla, disse il re. La faccia di Tosla, scura come legno di quercia stagionato, era scaltra e dura.

C’era poi un uomo di mezz’età, vestito in modo semplice, con uno sguardo fermo che ad Alder ispirò subito fiducia: il principe Sege della casa di Havnor, disse il re.

Al suo fianco, un uomo sulla quarantina che stringeva un bastone alto quanto lui, cosa da cui Alder capì che si trattava di un mago della scuola di Roke. Aveva una faccia piuttosto consunta, belle mani, modi distaccati ma cortesi. Maestro Onice, disse il re.

Infine vi era una donna, che Alder scambiò per una serva, perché era vestita assai modestamente e stava in disparte, un poco girata come se guardasse attraverso le finestre. Lui vide la sua splendida massa di capelli neri, folti e lucenti come acqua di cascata, mentre Lebannen la conduceva accanto al gruppo. — Tehanu di Gont — disse il re, e la sua voce risuonò come un’intimazione.

Per un attimo, la donna lo guardò. Era giovane; il lato sinistro del volto era liscio, di un colorito roseo ramato, con un occhio scuro che brillava sotto l’arco del sopracciglio. Il lato destro era stato devastato, ed era tutto increspato, pieno di cicatrici, senz’occhio. La mano destra sembrava la zampa ricurva di un corvo.

Tese la mano ad Alder, secondo l’usanza della gente di Ea ed Enlades, come avevano fatto gli altri, ma allungò la sinistra. Lui gliela afferrò, palmo contro palmo. La mano di lei era calda, scottava. Tehanu lo guardò ancora, uno sguardo sorprendente da quell’unico occhio, vivido, corrucciato, feroce. Poi abbassò il capo e indietreggiò, come se non volesse far parte del gruppo, come se desiderasse trovarsi altrove.

— Maestro Alder reca un messaggio per te, un messaggio di tuo padre, lo Sparviere di Gont — disse il re, vedendo che il messaggero stava muto e impalato.

Tehanu non alzò il capo. La lucente chioma nera nascondeva quasi la devastazione del viso.

— Mia signora — esordì Alder, la bocca secca, la voce roca. — Tuo padre mi ha incaricato di rivolgerti due domande… — S’interruppe, solo per umettarsi le labbra e riprendere fiato, perché aveva avuto un istante di panico, temendo di aver dimenticato quanto doveva dire. Ma la pausa divenne un silenzio d’attesa.

La voce più roca della sua, la giovane disse: — Rivolgimi queste domande.

— Mi ha detto di chiedere innanzitutto: "Chi sono coloro che vanno nell’arida terra ferma?". E mentre mi congedavo da lui, ha aggiunto: "Chiedi anche a mia figlia, "Un drago oltrepasserà il muro di pietra?".

Tehanu annuì, confermando di avere inteso le domande, poi arretrò un po’, quasi volesse portare con sé gli enigmi, lontano da loro.

— L’arida terra ferma — disse il re — e i draghi…

Col suo sguardo vigile scrutò il volto dei presenti.

— Venite — li invitò. — Sediamoci e parliamo.

— Non potremmo parlare giù in giardino? — chiese la donna dagli occhi cinerei, Tenar. Il re acconsentì subito. Mentre uscivano, Alder sentì che la donna diceva al sovrano: — Per lei è arduo stare al chiuso tutto il giorno. Vuole il cielo.

I giardinieri portarono delle sedie, perché si accomodassero all’ombra di un enorme vecchio salice vicino a uno degli stagni. La ragazza andò accanto allo stagno, fissando l’acqua verde dove nuotavano lente alcune grosse carpe argentee. Era chiaro che desiderava riflettere sul messaggio del padre, non discutere, anche se poteva sentire ciò che gli altri dicevano.

Quando tutti furono seduti, sollecitato dal re, Alder raccontò ancora la propria storia. Ascoltarono compassionevoli in silenzio, e lui poté parlare senza soggezione e senza fretta. Quando ebbe terminato, gli altri rimasero zitti alcuni istanti, poi il mago Onice gli rivolse una domanda: — Hai sognato la notte scorsa?

Alder rispose di non ricordare di aver sognato.

— Io, sì — fece Onice. — Ho sognato l’evocatore, che era mio insegnante alla scuola di Roke. Dicono di lui che sia morto due volte: perché tornò da quella terra oltre il muro.

— Io ho sognato gli spiriti che non rinascono — disse Tenar, a voce bassissima.

Il principe Sege disse: — Per tutta la notte, mi è parso di udire delle voci giù nelle vie della città, voci appartenute alla mia infanzia, che mi chiamavano come facevano un tempo. Ma quando ascoltavo, erano solo sentinelle o marinai ubriachi che schiamazzavano.

