II

Possibile che non avessero nulla di meno folle cui pensare? Forse non l’avevano.

Per poter rispondere a questo interrogativo bisogna prima riesaminare un po’ di storia passata. Quando le prime operazioni industriali nello spazio offrirono la speranza di salvare la civiltà, e la Terra, dalla rovina, divenne manifesta la necessità di acquisire conoscenze molto più vaste sugli altri pianeti, prima di passare allo sviluppo di tali operazioni. Gli sforzi in tal senso iniziarono in direzione di Marte, il pianeta meno ostile. Nessuna legge naturale proibiva l’invio di una piccola astronave con equipaggio laggiù, ma a sconsigliare l’impresa era l’assurdità di impiegare così tanto carburante, tempo e fatica quanti erano necessari, al solo scopo di permettere ad un gruppetto di persone di trascorrere pochi giorni in un’unica località.

La costruzione del J. Peter Vajk richiese più tempo e costi maggiori, ma diede il suo corrispettivo quando la nave, virtualmente una colonia in se stessa, spiegò la sua immensa vela solare e trasportò un migliaio di persone alla meta in sei mesi e con una certa comodità. Quel corrispettivo crebbe in maniera impressionante allorché i coloni spedirono sulla Terra, dalla stazione orbitale, la percentuale dei preziosi minerali di Phobos di cui non avevano bisogno per i loro scopi. Quegli scopi, naturalmente, prevedevano uno studio il più completo possibile, ed a lungo termine, di Marte, compreso l’invio sul pianeta di moduli ausiliari per permanenze sempre più prolungate su tutta la superficie.

È sufficiente richiamare alla memoria questi dati; non serve passare alla descrizione dettagliata del trionfo di questo sistema in tutta la zona interna del Sistema Solare, fino a Giove. La tragedia del Vladimir divenne un incentivo per compiere un altro tentativo alla volta di Mercurio, e, in maniera secondaria e politicamente motivata, indusse il consorzio Britannico-Americano a varare il progetto Chronos.

Il nome dato a quell’astronave era più appropriato di quanto s’immaginasse, dal momento che il tempo richiesto per il viaggio fino a Saturno era di otto anni.

Non sono solo gli scienziati a dover essere gente sana e dalla mente attiva. Membri d’equipaggio, tecnici, medici, amministratori, insegnanti, sacerdoti, intrattenitori… ogni elemento di un’intera comunità deve essere tale. Ciascuno deve possedere più di una singola capacità, per una eventuale sostituzione d’emergenza, e deve mantenere attive quelle capacità mediante una regolare e noiosa ripetizione. L’ambiente era limitato ed austero, le comunicazioni con la patria si trasformarono ben presto in una serie di impulsi radio; individui cosmopoliti si trovarono a vivere in quello che era in pratica una sorta di villaggio isolato. Che cosa potevano fare?

C’erano compiti assegnati: progetti civili, specialmente lavori destinati ad apportare migliorie all’interno dell’astronave; lavori di ricerca, stesura di libri, studio di qualche materia, attività sportive, clubs per coltivare hobby, organizzazioni per fornire servizi o manifatture, interazioni di tipo più privato, oppure… C’era un’ampia scelta di nastri televisivi, ma il Controllo Centrale li rendeva disponibili soltanto per tre ore ogni ventiquattro, per evitare d’incoraggiare l’abitudine alla passività.

I singoli individui borbottavano, litigavano, formavano e scioglievano combriccole, formavano e scioglievano matrimoni o relazioni di tipo meno esplicito, generavano ed allevavano occasionali figli, adoravano, deridevano, imparavano, desideravano, e, per lo più, trovavano una ragionevole soddisfazione nella vita. Ma per alcuni, compresa una grossa porzione degli individui più dotati, ciò che marcava la differenza fra quella vita e l’infelicità erano i loro psicodrammi.

Minamoto


La luce dell’alba scivolò oltre il ghiaccio, fino alla roccia: era una luce al contempo tenue e violenta, ma sufficiente a fornire a Garcilaso gli ultimi dati necessari alla discesa.

Il sibilo del motore si spense, un impatto fece tremare lo scafo, poi i sostegni d’atterraggio assorbirono l’urto e scese l’immobilità. L’equipaggio rimase in silenzio per qualche tempo, lo sguardo fisso su Iapetus.

Nella zona immediatamente circostante regnava una desolazione come quella che regna nella maggior parte del Sistema Solare. Una pianura velata d’oscurità s’incurvava visibilmente verso un orizzonte che, ad altezza d’uomo, distava appena tre chilometri. Dall’altezza della cabina, si poteva vedere più lontano, ma questo serviva soltanto ad accentuare la sensazione di trovarsi su una piccola palla roteante fra le stelle. Il suolo era coperto da un velo sottile di polvere cosmica e ghiaia; qua e là un cratere secondario o una massa sporgente si sollevava per proiettare lunghe, taglienti ombre, di un nero assoluto. I riflessi luminosi riducevano il numero di stelle visibili e trasformavano il cielo in una coppa colma di oscurità notturna. A mezza strada fra lo zenith ed il sud, una metà di Saturno e dei suoi anelli rendeva il panorama splendido.

