4 Delfino

Bisognava sistemare varie questioni e provvedere ai preparativi, prima che il re potesse lasciare la capitale; c’era inoltre il problema di stabilire chi dovesse andare con lui a Roke. Irian e Tehanu, ovviamente, e l’ultima voleva la madre con sé. Onice sosteneva che Alder doveva assolutamente partire insieme a loro, e pure il mago pelnico, Seppel, perché il sapere di Paln aveva parecchi legami con le questioni relative al confine tra la vita e la morte. Il re affidò a Tosla il comando della Delfino, come già in passato. Il principe Sege si sarebbe occupato degli affari di stato in assenza del sovrano, con un gruppo scelto di consiglieri, com’era già avvenuto.

Tutto era pronto, dunque, o almeno così pensava Lebannen, finché Tenar non andò da lui due giorni prima della partenza e gli disse: — Discuterete di guerra e pace con i draghi, e di cose ancor più importanti, secondo Irian, cose che riguardano l’equilibrio di tutto il mondo di Earthsea. La gente delle terre dei Karg dovrebbe sentire queste discussioni ed esprimere la propria opinione.

— Li rappresenterai tu.

— No. Io non sono un suddito del sommo re. L’unica persona qui che possa rappresentare il suo popolo, è sua figlia.

Il re si allontanò di un passo, si girò parzialmente e . infine, la voce alterata dallo sforzo di frenare la collera, replicò: — Sai benissimo che lei non è assolutamente adatta a un’impresa dell’importanza di questo viaggio.

— Non lo so affatto.

— È incolta.

— È intelligente, pratica, coraggiosa. È consapevole di cosa comporti il suo rango. Non l’hanno educata al governo ma del resto cosa può imparare, rinchiusa nella Casa del fiume con le sue ancelle e qualche dama di corte?

— A parlare la lingua, in primo luogo!

— La sta imparando. Le farò io da interprete, quando sarà necessario.

Dopo una breve pausa, Lebannen parlò ponderando le parole. — Capisco la tua sollecitudine verso la sua gente. Penserò a cosa si può fare. Ma la principessa non può prendere parte a questo viaggio.

— Tehanu e Irian dicono che invece dovrebbe venire con noi. Maestro Onice afferma che, come per Alder di Taon, il fatto che sia stata mandata qui proprio adesso non può essere un semplice caso.

Il re arretrò ancora. Il suo tono, pur freddo, si mantenne paziente e garbato. — Non posso permetterlo. La sua ignoranza e la sua inesperienza farebbero di lei un fardello gravoso. E non posso mettere a repentaglio la sua incolumità. I rapporti con suo padre…

— Nella sua insipienza, ci ha indicato come rispondere agli interrogativi di Ged. Tu le manchi di rispetto esattamente come suo padre. Parli di lei come se fosse un essere privo di intelletto. — Il viso di Tenar era pallido di rabbia. — Se temi di mettere a repentaglio la sua incolumità, lascia che sia lei a decidere se è disposta a rischiare.

Ci fu di nuovo silenzio. Poi Lebannen parlò con la stessa rigida calma, evitando di guardare la donna. — Se tu, Tehanu e Orm Irian ritenete che quella ragazza debba venire con noi a Roke, e Onice è d’accordo con voi, accetto il vostro giudizio, anche se penso che sia sbagliato. Per favore, comunicale che se desidera venire, può farlo.

— Dovresti comunicarglielo tu.

Lui rimase zitto. Uscì dalla stanza senza una parola.

Passò accanto a Tenar, e pur non guardandola, la vide in modo chiaro. Sembrava vecchia e tesa, e le tremavano le mani. Provò compassione per lei, si vergognò del proprio comportamento brusco, si sentì un po’ sollevato al pensiero che nessun altro aveva assistito alla scena; ma quei sentimenti erano mere scintille nell’immensa oscurità della collera che provava nei confronti della donna, della principessa, di tutti quelli che gli imponevano quel falso obbligo, quel compito grottesco. Lasciando la stanza, si aprì il colletto della camicia come se lo stesse soffocando.

Il suo maggiordomo, un uomo serio e ottuso di nome Ognibene, non si aspettava che tornasse così presto, e balzò in piedi, fissandolo allarmato. Il re lo squadrò gelido e ordinò: — Manda a chiamare la somma principessa perché si presenti da me nel pomeriggio.

— La somma principessa?

— Quante somme principesse ci sono, qui? Non lo sai che la figlia del sommo re è nostra ospite?

Sorpreso, il maggiordomo balbettò qualche parola di scusa, che il sovrano interruppe annunciando: — No. Andrò io stesso alla Casa del fiume. — Uscì a grandi passi, inseguito, ostacolato, e quasi trattenuto dal maggiordomo, che lo costrinse ad attendere il tempo necessario per radunare una scorta adeguata, far arrivare i cavalli dalle stalle, rinviare al pomeriggio l’udienza ai postulanti che aspettavano nella Sala lunga, e così via. Tutti i suoi obblighi, tutti i suoi doveri, tutte le pastoie e gli impedimenti, i riti e le ipocrisie che facevano di lui un re lo invischiavano, risucchiandolo come sabbie mobili e soffocandolo.

Quando un servitore, attraversando il cortile delle stalle, gli portò il cavallo, Lebannen saltò in sella in modo così repentino che l’animale fu contagiato dall’umore del sovrano, arretrò e s’impennò, costringendo stallieri e servitori a portarsi a debita distanza. Vedendo quel cerchio di gente che si allargava attorno a lui, il re provò una truce soddisfazione. Diresse il cavallo verso l’uscita del cortile senza attendere che gli uomini della scorta montassero in sella. Li guidò a un trotto sostenuto nelle vie della città, precedendoli di parecchio, consapevole del dilemma del giovane ufficiale che avrebbe dovuto avanzare in fila gridando: "Largo al re!" ma che era rimasto indietro e adesso non osava superarlo.

Era quasi mezzogiorno; le vie e le piazze di Havnor erano calde e luminose, e per lo più deserte. Udendo il rumore degli zoccoli dei cavalli, la gente si affrettava ad affacciarsi sulla soglia delle piccole botteghe buie, osservando, riconoscendo il sovrano e salutandolo. Delle donne sedute alle finestre a farsi vento e a chiacchierare con le dirimpettaie guardarono in basso e agitarono la mano, e una di loro gettò un fiore al re. Gli zoccoli del suo cavallo risuonarono sui mattoni di un’ampia piazza bruciata dal sole e completamente deserta, a parte un cane con la coda arricciata che si allontanò trotterellando su tre zampe, infischiandosene della presenza di sua maestà. Lasciando la piazza, imboccò uno stretto passaggio che conduceva alla via lastricata lungo il Serrenen, e la percorse all’ombra dei salici sotto le vecchie mura, fino alla Casa del fiume.

La cavalcata aveva cambiato alquanto il suo umore. La calura, il silenzio e la bellezza della città, il senso della moltitudine di vite dietro i muri e le imposte, il sorriso della donna che gli aveva lanciato un fiore, la piccola soddisfazione di essersi lasciato alle spalle tutti i suoi custodi e cerimonieri e infine la frescura e i profumi del lungofiume e il cortile ombreggiato della casa dove aveva conosciuto giorni e notti di pace e di piacere, tutto questo contribuiva a placare un poco la sua collera. Si sentiva estraniato da se stesso, non più posseduto, ma svuotato.

I primi uomini della scorta stavano arrivando nel cortile quando il re smontò da cavallo, lasciando l’animale all’ombra. Entrò nella casa, piombando tra domestici appisolali come un sasso che cade in uno stagno tranquillo, creando attorno a sé cerchi sempre più ampi di sgomento e panico. Disse: — Dite alla principessa che sono qui.

Lady Opale del vecchio dominio di Ilien, attualmente a capo delle dame di compagnia della principessa, accorse sollecita, lo salutò cortese, gli offrì cibo e bevande, si comportò come se la sua visita non fosse affatto una sorpresa. Quell’affabilità in parte lo calmò, ma in parte aumentò la sua irritazione. Ipocrisia incessante! Ma cosa avrebbe dovuto fare lady Opale… boccheggiare come un pesce fuor d’acqua (come stava facendo una dama di compagnia giovanissima) perché il re finalmente e inaspettatamente era venuto a trovare la principessa?

— Mi dispiace che lady Tenar non sia qui al momento — disse lady Opale. — Con il suo aiuto è molto più facile conversare con la principessa. Ma la principessa sta facendo progressi encomiabili con la nostra lingua.

Aveva dimenticato il problema della comunicazione. Accettò la bevanda fresca offertagli e non disse nulla. Lady Opale chiacchierò del più e del meno, aiutata dalle altre dame, non riuscendo quasi a scalfire il mutismo del sovrano. Egli aveva cominciato a rendersi conto che probabilmente ci si aspettava che lui parlasse con la principessa in compagnia di tutte le sue ancelle, come richiedevano le convenienze. Qualunque cosa intendesse dirle, adesso non era più possibile. Stava per alzarsi e congedarsi, quando una donna con la testa e le spalle nascoste da un velo rosso apparve sulla soglia, si gettò in ginocchio, e disse: — Per favore? Re? Principessa? Per favore?

— La principessa ti riceverà nelle sue stanze, sire — tradusse lady Opale. Fece un cenno a un valletto, che accompagnò il sovrano al piano di sopra, lungo un corridoio, passando da un’anticamera, attraverso una grande stanza buia che pareva piena di donne con il velo, e infine all’esterno, su un balcone affacciato sul fiume. Là, Lebannen vide la figura che ricordava: il cilindro immobile color rosso e oro.

La brezza faceva ondeggiare leggermente i veli, e la figura non sembrava solida, ma delicata, mobile, tremolante, come il fogliame dei salici. Si contrasse, si accorciò. La principessa gli stava facendo la riverenza. Lui s’inchinò. Poi entrambi si drizzarono e rimasero in silenzio.

— Principessa — esordì, con una sensazione d’irrealtà, udendo la propria voce. — Sono qui per chiederti di venire con noi a Roke.

Lei non disse nulla. Il re vide i sottili veli rossi schiudersi in un ovale mentre la ragazza li spostava con le mani. Mani dalle lunghe dita, dalla pelle dorata, scostate per mostrare il volto nell’ombra scarlatta. Lebannen non riuscì a vedere i lineamenti in modo chiaro. Era alta quasi quanto lui, e i suoi occhi lo fissavano.

— La mia amica Tenar — fece la principessa — dice: "Re vedere re, faccia a faccia". Io dico: "Sì, io vedo".

Comprendendo in parte, s’inchinò nuovamente. — Mi onori, mia signora.

— Sì — disse lei. — Io onoro te.

Lui esitò. Quello era un terreno completamente diverso. Quello proprio della principessa.

Lei era dritta e immobile, l’orlo dorato dei veli che tremolava, gli occhi che lo fissavano dall’ombra.

