TRADIMENTI

«Sul pianeta O non scoppia una guerra da cinquemila anni,» lesse, «e Gethen non ha mai conosciuto guerre.» Interruppe la lettura, per far riposare gli occhi e anche perché stava cercando di abituarsi a leggere lentamente, a non divorare le frasi a bocconi interi come Tikuli ingurgitava il cibo. «Non ha mai conosciuto guerre»: nella sua mente quelle parole si stagliavano chiare e distinte, circondate da un alone di incredulità infinita, oscura e soffice in cui poi affondavano. Ma che mondo può essere, quello senza guerre? Sarebbe un mondo vero. La pace era la vita vera, una vita di lavoro e sapere ed educazione dei figli al lavoro e al sapere. La guerra, che divorava lavoro, sapere e figli, era la negazione della realtà. Ma la mia gente, pensò, sa soltanto negare. Nati nelle tenebre fitte di un potere mal utilizzato, releghiamo la pace fuori dal nostro mondo, come un faro irraggiungibile. Sappiamo soltanto combattere. Quel po' di pace che qualcuno di noi riesce a trovare in vita sua è soltanto la negazione della guerra in corso, un fantasma di un fantasma, un'incredulità al quadrato.

Così, mentre le ombre delle nuvole scivolavano sugli acquitrini e sulla pagina del libro che teneva aperto in grembo, si lasciò sfuggire un sospiro e chiuse gli occhi, immersa nelle sue riflessioni. «Sono una bugiarda.» Poi riaprì gli occhi e lesse ancora su quegli altri mondi, su quelle realtà lontane.

Tikuli, che dormiva acciambellato attorno alla coda nella scialba luce del sole, sospirò quasi la stesse imitando, e si grattò una pulce nel sogno. Gubu era a caccia nel canneto. Non riusciva a vederlo, ma ogni tanto il pennacchio di una canna tremolava, e a un certo punto un gallinaccio di palude spiccò il volo, chiocciando indignato.

Immersa nella descrizione dei bizzarri costumi sociali degli Ithsh, non vide Wada finché questi non entrò dal cancelletto. «Oh, sei già qua,» gli disse, còlta di sorpresa, sentendosi impreparata, incompetente, vecchia come sempre si sentiva in presenza di altre persone. Quand'era sola, si sentiva vecchia soltanto quando era sfinita o ammalata. Forse vivere da sola era la cosa migliore da fare, dopo tutto. «Entra pure,» disse, alzandosi. Lasciò cadere il libro, e quando lo raccolse sentì la crocchia di capelli che si scioglieva. «Allora, prendo la borsa e vado.»

«Non c'è fretta,» disse il giovane con la sua voce dolce. «Eyid deve ancora arrivare.»

Molto gentile da parte tua ricordarmi che non mi devo affrettare a lasciare casa mia, pensò Yoss, ma non disse nulla, obbedendo all'egoismo intollerabile e delizioso del ragazzo. Entrò a prendere la sua borsa per la spesa, si sistemò i capelli, si legò una sciarpa in testa, poi tornò sotto il piccolo porticato. Wada s'era accomodato sulla sua seggiola, ma balzò in piedi appena lei uscì. Era un ragazzo timido, il più gentile tra i due amanti. «Divertiti,» gli disse con un sorriso, capendo che lo stava mettendo in imbarazzo. «Io torno tra un paio d'ore… prima del tramonto.» Andò al cancelletto, uscì e si avviò per la strada da cui era venuto Wada, lungo il sentiero che portava alla passerella di legno che serpeggiava attraverso le paludi fino al villaggio.