Lo stesso faceva il ghiacciaio… o i ghiacciai? Nessuno lo sapeva per certo. L’unica conoscenza era che, visto da lontano, Iapetus aveva un vivido splendore nella parte occidentale della sua orbita mentre diventava opaco in quella orientale, perché un lato era coperto di un materiale biancastro mentre l’altro non lo era. La linea di divisione passava a poca distanza e quasi al di sotto del pianeta che Iapetus fronteggiava eternamente. Le sonde inviate dal Chronos avevano riferito che lo strato bianco era spesso, con uno spettro che lasciava perplessi e che variava da un punto all’altro, e poche altre cose.

In quel momento, quattro umani stavano osservando quel vuoto cosparso di avvallamenti, e vedevano qualcosa di meraviglioso levarsi oltre il confine di quel mondo: da nord a sud si stendevano bastioni, merli, torri, abissi, picchi e colline, le cui forme e tonalità davano adito ad un’infinità di fantasie. Sulla destra, Saturno proiettava una morbida luce ambrata, che andava però quasi completamente perduta a causa del bagliore proveniente da est, dove il sole, ridotto quasi alle dimensioni di una stella per la distanza, manteneva comunque una luminosità troppo forte per poter essere fissata, appena al di sopra dell’orizzonte. Laggiù, la coltre argentea esplodeva in un bagliore adamantino di luce infranta, in gelidi azzurri e verdi. Feriti fino a lacrimare dalla lucentezza, gli occhi videro quell’immagine tremolare ed ondeggiare, quasi confinasse con la terra dei sogni o con il Mondo del Fiabesco. Tuttavia, nonostante tutta quella delicatezza intricata, sotto sotto rimaneva la sensazione di gelo e di una massa brutale: qui vivevano anche i Giganti di Gelo.

La Broberg fu la prima a sussurrare qualche parola.

— La Città di Ghiaccio.

— Magica — replicò Garcilaso, con voce altrettanto bassa. — Il mio spirito si potrebbe perdere per sempre vagando laggiù, e non sono certo che me ne importerebbe. La mia grotta non è nulla rispetto a questo, nulla…

— Aspettate un momento! — scattò Danzig, allarmato.

— Oh, sì, controllate l’immaginazione, prego. — Per quanto Scobie si affrettasse a pronunciare quelle parole di rinsavimento, esse risuonarono più asciutte del necessario. — Sappiamo in base alle trasmissioni delle sonde che la scoperta è, ecco, simile al Gran Canyon. Certo, è più spettacolare di quanto ci fossimo resi conto, il che suppongo la renda ancora più misteriosa. — Si rivolse alla Broberg. — Non ho mai visto ghiaccio o neve scolpiti in quel modo, e tu, Jean? Hai detto di aver visto un sacco di montagne e di scenari invernali durante la tua infanzia nel Canada.

— No, mai. — L’esperta in fisica scosse il capo. — Non sembra una cosa possibile. Cosa può averla provocata? Qui non esiste clima… oppure sì?

— Forse è responsabile lo stesso fenomeno che ha lasciato nudo l’altro emisfero — suggerì Danzig.

— O che ha coperto un intero emisfero — fece Scobie. — Un oggetto del diametro di millesettecento chilometri non dovrebbe avere gas, gelati o meno, tranne che si tratti di una sfera fatta interamente di tali sostanze, come una cometa, il che sappiamo non è. — Come a voler dimostrare quel dato, Scobie staccò un paio di pinze da una vicina rastrelliera per attrezzi, le lanciò in aria e le riprese mentre scendevano lentamente. Anche i novanta chili del suo corpo qui ne pesavano soltanto sette, e, per causare un fenomeno del genere, il satellite doveva essere essenzialmente roccioso.

— Smettiamo di scambiarci fatti e teorie che conosciamo già — osservò Garcilaso con impazienza, — e cominciamo a cercare le risposte.

— Sì, andiamo fuori. — Un crescente senso di rapimento si stava impadronendo della Broberg. — Laggiù.

— Aspettate! — protestò Danzig, mentre Garcilaso e Scobie annuivano con vigore, — non potete dire sul serio! Ci vuole cautela, un’avanzata graduale…

— No, è troppo bello per far questo. — C’era un brivido nella voce della Broberg.

— Sì, al diavolo il tergiversare — rincarò Garcilaso. — Abbiamo bisogno almeno di un’esplorazione preliminare, subito.

— Intendi dire che vuoi andare anche tu, Luis? — Il cipiglio di Danzig si accentuò. — Ma tu sei il pilota.