— Tenar, e Tehanu, e Orm Irian, sostengono che sarebbe opportuno che la principessa delle terre dei Karg fosse con noi a Roke. Quindi ti chiedo di venire con noi.

— Venire.

— All’isola di Roke.

— In nave — disse lei, e di colpo emise una specie di gemito sommesso. Poi concluse: — Sì. Io verrò.

Non sapendo cos’altro aggiungere, Lebannen fece: — Grazie, mia signora.

La principessa annuì una volta, da pari a pari.

Lui s’inchinò. Si congedò da lei come gli avevano insegnato da suo padre il principe nelle occasioni ufficiali alla corte di Enlad, senza volgere la schiena, ma arretrando.

La principessa continuò a tenere aperto il velo finché lui non giunse alla porta. Poi abbassò le mani, i veli si richiusero e il re la sentì sospirare forte, forse provava un grande sollievo dopo aver compiuto un arduo sforzo di volontà.

Coraggiosa, l’aveva definita Tenar. Lebannen non capiva, ma sapeva di avere assistito a qualcosa di ardito. Tutta la collera che lo aveva invaso, che lo aveva condotto lì, era scemata, sparita. Non era stato risucchiato e soffocato, ma portato di colpo di fronte a una roccia, un luogo elevato all’aria pura, una verità.

Attraversò la stanza piena di donne bisbiglianti, profumate, velate, che al suo passaggio si ritrassero nell’oscurità. Al pianterreno, chiacchierò un poco con lady Opale e le altre, e disse una buona parola per la dama di compagnia dodicenne rimasta a bocca aperta. Parlò affabile agli uomini della scorta che lo aspettavano in cortile. Montò senza scomporsi sul suo maestoso cavallo grigio. E cavalcando tranquillo, pensoso, tornò al palazzo di Maharion.


Alder apprese con rassegnazione fatalistica di doversi imbarcare nuovamente alla volta di Roke. Le sue ore di veglia erano diventate così strane per lui, più irreali dei sogni, che non aveva la voglia e la forza di fare domande o protestare. Se era destinato a veleggiare di isola in isola per il resto della vita, ebbene, così fosse; sapeva che adesso per lui non esisteva la benché remota possibilità di tornare a casa. Per lo meno, sarebbe stato in compagnia di Tenar e Tehanu, che gli infondevano serenità e pace. E anche il mago Onice era stato buono con lui.

Alder era un uomo timido e Onice un uomo molto riservato, e c’era l’enorme divario di conoscenza e rango da colmare; ma il mago era andato da lui varie volte semplicemente per parlare da uomo dell’arte a uomo dell’arte, mostrando per la sua opinione un rispetto che sconcertava la sua modestia. Non poteva negargli fiducia, e quando si avvicinava ormai il momento della partenza, gli sottopose il problema che lo angustiava.

— Si tratta del gatto — esordì imbarazzato. — Non mi sembra giusto portarlo con me. Tenerlo rinchiuso per tanto tempo. Non è una cosa naturale per una bestiola. E mi chiedo, che ne sarebbe di lui…

L’altro non domandò cosa intendesse dire. Chiese solo: — Ti aiuta ancora a stare lontano dal muro di pietra?

— Be’, sì, spesso.

Onice rifletté. — Ti occorre qualche protezione, finché non saremo a Roke. Ho pensato… Hai parlato con il mago Seppel?

— L’uomo di Paln — fece Alder, con un tono di lieve inquietudine.

Paln, la più grande isola a Ovest di Havnor, era ritenuta un luogo misterioso. I pelnici parlavano hardico con un accento particolare, usando molte parole proprie. I loro signori nell’antichità si erano rifiutati di giurare fedeltà ai re di Enlad e Havnor. I loro maghi non andavano a Roke ad apprendere l’arte. Il sapere pelnico, che si ricollegava ai Vecchi poteri della terra, era ritenuto da molti pericoloso, se non malvagio. Tempo addietro, il mago Grigio di Paln aveva portato la sventura sulla propria isola evocando le anime dei morti perché aiutassero lui e i suoi signori, e quel racconto faceva parte dell’ammaestramento di ogni stregone. "I vivi non dovrebbero chiedere consiglio ai morti." C’era stato più di un duello di magia tra un uomo di Roke e un uomo di Paln; uno di tali scontri, due secoli addietro, aveva provocato una calamità che si era abbattuta sulle genti di Paln e Semel, e aveva devastato una buona metà delle città e delle terre coltivate. Quindici anni prima, quando il mago Cob aveva usato il sapere pelnico per varcare il confine tra la vita e la morte, l’arcimago Sparviere aveva impiegato tutto il proprio potere per sconfiggerlo e sanare il male compiuto.

Alder, come quasi tutti a corte e nel Consiglio reale, aveva educatamente evitato il mago Seppel.

— Ho chiesto al re di portarlo con noi a Roke — disse Onice.

Alder batté le palpebre, sorpreso.

— Sanno più cose di noi riguardo queste faccende — spiegò il mago. — Gran parte della nostra arte d’evocazione deriva dal sapere pelnico. Thorion era un maestro di quell’arte… L’evocatore che è adesso a Roke, Brando di Venway, non vuole usare nulla che s’ispiri a quel sapere. Adoperato male, ha causato solo danno. Ma può darsi che sia stata solo la nostra ignoranza a indurci a impiegarlo nel modo sbagliato. Risale a tempi antichissimi; forse contiene conoscenze che noi abbiamo smarrito. Seppel è un saggio e un mago. Penso che debba venire con noi. E penso che possa aiutarti, se riesci a fidarti di lui.

— Se ha la tua fiducia — disse l’altro — allora avrà anche la mia.

Quando Alder parlava con l’eloquenza di Taon, spesso Onice sorrideva con lieve ironia. — Il tuo giudizio vale quanto il mio, Alder, in questa faccenda — osservò. — O è anche migliore. Spero che tu te ne serva. In ogni modo, ti porterò da lui.

Così, scesero in città insieme. L’alloggio di Seppel si trovava in un quartiere vecchio, nei pressi degli scali navali, in una traversa di via dei Carpentieri; là c’era una piccola colonia di pelnici, chiamati a lavorare nei cantieri reali perché erano costruttori navali abilissimi. Le case erano molto vecchie, ravvicinate, con i tipici ponti tra un tetto e l’altro che davano alla città una seconda rete aerea di strade sopra quelle lastricate.

Le stanze di Seppel, cui si accedeva salendo tre rampe di scale, erano buie e afose nella calura dell’estate inoltrata. Il mago li invitò a salire un’altra rampa e li portò sul tetto. Era unito agli altri tetti da un ponte su ogni lato, e formava quindi un crocicchio con tanto di via principale e traverse. Fissate alle basse balaustre c’erano delle tende da sole, e la brezza che spirava dal porto rinfrescava l’aria all’ombra. Si sedettero su alcune stuoie di tela a righe nell’angolo di tetto occupato da Seppel, e sorseggiarono insieme un tè freddo leggermente amaro.

Era un uomo basso sulla cinquantina, rotondetto, con mani e piedi piccoli, capelli un po’ ricciuti e ribelli, e, cosa rara tra gli uomini dell’Arcipelago, una barba, corta, sul mento e le gote scure. Aveva modi gentili. Parlava sottovoce, con un accento musicale e una cadenza rapida che spezzava le parole.

Lui e Onice conversarono, e Alder li ascoltò a lungo. Cominciò a distrarsi quando parlarono di persone e cose che non conosceva. Osservò i tetti e i tendoni, i giardini pensili e i ponti ad arco intagliati; spinse lo sguardo a nord, verso il monte Onn, una grande cupola grigio chiaro sopra le colline velate dalla foschia estiva. Tornò al presente, sentendo che il mago pelnico diceva: — Forse nemmeno l’arcimago è riuscito a sanare del tutto la ferita aperta nel mondo.

La ferita nel mondo, pensò Alder: sì. Allora fissò Seppel, e questi gli lanciò uno sguardo. Nonostante l’aspetto mite, i suoi occhi erano acuti e penetranti.

— Forse non è solo il nostro desiderio di vivere per sempre quello che ha tenuto aperta la ferita — disse — ma il desiderio dei morti di morire.

Di nuovo, Alder udì le strane parole e gli parve di riconoscerle senza capirle. Seppel gli lanciò un’altra occhiata, quasi in attesa di una reazione.

Alder non disse nulla, e nemmeno Onice parlò. Il pelnico alla fine disse: — Quando sei al confine, maestro Alder, cos’è che ti chiedono?

— Di liberarli — rispose lui, la voce un semplice sussurro.

— Liberarli — mormorò il suo compagno.

Ancora silenzio. Due ragazzi e una ragazza attraversarono il tetto di corsa, ridendo e gridando: — Giù al prossimo! — giocando a uno dei tantissimi giochi d’inseguimento che i bambini facevano grazie al labirinto di strade, canali, scale e ponti della loro città.

— Forse è stato un cattivo affare fin dall’inizio — disse Seppel, e quando Onice gli rivolse uno sguardo interrogativo aggiunse: — Verw nadan.

Alder sapeva che erano parole della Vecchia lingua, ma non ne conosceva il significato.

Guardò l’amico, che aveva assunto un’espressione molto seria. Quello si limitò a dire: — Ebbene, spero giungeremo alla verità di queste cose, e presto.

— Sul colle dove la verità è — disse Seppel.

— Sono contento che sarai là con noi. Intanto, qui abbiamo Alder che viene chiamato a quel confine ogni notte e cerca un po’ di sollievo. Gli ho detto che forse conosci il modo di aiutarlo.

— E tu accetteresti il tocco della magia di Paln? — chiese il piccolo mago, in tono di lieve ironia. I suoi occhi erano lucenti e duri come giaietto.

Alder aveva le labbra secche. — Maestro — rispose — sulla mia isola diciamo che l’uomo che sta annegando non chiede quanto costa la corda. Se puoi tenermi lontano da quel luogo anche per una sola notte, avrai i miei più fervidi ringraziamenti, per quanto siano ben poca cosa in cambio di un simile dono.

Onice lo fissò, abbozzando un sorriso divertito, senza alcun intento di biasimo.

L’altro non sorrise affatto. — I ringraziamenti sono rari, nel mio mestiere — osservò. — Li apprezzo molto. Penso di poterti aiutare, maestro Alder. Però devo avvisarti che la corda è una corda costosa.

Alder piegò il capo.

— Giungi al confine in sogno, non di tua volontà, è così?

— Così credo.

— Risposta saggia. — Quello gli lanciò un’occhiata di approvazione. — Chi conosce in modo chiaro la propria volontà? Ma se è in sogno che vai là, io posso impedirti di fare quel sogno… per qualche tempo. E a un prezzo, come ho detto.

Alder lo guardò con aria interrogativa.

— Il tuo potere.

Dapprima, non capì, poi fece: — Il mio talento, intendi dire? La mia arte?