— Io non sogno mai — dichiarò Tosla.

— Io non ho sognato quella terra — fece il re. — L’ho ricordata. E non riuscivo a smettere di ricordare.

Guardò la ragazza silenziosa, ma lei continuò a contemplare muta lo stagno.

Nessun altro parlò, e Alder trovò quel silenzio insopportabile. — Se sono un portatore di rovina, dovete mandarmi via! — sbottò.

Il mago Onice parlò, non imperioso ma in tono conclusivo. — Se Roke ti ha mandato a Gont, e Gont ti ha mandato a Havnor, Havnor è il luogo in cui è giusto che tu sia.

— Molte teste diluiscono il pensiero — commentò Tosla, sardonico.

Lebannen intervenne. — Accantoniamo i sogni per un poco. Il nostro ospite deve sapere quale fosse la causa della nostra preoccupazione prima del suo arrivo… il motivo per cui ho pregato Tenar e Tehanu di venire, all’inizio dell’estate, e ho convocato Tosla, in viaggio in mare. Vuoi dire ad Alder di che si tratta, Tosla?

Il capitano dalla faccia scura annuì. Il rubino all’orecchio scintillò come una goccia di sangue.

— Si tratta dei draghi — spiegò. — Ormai da qualche anno, nella Distesa Ovest, si spingono nelle fattorie e nei villaggi di Ully e Usidero, volando bassi, afferrando i tetti delle case con gli artigli, scuotendoli, terrorizzando la gente. Nelle Toringates, sono arrivati due volte nel periodo del raccolto, incendiando i campi con il loro fiato, bruciando pagliai e tetti. Non hanno colpito le persone, però è morta della gente negli incendi. Non hanno attaccato le case dei signori di quelle isole, in cerca di tesori, come facevano negli anni oscuri, ma solo i villaggi e i campi. La stessa notizia è giunta da una nave mercantile che era scesa a sud-ovest fino a Simly per imbarcare un carico di grano: erano arrivati dei draghi e avevano bruciato le messi proprio nel momento della mietitura… Poi, l’inverno scorso, a Semel, due draghi si sono posati sulla vetta del vulcano, il monte Andanden.

— Ah! — esclamò Onice, e all’occhiata interrogativa del re: — Il mago Seppel di Paln dice che quella montagna era un luogo sacro per i draghi, un luogo dove andavano a bere fuoco dalla terra nei tempi antichi.

— Ebbene, sono tornati — disse Tosla. — E calano dal cielo a tormentare greggi e mandrie che sono la ricchezza di quella gente, senza far male alle bestie ma spaventandole e facendole fuggire dappertutto. La gente dice che sono draghi giovani, neri e smilzi, che non hanno ancora molto fuoco… E a Paln adesso ci sono draghi che vivono nelle montagne della parte nord dell’isola, una zona selvaggia senza fattorie. I cacciatori andavano là in cerca di pecore selvatiche o per catturare falchi da addomesticare, ma sono stati costretti a smettere a causa dei draghi, e adesso nessuno si avvicina più alle montagne. Il tuo amico mago di Paln ne ha forse sentito parlare?

Onice annuì. — Dice che sulle montagne sono stati visti stormi di draghi, quasi fossero stormi di oche selvatiche.

— Tra Paln e Semel, e l’isola di Havnor, c’è solo il mare Pelnico — osservò il principe Sege.

Alder stava pensando che c’erano meno di cento miglia da Semel alla sua isola natia, Taon.

— Tosla, con la sua nave, la Stern, era partito alla volta del Tratto dei draghi — disse il re.

— Ma sono riuscito appena a giungere al largo della più orientale di quelle isole, prima che uno sciame di quei bestioni mi attaccasse — raccontò Tosla, con un sogghigno. — Mi hanno molestato come fanno con mandrie e greggi, calando a strinarmi le vele finché non ho invertito la rotta e sono tornato indietro in fretta e furia. Ma questa non è una novità.

Onice annuì di nuovo. — Nessuno che non fosse un signore dei draghi ha mai solcato il Tratto dei draghi.

— Io l’ho fatto — disse il re, e di colpo sorrise, un largo sorriso innocente. — Però ero con un signore dei draghi… Ebbene, ho pensato ad allora. Quando ero nella Distesa Ovest con l’arcimago, in cerca di Cob il negromante, oltrepassammo Jessage, che è ancor più all’esterno di Simly, e là si vedevano dei campi bruciati. E nel Tratto dei draghi, vedemmo draghi che lottavano tra loro e si uccidevano come animali rabbiosi.

Dopo alcuni istanti, il principe Sege fece: — Non è possibile che alcuni di quei draghi non siano guariti dalla loro pazzia in quel periodo funesto?