— Una volta a terra, sono assistente generale, capo cuoco e lavapiatti per voi scienziati. Vuoi che rimanga seduto senza far niente, quando c’è qualcosa di simile da esplorare? — La voce di Garcilaso si fece più calma. — Inoltre, se mi dovesse succedere qualcosa, uno qualsiasi di voi sarebbe in grado di pilotare, con l’aiuto di qualche consiglio radio dal Chronos ed effettuando l’avvicinamento finale sotto controllo remoto.

— È senz’altro ragionevole, Mark — discusse Scobie. — Contrario alla dottrina, è vero, ma la dottrina è stata creata per noi e non viceversa. È una breve distanza, la gravità è bassa e staremo in guardia contro eventuali rischi. Il punto è che, fino a quando non avremo qualche idea sulla natura di quel ghiaccio non sapremo a cosa diavolo dobbiamo fare attenzione, quando siamo in queste vicinanze. No, compiremo prima un rapido giro; al nostro ritorno elaboreremo un piano.

— Posso ricordarti che se qualcosa andasse male, gli eventuali aiuti sono ad almeno cento ore di distanza? — chiese Danzig, irrigidendosi. — Un velivolo ausiliario come questo non può andare troppo veloce se poi deve tornare indietro, e ci vorrebbe ancora più tempo per richiamare le grosse navi da Titano e Saturno.

— E posso ricordarti a mia volta — ribatté Scobie, arrossendo per il sottinteso insulto, — che, una volta atterrati, il capitano sono io? Io dico che un’esplorazione immediata è sicura e raccomandabile. Tu rimani pure qui, se lo desideri… In effetti, sì, tu devi rimanere: la dottrina è giusta quando asserisce che un’imbarcazione non deve mai essere abbandonata.

Danzig l’osservò per parecchi secondi prima di mormorare:

— Però Luis viene, vero?

— Sì! — gridò Garcilaso, tanto forte da far risuonare la cabina.

— È tutto a posto, Mark — disse gentilmente la Broberg, battendo un colpetto sulla mano inerte del vecchio. — Ti porteremo un po’ di campioni da analizzare, dopodiché non sarei sorpresa di scoprire che le tue saranno le migliori idee sulla procedura da seguire.

Danzig scosse il capo, ed improvvisamente parve molto stanco.

— No — replicò, con voce monotona. — Vedi, io sono solo un vecchio chimico industriale ficcanaso che ha visto in questa spedizione l’occasione per svolgere ricerche interessanti. Durante tutto il viaggio nello spazio mi sono dato da fare con attività normali, comprese, lo ricorderai, un paio d’invenzioni che desideravo avere il tempo di completare. Voi tre siete più giovani, più romantici…

— Oh, smettila, Mark. — Scobie tentò di ridere. — Magari Jean e Luis lo sono, un poco, ma quanto a me, lo sono quanto un piatto di guazzetto di frattaglie.

— Hai giocato a quel gioco, un anno dopo l’altro, fino a quando il gioco non ha cominciato ad avere la meglio su di te. Questo è quanto sta succedendo in questo momento, non importa se tu tenti di spiegare razionalmente le tue motivazioni. — Lo sguardo che Danzig teneva fisso sul suo amico geologo perse la sua luce di sfida e si fece malinconico. — Potresti provare a ricordarti di Delia Ames.

— E lei cosa c’entra? — Scobie era risentito. — La questione riguardava solo lei e me, e nessun altro.

— Salvo che per il fatto che, dopo, lei è andata a piangere sulla spalla di Rachel e che Rachel non ha segreti per me. Non ti preoccupare, non ho intenzione di fare chiacchierare in merito, ed in ogni caso Delia ha superato la cosa. Comunque, se i tuoi ricordi sono obiettivi, dovresti riuscire a vedere cosa ti era successo già tre anni fa.

Scobie serrò la mascella, e Danzig accennò un sorriso con l’angolo della bocca, aggiungendo:

— No, suppongo che non lo veda. Ammetto che io stesso non avevo idea di quanto la cosa fosse avanzata, fino ad ora. Almeno, mantieni le tue fantasie sullo sfondo, mentre sei là fuori, vuoi? Ci riuscirai?