Seppel annuì.

— Sono soltanto un riparatore — disse Alder, dopo una breve pausa. — Non è un grande potere… non dovrò rinunciare a granché.

Onice fece per protestare, ma guardò il volto dell’amico e si trattenne.

— È la tua vita — disse.

— Era la mia vita, un tempo. Ma quel tempo è finito.

— Forse riacquisterai il tuo talento, quando quel che deve accadere sarà accaduto. Non posso prometterlo, però. Cercherò di fare il possibile per restituirti almeno in parte quanto ti toglierò. Ma camminiamo tutti nella notte, adesso, su un terreno che non conosciamo. Quando spunterà il giorno, forse sapremo dove siamo, o forse no. Ora, se ti eviterò il tuo sogno, a quel prezzo, mi ringrazierai?

— Sì, ti ringrazierò — rispose Alder. — Cos’è mai la piccola utilità del mio dono, rispetto al grande male che la mia ignoranza potrebbe fare? Se mi eviterai la paura in cui vivo adesso, la paura di essere causa di calamità, ti ringrazierò fino al termine della mia vita.

Seppel trasse un respiro profondo. — Ho sempre sentito dire che la arpe di Taon non suonano note false — dichiarò. Guardò Onice. — E Roke non ha alcuna obiezione? — chiese, riassumendo un tono di blanda ironia.

Quello scosse il capo, ora serissimo.

— Allora andremo alla caverna di Aurun. Questa sera, se per voi va bene.

— Perché là? — domandò Onice.

— Perché non sarò io, bensì la terra, ad aiutare Alder. Aurun è un luogo sacro, pieno di potere. Anche se la gente di Havnor l’ha dimenticato, e lo usa solo per lordarlo.

Onice riuscì a scambiare qualche parola in privato con il giovane, prima che seguissero Seppel verso i piani inferiori. — Non sei obbligato a farlo, Alder — disse. — Pensavo di fidarmi di lui, ma adesso… non so…

— Mi fiderò di lui — fece Alder. Comprendeva i dubbi dell’amico, ma lui non aveva parlato con leggerezza, era disposto a tutto pur di liberarsi della paura di fare qualcosa di terribilmente sbagliato. Ogni volta che in sogno si sentiva attrarre verso quel muro di pietra, aveva la sensazione che qualcosa stesse cercando di penetrare nel mondo tramite lui, che lo avrebbe fatto, se lui avesse ascoltato il richiamo dei morti… e ogni volta che li udiva era sempre più debole, ed era più difficile resistere al loro richiamo.

I tre uomini percorsero parecchia strada, attraversando la città nella calura del pomeriggio. Uscirono nella campagna a sud dell’abitato, in un punto dove delle colline accidentate colme di creste scendevano verso la baia, un tratto di terreno povero per quell’isola ricca: bassopiani paludosi tra i picchi, un po’ di terra arabile sui dorsi sassosi. Lì, le mura della città erano molto antiche, erette a secco con grandi massi presi dalle colline, e oltre la muraglia non c’erano sobborghi, solo poche fattorie.

Camminarono lungo una strada accidentata che saliva serpeggiando sul primo crinale, procedendo poi sulla cresta in direzione est, verso le colline più alte. Lassù, da dove si poteva contemplare tutta la città adagiata a nord in una foschia dorata, alla loro sinistra, la strada si allargava in un labirinto di sentieri. Procedendo diritto, giunsero all’improvviso a una grande spaccatura nel terreno, uno squarcio nero largo più di venti piedi, proprio davanti a loro.

Era come se il dorso roccioso si fosse spezzato in seguito a un scossa violenta del suolo, e la fenditura non si fosse più richiusa. La luce del sole, lambendo da Ovest i bordi della caverna, rischiarava per un breve tratto le pareti di roccia verticali, ma più in basso l’oscurità era assoluta.

Nella valle sotto il crinale, a sud, c’era una conceria. I conciatori avevano portato lassù i loro rifiuti, gettandoli nella spaccatura, senza porre la minima attenzione, così tutt’attorno alla voragine erano disseminati pezzi di pelle rancida parzialmente conciata e si odorava un tanfo di marciume e di orina. Dal profondo della caverna proveniva un’altra esalazione, notarono, mentre si avvicinavano all’orlo a picco: una zaffata terrosa, fredda, pungente, che fece arretrare Alder.

— Mi affliggo per questo, mi affliggo per questo! — disse ad alta voce il mago di Paln, guardando l’immondizia e i tetti della conceria con un’espressione attonita. Ma poco dopo si rivolse ad Alder con i soliti modi garbati. — Questa è la caverna o fenditura chiamata Aurun, che noi conosciamo a Paln dalle nostre mappe più antiche, dove è pure chiamata le Labbra di Paor. Un tempo parlava alle genti del luogo, quando arrivarono qui la prima volta dall’Ovest, molto tempo fa. Gli uomini sono cambiati. Ma la caverna è rimasta ciò che era allora. Qui, tu puoi deporre il tuo fardello, se è questo che desideri.

— Cosa devo fare? — chiese Alder.

Seppel lo condusse all’estremità sud della grande spaccatura nel terreno, dove lo squarcio si restringeva e si richiudeva formando tante sporgenze rocciose. Gli disse di stendersi a faccia in giù, così da poter scrutare l’abisso di oscurità che si apriva in basso sotto di lui. — Aggrappati alla terra — disse. — Devi fare solo questo. Anche se si muove, tieniti artigliato alla terra.

Lui si coricò, fissò lo spazio tra le pareti di pietra. Sentì le sporgenze di roccia che gli pungevano il petto e i fianchi, udì Seppel che iniziava a salmodiare con voce acuta, intonando un canto nella Lingua della creazione; sentì il calore del sole sulle spalle, e il tanfo di putredine della conceria. Poi il respiro della caverna scaturì dal profondo con un’asprezza sorda che gli mozzò il respiro e gli fece girare la testa. L’oscurità salì verso di lui. Il terreno sotto di lui si mosse, ondeggiò e tremò, e Alder vi si aggrappò, udendo il canto acuto, respirando il respiro della terra. L’oscurità salì e lo prese. Alder perse il sole.

Quando tornò, il sole era basso a Ovest, una palla rossa nella foschia sopra le rive occidentali della baia. Lo vide. Vide Seppel seduto lì accanto sul terreno, l’aria stanca e sconsolata, la sua lunga ombra nera sulla terra sassosa tra le ombre lunghe delle rocce.

— Ecco fatto — disse Onice.

Alder si accorse di essere steso sul dorso, con la testa sulle ginocchia dell’amico, e una roccia piantata nella schiena. Si drizzò a sedere, intontito, scusandosi.

Partirono non appena lui fu in grado di camminare, perché dovevano percorrere diverse miglia ed era evidente che né lui né Seppel avrebbero potuto tenere un’andatura spedita. Era calata la notte, quando raggiunsero via dei Carpentieri. Seppel li salutò, scrutando il volto del risanato mentre erano fermi nel riquadro di luce che filtrava dalla porta di una taverna. — Ho fatto quanto mi avevi chiesto — disse, con la stessa espressione infelice.

— Ti ringrazio. — Alder tese la destra al mago, secondo l’usanza della gente di Enlades. Dopo un istante, quello la toccò con la propria mano; e così si separarono.

Era talmente stanco che riusciva a muovere le gambe a stento. Aveva ancora in bocca e in gola il sapore strano e acre dell’aria della caverna, che gli dava un senso di stordimento, di vertigine, di vuoto. Quando infine giunsero al palazzo, Onice voleva accompagnarlo in camera, ma lui disse che stava bene e aveva solo bisogno di riposare.

Entrò nella propria stanza, e il gatto gli andò incontro festoso, trotterellando e agitando la coda. — Ah, non ho più bisogno di te, adesso — disse lui, chinandosi ad accarezzargli la schiena grigia lustra. Gli vennero le lacrime agli occhi. Colpa della stanchezza, nient’altro. Si coricò sul letto, e il gatto lo seguì con un balzo e gli si acciambellò su una spalla, facendo le fusa.

Alder dormì: un sonno profondo, un nero assoluto, senza alcun sogno che potesse ricordare, senza voci che chiamassero il suo nome, senza alcuna collina di erba secca, né alcun muro di pietra intravisto nelle tenebre… nulla.


Passeggiando nei giardini del palazzo la sera prima di salpare verso sud, Tenar era inquieta e malinconica. Non voleva partire per Roke, l’isola dei saggi, l’isola dei maghi. "Maledetti-stregoni" disse una voce nella sua mente, in kargico. Cosa avrebbe dovuto fare lei, là? Di quale utilità poteva essere? Lei voleva andare a casa, a Gont, da Ged. Tornare nella propria casa, al proprio lavoro, dal caro compagno.

Si era allontanata da Lebannen. Lo aveva perso. Il re era educato, affabile, e non perdonava.

Come temevano le donne, gli uomini, pensò camminando tra gli arbusti di rose fioriti. Non le temevano come individui, ne avevano paura quando queste parlavano insieme, lavoravano insieme, prendevano la parola in favore delle altre… allora gli uomini vedevano complotti, intrighi, coercizioni, trappole che venivano tese.

Avevano ragione, naturalmente. Era probabile che le donne, in quanto tali, prendessero le parti della generazione futura, non di quella attuale; tessevano i legami che gli uomini vedevano come catene, i vincoli che gli uomini vedevano come schiavitù. Lei e Seserakh erano davvero in combutta contro di lui e pronte a tradirlo, se Lebannen considerava veramente irrinunciabile la propria indipendenza. Se era solo aria e fuoco, se non aveva in sé il peso della terra, la pazienza dell’acqua…

Ma quella descrizione si addiceva non tanto al re quanto invece a Tehanu. Era ultraterrena, la sua Tehanu… l’anima alata che era venuta a stare con lei per un po’ e presto — lei lo sapeva — avrebbe dovuto lasciarla. Dal fuoco al fuoco.

E si addiceva a Irian, con cui la figlia sarebbe andata. Cosa aveva a che fare, quella creatura fiera e splendente, con una vecchia casa che bisognava spazzare, con un vecchio che aveva bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui? Come poteva capire certe cose, Irian? Cosa poteva significare per lei — lei che era un drago — che un uomo dovesse svolgere il proprio compito, sposarsi, avere dei figli, condurre il giogo della terra?

Vedendosi sola e inutile tra esseri dal destino così elevato e inumano, Tenar cedette alla nostalgia. Nostalgia non solo di Gont. Perché non avrebbe dovuto essere in combutta con Seserakh, che era sì una principessa come lei stessa un tempo era stata sacerdotessa, ma che non avrebbe preso il volo con ali impetuose, essendo del tutto una donna della terra? E la ragazza parlava la sua lingua! Tenar, solerte, le aveva insegnato l’hardico, ed era stata felicissima di constatare la sua rapidità di apprendimento, e si rendeva conto soltanto adesso che la vera felicità era stata parlare in kargico con lei, di sentire e pronunciare parole che racchiudevano tutta la propria infanzia perduta.