— Sono trascorsi più di quindici anni — disse Onice. — Ma i draghi vivono molto a lungo. Forse il tempo passa diversamente per loro.

Alder notò che il mago, mentre parlava, lanciava occhiate a Tehanu, che continuava a tenersi in disparte vicino allo stagno.

— Tuttavia, solo negli ultimi due anni hanno attaccato le persone — disse il principe.

— Non lo hanno fatto — replicò Tosla. — Se un drago volesse distruggere la gente di una fattoria o di un villaggio, chi potrebbe impedirglielo? Hanno attaccato i mezzi di sostentamento della gente. I raccolti, il fieno, il bestiame. Stanno dicendo: "Andatevene. Via dall’Ovest!".

— Ma perché lo dicono con il fuoco, con la devastazione? — domandò il mago. — Sanno parlare! Parlano la Lingua della creazione. Morred ed Erreth-Akbe parlavano con i draghi. Il nostro arcimago parlava con loro.

— Quelli che vedemmo nel Tratto dei draghi — intervenne il re — avevano perso la capacità di parlare. La breccia aperta da Cob nel mondo li stava privando del loro potere, come ci privava del nostro. Solo il grande drago Orm Embar venne da noi e parlò all’arcimago, dicendogli di andare a Selidor… — S’interruppe, gli occhi rivolti molto lontano. — E perfino Orm Embar fu privato della favella, prima di morire. — Distolse di nuovo lo sguardo da loro, con una strana luce sul volto. — Fu per noi che Orm Embar morì. Ci aprì la via per entrare nella terra di tenebra.

Tacquero tutti per un po’. La voce sommessa di Tenar ruppe il silenzio. — Una volta Sparviere mi ha detto… vediamo se riesco a ricordare le parole esatte… che il drago e la lingua del drago sono una cosa sola, un’unica realtà. Che un drago non impara la Vecchia lingua, ma è la lingua stessa.

— Come una sterna è volo. Come un pesce è nuoto — disse lentamente Onice. — Sì.

Tehanu stava ascoltando, immobile vicino allo stagno. La guardarono tutti, adesso. L’espressione sul volto di sua madre era ansiosa, urgente. La ragazza girò il capo dall’altra parte.

— Cosa bisogna fare perché un drago parli con noi? — disse il re. Lo disse con leggerezza, come se fosse una facezia, ma la domanda fu seguita da un altro silenzio. — Be’, è qualcosa che mi auguro possiamo scoprire… Ora, maestro Onice, visto che si parla di draghi, vuoi raccontarci la tua storia della ragazza che venne alla scuola di Roke, perché nessuno tranne me l’ha sentita.

— Una ragazza nella scuola! — esclamò Tosla, con un sorriso beffardo. — Le cose sono cambiate a Roke!

— Sono cambiate davvero — disse il mago, lanciando una lunga occhiata fredda al marinaio. — Accadde circa otto anni fa. La ragazza veniva da Way, travestita da maschio, voleva studiare l’arte magica. Naturalmente, il suo misero travestimento non ingannò il portinaio. Tuttavia egli la lasciò entrare, e prese le sue parti. Allora la scuola era diretta dal maestro evocatore… l’uomo… — esitò un attimo — l’uomo che, come vi ho detto, ho sognato la notte scorsa.

— Raccontaci qualcosa di quell’uomo, se vuoi, maestro Onice — disse il re. — Era Thorion, colui che ritornò dalla morte?

— Sì. Quando l’arcimago era partito ormai da tempo e non si avevano sue notizie, cominciammo a temere che fosse morto. Così l’evocatore usò le sue arti per andare a vedere se avesse davvero oltrepassato il muro. Rimase là a lungo, e i maestri cominciarono a temere anche per lui. Ma alla fine lui si destò, e disse che l’arcimago era là tra i morti, e non sarebbe tornato, ma aveva ordinato a Thorion di tornare e governare Roke. Poco dopo, però, il drago ci riportò l’arcimago vivo, insieme al nostro signore Lebannen… Poi, quando il primo fu partito di nuovo, l’evocatore cadde e giacque come se la vita lo avesse abbandonato. Il maestro erborista, con tutta la sua arte, lo credette morto. Ma mentre ci apprestavamo a seppellirlo, l’evocatore si mosse, e parlò, dicendo che era tornato in vita per fare ciò che bisognava, fare. Così, poiché non eravamo capaci di scegliere un nuovo arcimago, Thorion l’evocatore governò la scuola. — Onice fece una pausa. — Quando arrivò la ragazza, sebbene il portinaio l’avesse lasciata entrare, Thorion non le consentì di stare nella scuola. Non voleva avere nulla a che fare con lei. Ma il maestro strutturatore la portò al Bosco immanente, e lei vìsse là per qualche tempo ai margini degli alberi, e camminò con lui tra di essi. Lo strutturatore, il portinaio, l’erborista e Kurremkarmerruk il nominatore, pensavano che se la ragazza era venuta a Roke, dovesse esserci una ragione, che fosse un messaggero o un agente di qualche grande evento, pur se lei stessa non lo sapeva; e così la protessero. Gli altri maestri seguirono Thorion, che sosteneva che la ragazza portava solo discordia e rovina e andava cacciata. Io ero uno studente, allora. Era doloroso per noi sapere che i nostri maestri, senza una guida, litigavano.