* * *

Nel corso di cinque anni di viaggio, l’appartamento di Scobie era diventato idiosincraticamente suo… forse in misura maggiore di quanto fosse normale, perché lui era rimasto uno scapolo che raramente godeva della compagnia di una donna per più di pochi turni di guardia per volta. Buona parte del mobilio l’aveva costruita lo stesso Scobie, dato che la sezione agricola della Chronos produceva anche legno, oltre che cibo ed aria fresca. Il mobilio da lui fabbricato tendeva ad essere massiccio, e le decorazioni intagliate in esso arcaiche. Scobie attingeva dalla banca dei dati la maggior parte di ciò che desiderava leggere, naturalmente, ma su uno scaffale conservava qualche vecchio libro… le ballate di frontiera di Childe, una Bibbia di famiglia del diciottesimo secolo (nonostante fosse un agnostico), una copia del Macchinario della Libertà, che era ormai quasi disintegrato ma in cui si distinguevano ancora la firma dell’autore e svariati altri elementi di valore. Al di sopra di essi, c’era il modellino di una barca a vela con cui Scobie aveva navigato nelle acque dell’Europa Settentrionale ed un trofeo che aveva vinto giocando a palla a mano a bordo dell’astronave. Alle paratie erano appese alcune sciabole da scherma e parecchie fotografie… dei genitori e dei fratelli, di zone selvagge della Terra che aveva visitato, di castelli, montagne e brughiere della Scozia che aveva anche visitato spesso, del suo gruppo geologico sulla Luna, di Thomas Jefferson e, perfino, di Robert the Bruce.

Una sera in particolare, tuttavia, Scobie era seduto davanti al suo televisore, con le luci abbassate in modo da assaporare appieno le immagini. I moduli ausiliari erano fuori per un’esercitazione congiunta, ed un paio dei membri del loro personale stavano sfruttando l’opportunità per trasmettere le immagini di quello che vedevano.

Era una cosa splendida. Lo spazio stellato formava un calice per la Chronos. I due enormi cilindri che ruotavano maestosamente in senso contrario, l’intero complesso di collegamenti, oblò, portelli, schermi, collettori, trasmittenti ed hangar, tutto diveniva squisitamente artistico visto alla distanza di parecchie centinaia di chilometri. La vela solare era ciò che occupava la maggior parte dello schermo, simile ad una ruota dorata che girasse su se stessa; eppure, la visione a distanza permetteva anche di apprezzare la sua trama intricata come una ragnatela, le curve enormi e sottili, perfino l’incredibile sottigliezza. Era un’opera più possente delle piramidi, più perfetta di un cromosomo ristrutturato, quella nave che avanzava verso Saturno che era ormai divenuto il secondo faro più brillante del firmamento.

Il campanello della porta trasse Scobie dal suo stato di esaltazione; si mosse per attraversare la stanza ed inciampò con un piede in una gamba del tavolo, per colpa della forza di Coriolis. Quel fenomeno era tenue quando uno scafo di quelle dimensioni ruotava su se stesso per garantire la forza di gravità, ed era una cosa cui Scobie si era da tempo abituato; ma, di tanto in tanto, quando qualcosa lo assorbiva molto, le abitudini acquisite sulla Terra tornavano a farsi sentire. Scobie imprecò contro la propria disattenzione ma con allegria, dato che prevedeva di trascorrere dei momenti piacevoli.

Quando aprì la porta, Delia Ames entrò con un solo, lungo passo, e si richiuse immediatamente il battente alle spalle, appoggiandosi ad esso; era una donna alta e bionda, che si occupava della manutenzione elettronica e svolgeva tutta una serie di altre attività collaterali.

— Ehi! — disse Scobie. — Cosa c’è che non va? Hai l’aria… — tentò di scherzare — … di qualcosa cui il mio gatto abbia dato la caccia, se a bordo avessimo topi o pesci fuor d’acqua.

Delia trasse un respiro rauco e parlò con accento australiano talmente pronunciato per l’agitazione da rendere le sue parole quasi incomprensibili per Scobie.

— Io… oggi… mi sono trovata a sedere allo stesso tavolino di George Harding, al caffè…

Un senso di disagio attraversò Scobie. Harding lavorava nello stesso dipartimento della Ames ma aveva molte più cose in comune con lui: nel gruppo di gioco cui appartenevano entrambi, Harding aveva anche lui assunto un ruolo vagamente ancestrale, N’Kuma, l’Uccisore di Leoni.

— Cosa è successo? — chiese Scobie, e ricevette un’occhiata colma di dolore.

— Ha accennato… che tu e lui e gli altri… avreste trascorso insieme le vostre prossime vacanze… per portare avanti la vostra dannata commedia senza interruzioni.

— Come, ma sì. Il lavoro al nuovo parco, su nello Scafo di Prua verrà sospeso fino a quando sarà stato riciclato il metallo necessario per le condutture dell’acqua. La zona rimarrà libera, ed il mio gruppo ha organizzato di trascorrere l’equivalente di una settimana…

— Ma tu ed io dovevamo andare al Lago Armstrong!

— Uh, aspetta, quella era solo un’idea di cui avevamo parlato, non un progetto definito, e questa è un’occasione insolita… un’altra volta, dolcezza, mi dispiace. — Le aveva preso le mani, che erano gelate, ed aveva azzardato un sorriso. — Su, via, avevamo intenzione di consumare insieme una cenetta festiva e di trascorrere, diciamo così, una tranquilla serata in casa. Ma per cominciare, queste splendide immagini sullo schermo…

Delia si liberò con uno strattone, e quel gesto parve calmarla.