Arrivando al sentiero che conduceva agli stagni sotto i salici, vide Alder. C’era con lui un bambino. Stavano parlando sottovoce, tranquilli. Tenar era sempre contenta di vederlo. Lo commiserava per il dolore e la paura in cui viveva, e ammirava la pazienza con cui riusciva a sopportarli. Le piacevano il suo volto bello e onesto, e la sua eloquenza. Che male c’era ad aggiungere qualche abbellimento al discorso? Anche Ged si era 0dato di lui.

Fermandosi a debita distanza per non disturbarli, vide che i due s’inginocchiavano sul sentiero e guardavano tra gli arbusti. Poco dopo, il gattino grigio sbucò da sotto un cespuglio. Non badò ai due umani, ma attraversò il tratto erboso, avanzando lentamente, strisciando quasi sul ventre, gli occhi che brillavano, dando la caccia a una falena.

— Puoi lasciare che stia fuori tutta la notte, se vuoi — disse Alder al bambino. — Qui, non può smarrirsi, né accadergli nulla di male. Ha una vera predilezione per l’aria aperta. E, vedi, questi grandi giardini, sono come tutta Havnor per lui. Oppure puoi lasciarlo libero al mattino. E, volendo, puoi farlo dormire insieme a te.

— Mi piacerebbe — annuì il piccolo, timido ma risoluto.

— E dovrai tenere nella tua stanza la sua cassetta di sabbia. E una ciotola di acqua da bere, che non deve mancare mai.

— E del cibo.

— Sì, certo. Una volta al giorno. E non troppo. È un po’ ingordo. Incline a pensare che Segoy abbia creato le isole perché Tiro potesse riempirsi la pancia.

— Acchiappa i pesci dello stagno? — Il gatto adesso era vicino a uno dei laghetti con le carpe, e si guardava intorno, seduto sull’erba; la falena era volata via.

— Gli piace osservarli.

— Piace anche a me — disse il bambino. Si alzarono e si avviarono affiancati verso gli stagni.

A Tenar, quella scena fece tenerezza. C’era una grande innocenza in Alder, un’innocenza adulta, non infantile. Avrebbe dovuto avere dei figli. Sarebbe stato un buon padre.

Lei pensò ai propri figli, e ai nipotini… la maggiore, Semino, pareva impossibile… ma sì, aveva ormai dodici anni! Entro l’anno o l’anno successivo, le avrebbero dato il nome! Oh, era ora di andare a casa. Era ora di visitare la valle centrale, di portare un regalo di nominazione alla nipote e giocattoli ai bambini, di assicurarsi che quell’irrequieto di Scintilla non potasse ancora troppo i peri, di sedersi un poco a conversare con la cara figlia Mela… il cui vero nome era Hayohe, nome datole da Ogion… Il pensiero di Ogion fu accompagnato come sempre da uno spasimo d’amore e di struggimento. Tenar vide il focolare della casa di Re Albi. Vide Ged seduto accanto ad esso. Lo vide girare il volto scuro e rivolgerle una domanda. Lei rispose a voce alta, nei giardini del Nuovo palazzo di Havnor, a centinaia di miglia da quel focolare: — Tornerò al più presto!

Al mattino, un radioso mattino d’estate, tutti scesero al porto per imbarcarsi sulla Delfino. Gli abitanti della capitale trasformarono l’evento in una festa, riversandosi nelle strade e sui pontili, invadendo i canali con le piccole barche a pertiche chiamate "trucioli", costellando la grande baia di barche a vela e lance, su cui sventolavano bandiere vivaci; e stendardi e guidoni svolazzavano anche sulle torri delle grandi case e sulle aste dei ponti, alti e bassi. Passando tra quella folla gioiosa, Tenar pensò a quando, tempo addietro, lei e Ged erano entrati nel porto di Havnor, portando a casa la runa della pace, l’Anello di Elfarran. Quell’anello era sul suo braccio, allora, e lei l’aveva sollevato perché l’argento brillasse al sole e la gente potesse vederlo, e le persone avevano acclamato, tendendo le braccia verso di lei quasi volessero stringerla. Tenar stava sorridendo, quando salì la passerella e s’inchinò a Lebannen.

Lui l’accolse con la tradizionale cerimoniosità di un capitano di nave. — Lady Tenar, benvenuta a bordo.

Mossa da chissà quale impulso, lei rispose: — Ti ringrazio, figlio di Elfarran.

Lui la guardò un attimo, sorpreso da quel nome, ma subito fu distratto dall’arrivo di Tehanu, e ripeté il saluto formale: — Lady Tehanu, benvenuta a bordo.

Tenar proseguì verso la prua della nave, ricordando un angolo vicino a un argano dove un passeggero, senza intralciare i marinai che lavoravano sodo, poteva vedere tutto ciò che accadeva sul ponte affollato e anche a terra.

C’era una gran confusione nella via principale che conduceva al molo: la somma principessa stava arrivando. La donna notò soddisfatta che il re, o forse il suo maggiordomo, aveva dato disposizioni perché l’arrivo della principessa fosse opportunamente sfarzoso. Una scorta a cavallo apriva un varco nella folla, e i destrieri sbuffavano e battevano gli zoccoli con un portamento solenne. Dei grandi pennacchi rossi, simili a quelli che i guerrieri kargici sfoggiavano sui loro elmi, ondeggiavano sulla vistosa carrozza dorata con cui la principessa aveva attraversato la città, e sulla testiera dei quattro cavalli grigi che la trainavano. Una banda di musici in attesa sul pontile cominciò a suonare con trombe, tamburi e tamburelli. E la gente, scoprendo di avere una principessa da acclamare e osservare, approvò rumorosa, accalcandosi e avvicinandosi il massimo consentito dalle scorte a cavallo e a piedi, guardando a bocca aperta e profondendosi in lodi, e nei saluti e nei commenti più disparati. — Salve regina dei Karg! — gridarono alcuni, e altri: — Non è regina — e alcuni: — Guardatele, tutte in rosso, belle come rubini, ma lei qual è? — e altri ancora: — Viva la principessa!

Tenar vide Seserakh — naturalmente velata dalla testa ai piedi, ma inconfondibile per statura e portamento — che scendeva dalla carrozza e incedeva, maestosa come una nave, verso la passerella. Due delle sue ancelle, dal velo più corto, le trotterellavano alle spalle, seguite da lady Opale di Ilien. Tenar ebbe un tuffo al cuore. Lebannen aveva stabilito che nessun servitore dovesse partecipare a quel viaggio. Non era una crociera o una gita di piacere, aveva detto severo il sovrano, e quelli a bordo dovevano trovarvisi per un valido motivo. Non aveva capito, Seserakh? O si aggrappava alle sue sciocche compatriote perché intendeva sfidare il re? L’inizio del viaggio sarebbe stato assai sfavorevole.

Ai piedi della passerella, però, il rosso cilindro increspato dai riflessi dorati si fermò e si girò. Spuntarono due mani, mani dalla pelle dorata su cui splendevano anelli d’oro. La principessa abbracciò le ancelle, dicendo loro addio. Strinse anche lady Opale, nel modo solenne adottato in pubblico dai reali e dalla nobiltà. Poi quest’ultima guidò le ancelle alla carrozza, mentre la principessa si voltava di nuovo verso la passerella.

Ci fu una pausa. Tenar vide che la colonna informe rosso e oro traeva un respiro profondo e si ergeva in tutta la propria statura.

Il cilindro di veli salì la passerella, lentamente, perché la marea era montata e il ponticello era piuttosto inclinato, ma con una dignità risoluta che la folla a terra osservò in silenzio, affascinata.

Giunta sul ponte, la colonna si arrestò, di fronte al re.

— Somma principessa delle terre dei Karg, benvenuta a bordo — la accolse Lebannen, con voce squillante. Al che, la folla proruppe: — Urrà per la principessa! Viva la regina! Bella salita, Rossa!

Il re le disse qualcosa, ma era impossibile sentirlo in mezzo al gran frastuono. La colonna rossa si girò verso la folla e s’inchinò, un gesto un po’ rigido ma cortese.

Tehanu l’aveva aspettata accanto al sovrano, e adesso si fece avanti, le parlò e la condusse alla cabina di poppa della nave, dove gli spessi veli ondeggianti scomparvero. La folla acclamò e gridò ancor più forte: — Torna indietro, principessa! Dov’è la Rossa? Dov’è la nostra signora? Dov’è la regina?

Tenar guardò il re attraverso il ponte. Malgrado l’apprensione e la malinconia che provava, sentì sgorgare dentro di sé un’ilarità irrefrenabile. Pensò: "Povero figliolo, cosa farai, adesso? Si sono innamorati di lei la prima volta che l’hanno vista, anche se non hanno potuto vederla davvero… Oh, Lebannen, siamo tutti in combutta contro di te!".


La Delfino era una nave di discrete dimensioni, attrezzata per trasportare un sovrano con una certa misura di pompa e comodità. Era però fatta innanzitutto per navigare, per filare con il vento, per portarlo a destinazione il più rapidamente possibile. Gli alloggi erano già abbastanza ristretti quando a bordo c’erano solo l’equipaggio e gli ufficiali, il re e pochi compagni. In quel viaggio a Roke, le cabine erano letteralmente stipate. I membri dell’equipaggio, certo, non stavano più scomodi del solito, dormendo nella specie di canile alto tre piedi della stiva di prua; ma gli ufficiali dovevano dividere uno squallido stanzino buio sotto il castello di prua. Quanto ai passeggeri, le quattro donne occupavano quella che era normalmente la cabina reale, uno spazio ampio quanto lo stretto castello di poppa, mentre la cabina sotto di essa, occupata di solito dal capitano della nave e da un paio di ufficiali, ospitava il sovrano, i due maghi, lo stregone, e Tosla. Le probabilità che tale sistemazione provocasse estremi disagi e malumore erano, secondo Tenar, enormi. Il primo e più urgente problema, comunque, era la probabilità che la somma principessa avesse il mal di mare.

Stavano solcando la Grande baia con un vento lieve, l’acqua calma, la nave che scivolava leggera come un cigno in uno stagno; ma Seserakh era rannicchiata nella propria cuccetta, gemendo disperata ogni volta che, guardando attraverso i veli, dalle ampie finestre di poppa scorgeva la distesa assolata e pacifica di mare tranquillo, e la scia bianca della nave.

— Va su e giù — piagnucolò in kargico.

— Non va su e giù — replicò Tenar. — Usa la testa, principessa.

— Si tratta del mio stomaco, non della testa — gemette Seserakh.

— Nessuno può avere il mal di mare con questo tempo. Tu hai solo paura.

— Madre — intervenne Tehanu, comprendendo il tono, se non le parole. — Non rimproverarla. È brutto, stare male.

