Poul Anderson Il gioco di Saturno

Se vogliamo comprendere cosa sia accaduto, il che è di vitale importanza per impedire che in futuro si ripetano simili e peggiori tragedie, dobbiamo cominciare con l’accantonare ogni accusa. Nessuno è stato negligente e nessun’azione è stata sciocca, perché, chi avrebbe potuto prevedere quell’eventualità o riconoscerne la natura prima che fosse troppo tardi? Dovremmo invece apprezzare lo spirito con cui quelle persone hanno lottato contro il disastro, internamente ed esternamente, dopo aver compreso. La verità è che in tutta la realtà esistono una serie di soglie e che le cose al di là di esse sono completamente diverse da quelle esistenti all’interno. Il Chronos ha superato qualcosa di più di un abisso, ha superato una soglia dell’esperienza umana.

Francis L. Minamoto, Morte Sotto Saturno:

Una Concezione Dissenziente

(Apollo University Communications, Leyburg, Luna, 2057)

I

— La Città di Ghiaccio è ora al mio orizzonte — dice Kendrick. Le torri hanno un bagliore azzurro. — Il mio grifone allarga le ali per planare. — Il vento fischia fra quei grandi pinnacoli dai colori dell’arcobaleno. Il manto gli viene sospinto indietro sulle spalle e l’aria penetra nella cotta di maglia permeandolo di freddo. — Mi piego in avanti e cerco di scorgerti. — La lancia che stringe in pugno la bilancia: la punta dell’arma brilla pallidamente per la luce lunare che il martello di Wayland Smith ha imprigionato in essa.

— Sì, scorgo il grifone — risponde Ricia, — alto e distante, come una cometa sulle mura del cortile. Esco di corsa da sotto il portico per vedere meglio. Una guardia cerca di fermarmi, mi afferra per una manica, ma io lacero la stoffa di seta sottile e scatto all’aperto. — Il castello elfico tremola come se le sue mura di ghiaccio scolpito si stessero trasformando in fumo. Lei grida, con passione: — Sei davvero tu, mio adorato?

— Fermi, laggiù! — avverte Alvarlan dalla sua grotta di magie distante dieci leghe. — Invio alle vostre menti questo messaggio: se il Re sospetta che questi è Sir Kendrick delle Isole, gli lancerà contro un drago oppure ti trasporterà dove non ci sarà più speranza di salvarti. Torna indietro, Principessa di Maranoa, fingi di credere che si tratti solo di un’aquila, ed io getterò sulle tue parole un incantesimo che le renda convincenti.

— Rimarrò in alto — dice Kendrick. — A meno che non usi una pietra divinatoria, il Re degli Elfi non scoprirà che questa bestia ha un cavaliere. Di qui, terrò occhio la città ed il castello. — E poi…? Lui non lo sa. Sa solo che la deve liberare o morire nel tentativo. Quanto tempo gli ci vorrà ancora, per quante altre notti dovrà lei sopportare l’abbraccio del Re?

— Pensavo doveste studiare Iapetus — interruppe Mark Danzig.

Il suo tono secco fece tornare alla realtà gli altri tre con un sussulto; Jean Broberg arrossi per l’imbarazzo e Colin Scobie per l’irritazione, mentre Luis Garcilaso scrollava le spalle con un sorriso e tornava a fissare la consolle di pilotaggio davanti alla quale era seduto. Per un momento, la cabina fu piena di silenzio, insieme alle ombre ed alla luminosità dell’universo.

Per favorire l’osservazione dell’esterno, tutte le luci erano spente, fatta eccezione per il tenue bagliore che veniva dagli strumenti; gli oblò dalla parte del sole erano schermati, gli altri erano affollati da stelle tanto numerose e splendenti da soffocare quasi l’oscurità che le imprigionava. In uno degli oblò era incorniciato Saturno, a metà di una sua fase, il lato diurno color oro pallido e solcato da ricche bande fra gli ornamenti dei suoi anelli, il lato notturno debolmente splendente di una luce stellare sopra le nubi, tanto grande a vedersi quanto la Terra rispetto alla Luna.

Più avanti c’era Iapetus. L’astronave ruotava mentre orbitava intorno alla luna, in modo da mantenere un campo visivo costante, ed aveva attraversato la linea diurna, attualmente posta a metà dell’emisfero interno: in questo modo si era lasciata alle spalle la zona spoglia e costellata di crateri, ora immersa nel buio, per sorvolare una zona di ghiacciai illuminata dal sole. Il candore era accecante, brillava con frammenti e scintille di colore che salivano verso il cielo creando forme fantastiche. Anfiteatri, crepacci, caverne, erano orlati di azzurro.

— Mi dispiace — sussurrò Jean Broberg, — ma è troppo bello, incredibilmente splendido, e… è quasi uguale al luogo dove ci aveva portati il nostro gioco. Ci ha colti di sorpresa…

— Uh! — fece Mark Danzig. — Avevate un’idea abbastanza precisa di cosa aspettarvi, quindi avete fatto in modo da condurre il vostro gioco verso qualcosa che gli somigliasse. Non cercate di raccontarmi il contrario: sono otto anni che vedo cose del genere.

Colin Scobie fece un gesto selvaggio. Rotazione e gravità erano troppo tenui perché il peso corporeo fosse rilevante, ed il suo movimento lo fece volare nell’aria dall’altra parte della cabina affollata. Scobie si aggrappò ad un sostegno appena in tempo, prima di sbattere contro il chimico.