— No, grazie — replicò, con voce piatta. — Non quando tu preferisci la compagnia di quella Broberg. Sono venuta solo a dirti di persona che intendo togliermi di mezzo fra voi due.

Eh? — Scobie indietreggiò. — Cosa diavolo intendi dire?

— Lo sai perfettamente!

— Non lo so affatto! Lei… io… lei è felicemente sposata, ha due figli, è più vecchia di me… siamo amici, certo, ma tra noi non c’è mai stata una cosa che non fosse aperta e chiara… — Scobie deglutì. — Tu credi che possa essere innamorato di lei?

— Non ho intenzione di essere una semplice comodità per te, Colin. — La Ames aveva distolto lo sguardo, torcendosi le dita. — Tu hai un sacco di comodità del genere, ed io speravo… Ma mi sbagliavo, ed ho intenzione di troncare le mie perdite prima che peggiorino.

— Ma… Dee… giuro che non mi sono innamorato di nessun’altra e che io… io… giuro che non sei soltanto un corpo per me, sei una persona meravigliosa… — Delia era rimasta muta e chiusa in se stessa. Scobie si morse un labbro prima di riuscire a dire: — Bene, lo ammetto, la ragione principale per cui mi sono offerto volontario per questo viaggio è stata che ero uscito perdente da una faccenda di cuore, sulla Terra. Non che il progetto non m’interessi, ma sono giunto a comprendere quanto esso sia estraneo alla mia vita. Tu, più che qualsiasi altra donna, tu, Dee, mi hai aiutato ad accettare meglio la situazione.

— Ma non quanto ci è riuscito lo psicodramma, vero? — replicò la donna, con una smorfia.

— Ehi, non devi pensare che sia ossessionato da quel gioco; non lo sono. È solo divertimento e… oh, forse «divertimento» è un termine troppo debole… ma comunque si tratta solo di un gruppetto di persone che si riunisce regolarmente per recitare. È come la scherma, il club di scacchi o… o qualsiasi altra cosa.

— Bene, allora — chiese Delia, raddrizzando le spalle, — sei disposto ad annullare quell’impegno ed a trascorrere le tue vacanze con me?

— Io… uh… non posso farlo, non a questo punto. Kendrick non si trova nella corrente periferica degli eventi, è strettamente collegato a tutti i personaggi: se non andassi, rovinerei ogni cosa anche agli altri.

— Molto bene. — Delia lo fissò con fermezza. — Una promessa è una promessa, o almeno credo. Ma in futuro… Non temere, non sto cercando d’intrappolarti, non servirebbe a nulla, vero? Tuttavia, se continuiamo la nostra relazione, ti toglierai da quel gioco?

— Non posso… — L’ira si era impadronita di lui. — No, dannazione! — ruggì.

— Allora addio, Colin — concluse Delia, ed uscì, lasciandolo a fissare per parecchi minuti la porta che si era richiusa alle spalle.


Al contrario dei grossi velivoli per l’esplorazione delle vicinanze di Titano e Saturno, i moduli per l’atterraggio su lune prive di atmosfera erano semplici moduli di trasporto Luna-spazio modificati, affidabili, ma con capacità limitate. Quando la forma massiccia fu scomparsa oltre l’orizzonte, Garcilaso annunciò alla radio:

— Abbiamo perso di vista il modulo, Mark, e devo dire che questo migliora il panorama. — Uno dei microsatelliti di comunicazione che erano stati lanciati in orbita trasmise le sue parole.

— Allora farete meglio a cominciare a segnare la strada — rammentò Danzig.

— Via, via, sei proprio uno che si preoccupa, vero! — Comunque, Garcilaso si tolse dalla cintura la pistola a schizzo e tracciò sul terreno un vivido cerchio di vernice fluorescente, cosa che avrebbe fatto nuovamente ad intervalli fino a che il gruppo avesse raggiunto il ghiacciaio. Salvo i punti in cui la polvere era fitta sul suolo, le impronte lasciate dai tre erano leggiere a causa della scarsa gravità, ed addirittura assenti quando c’era da camminare su un tratto di roccia.

Camminare? No, balzare. I tre si avviarono a grandi balzi, ben poco ostacolati dalle tute spaziali, dalle unità di supporto vitale, dagli attrezzi e dalle razioni. Il terreno nudo fuggì dinnanzi alla loro fretta, ed il ghiaccio si fece sempre più alto, chiaro, glorioso a vedersi, incombente.