— Lei non sta male! — sbottò Tenar, sicurissima di avere ragione. — Seserakh, tu non stai male. Hai paura di star male. Controllati. Esci sul ponte. L’aria fresca ti gioverà moltissimo. L’aria fresca e il coraggio.

— Oh, amica mia — mormorò la giovane in hardico. — Fammi coraggio!

Tenar fu colta un po’ alla sprovvista. — Sei tu che devi farti coraggio, principessa — disse. Poi, addolcendosi: — Andiamo, prova soltanto a uscire sul ponte un minuto. Tehanu, vedi se sei capace di persuaderla. Pensa a come soffrirà se incontreremo davvero il maltempo!

Insieme, convinsero Seserakh ad alzarsi dalla cuccetta e a indossare il cilindro di veli rossi, senza cui naturalmente non poteva apparire di fronte a degli uomini; blandendola e ricorrendo alle moine, la convinsero ad abbandonare la cabina, a uscire sul tratto di ponte di fianco ad essa, all’ombra, dove poterono sedersi sul rivestimento di legno bianco immacolato e guardare il mare azzurro luccicante.

La principessa scostò i veli quel tanto che bastava per vedere di fronte a sé, ma per lo più si contemplava il grembo, lanciando qualche rapido sguardo terrorizzato all’acqua, chiudendo subito gli occhi, e tornando a guardarsi la pancia.

Madre e figlia parlarono un po’, indicando le navi che passavano, gli uccelli, un’isola. — È bellissimo. Avevo dimenticato che mi piace moltissimo navigare! — commentò la donna.

— A me piace se riesco a dimenticare l’acqua — disse Tehanu. — È come volare.

— Ah, voi draghi — fece Tenar.

Il tono era scherzoso, però non era una facezia. Era la prima volta che diceva una cosa del genere alla figlia adottiva. Notò che lei aveva voltato il capo per guardarla frontalmente. Il cuore della matrigna cominciò a battere forte. — Aria e fuoco — disse.

Tehanu non disse nulla. Ma la sua mano, quella snella e bruna, non l’arto adunco, si allungò e afferrò quella della madre, stringendola.

— Non so cosa sono, madre — mormorò la giovane, con quella voce che di rado era più di un sussurro.

— Io, sì — disse la donna. E il cuore le batté più forte di prima, colmo di malinconia.

— Non sono come Irian — dichiarò Tehanu. Stava cercando di consolare la madre, di rassicurarla, ma nella sua voce si coglieva una nota di struggimento, di invidia, di desiderio intenso.

— Aspetta, aspetta e lo scoprirai — replicò sua madre, stentando a parlare. — Saprai cosa fare… cosa sei… quando verrà il momento.

Stavano conversando così piano che la principessa non sentiva quel che dicevano, ammesso che fosse in grado di capirlo. Si erano dimenticate di lei. Ma Seserakh aveva udito il nome di Irian, e scostando i veli con le lunghe dita e girandosi verso di loro, gli occhi che osservavano vivaci dalla calda ombra rossa, chiese: — Irian, dov’è?

— A prua… là in fondo… — Tenar indicò con un gesto vago la parte anteriore della nave.

— Lei si fa coraggio, eh?

Dopo un attimo, la donna disse: — Non credo che abbia bisogno di farsi coraggio. È senza paura.

— Ah — fu il commento della principessa.

I suoi occhi vivaci stavano scrutando dall’ombra tutto il ponte della nave fino a prua, dove Irian si trovava accanto a Lebannen. Il re stava indicando avanti, gesticolando, parlando con animazione. Rise, e così fece anche Irian, in piedi al suo fianco, alta quanto lui.

— Sfacciata, a viso scoperto — borbottò Seserakh in kargico. E in hardico, pensierosa, in un sussurro quasi impercettibile, soggiunse: — Senza paura.

Chiuse i veli e rimase seduta immobile, informe.


Le lunghe sponde di Havnor erano un profilo azzurro dietro di loro. Il monte Onn si stagliava indistinto e maestoso a nord. Le nere colonne di basalto dell’isola di Omer torreggiavano in lontananza sulla destra, mentre la nave attraversava lo stretto di Ebavnor alla volta del mare Interno. Il sole era splendente, il vento gagliardo, un’altra bella giornata. Tutte le donne sedevano sotto il tendone di tela che i marinai avevano allestito per loro accanto alla cabina di poppa. Le donne portavano fortuna a una nave, e l’equipaggio si faceva in quattro per colmarle di cortesie e offrire loro qualche piccola comodità. Dato che i maghi potevano portare bene o male a una imbarcazione, i marinai trattavano benissimo anche i maghi; il loro tendone era stato allestito in un angolo del cassero di poppa, da dove godevano di una buona visuale verso prua. Le donne avevano dei cuscini di velluto per sedersi (imbarcati grazie alla previdenza del sovrano, o del suo maggiordomo); i maghi avevano degli involti di tela da vele, altrettanto comodi.

Alder era trattato e rispettato come uno dei maghi. Non poteva farci nulla, anche se una simile considerazione lo imbarazzava, poiché temeva che Onice e Seppel pensassero che pretendesse di essere un loro simile. E misto all’imbarazzo c’era il turbamento, poiché adesso non era nemmeno uno stregone. Il suo dono era scomparso. Alder non aveva alcun potere. Ne era perfettamente consapevole, proprio come se avesse perso la vista o avesse avuto una mano paralizzata. Non avrebbe potuto riparare una brocca rotta, adesso, se non usando del collante; e comunque l’avrebbe riparata male, perché avrebbe dovuto usare altri mezzi.

E oltre al talento che aveva perso era scomparso qualcos’altro, qualcosa di più grande della sua maestria. Quella perdita lo aveva lasciato, come la morte della moglie, in una specie di vuoto inerte in cui non c’erano più gioie né cose nuove, né ci sarebbero state in futuro. Ormai non poteva accadere nulla, non poteva cambiare nulla.

Avendo ignorato quell’aspetto importantissimo del proprio dono fino al momento della perdita, Alder rifletté su di esso, chiedendosi in cosa consistesse di preciso. Era come conoscere la strada da seguire, era come sapere la direzione di casa. Non era una cosa che si potesse identificare o di cui si potesse dire molto, ma era un collegamento con tutto il resto. Senza di esso, Alder era desolato. Inutile.

Ma almeno non faceva alcun male. I suoi sogni erano fugaci, insignificanti. Non lo portavano più in quelle lande fosche, sulla collina di erba morta, vicino al muro. Nessuna voce lo chiamava più, attirandolo nelle tenebre.

Pensava spesso a Sparviere, rammaricandosi di non poter parlare con lui: l’arcimago che aveva esaurito il suo potere, e dopo essere stato grande tra i grandi, viveva in povertà e in solitudine. Ma il re desiderava ardentemente tributargli gli onori che meritava; la povertà di Ged era frutto quindi di una scelta. Forse, secondo Alder, le ricchezze e il rango elevato rappresentavano solo qualcosa di ignominioso per un uomo che aveva perso la vera ricchezza, la propria via.

Onice era chiaramente dispiaciuto di avere indotto l’amico a fare quello scambio. Era sempre stato gentile con lui, però adesso lo trattava con un rispetto dietro cui si celavano i sensi di colpa, mentre il suo atteggiamento nei confronti del mago di Paln era diventato più freddo. Alder, dal canto suo, non provava risentimento verso Seppel e non diffidava delle sue intenzioni. I vecchi poteri erano i vecchi poteri. Li si usava a proprio rischio. Seppel lo aveva informato del prezzo da pagare, e lui lo aveva pagato. Non si era reso conto appieno dell’entità di tale prezzo; ma non era colpa del mago. Era colpa sua, perché non aveva mai dato al proprio dono il suo vero valore.

Così Alder sedeva insieme ai due maghi, sentendosi una moneta falsa tra le monete d’oro. Li ascoltava con estrema attenzione, perché si fidavano di lui e parlavano liberamente, e i loro discorsi costituivano un’istruzione profonda che lui da stregone non aveva neppure immaginato.

Seduti all’ombra chiara del tendone di tela, i maghi parlavano di un accordo, di uno scambio, ben più importante di quello fatto da lui perché cessassero i sogni. Onice disse più di una volta le parole della Vecchia lingua che Seppel aveva pronunciato sul tetto: Verw nadan. Mentre conversavano, a poco a poco Alder capì che il significato di quelle parole era qualcosa di simile a scelta, divisione, fare due cose di una. Molto, moltissimo tempo addietro, prima dei re di Enlad, prima della scrittura hardica, forse prima che esistesse una lingua hardica, quando esisteva solo la Lingua della creazione, a quanto sembrava, la gente aveva fatto una scelta, rinunciando a un grande potere o bene per acquisirne un altro.

Il discorso dei maghi era difficile da seguire, non perché nascondessero qualcosa, ma perché loro stessi brancolavano alla ricerca di cose perdute nel passato oscuro, nell’epoca che precedeva i ricordi. Parole della Vecchia lingua entravano necessariamente nella conversazione, e a volte Onice parlava interamente in quell’idioma. Ma Seppel gli rispondeva in hardico. Egli era parco con le parole della creazione. Una volta alzò la mano per impedire a Onice di proseguire, e di fronte all’espressione sorpresa e interrogativa del mago di Roke, disse pacato: — Le parole magiche agiscono.

Anche Sula, l’insegnate di Alder, aveva definito "parole magiche" le parole della Vecchia lingua. — Ognuna è un atto di potere — aveva spiegato. — La parola vera fa sì che la verità si attui. — Sula lesinava le parole magiche che conosceva, pronunciandole solo in caso di bisogno, e quando tracciava qualche runa particolare, non quelle comuni usate per la scrittura hardica, la cancellava subito dopo aver finito. La maggior parte degli stregoni erano altrettanto cauti, o per la volontà di custodire la propria conoscenza o perché rispettavano il potere della Lingua della creazione. Perfino Seppel, pur essendo un mago, con una conoscenza e una comprensione molto ampia di quelle parole, preferiva non usarle nella conversazione, e attenersi invece alla lingua comune che, se consentiva bugie ed errori, permetteva anche l’incertezza e la ritrattazione.

Forse quello rientrava nella grande scelta compiuta dagli uomini nell’antichità: rinunciare alla conoscenza innata della Vecchia lingua, che un tempo avevano in comune con i draghi. Alder si chiese se lo avessero fatto per avere una lingua propria, una lingua adatta al genere umano, in cui poter mentire, ingannare, imbrogliare e inventare meraviglie mai esistite prima.

I draghi parlavano solo la Vecchia lingua. Eppure si diceva sempre che essi mentissero. Era così? Se le parole magiche erano vere, com’era possibile che anche un drago le usasse per mentire?

Seppel e Onice erano giunti a una delle lunghe pause meditabonde che caratterizzavano la loro conversazione. Notando che il secondo, in realtà, più che meditare stava sonnecchiando, Alder domandò al mago pelnico sottovoce: — È vero che i draghi possono dire falsità usando parole vere?