— E per una ragazza — commentò Tosla.

Questa volta, Onice gli scoccò un’occhiata gelida. — Appunto — disse. Trascorsi parecchi istanti, riprese la storia. — Per farla breve, dunque, quando Thorion mandò alcuni di noi dalla ragazza per costringerla a lasciare l’isola, lei lo sfidò a incontrarla quella sera sul poggio di Roke. Thorion andò, e chiamò la ragazza con il suo nome perché gli obbedisse. "Irian" la chiamò. Ma lei disse: "Non sono solo Irian" e mentre parlava cambiò. Divenne… assunse la forma di un drago. Toccò Thorion, e il suo corpo crollò nella polvere. Poi lei salì il colle, e osservandola, noi non sapevamo se ciò che vedevamo fosse una donna che ardeva come fuoco o una bestia alata. Ma sulla cima la vedemmo chiaramente, un drago simile a una fiamma rossa e d’oro. E lei alzò le ali e volò verso ovest.

La voce del mago si era fatta sommessa, e il suo volto era colmo dello sgomento suscitato dal ricordo. Nessuno parlò.

Onice si schiarì la voce. — Prima che lei salisse la collina, il nominatore le chiese: "Chi sei?". Lei affermò di non conoscere l’altro nome. Lo strutturatore le parlò, chiedendole dove sarebbe andata e se sarebbe tornata. Lei disse che sarebbe andata oltre l’Ovest, a imparare il nome dalla sua gente, ma che se lui l’avesse chiamata sarebbe accorsa.

Nel silenzio, una voce debole, rauca, come metallo che sfiorasse metallo, parlò. Alder non capì le parole, però gli parvero familiari, come se riuscisse quasi a ricordarne il significato.

Tehanu si era avvicinata al mago e gli stava accanto, in piedi, china su di lui, tesa come un arco. Era stata lei a parlare.

Sorpreso e spaventato, il mago la fissò, si alzò, arretrò d’un passo, poi controllandosi disse: — Sì, furono quelle le sue parole: "La mia gente, oltre l’Ovest".

— Chiamala. Oh, chiamala — sussurrò lei, tendendo le mani verso di lui. Il mago indietreggiò ancora, involontariamente.

Tenar si alzò e mormorò alla figlia: — Che c’è, che c’è, Tehanu?

La ragazza fissò tutti. Alder ebbe la sensazione di essere un fantasma attraversato da quello sguardo. — Chiamala qui — disse lei. Si rivolse al re. — Puoi chiamarla?

— Non ho un simile potere. Forse lo strutturatore di Roke… forse tu stessa…

La giovane scosse il capo violentemente. — No, no, no, no — bisbigliò. — Io non sono come lei. Io non ho ali.

Lebannen guardò Tenar, quasi a chiedere soccorso. La madre guardò infelice la figlia.

La ragazza si girò verso il re. — Mi dispiace — si scusò, compassata, con la solita vocetta aspra. — Devo stare sola, signore. Penserò a quel che ha detto mio padre. Cercherò di rispondere alle domande che ha posto. Ma devo stare sola, per favore.

Il sovrano fece un cenno di assenso e lanciò un’occhiata a Tenar, che andò subito dalla figlia e la cinse con un braccio; le due donne si allontanarono sul sentiero soleggiato che passava accanto agli stagni e alle fontane.

I quattro uomini tornarono a sedersi e non dissero nulla per qualche minuto.

Poi Lebannen disse: — Avevi ragione, Onice — e agli altri: — Maestro Onice mi ha raccontato questa storia della donna-drago Irian dopo che io gli avevo raccontato alcune cose di Tehanu. Da bambina, Tehanu chiamò il drago Kalessin a Gont, e parlò con il drago nella Vecchia lingua, e Kalessin la chiamò figlia.

— Sire, questo è molto strano, è un’epoca strana, se un drago è una donna e una ragazza incolta parla nella Lingua della creazione! — Onice era profondamente scosso, spaventato. Alder se ne rese conto, e si chiese come mai lui non provasse una paura simile. Probabilmente, perché non ne sapeva abbastanza per avere paura, o perché non sapeva cosa temere, rifletté.