Non c’era davvero modo per descriverlo. Si poteva parlare di pendii più bassi e di cime più elevate fino ad un’altitudine di un centinaio di metri, con vette che torreggiavano ancora più su. Si poteva parlare di forme graziosamente incurvate che collegavano quelle vette, di parapetti di merletto e crepacci, ed aperture arcuate di grotte piene di meraviglie, di misteriosi azzurri nel profondo e di verdi là dove la luce scorreva attraverso sostanze traslucenti, di un bagliore di gemme sul candore dove luce ed ombre intrecciavano danze… e nulla di tutto questo avrebbe trasmesso una descrizione più efficace del precedente paragone, sia pure inadeguato, fatto da Scobie con il Gran Canyon.

— Fermi — disse per la dodicesima volta. — Voglio scattare qualche fotografia.

— Riuscirà a comprenderle chi non è stato qui? — sussurrò la Broberg.

— Probabilmente no — replicò Garcilaso con la stessa voce sommessa, — forse non comprenderà mai nessun altro eccetto noi tre.

— Cosa vuoi dire con questo? — chiese Danzig.

— Non importa — scattò Scobie.

— Credo di saperlo — replicò il chimico. — Sì, è uno scenario grandioso, ma voi vi state lasciando ipnotizzare.

— Se non la smetti con queste ciance — lo ammonì Scobie, — ti taglierò fuori dal circuito. Dannazione, abbiamo del lavoro da fare, smettila di starci addosso.

— Scusa — sospirò Danzig. — Uh, avete trovato qualche indizio sulla natura di quella… quella cosa?

— Ecco — fece Scobie, un po’ ammorbidito, mettendo a fuoco la sua telecamera, — la differenza di sfumature e composizione, e l’indubbia differenza di forme sembrano confermare quello che gli spettri riflessi delle sonde avevano suggerito. La composizione è un misto, una mescolanza casuale o tutte e due le cose insieme di svariati materiali, e varia da un punto all’altro. La presenza del ghiaccio d’acqua è ovvia, ma sono sicuro anche del diossido di carbonio e scommetterei che ci sono pure ammoniaca, metano e forse quantità minori di altre sostanze.

— Metano? Ma può rimanere solido, a temperatura ambiente, nel vuoto?

— Dovremo verificarlo. Comunque, scommetterei che per la maggior parte del tempo la temperatura è sufficientemente bassa, almeno per gli strati di metano che si trovano giù nell’interno e sottoposti a pressione.

Dentro l’elmetto trasparente, i lineamenti della Broberg si atteggiarono ad entusiasmo.

— Aspetta! — esclamò. — Ho un’idea… su cosa può essere accaduto alla sonda che è atterrata. — Trasse il fiato. — Ricorderai che è scesa quasi ai piedi del ghiacciaio. La nostra visuale del luogo dallo spazio sembrava indicare che fosse stata sepolta da una valanga, ma non siamo riusciti a capire cosa potesse averla provocata. Ebbene, supponiamo che uno strato di metano collocato proprio nel punto sbagliato, si sia furo: il calore delle radiazioni dei motori può averlo riscaldato, e più tardi il raggio radar impiegato per ottenere i contorni della mappa deve aver aggiunto i pochi gradi necessari. Lo strato si è fuso e tutto quello che c’era sopra è precipitato giù.

— È plausibile — ammise Scobie. — Congratulazioni, Jean.

— Nessuno aveva pensato in anticipo a questa possibilità? — derise Garcilaso. — Che razza di scienziati abbiamo con noi?

— Scienziati che si sono trovati stracarichi di lavoro dopo che abbiamo raggiunto Saturno, ed ancora di più per l’afflusso dei dati — rispose Scobie. — L’universo è più grande di quanto vi rendiate conto tu o chiunque altro, testa calda.

— Oh, certo, senza offesa.! Lo sguardo di Garcilaso tornò a posarsi sul ghiaccio. — Sì, non esauriremo mai i misteri, vero?

— Mai. — Gli occhi ardenti della Broberg si erano fatti enormi. — Al cuore di tutte le cose ci sarà sempre la magia. Il Re Elfo regna…

— Smettetela di cianciare e muoviamoci — ordinò secco Scobie, riponendo in tasca la telecamera.

Il suo sguardo incontrò per un momento quello della Broberg: nella strana luce incerta era possibile vedere che la donna era impallidita e poi arrossita, prima di balzare accanto a lui.


Ricia era andata da sola nel Bosco Lunare nella Sera di Mezz’Estate. Il Re l’aveva trovata là e l’aveva presa per sé come lei sperava. L’estasi si era tramutata in terrore quando poi lui l’aveva portata via; eppure, la sua prigionia nella Città di Ghiaccio le aveva arrecato molte altre ore come quelle, e bellezze e meraviglie ignote ai mortali. Alvarlan, il suo mentore, aveva inviato il proprio spirito a cercarla, ed era lui stesso perplesso di fronte a ciò che aveva scoperto. Gli era costato uno sforzo di volontà rivelare a Sir Kendrick delle Isole dove lei si trovasse, quantunque questi si fosse impegnato ad aiutare a liberarla.