Quello sorrise. — Questa, diciamo a Paln, è proprio la domanda che Ath fece a Orm mille anni fa, nelle rovine di Ontuego. "Un drago può mentire?" chiese il mago. E Orm rispose: "No" e poi gli alitò addosso, riducendolo in cenere… Ma dobbiamo credere alla storia, dato che può averla raccontata solo Orm?

"Gli argomenti dei maghi sono infiniti" rifletté Alder, ma lo tenne per sé.

Onice si era addormentato del tutto, il capo piegato all’indietro contro la paratia, il volto serio e teso finalmente rilassato.

Seppel parlò con voce ancor più bassa del solito. — Spero che tu non sia pentito di quanto abbiamo fatto ad Aurun. So che il nostro amico pensa che io non ti abbia avvertito con sufficiente chiarezza.

Alder dichiarò senza alcuna esitazione: — Sono soddisfatto.

Il mago inclinò la testa scura.

Alcuni istanti dopo, Alder disse: — So che cerchiamo di mantenere l’Equilibrio. Ma i Poteri della terra tengono conto di tutto.

— E la loro è una giustizia che è ardua da comprendere per gli uomini.

— È così. Io cerco di capire perché abbia dovuto rinunciare solo a quello, al mio talento, per liberarmi da quel sogno. Che legame c’è tra le due cose?

Seppel non rispose subito, poi lo fece con una domanda. — Non giungevi al muro di pietra per mezzo della tua arte?

— No, mai — disse lui, con assoluta certezza. — Non dipendeva affatto da me, non avevo il potere di andare là, proprio come non potevo impedire a me stesso di andarci.

— Allora come vi sei giunto?

— Mia moglie mi ha chiamato, e il mio cuore è corso da lei.

Una pausa più lunga, poi il mago osservò: — Altri uomini hanno perso la loro diletta sposa.

— È quanto ho detto a lord Sparviere. E lui mi ha risposto che era vero, che tuttavia il legame tra veri amanti, tra le cose umane, è quella che più si avvicina a durare per sempre.

— Oltre il muro di pietra, nessun legame dura.

Alder guardò il mago, scrutò la sua faccia mite dagli occhi penetranti. — Perché? — chiese.

— La morte spezza qualsiasi legame.

— Allora perché i morti non muoiono?

Seppel lo fissò, sconcertato.

— Chiedo scusa — fece Alder. — Nella mia ignoranza, non mi sono espresso bene. Ciò che intendo dire è questo: la morte spezza il legame dell’anima con il corpo, e il corpo muore. Torna alla terra. Ma lo spirito deve andare in quel luogo tenebroso, e conservare una sembianza del corpo, e rimanere là… per quanto tempo? Per sempre? Là nella polvere e nell’oscurità, senza luce, senza amore, senza un barlume di allegrezza? Non sopporto di pensare a Giglio in quel luogo. Perché deve stare là? Perché non può essere… — la sua voce incespicò — … essere libera?

— Perché là il vento non soffia — rispose Seppel. Aveva un’espressione molto strana, la voce aspra. — Ha cessato di soffiare, a causa dell’arte dell’uomo.

Continuò a fissare Alder, ma solo a poco a poco cominciò a vederlo. L’espressione del suo volto e degli occhi mutò. Il mago distolse lo sguardo, contemplando la bella curva bianca della vela di trinchetto, gonfiata dal vento di nord-Ovest. Poi abbassò di nuovo gli occhi sull’altro. — Amico mio, tu sai quanto me di questa faccenda — disse, riacquistando gran parte dell’abituale pacatezza. — Ma tu conosci queste cose attraverso il corpo, il sangue, il battito del tuo cuore. E io conosco solo delle parole. Vecchie parole… Quindi, è meglio che andiamo a Roke, dove forse i saggi saranno in grado di dirci ciò che dobbiamo sapere. O se non lo saranno loro, lo faranno i draghi, forse. O forse sarai tu a indicarci la via.

— Sarebbe il cieco che guida i veggenti sull’orlo del precipizio, davvero! — sbottò Alder, ridendo.

— Ah, ma siamo già sull’orlo del precipizio, e con gli occhi chiusi — disse il mago di Paln.


Lebannen constatò che la nave era troppo piccola per contenere l’enorme irrequietezza che aveva in sé. Le donne sedevano sotto il loro tendone e i maghi sotto il proprio come anatre in fila, ma lui passeggiava avanti e indietro, impaziente, tra i confini angusti del ponte. Gli sembrava che fosse la sua impazienza e non il vento a far filare la Delfino così rapida verso il Sud, mai abbastanza veloce. Desiderava che il viaggio terminasse al più presto.

— Ricordi la flotta in rotta per Wathort? — disse Tosla, unendosi a lui, mentre il sovrano si trovava accanto al timoniere, studiando la carta nautica e il mare sgombro di fronte alla prua. — Quella era una vista magnifica. Trenta navi allineate!

— Vorrei fossimo diretti a Wathort — commentò Lebannen.

— Non mi è mai piaciuta, Roke — convenne l’altro. — Non un vento o una corrente che siano autentici per venti miglia al largo delle sue coste, ma solo roba di maghi. E le rocce a nord dell’isola, non sono mai due volte nel medesimo posto. E quella città piena di imbrogli e di cambiaforma. — Sputò, con maestria, sottovento. — Preferirei incontrare di nuovo il vecchio Sanguinoso e i suoi mercanti di schiavi!

Il re annuì, ma non disse nulla. Spesso il piacere della compagnia di Tosla consisteva nella sua schiettezza: quell’uomo diceva quello che il sovrano riteneva opportuno tacere.

— Chi era il muto — chiese Tosla — l’uomo che uccise Falcone sulle mura?

— Egre. Pirata diventato mercante di schiavi.

— Ecco, sì. Ti aveva riconosciuto, là a Sorra, attaccandoti subito. Mi sono sempre chiesto come facesse a sapere chi eri.

— Lo sapeva perché una volta mi aveva catturato come schiavo.

Non era facile sorprendere Tosla, ma il marinaio guardò il re a bocca aperta; era evidente che non gli credeva, però non aveva il coraggio di dirlo, e così rimase senza parole. Lebannen si godette la scena un minuto, poi ebbe compassione.

— Quando l’arcimago mi portò con sé a dare la caccia a Cob, andammo a sud, prima. Nella città di Hort, un uomo ci tradì, consegnandoci ai mercanti di schiavi. Stordirono l’arcimago con un colpo alla testa, e io fuggii, pensando così di poterli allontanare da lui. Ma volevano catturare me, quelli… perché io ero vendibile. Mi svegliai incatenato su una galea diretta a Sowl. L’arcimago mi liberò prima che la notte seguente fosse trascorsa. I ferri che bloccavano tutti i prigionieri si sbriciolarono come foglie morte. Poi ordinò a Egre di non parlare più finché non avesse avuto qualcosa di valido da dire… Aveva raggiunto la galea avvicinandosi come una grande luce sull’acqua… Non avevo mai saputo cosa fosse veramente fino a quel momento.

Tosla meditò alcuni istanti su quanto aveva appreso. — Ha liberato dalle catene tutti gli schiavi? Perché gli altri non hanno ucciso Egre?

— Può darsi che abbiano proseguito il viaggio, portando Egre a Sowl e vendendolo — rispose Lebannen.

L’altro rifletté ancora un poco. — Dunque è per questo che eri così desideroso di eliminare la tratta degli schiavi.

— Un motivo, sì.

— Non favorisce la popolarità, di solito — commentò Tosla. Studiò la carta del mare Interno fissata alla tabella alla sinistra del timoniere. — L’isola di Way — disse. — Da dove proviene la donna drago.

— Stai alla larga da lei, ho notato.

Il timoniere arricciò le labbra, ma non fischiò, trovandosi a bordo di una nave. — Sai quella canzone a cui ho accennato, a proposito della fanciulla di Belilo? Be’, l’ho sempre considerata una storia e basta. Finché non ho visto lei.

— Dubito che ti divorerebbe, Tosla.

— Sarebbe proprio una bella morte — disse il marinaio, piuttosto acido.

Il re rise.

— Non sfidare la sorte — fece quello.

— Non temere.

— Tu e lei stavate parlando là a prua così beati e tranquilli. È come mettersi a proprio agio con un vulcano, a mio avviso… Però, ti confesso che non mi dispiacerebbe vedere qualcosa di più del regalo che i Karg ti hanno mandato. C’è uno spettacolo che merita di essere visto, in quell’involto, a giudicare dai piedi. Ma come si fa a farlo uscire dalla tenda? I piedi sono bellissimi, ma mi piacerebbe dare un’occhiata anche alle caviglie, tanto per cominciare.

Lebannen si rese conto che il proprio volto stava assumendo un’espressione torva, e si girò per evitare che l’altro vedesse.

— Se qualcuno mi desse un involto come quello, io lo aprirei — disse Tosla, fissando il mare.

Il re non riuscì a frenare un lieve gesto di impazienza. Il timoniere, un tipo sveglio, se ne accorse. Abbozzò un sorriso ironico, e non aggiunse altro.

Il capitano della nave era uscito sul ponte, e Lebannen iniziò a parlare con lui. — Pare che là avanti ci aspetti il maltempo, eh? — disse. E il capitano annuì, confermando: — Nubi di tempesta a sud e a Ovest. L’incontreremo questa sera.

Nel pomeriggio, il mare si increspò sempre più, la luce benigna del sole assunse una sfumatura cupa color ottone, e raffiche di vento soffiavano cambiando di continuo direzione. Tenar aveva detto al re che la principessa temeva il mare, e il sovrano un paio di volte lanciò un’occhiata alla cabina di poppa, aspettandosi di non vedere alcuna figura velata di rosso tra le anatre in fila. Ma erano state Tenar e Tehanu a ritirarsi all’interno; la principessa era ancora là, e Irian sedeva accanto a lei. Stavano parlando fitto. Cosa mai potevano dirsi una donna drago di Way e una donna d’harem di Hur-at-Hur? Che lingua avevano in comune? Era così curioso di scoprirlo che si portò a poppa.

Quando il sovrano arrivò vicino alla cabina, Irian alzò lo sguardo e gli sorrise. Aveva un volto forte, aperto, un largo sorriso; andava scalza per libera scelta, era trascurata nel vestire, lasciava che il vento le arruffasse i capelli; complessivamente, sembrava soltanto una contadina bella, focosa, intelligente, incolta, finché non ci si accorgeva dei suoi occhi. Erano color ambra, con una sfumatura grigia, e quando lo fissava, come stava facendo adesso, lui non riusciva a sostenerne lo sguardo. Il re abbassò gli occhi.