— Stai dando a Jean della bugiarda? — ringhiò.

Generalmente, Scobie era di umore allegro e noncurante, e, forse proprio per questo apparve ora improvvisamente minaccioso. Era un uomo di grosse dimensioni, con i capelli color sabbia, sui trentacinque anni; la tuta che indossava non riusciva a nascondere la muscolatura sottostante, ed il cipiglio attuale metteva in evidenza la durezza dei lineamenti.

— Per favore! — esclamò la Broberg. — Non litighiamo, Colin!

Il geologo le lanciò un’occhiata: Jean era una donna snella e dai lineamenti minuti. All’età di quarantadue anni, nonostante il trattamento di longevità, i capelli di un castano rossiccio che le scendevano sulle spalle cominciavano a striarsi di grigio, e le rughe si stavano approfondendo intorno ai grandi occhi grigi.

— Mark ha ragione — sospirò la donna. — Siamo qui per ragioni scientifiche, non per sognare ad occhi aperti. — Protese la mano per toccare il braccio di Scobie, sorridendo timidamente. — Tu sei ancora immerso nel personaggio di Kendrick, vero? Coraggioso, protettivo… — Si arrestò, perché il tono accelerato della sua voce aveva tradito più che un accenno al personaggio di Ricia. Si coprì le labbra ed arrossì di nuovo; una lacrima apparve all’angolo dell’occhio e si allontanò brillando su una corrente d’aria mentre lei si costringeva a ridere. — Io sono soltanto l’esperta di fisica Broberg, moglie dell’astronomo Tom e madre di Jhonnie e Billy.

Il suo sguardo si spostò in direzione di Saturno, quasi cercando la nave su cui la sua famiglia era in attesa. Ed avrebbe anche potuto scorgerla, come una stella che si muoveva navigando fra le altre stelle, se la vela del sole fosse stata spiegata. Ma quella vela era adesso raccolta, e l’occhio nudo non poteva individuare neppure una massa immane come quella del Chronos, a milioni di chilometri di distanza.

— Che male c’è se portiamo avanti la nostra piccola commedia dell’arte? — chiese Luis Garcilaso dal sedile di pilotaggio. La sua strascicata cadenza dell’Arizona era rilassante a sentirsi. — Non atterreremo ancora per qualche tempo, e tutti gli strumenti rimarranno sull’automatico fino ad allora. — Era un uomo piccolo ed abile, dalla pelle abbronzata, ancora ventenne.

Danzig atteggiò il suo volto color cuoio ad un’espressione accigliata. All’età di sessant’anni, grazie alle abitudini oltre che al processo di longevità, possedeva ancora un corpo magro e scattante, e sapeva scherzare sulle sue rughe e sulla crescente calvizie. In quel momento, però, accantonò il proprio umorismo.

— Vuoi dire che non capisci il perché? — Il suo naso a becco accennò in direzione dello schermo d’osservazione che ingrandiva il paesaggio della luna. — Possente Iddio! Questo su cui stiamo per atterrare è un mondo nuovo… piccolo, ma un mondo, e strano in modo che non possiamo neppure immaginare. Prima di noi qui non c’è stato nessuno, fatta eccezione per una sonda automatica ed un apparecchio per analisi a terra, anch’esso automatico, che ha cessato ben presto di trasmettere. Non possiamo fare affidamento solo su strumenti e telecamere: dobbiamo usare anche occhi e cervello! — Si rivolse a Scobie. — Questo, tu te lo dovresti sentire nelle ossa, Colin, almeno tu, se non lo fa nessun altro a bordo. Tu hai lavorato sulla Luna, oltre che sulla Terra; nonostante tutti gli insediamenti, nonostante tutti gli studi che sono stati fatti, non ti è mai capitato d’imbatterti ugualmente in qualche brutta sorpresa?

L’uomo massiccio aveva frattanto riacquistato la calma, ed il suo tono di voce aveva di nuovo la morbidezza che ricordava la serenità delle montagne dell’Idaho sulle quali era nato.

— È vero — ammise. — Non si può mai dire di avere troppe informazioni, quando non si è sulla Terra, e neppure di averne abbastanza, se è per questo. — Fece una pausa, poi aggiunse: — Ma la timidezza può ugualmente essere altrettanto pericolosa quanto l’imprudenza… non che tu sia pauroso, Mark — si affrettò ad aggiungere. — Come, tu e Rachel avreste potuto adesso trovarvi a godere una bella pensione…

— Questa era una sfida — replicò Danzig, rilassandosi e sorridendo, — se posso esprimermi in modo così pomposo. Comunque, abbiamo intenzione di tornare a casa, quando avremo finito qui. Dovremmo arrivare in tempo per il Bar Mitzvah di un pronipote o due, cosa per cui bisogna restare vivi.

— Quello che voglio dire — insistette Scobie, — è che se cominci ad agitarti, rischi di venire a trovarti in una situazione peggiore che non se… Oh, lascia perdere. Probabilmente hai ragione e noi non avremmo dovuto cominciare a lavorare di fantasia. Il panorama si è impadronito di noi, ma non succederà più.

Eppure, quando lo sguardo di Scobie tornò a posarsi sul ghiacciaio, in esso non c’era la freddezza dello scienziato, come non c’era neppure negli occhi di Broberg o Garcilaso.

— Il gioco, quel dannato gioco infantile — mormorò Danzig, picchiandosi il pugno sul palmo della mano. — Possibile che non avessero nulla di meno folle cui pensare?

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