N’Kuma l’Uccisore di Leoni, Béla del Confine Orientale, Karina del Lontano Ovest, Lady Aurelia, Olav Maestro d’Arpa: nessuno di costoro era stato presente quando ciò era accaduto.


Il ghiacciaio (un nome errato per qualcosa che poteva non aver paragone in tutto il Sistema Solare) sorgeva dalla pianura, improvviso come un muro. Stando fermi là, i tre non potevano più scorgere le sue vette, ma potevano vedere che il pendio, che si curvava ripido in alto fino ad una cima filigranata, non era liscio. Le ombre giacevano azzurre in innumerevoli piccoli crateri, ed il sole era salito abbastanza in alto da crearle. Un giorno su Iapetus equivaleva a settantanove giorni terrestri. La domanda di Danzig gracchiò nei loro microfoni.

— Adesso siete soddisfatti? Volete tornare prima che un’altra valanga vi investa?

— Non succederà — rispose Scobie. — Noi non siamo un veicolo, e la configurazione locale è evidentemente stabile da secoli. Inoltre, che senso ha una spedizione umana se nessuno svolge indagini?

— Vedo se riesco ad arrampicarmi — si offrì Garcilaso.

— No, aspetta — ordinò Scobie. — Io ho una certa esperienza in fatto di montagne e di banchi di neve, per quel che può valere qui. Lascia a me il compito di trovare prima una strada adeguata.

— Volete andare su quella roba, tutti quanti? — esplose Danzig. — Avete perso completamente la testa?

— Mark, ti avverto di nuovo. — Le labbra e le sopracciglia di Scobie si serrarono. — Se non tieni le tue emozioni sotto controllo ti taglieremo fuori. Procederemo per un tratto, se io decido che la via è sicura.

Si mise a camminare avanti a indietro, nella maniera fluttuante causata dalla riduzione di peso, mentre esaminava il ghiacciaio: era facile vedere strati e blocchi di differenti sostanze, simili a differenti conci disposti vicino ad una dimora elfica… quando non erano tanto enormi da denotare l’opera di un gigante. I piccoli crateri potevano essere postazioni di sentinelle lungo questi più bassi bastioni delle difese della Città…

Garcilaso, il più vivace fra gli uomini, rimase immobile, lasciando vagare il suo sguardo sul panorama; la Broberg s’inginocchiò ad esaminare il suolo, ma anche i suoi occhi continuarono a fissarsi verso l’alto.

— Colin, vieni qui, per favore — chiamò infine. — Credo di aver fatto una scoperta.

Scobie le si avvicinò, e, nel rialzarsi, la donna raccolse una manciata di piccole particelle nere dalle rocce su cui si trovava e le lasciò filtrare attraverso il guanto.

— Sospetto sia questo il motivo per cui la linea di confine del ghiaccio è così brusca — gli disse.

— Cos’è — chiese Danzig, da lontano, ma non ottenne risposta.

— Ho notato la presenza di una quantià sempre maggiore di polvere man mano che procedevamo — proseguì la Broberg. — Se essa andasse a cadere su tratti e spuntoni isolati di sostanza gelata e li coprisse, assorbirebbe energia solare fino a farli squagliare, o, per lo meno, sublimare. Perfino le molecole d’acqua fuggirebbero nello spazio, con una gravità tanto bassa. La massa principale del ghiaccio era troppo vasta per un fenomeno del genere, la solita legge del quadrato del cubo: in quel caso, i granelli di sabbia si sarebbero semplicemente aperti la strada per un breve tratto per poi venire coperti quando il materiale circostante fosse crollato loro addosso, ed il processo si sarebbe arrestato.

— Hmm… — Scobie sollevò una mano per grattarsi il mento, incontrò invece l’elmetto ed abbozzò un sogghigno a proprie spese. — Mi sembra ragionevole. Ma… da dove è venuta tutta questa polvere, ed anche il ghiaccio, già che ci siamo?

— Io credo… — la voce della donna si abbassò fino ad essere appena udibile, ed il suo sguardo si spostò nella stessa direzione di quello di Garcilaso, mentre quello di Scobie rimase fisso sul suo volto, profilato contro le stelle. — Io credo che questo confermi la tua ipotesi della cometa, Colin. Una cometa ha colpito Iapetus. È venuta dalla direzione da cui è venuta perché si è avvicinata talmente a Saturno da essere costretta a descrivere una curva a spillone intorno al pianeta. Era enorme, ed il suo ghiaccio ha ricoperto quasi un intero emisfero, nonostante una quantità molto maggiore si sia vaporizzata e sia andata perduta. La polvere proviene in parte di là, ed in parte è stata generata dall’impatto.

— La tua teoria, Jean! — esclamò Colin, abbracciando le sue spalle chiuse nella tuta. Io non sono stato il primo a proporre l’idea della cometa, ma tu sei la prima a fornire dei dettagli di prova.