Aveva detto esplicitamente che a bordo della nave erano banditi i convenevoli e le cerimonie, gli inchini e le riverenze, che nessuno doveva balzare in piedi all’avvicinarsi del re; la principessa, però, si era alzata. Come aveva osservato Tosla, aveva piedi molto belli, non piccoli, ma arcuati, forti e ben fatti. Lebannen li guardò, ammirò i piedi snelli sulla superficie di legno bianco del ponte. Sollevò poi lo sguardo e vide che la principessa stava facendo quello che aveva fatto l’ultima volta che l’aveva incontrata: si scostava i veli perché lui, ma nessun altro, potesse vederla in viso. Fu un po’ sconcertato dalla bellezza austera, quasi tragica, del viso in quell’alone d’ombra rossa.

— Va… va tutto bene, principessa? — chiese, balbettando, cosa che gli capitava assai di rado.

Lei rispose: — La mia amica Tenar ha detto, respira vento.

— Sì — fece Lebannen, senza sapere di preciso cosa stesse dicendo.

— Non pensi che i tuoi maghi forse potrebbero fare qualcosa per lei? — intervenne Irian, distendendo le gambe e alzandosi a sua volta. Erano di notevole statura.

Lui voleva vedere il colore dei suoi occhi, dato che poteva guardarli. Erano azzurri, gli sembrò, ma come gli opali contenevano altri colori, o forse era la luce del sole attraverso i veli rossi… — Fare qualcosa per lei?

— Vorrebbe tanto evitare di avere il mal di mare. Ha sofferto terribilmente durante il viaggio dalle terre dei Karg.

— Io non avrò paura — dichiarò la principessa. E fissò il sovrano quasi volesse sfidarlo a… cosa?

— Certo — disse Lebannen. — Certo. Chiederò a Onice. Sono certo che possa fare qualcosa. — Rivolgendosi a entrambe, abbozzò un inchino, e si affrettò ad allontanarsi, andando in cerca del mago.

Onice e Seppel conferirono, poi consultarono Alder. Un incantesimo contro il mal di mare rientrava più nella sfera di competenza degli stregoni, dei riparatori, dei guaritori, che non nella sfera di competenza di maghi eruditi e potenti. Naturalmente, al momento lui non poteva fare nulla, ma ricordava forse qualche incantesimo?… L’ex riparatore non conosceva nessun sortilegio del genere, non avendo mai immaginato di poter viaggiare in mare finché non erano iniziati i suoi guai. Seppel confessò che lui stesso soffriva il mal di mare sulle piccole imbarcazioni o con il maltempo. Alla fine, Onice andò alla cabina di poppa e si giustificò con la principessa: non era in grado di aiutarla con la propria arte, e poteva offrirle solo un amuleto che un marinaio, venuto a conoscenza del problema, gli aveva voluto dare a tutti i costi perché lo consegnasse a lei.

Le lunghe dita di Seserakh emersero dai veli rossi e dorati. Il mago le posò sulla mano uno strano oggettino bianco e nero: alghe secche intrecciate attorno a uno sterno d’uccello. — Un osso di procellaria, perché le procellarie volano nella tempesta — spiegò il mago, l’espressione di profondo imbarazzo.

La principessa piegò il capo nascosto dai veli e mormorò un ringraziamento in kargico. L’amuleto scomparve sotto i veli. Poi Seserakh si ritirò nella cabina. Onice, incontrando il re a breve distanza, si giustificò anche con lui. Adesso, la nave beccheggiava violentemente sul mare mosso sferzato da forti raffiche di vento, e il mago disse: — Ecco, sire, potrei dire una parola ai venti…

Lebannen sapeva bene che esistevano due scuole di pensiero riguardo la manipolazione delle condizioni del tempo: quella antica, dei naviganti primitivi che ordinavano ai venti di essere al servizio delle loro navi come i pastori con i cani; e la nuova della scuola di Roke, che risaliva al massimo ad alcuni secoli prima, secondo la quale il vento magico si poteva suscitare solo in caso di vero bisogno, perché era meglio che i venti del mondo soffiassero liberamente. Il re sapeva che Onice era un fervido fautore del metodo di Roke. — Usa il tuo giudizio, Onice — disse. — Se ritieni che ci aspetti una nottata davvero brutta… Ma se si tratta soltanto di qualche raffica…

Il mago alzò lo sguardo verso la testa dell’albero, dove un paio di lingue di fuoco rossastro erano già balenate nel crepuscolo nuvoloso. Nell’oscurità davanti a loro, in tutta la distesa meridionale del mare, i tuoni brontolavano fragorosi. Dietro, l’ultima luce del giorno lambiva pallida e tremula le onde. — Benissimo — disse il mago, in tono piuttosto lugubre, e scese nella piccola cabina affollata.

Lebannen rimase quasi sempre all’esterno, dormendo in coperta, quando riuscì a chiudere occhio. Non era una notte adatta al sonno, per chi si trovava a bordo della Delfino. Non si trattava di un fortunale isolato, ma di una serie di violenti temporali estivi che imperversavano da sud-Ovest. Tra le onde rischiarate da lampi abbaglianti, lo schianto dei tuoni che sembravano sul punto di spaccare la nave, e le raffiche poderose che continuavano a sballottare lo scafo, fu una notte lunga e rumorosa.

Onice consultò il re una volta: doveva dire una parola al vento? Il sovrano guardò il capitano, che si strinse nelle spalle. Il capitano e l’equipaggio avevano un gran daffare, ma non erano preoccupati. La nave non era in pericolo. Quanto alle donne, al sovrano fu riferito che erano sedute in cabina, e stavano giocando d’azzardo. Irian e la principessa erano uscite sul ponte in precedenza, ma avevano constatato che era facile perdere l’equilibrio e si erano accorte di essere d’intralcio all’equipaggio, così erano rientrate. A raccontare che stavano giocando d’azzardo era stato l’aiutante del cuoco, che era stato mandato da loro per chiedere se desiderassero qualcosa da mangiare. Per le donne andava bene qualsiasi cosa.

Lebannen si ritrovò in preda alla stessa intensa curiosità provata nel pomeriggio. Senza dubbio, le lampade della cabina di poppa erano tutte accese, perché il loro chiarore si rifletteva dorato sulla schiuma turbolenta della scia. Verso mezzanotte, il sovrano andò a bussare.

Irian aprì la porta. Dopo il bagliore dei lampi e l’oscurità della tempesta, la luce delle lampade nella cabina sembrava calda e costante, sebbene dondolando proiettasse tutt’intorno ombre oscillanti. Notò in modo confuso vari colori… i colori tenui degli indumenti delle donne, la loro pelle, bruna, pallida o dorata, i loro capelli, neri, grigi o fulvi, i loro occhi… gli occhi della principessa che lo fissavano, allarmati, mentre le mani afferravano un velo per coprirsi il viso.

— Oh! Pensavamo che fosse l’aiutante del cuoco! — disse Irian, con una risata.

Tehanu lo guardò e, l’atteggiamento timido e cameratesco, chiese: — C’è qualche problema?

L’uomo si rese conto che era immobile sulla soglia e le stava fissando come un muto messaggero di sventura.

— No… Nessun problema… Va tutto bene? Mi dispiace che il tempo sia infame…

— Non ti riteniamo responsabile del tempo — disse Tenar. — Non riuscivamo a dormire, così la principessa e io abbiamo insegnato alle altre un gioco kargico.

Vide sparsi sul tavolo dei dadi d’avorio a cinque facce, probabilmente di Tosla.

— Abbiamo scommesso delle isole — spiegò Irian. — Ma Tehanu e io stiamo perdendo. I Karg hanno già vinto Ark e Ilien.

La principessa aveva abbassato il velo; sedeva di fronte al re risoluta, estremamente tesa, come un giovane spadaccino che si accinge a misurarsi con un sovrano. Nel tepore della cabina, le donne erano tutte scalze e a braccia nude, ma la mancanza di imbarazzo con cui la principessa mostrava il volto attirò la sua attenzione come una calamita attira uno spillo.

— Mi dispiace che il tempo sia infame — ripeté come uno stolto, e chiuse la porta. Mentre si allontanava, udì che tutte le donne nella cabina ridevano.

Andò accanto al timoniere. Contemplando l’oscurità burrascosa illuminata ora da lampi lontani sporadici, rivide tutto quello che aveva visto nella cabina di poppa… la nera cascata dei capelli di Tehanu, il sorriso affettuoso e canzonatorio di Tenar, i dadi sul tavolo, le braccia tornite della principessa, dello stesso color miele della luce della lampade, la sua gola ombreggiata dai capelli… anche se non ricordava di averle guardato le braccia e la gola, ma solo il volto, gli occhi colmi di sfida, di disperazione. Cosa temeva? Credeva che lui volesse farle del male?

Un paio di stelle adesso brillavano alte nel cielo a sud. Lebannen si ritirò nella propria cabina affollata, sospese un’amaca, perché le cuccette erano tutte occupate, e dormì alcune ore. Si svegliò prima dell’alba, sempre irrequieto, e salì in coperta.

Il giorno spuntò radioso e tranquillo come se non ci fosse mai stata nessuna tempesta. Stando accanto al parapetto di prua, Lebannen vide i primi raggi del sole che lambivano l’acqua, e gli venne in mente una vecchia canzone:

Oh, mio gaudio!

Pria che bell’Ea esistesse, pria che Segoy

Creasse l’isole nella realtà,

Sul mar soffiava il vento del mattino

Oh, mio gaudio, va’ in libertà!

Era un frammento di una ballata o di una ninnananna della sua infanzia. Non ricordava altro. La melodia era dolce. La cantò sottovoce e lasciò che il vento gli prendesse le parole dalle labbra e le portasse via.

Tenar uscì dalla cabina e, vedendolo, gli si avvicinò. — Buongiorno, mio caro signore — esordì, e lui la salutò cordiale, ricordando in modo vago di essere stato in collera con lei, ma senza sapere per quale motivo e stentando a credere che fosse potuta accadere una cosa del genere.

— Voi Karg avete vinto Havnor la notte scorsa? — domandò.

— No, puoi tenerla. Siamo andate a letto. Le ragazze sono ancora coricate, a poltrire. Ebbene, avvisteremo Roke, oggi?

— Roke? No, non fino all’alba di domani. Ma prima di mezzogiorno dovremmo essere nel porto di Thwil. Se ci permetteranno di raggiungere l’isola.

— Cosa intendi dire?

— Roke si difende dai visitatori sgraditi.

— Oh, sì… Ged me ne ha parlato. Era su una nave e stava cercando di arrivare là, e loro mandarono il vento contro di lui, il vento di Roke, lo ha chiamato.

— Contro di lui?

— È stato tanto tempo fa. — Tenar sorrise divertita vedendo che il re era incredulo, che non riusciva a concepire che suo marito potesse ricevere un affronto. — Quando Ged era un ragazzo che aveva messo mano nelle forze oscure. Questo è quanto mi ha raccontato.