— Ma ci sono vecchie storie — disse Tosla. — Non le avete sentite a Roke? Forse i vostri muri le tengono fuori. Sono solo storie che racconta la gente semplice. Canzoni, anche. C’è una canzone marinata, La Fanciulla di Belilo, che parla di un marinaio che lasciava in ogni porto una bella ragazza in lacrime, finché una di quelle graziose figliole inseguì la nave del marinaio volando con ali d’ottone, lo ghermì e lo divorò.

Onice guardò disgustato Tosla. Ma Lebannen sorrise e disse: — La donna di Kemay… Il vecchio maestro dell’arcimago, Aihal, chiamato Ogion, raccontò a Tenar di quella donna. Era una vecchia campagnola, e viveva come tale. Invitò Ogion nella sua casupola e gli servì zuppa di pesce. Gli disse che uomini e draghi un tempo erano stati una cosa sola. Lei stessa era un drago oltre che una donna, ed essendo un mago, Ogion la vide come un drago… Come tu vedesti Irian, Onice.

Parlando con sussiego e rivolgendosi solo al sovrano, Onice disse: — Quando Irian ebbe lasciato Roke, il maestro nominatore ci mostrò alcuni passaggi dei più antichi libri del sapere che erano sempre stati oscuri, ma che potevano essere interpretati come riferimenti sia a esseri umani sia a draghi. E a un litigio o un grande disaccordo tra loro. Ma nulla di tutto ciò si presta a una chiara comprensione.

— Speravo che Tehanu potesse chiarirlo — fece Lebannen. La sua voce era pacata, così Alder non capì se si fosse arreso o nutrisse ancora quella speranza.

Un uomo stava affrettandosi lungo il sentiero verso di loro, un soldato anziano delle guardie reali. Il sovrano si girò, si alzò, gli andò incontro. I due parlarono sottovoce per un minuto. Poi il soldato si allontanò, e il re tornò dai compagni. — Ci sono novità — annunciò, un tono di sfida di nuovo nella voce. — Nei cieli occidentali di Havnor, sono stati avvistati grandi stormi di draghi. Hanno incendiato intere foreste, e l’equipaggio di una nave costiera ha riferito che della gente in fuga verso Porto Sud ha raccontato che la città di Resbel sta bruciando.


Quella notte, la nave più veloce della flotta reale portò il re e il suo gruppo sulla sponda opposta della baia di Havnor, veleggiando rapida grazie al vento magico creato da Onice. Allo spuntar del giorno, giunsero alla foce del fiume Onneva, sotto i contrafforti del monte Onn. Con loro sbarcarono undici cavalli, splendidi e robusti animali delle stalle reali. Gli equini erano rari su tutte le isole, tranne a Havnor e Semel. Tehanu conosceva gli asini abbastanza bene, ma non aveva mai visto un cavallo prima d’allora. Aveva trascorso gran parte della notte con loro e gli stallieri, aiutandoli a controllare e calmare le bestie. Erano cavalli di razza docili, però non erano abituati ai viaggi in mare.

Quando giunse il momento di montarli, là sulle sabbie dell’Onneva, Onice era piuttosto spaventato, e gli stallieri dovettero istruirlo e incoraggiarlo, invece Tehanu si issò in sella con destrezza pari a quella del sovrano. Mise le redini nella mano offesa e non le usò; a quanto pareva, comunicava con la propria giumenta con altri mezzi.

Così la piccola carovana si mise in viaggio diretta a ovest nelle colline pedemontane dei Falierns, mantenendo una buona andatura. Era la via più breve a disposizione di Lebannen; doppiare l’estremità meridionale di Havnor avrebbe richiesto troppo tempo. Avevano con sé il mago Onice perché tenesse lontano il maltempo, sgombrasse il percorso da qualsiasi ostacolo e li difendesse dai pericoli, tranne quello rappresentato dal fuoco dei draghi. Contro di essi, se li avessero incontrati, non avevano alcuna difesa, a parte forse Tehanu.

La sera prima, consultandosi con i consiglieri e gli ufficiali della guardia, il re si era reso conto ben presto che non c’era modo di combattere i draghi o proteggere le città e i campi: le frecce erano inutili, così anche gli scudi. Solo i più grandi maghi erano riusciti a sconfiggere un drago. Lui non ne aveva al proprio servizio uno così potente e non gli risultava che ne esistessero ancora, però doveva difendere il suo popolo come meglio poteva, e l’unico modo per farlo era cercare di parlamentare con i nemici.