Jean non parve notare l’osservazione se non per ciò che mormorò ancora:

— La polvere può spiegare anche l’erosione che ha determinato quelle deliziose formazioni. Ha provocato una diversa fusione e sublimazione della superficie, a seconda dei disegni secondo cui è caduta e dei miscugli di ghiaccio cui si è aggrappata prima di essere lavata via o incorporata. I crateri, quelli più piccoli ed anche quelli più grandi che abbiamo osservato dall’alto, hanno un’origine separata ma simile. Meteoriti…

— Aspetta un po’ — obiettò Scobie. — Qualsiasi meteorite di dimensioni rispettabili emanerebbe tanta energia da far fondere la maggior parte dell’intera distesa.

— Lo so. Il che dimostra che la collisione con la cometa è una cosa recente, avvenuta meno di mille anni fa, altrimenti oggi noi non vedremmo questo miracolo. Nulla di grosso ha più colpito Iapetus da allora. Sto pensando a piccole pietre, sabbia cosmica, che abbiano orbitato intorno a Saturno e quindi abbiano colpito con bassa velocità relativa. Per lo più hanno creato semplici ammaccature nel ghiaccio. Rimanendo là, però, raccolgono calore solare perché sono scure e lo irradiano a loro volta fondendo le loro immediate vicinanze fino a sprofondare. Le cavità che esse lasciano riflettono radiazioni incidenti da un lato all’altro e così continuano ad ingrandirsi: è l’effetto marmitta. Ed ancora, siccome ghiacci diversi hanno proprietà differenti, non si ottengono crateri perfettamente lisci, bensì quelle fantastiche coppe che abbiamo visto prima di atterrare.

— Per Dio! — esplose Scobie. — Sei un genio!

Elmetto contro elmetto, Jean sorrise e disse:

— No, è ovvio, una volta che lo si è visto di persona. — Rimase quieta per un po’, mentre si tenevano abbracciati. — L’intuito scientifico è una cosa buffa, lo ammetto — proseguì infine. — Mentre consideravo il problema, non ero quasi conscia della mia mente logica. Quello che ho pensato era… La Città di Ghiaccio, fatta con pietre di stella da ciò che un dio aveva invocato dal cielo…

— Gesù Maria! — Garcilaso ruotò su se stesso per fissarli.

— Cercheremo una conferma — aggiunse Scobie, con voce incerta, lasciando andare la donna. — A quel grosso cratere che abbiamo avvistato poco più avanti. La superficie sembra sicura a camminarci sopra.

— Ho chiamato quel cratere la Sala da Ballo del Re Elfo — rifletté la Broberg, come se le stesse tornando in mente un sogno.

— State attenti! — risuonò la risata di Garcilaso. — Laggiù c’è un gran numero di incantesimi. Il Re è soltanto un erede: sono stati i giganti a costruire queste mura, per gli dèi.

— Ebbene, devo trovare una via per entrare, non ti pare? — replicò Scobie.

— Davvero — dice Alvarlan. — Da questo punto in poi non ti posso più guidare. Il mio spirito può vedere soltanto attraverso occhi mortali, ed io ti posso fornire soltanto i miei consigli, fino a che raggiungeremo il cancello.

— State sognando ad occhi aperti quella vostra fiaba? — gridò Danzig. — Tornate indietro, prima di farvi uccidere tutti!

— La vuoi smettere? — ringhiò Scobie. — Non è altro che un modo di parlare che usiamo tra noi. Se non riesci a capirlo, vuol dire che sei meno capace di noi di usare il cervello.

— Mi vuoi ascoltare? Non ho detto che siete pazzi: non avete allucinazioni o cose del genere, dico solo che avete indirizzato le vostre fantasie verso un luogo di questo tipo e che ora la realtà le ha rinforzate al punto che siete sotto un impulso che non riuscite a riconoscere. Vi spingereste allo sbaraglio in modo così incosciente in qualsiasi altro luogo dell’universo? Riflettete!

— Questo fa traboccare il vaso. Riprenderemo il contatto dopo averti dato un po’ di tempo per migliorare le tue maniere. — Scobie chiuse il suo interruttore radio principale. I circuiti che rimasero in funzione servivano per la comunicazione a distanza ravvicinata ma non avevano la forza di raggiungere i satelliti orbitali. I suoi compagni lo imitarono, quindi si girarono tutti e tre verso l’imponente massa che avevano dinnanzi.

— Mi puoi aiutare a trovare la Principessa, quando saremo dentro, Avarlan — dice Kendrick.

— Lo posso e lo farò — promette il mago.

— Ti aspetto, o più risoluto fra i miei amanti — dice sommessamente Ricia.

Solo, nel modulo spaziale, Danzig si disse, quasi singhiozzando:

— Oh, sia dannato in eterno quel gioco! — Ma il suono di quelle parole cadde nel vuoto.

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