— Anche da adulto ha messo mano nelle forze oscure.

— Non lo fa più, adesso — dichiarò lei, serena.

— No, siamo noi a doverlo fare. — Il volto di Lebannen era diventato cupo. — Vorrei sapere in cosa stiamo mettendo mano. Sono sicuro che, come ha predetto Ogion, come ha detto Ged ad Alder, siamo di fronte a un grande rischio o a un grande cambiamento. E sono sicuro che Roke sia il luogo giusto in cui dobbiamo trovarci per affrontarlo. Ma a parte questo, nessuna certezza… nulla. Non so cosa ci aspetti. Quando Ged mi portò nella terra tenebrosa, conoscevamo il nostro nemico. Quando io condussi la flotta a Sorra, sapevo qual era il male che volevo eliminare. Ma adesso… I draghi sono nostri nemici o nostri alleati? Cos’è andato storto? Cosa dobbiamo fare o annullare? I maestri di Roke saranno in grado di dircelo? O manderanno il loro vento contro di noi?

— Temendo… cosa?

— Temendo il drago. Quello che conoscono. O quello che non conoscono…

Anche il volto di Tenar era serio, ma a poco a poco fu illuminato da un sorriso. — Certo che stai portando ai maestri di Roke proprio una bella accozzaglia di gente! — commentò lei. — Uno stregone con gli incubi, un mago di Paln, due draghi, e due Karg. Gli unici passeggeri rispettabili di questa nave siete tu e Onice.

Lebannen non riuscì a ridere. — Se solo lui fosse con noi — disse.

La donna gli posò la mano sul braccio. Fece per parlare, poi invece tacque.

Lui mise la mano sulla sua. Rimasero alcuni istanti in silenzio, fianco a fianco, contemplando la danza del mare.

— La principessa ha qualcosa che desidera raccontarti, prima che arriviamo a Roke — lo informò Tenar. — È una storia che proviene da Hur-at-Hur. Là nel deserto, hanno conservato certi ricordi. Penso che questa storia risalga a un’epoca remota, che sia più vecchia di qualsiasi storia io abbia mai sentito, a parte quella della donna di Kemay. Ha a che fare con i draghi… Sarebbe cortese da parte tua invitare la principessa a raggiungerti, così non sarà lei a doverlo chiedere.

Consapevole della circospezione con cui la donna parlava, il re provò un istante di insofferenza, un senso fugace di vergogna. Osservò la distesa del mare a sud, osservò la rotta di una galea diretta a Kamery o a Way, il lieve luccichio dei lunghi remi che si alzavano dall’acqua. Rispose: — Certo. Verso mezzogiorno?

— Grazie.


Verso mezzogiorno, il sovrano mandò un giovane marinaio alla cabina di poppa, a chiedere alla principessa di raggiungerlo sul ponte di prua. Lei uscì subito e, dato che la nave era lunga solo una cinquantina di piedi, il re poté seguire con lo sguardo tutta la sua avanzata: non era certo un lungo cammino, ma forse lo era per lei. Perché ad avvicinarsi a lui non fu un cilindro rosso informe, bensì una giovane slanciata. La principessa indossava morbidi calzoni bianchi, una lunga camicia rosso opaco, un cerchietto d’oro da cui scendeva un sottilissimo velo che le copriva il volto e il capo. Il velo ondeggiava scosso dal vento marino. Guidata dal giovane marinaio, la ragazza aggirò i vari ostacoli e percorse i saliscendi del ponte ingombro e affollato. Camminava lenta e solenne. Era scalza. Tutti gli occhi della nave erano fissi su di lei.

Giunta sul ponte di prua, si fermò.

Il re s’inchinò. — La tua presenza ci onora, principessa.

Tenendo la schiena ben eretta, lei fece una profonda riverenza e disse: — Grazie.

— Non sei stata male la notte scorsa, mi auguro?…

Lei posò una mano sull’amuleto appeso al collo, un piccolo osso legato a un cordoncino nero, e lo mostrò al sovrano. — Kerez akath akatharwa erevi - disse. Lebannen sapeva che la parola akath in kargico significava stregone o stregoneria.

C’erano occhi ovunque, occhi nei boccaporti, sguardi tra il sartiame, ammiccamenti che parevano indovini, penetranti come succhielli.

— Andiamo più avanti, se non ti dispiace. Forse, presto vedremo l’isola di Roke — disse il re, anche se non c’era la minima probabilità di scorgerla fino all’alba. Con una mano sotto il gomito della giovane, ma senza toccarla, la condusse lungo il tratto di ripida salita del ponte fino all’estremità prodiera, dove tra un argano, il bompresso e il parapetto di babordo, c’era un piccolo triangolo di tolda — abbandonato frettolosamente da un marinaio che stava riparando una gomena — tutto per loro. Erano ancora visibili da tutti, però potevano volgere le spalle al resto della nave: la massima intimità di cui i reali potevano disporre a bordo.

Quando ebbero raggiunto quel cantuccio appartato, la principessa si girò verso il re e scostò il velo dal viso. Il sovrano intendeva chiederle cosa potesse fare per lei, ma la domanda gli sembrò fuori luogo, irrilevante. Così non disse nulla.

Lei disse: — Signore re. A Hur-at-Hur io sono feyagat. A Roke io devo essere figlia di re dei Karg. Per essere questo, io non sono feyagat. Sono a faccia nuda. Se a te va bene.

Dopo un attimo, lui rispose: — Sì. Sì, principessa. È… un’ottima idea.

— A te va bene?

— Benissimo. Sì. Grazie, principessa.

Barrezù - fece lei, una formula regale per comunicargli che accettava il ringraziamento. La dignità della giovane era sconcertante. Quando, poco prima, aveva scostato il velo, il suo volto si era infuocato; adesso non c’era più alcuna traccia di imbarazzo. Dritta e immobile, la giovane fece appello alle proprie forze per iniziare un altro discorso.

— Anche… — disse. — Inoltre… La mia amica Tenar…

— La nostra amica Tenar — disse lui, con un sorriso.

— La nostra amica Tenar… Lei dice che devo raccontare a re Lebannen del Vedurnan.

Lui ripeté la parola.

— Molto molto tempo fa… popolo dei Karg, popolo di stregoneria, popolo dei draghi, eh? Sì?… Tutti un popolo, tutti parlano un… un… Oh! Wuluah mekrevt!

— Una lingua?

— Ah! Sì! Una lingua. — Nel tentativo veemente di parlare hardico, di dirgli quello che desiderava raccontargli, la principessa stava perdendo la propria timidezza; il volto e gli occhi le brillavano. — Ma poi popolo dei draghi dice: "Lasciate, lasciate tutte le cose. Volate!"… Ma noi, noi diciamo: "No, tenete. Tenete tutte le cose. State qui!"… Così ci separiamo, eh? Il popolo dei draghi e noi. Così loro fanno il Vedurnan. Questo da lasciare… questo da tenere. Sì? Ma per tenere tutte le cose, noi dobbiamo lasciare quella lingua. Quella lingua del popolo dei draghi…

— La Vecchia lingua?

— Sì! Così, noi lasciamo quella Vecchia lingua, e teniamo tutte le cose. E popolo dei draghi lascia tutte le cose, ma tiene quella, tiene quella lingua. Eh? Seyneha? Questo è il Vedurnan. — Muovendo le belle e grandi mani con gesti eloquenti, la principessa guardò il viso dell’uomo, ansiosa, sperando che lui capisse. — Noi andiamo a est, est, est. Il popolo dei draghi va a Ovest; Ovest… Noi stiamo, ci fermiamo, loro volano. Alcuni draghi vengono a est con noi, ma non tengono la lingua, dimenticano, e dimenticano il volare. Come il popolo dei Karg. Il popolo dei Karg parla la lingua dei Karg, non la lingua dei draghi. Tutti tengono il Vedurnan, est, Ovest. Seyneha? Ma in…

Smarrita, congiunse le mani, avvicinandole da "est" e da "Ovest", e Lebannen disse: — In mezzo?

— Ah! Sì! In mezzo! — Lei rise, contenta di avere trovato la parola giusta. — In mezzo… voi! Popolo di stregoneria! Eh? Voi, popolo di mezzo, parlate la lingua hardica ma anche, inoltre, continuate a parlare la Vecchia lingua. Voi la imparate. Come io imparo hardico, eh? Imparate a parlare. Poi, poi… questo è il male. La cosa cattiva. Poi voi dite, in quella lingua di stregoneria, in quella Vecchia lingua, voi dite: "Noi non moriremo". Ed è così. E il Vedurnan è rotto.

I suoi occhi erano come fiamme azzurre. Trascorso un attimo, la principessa chiese: — Seyneha?

— Non sono sicuro di capire…

— Voi tenete la vita. Voi tenete. Troppo tempo. Voi non lasciate mai. Ma per morire… — La giovane fece un ampio gesto, tendendo le braccia e aprendo le mani, come se gettasse via qualcosa, la gettasse nell’aria, sul mare.

Lui scosse il capo, rincresciuto.

— Ah… — disse la principessa. Rifletté a lungo, ma non trovò le parole che cercava. Sconfitta, mosse le mani a palmo in giù in una mimica aggraziata che esprimeva rinuncia. — Devo imparare più parole — dichiarò.

— Principessa, il maestro strutturatore di Roke, il maestro del Bosco immanente… — Lebannen la osservò per vedere se comprendesse, poi ricominciò. — A Roke, c’è un uomo, un grande mago, che è un Karg. Puoi raccontare a lui quello che hai detto a me… nella tua lingua.

Lei ascoltò attenta e annuì. Disse: — L’amico di Irian. Parlerò a quell’uomo con tutto il mio cuore. — Il volto le si illuminò all’idea.

Il re era commosso. Disse: — Mi dispiace che tu abbia sofferto di solitudine qui, principessa.

Lei lo guardò, vigile e fulgida, ma non replicò.

— Spero che, con il passare del tempo, imparando la nostra lingua…

— Io imparo veloce — disse lei. Lui non capì se fosse un’affermazione o una previsione.

Si stavano fissando.

Lei riassunse il proprio atteggiamento maestoso e solenne e parlò cerimoniosa, come aveva fatto all’inizio. — Ti ringrazio dell’ascolto, signore re. — Piegò il capo e si coprì gli occhi in segno formale di rispetto, e ripeté la profonda riverenza, pronunciando alcune parole in kargico.

— Per favore — le chiese lui — dimmi cosa hai detto.

La principessa esitò, rifletté, e rispose: — I tuoi… i tuoi, ehm… piccoli re?… Figli! Figli, sì… i tuoi figli… lascia che siano draghi e re dei draghi. Eh? — Sorrise radiosa, lasciò che il velo le ricadesse sul viso, fece quattro passi indietro, si girò e si allontanò, percorrendo agile e con passo sicuro il ponte della nave. Lebannen rimase immobile come se i lampi della notte scorsa lo avessero infine colpito.

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