Il suo maggiordomo era rimasto allibito quando Lebannen si era diretto verso l’appartamento di Tenar e Tehanu: il sovrano doveva mandare a chiamare quelli che desiderava vedere, ordinare loro di presentarsi al suo cospetto. — Non se deve pregarli di aiutarlo — replicò lui.

Chiese alla cameriera sbigottita che aprì la porta di farlo parlare con la Bianca signora e la donna di Gont. A palazzo e in città, le due donne erano conosciute con tali appellativi. Il fatto che portassero apertamente il loro vero nome, come faceva il re, era una cosa così rara, così contraria alla tradizione, alla sicurezza e alla proprietà, che la gente, pur conoscendolo forse, era riluttante a pronunciarlo e preferiva usare una perifrasi.

Il re fu fatto entrare e, dopo averle informate in breve delle notizie ricevute, disse: — Tehanu, può darsi che tu sola nel mio regno sia in grado di aiutarmi. Se potrai chiamare quei draghi come hai chiamato Kalessin, se avrai qualche potere su di loro, se potrai parlare con loro e chiedere perché fanno guerra al mio popolo, lo farai?

La giovane si ritrasse a quelle parole, girandosi verso la madre.

Ma Tenar non le offrì alcun rifugio. Restò immobile. Dopo alcuni istanti, disse: — Tehanu, tanto tempo fa ti ho detto che quando un re ti parla, devi rispondere. Eri una bambina, allora, e non hai risposto. Adesso non sei più una bambina.

La ragazza arretrò d’un passo, allontanandosi da entrambi. Abbassò la testa, intimidita. — Non posso chiamarli — mormorò, sommessa e stridula. — Non li conosco.

— Puoi chiamare Kalessin? — chiese Lebannen.

Lei scosse il capo. — Troppo lontano — sussurrò. — Non so dove…

— Ma tu sei la figlia di Kelessin — disse Tenar. — Non puoi parlare a questi draghi?

Lei rispose infelice: — Non lo so.

Il re disse: — Se esiste la possibilità che i draghi parlino con te, Tehanu, e che tu sia in grado di parlare con loro, ti prego di non tirarti indietro. Perché io non posso combatterli, e non conosco la loro lingua… e come posso scoprire cosa vogliono da noi, trattandosi di creature capaci di distruggermi con un soffio, con un’occhiata? Parlerai tu per me, per noi?

La giovane rimase in silenzio. Quindi, con un filo di voce, rispose: — Sì.

— Allora preparati a viaggiare con me. Partiremo alla quarta ora della sera. I miei uomini ti condurranno alla nave. Ti ringrazio. E ringrazio anche te, Tenar! — disse il sovrano, stringendole la mano un attimo, ma solo un attimo, perché doveva occuparsi di parecchie cose prima della partenza.

Quando giunse al molo, affrettandosi perché era in ritardo, scorse la snella figura incappucciata. L’ultimo cavallo da imbarcare sbuffava e puntava le zampe, rifiutandosi di salire sulla passerella. Tehanu disse qualcosa allo stalliere. Poi prese la briglia del cavallo e gli parlò un poco, e insieme oltrepassarono l’ostacolo.

A bordo della nave, lo spazio era scarso e affollato; verso mezzanotte, Lebannen udì due stallieri che conversavano sottovoce sul ponte di poppa. — Quella ha la mano fatata — disse uno, e l’altro, una voce di giovane: — Sì, certo, però è orribile da guardare, vero? — Il primo replicò: — Se un cavallo non ci fa caso, perché dovresti farlo tu? — e l’altro: — Non so… ma io ci faccio caso.

Ora, mentre cavalcavano dalle sabbie dell’Onneva nelle colline pedemontane, dove la strada si allargava, Tosla si accostò a Lebannen. — Lei sarà il nostro interprete, vero? — domandò.

— Se potrà.

— Ebbene, è più coraggiosa di quel che pensavo. Se la prima volta che ha parlato con un drago le è successa quella cosa terribile, è probabile che succeda ancora.

— Cosa intendi dire?

— Che è quasi morta bruciata.

— Non è stato un drago.

— Chi, allora?

— I suoi genitori.

— Come è andata? — chiese Tosla, facendo una smorfia.

— Erano vagabondi, ladri. Lei aveva cinque o sei anni. Non so cosa avesse fatto lei, o loro, ma alla fine venne percossa fino a perdere i sensi e fu gettata nel fuoco del loro bivacco. Pensavano, immagino, che fosse morta, e che sarebbe sembrato un incidente. Loro fuggirono. La trovarono dei contadini, e Tenar la prese con sé.

Tosla si grattò un orecchio. — Un bell’esempio di umana bontà. Dunque non è neppure figlia del vecchio arcimago? Ma allora cosa intendono dire con questa storia secondo cui lei sarebbe un cucciolo di drago?

Lebannen aveva navigato con Tosla, aveva combattuto al suo fianco anni addietro nell’assedio di Sorra, e sapeva che era un uomo coraggioso, acuto, controllato. Quando la sua rozzezza lo irritava, il re dava la colpa alla propria delicatezza eccessiva. — Non lo so — rispose pacato. — So solo che il drago l’ha chiamata figlia.

— Quel tuo mago di Roke, quell’Onice, è lesto a dire che non può far nulla in questa faccenda. Però parla la Vecchia lingua, no?

— Certo. Potrebbe incenerirti pronunciando qualche parola. Se non l’ha fatto, è per rispetto nei miei confronti, non nei tuoi, credo.

Tosla annuì. — Lo so.

Cavalcarono tutto il giorno alla massima andatura che i cavalli erano in grado di tenere, e al calar della notte giunsero in una piccola cittadina collinare dove le bestie avrebbero potuto mangiare e riposare, e i viaggiatori dormire in letti scomodi. Chi non era abituato ad andare a cavallo scoprì subito di riuscire a stento a camminare. La gente del posto non aveva sentito nulla a proposito di draghi, ed era frastornata solo dalla soggezione e dalla grande contentezza cagionata dall’arrivo di un folto gruppo di ricchi forestieri che volevano vitto e alloggio e pagavano con monete d’argento e d’oro.

I cavalieri si rimisero in viaggio molto prima dell’alba. C’erano quasi cento miglia dalle sabbie dell’Onneva a Resbel. Quel secondo giorno li avrebbe portati oltre il basso valico dei monti Falierns, e poi giù nel versante occidentale. Yenay, uno degli ufficiali più fidati del re, precedeva di parecchio la comitiva; Tosla formava la retroguardia; il re guidava il grosso del gruppo. Stava procedendo al piccolo trotto, mezzo addormentato nella fosca quiete antelucana, quando fu destato da un rumore di zoccoli che si avvicinavano. Yenay era tornato indietro. Lebannen guardò nella direzione indicata dall’ufficiale.

Erano appena usciti dai boschi sulla cresta di un colle, e la visuale era sgombra fino al passo. Le montagne su entrambi i lati del valico si stagliavano nere contro l’opaco bagliore rossastro di un’alba nuvolosa.

Ma loro stavano guardando a ovest.

— È più vicino di Resbel — disse Yenay. — Quindici miglia, forse.

La giumenta di Tehanu, sebbene piccola, era la bestia più bella del gruppo, ed era convinta di dover guidare gli altri. Se la ragazza non la tratteneva, continuava a spostarsi di lato e a superare chi la precedeva finché non arrivava in testa alla fila. La giumenta avanzò subito, quando Lebannen tirò le redini della propria cavalcatura, e così la ragazza si ritrovò accanto al sovrano, guardando nella direzione in cui stava guardando lui.

— La foresta è in fiamme — le disse il re.

Vedeva solo il lato deturpato del volto della giovane, e aveva l’impressione di osservare una maschera cieca; ma Tehanu aveva visto benissimo, e la mano rattrappita che stringeva le redini stava tremando. La bambina bruciata temeva il fuoco, pensò lui.

Come aveva potuto essere così folle, vile e crudele, da chiedere a quella ragazza di andare a parlare ai draghi, di salvargli la pelle, portandola davanti alle fiamme?

— Torneremo indietro — annunciò.

Tehanu alzò la mano sana, indicando. — Guardate — disse. — Guardate!

La scintilla di un falò, un tizzone ardente sollevatosi sopra la linea nera del passo, un’aquila di fuoco libratasi in aria… un drago stava volando verso di loro.

Lei si drizzò sulle staffe e lanciò un grido lacerante, stridulo, simile al verso di un uccello marino o di un falco, ma era una parola, un’unica parola: — Medeu!

La grande creatura si avvicinò con una rapidità spaventosa, battendo quasi con indolenza le lunghe ali sottili; lontano dal riflesso del fuoco, adesso sembrava nera o color bronzo.

— Badate ai cavalli — avvertì rauca la ragazza, e in quel preciso istante il castrone grigio di Lebannen vide il drago e s’impennò, agitando la testa e indietreggiando. Il re era in grado di controllarlo, ma dietro di lui un cavallo emise un nitrito di terrore, e si udirono un calpestio di zoccoli e le voci concitate degli stallieri. Il mago Onice arrivò trafelato e si fermò accanto alla cavalcatura del sovrano. In sella o a terra, i membri del gruppo rimasero a osservare l’arrivo del drago.

Tehanu gridò nuovamente quella parola. Il drago cambiò direzione in volo, rallentò, si fermò e si librò nell’aria a una cinquantina di piedi da loro.

Medeu! - ripeté. E la risposta giunse come un’eco prolungata: — Me-de-uuu!

— Che significa? — chiese Lebannen, piegandosi verso Onice.

— Sorella, fratello — sussurrò il mago.

La giovane era scesa da cavallo, aveva gettato le redini a Yenay, stava incamminandosi lungo il lieve pendio verso il punto in cui il drago si librava nell’aria con brevi e rapidi battiti d’ali, simili a quelli di un falco. Ma quelle ali avevano un’apertura di cinquanta piedi da un’estremità all’altra, e il loro battito produceva un rumore simile a colpi di timpano o a un acciottolio di oggetti metallici. Mentre la giovane si avvicinava, una piccola spira di fuoco scaturì dalla bocca aperta del drago, una bocca lunga dai denti enormi.

Tehanu alzò la mano. Non la snella mano bruna, bensì quella bruciata, rattrappita. Avendo il braccio e la spalla lesi, non era in grado di alzarla del tutto. Arrivava a stento all’altezza del capo.

Il drago scese leggermente nell’aria, abbassò la testa, e le toccò la mano con il muso scarno, svasato, scaglioso. Come un cane, un animale che salutasse e annusasse, pensò Lebannen; come un falco che si posasse sul polso del falconiere; come un re che s’inchinasse a una regina.

La giovane parlò, il drago parlò; conversarono brevemente, le voci simili a un fremito di cembali. Un altro scambio di frasi, una pausa; il drago parlò a lungo. Onice ascoltò attentamente. Ancora uno scambio di battute. Un filo di fumo dalle narici del drago; un gesto lento e imperioso della mano offesa di Tehanu. Due parole pronunciate in modo chiaro da lei.

— Portala qui — tradusse il mago in un sussurro.

Il drago batté forte le ali, abbassò la lunga testa e sibilò, parlò di nuovo, poi balzò alto nell’aria, sovrastandola, si girò, volteggiò, e volò come una freccia a ovest.

— L’ha chiamata figlia del Maggiore, del Più anziano — mormorò il mago, mentre quella immobile osservava il drago allontanarsi.

La giovane si girò, una figura piccola e fragile in quella grande distesa di colline e foreste lambita dalla luce grigia dell’alba. Lebannen smontò da cavallo e si affrettò a raggiungerla. Pensava di trovarla esausta e terrorizzata, e tese la mano per aiutarla a camminare, ma lei gli sorrise. Il suo volto, per metà orribile per metà bellissimo, era raggiante, soffuso dalla luce rossa di un sole che doveva ancora sorgere.

— Non attaccheranno più. Aspetteranno sulle montagne — annunciò.

Poi però si guardò attorno come se non sapesse dov’era, e quando il sovrano le prese il braccio si lasciò aiutare; ma il fuoco e il sorriso continuarono a illuminarle il viso, e i suoi passi erano leggeri.

Mentre gli stallieri badavano ai cavalli, che stavano già brucando l’erba rorida, Onice, Tosla e Yenay l’attorniarono, pur tenendosi a rispettosa distanza. Onice disse: — Mia signora Tehanu, non ho mai visto un gesto così coraggioso.

— Nemmeno io — disse Tosla.

— Avevo paura — confessò lei, con quella voce da cui non traspariva alcuna emozione. — Ma l’ho chiamato fratello, e lui mi ha chiamato sorella.

— Non sono riuscito a capire tutto quello che avete detto — fece il mago. — Non conosco la Vecchia lingua come la conosci tu. Vuoi raccontarci come si è svolto il vostro incontro?

Lei parlò lentamente, gli occhi rivolti a ovest dov’era volato il drago. Il rosso cupo dell’incendio lontano stava sbiadendo via via che a est la luce cresceva. — Ho chiesto: "Perché bruciate l’isola del re?". E lui ha risposto: "È tempo di riprenderci le nostre terre". E io ho chiesto: "L’anziano vi ha ordinato di usurparle con il fuoco?". Allora lui ha detto che l’anziano, Kalessin, era andato con Orm Irian oltre l’Ovest per volare sull’altro vento. E che i giovani draghi rimasti qui sui venti del mondo dicono che gli uomini sono violatori di giuramenti e che hanno rubato le terre dei draghi. Sono convinti che Kalessin non tornerà più, e non vogliono più aspettare, vogliono cacciare gli uomini da tutte le terre occidentali. Ma di recente Orm Irian è ritornata, ed è a Paln, mi ha detto. E io gli ho detto di chiederle di venire. E lui ha risposto che Orm Irian sarebbe venuta dalla figlia di Kalessin.

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