Non avrebbe incontrato Eyid per strada. La ragazza sarebbe arrivata da nord, per un sentiero di palude, dopo aver lasciato il villaggio a un'ora diversa e prendendo una direzione differente da quella di Wada, in modo che nessuno facesse caso al fatto che per qualche ora alla settimana i due giovani sparivano simultaneamente. Erano innamorati alla follia, si amavano da tre anni, e sarebbero già stati conviventi da tempo se il padre di Wada e il fratello del padre di Eyid non fossero stati in lite su un pezzo riassegnato di terra della Corporazione, innescando una faida tra le famiglie che finora non era sfociata in uno spargimento di sangue ma rendeva impensabile un rapporto di parentela. La terra era preziosa, e le famiglie, per quanto povere, aspiravano entrambe alla guida del villaggio. Si trattava di un dissidio insanabile, a cui prendeva parte l'intero villaggio. Eyid e Wada non avevano altro posto dove andare, non avevano i mezzi per sopravvivere in una città, non godevano di rapporti tribali per farsi accogliere in altri villaggi. La loro passione era intrappolata negli odi dei vecchi. Yoss li aveva sorpresi, ormai un anno prima, l'uno nelle braccia dell'altra sul terreno gelido di un isolotto nella palude, ci era quasi inciampata sopra, come una volta era inciampata in una coppia di cerbiatti di palude che si tenevano stretti nel loro nido d'erba, dove li aveva lasciati la mamma. Questa coppia le era parsa altrettanto spaventata, erano tutti e due belli e vulnerabili come quei cerbiatti, e l'avevano implorata "di non dire nulla" con tanta umiltà che non aveva potuto fare altrimenti. Stavano tremando per il freddo, le gambe nude di Eyid erano tutte infangate, e si tenevano abbracciati come bambini. «Venite a casa mia,» gli intimò con voce severa. «Per carità!» Poi se ne andò. La seguirono timidi timidi. «Torno tra un'oretta,» gli disse appena li ebbe fatti entrare nell'unica stanza, con la rientranza per il letto proprio accanto al camino. «Non sporcate di fango niente!»

Quella volta s'era aggirata per i viottoli a far la guardia, nel caso qualcuno li stesse cercando. Adesso, mentre i "cerbiatti" passavano la loro ora di piacere a casa sua, andava quasi sempre al villaggio.

Erano troppo ignoranti per pensare a un modo di ringraziarla. Wada tagliava la torba, perciò le avrebbe potuto rifornire il camino senza che sospettassero di nulla, eppure non le avevano mai lasciato nemmeno un fiorellino, anche se ogni volta rifacevano il letto alla perfezione. Forse non le erano nemmeno molto grati. E perché mai? Gli dava soltanto quel che gli era dovuto: un letto, un'ora di piacere, un momento di pace. Non era colpa loro, o merito suo, se non c'era nessun altro che glieli offriva.

La sua capatina di quel giorno la portò al negozio dello zio di Eyid. Era il pasticcere del villaggio. Tutta la sacra astinenza che s'era ripromessa quand'era arrivata due anni prima, quell'unica ciotola di grano scondito, quel sorso d'acqua pura, era stata dimenticata in un batter d'occhio. La dieta a base di cereali le aveva fatto venire la diarrea, e l'acqua di palude era imbevibile. Mangiava tutta la verdura fresca che poteva comprare o coltivare, beveva vino o acqua minerale o succhi di frutta provenienti dalla città, e conservava un'ampia scorta di dolci, frutta essiccata, uva passa, croccanti, persino le tortine che facevano la madre e le zie di Eyid, dei discoidi obesi spalmati di pasta di noci, roba secca, untuosa, insapore eppure stranamente appetibile. Ne comprò una sporta piena, oltre a una ruota di croccante, scambiando qualche pettegolezzo con le zie, delle donnette scure con gli occhi sfuggenti che la sera prima erano state alla veglia del vecchio Uad e adesso ne volevano discutere. «Quella gente,» cioè la famiglia di Wada, indicata con un'occhiataccia, una scrollata di spalle e uno sbuffo, «s'è comportata male come al solito, si sono ubriacati, hanno scatenato delle risse, non hanno fatto che vantarsi, e hanno dato di stomaco dappertutto, da tangheri avidi e straccioni quali sono.» Quando si fermò all'edicola per prendere un giornale (altro voto da tempo spezzato, dopo che aveva cominciato col leggere solo l'Arkamye per impararlo a memoria), ci trovò la madre di Wada, dalla quale apprese come «quella gente», cioè la famiglia di Eyid, non aveva fatto altro che vantarsi e ubriacarsi e vomitare dappertutto alla veglia della sera prima. Non si limitò ad ascoltare, ma domandò particolari e sollecitò pettegolezzi. L'adorava.

Che sciocca, pensò mentre si avviava a passo lento verso casa sulla passerella, che sciocca che sono stata a pensare di poter bere solo acqua e stare in silenzio! Non riuscirò mai a scordare nulla, mai nulla. Non sarò mai libera, non sarò mai degna della libertà. Persino la vecchiaia non mi induce a lasciar perdere. Persino la perdita di Safnan non mi spinge a lasciar perdere.

Si pararono davanti ai Cinque Eserciti. Levando la spada, Enar disse a Kamye: Mio signore, ho la tua morte nelle mani! Allora Kamye rispose: Fratello, le tue mani stanno stringendo soltanto la tua morte.

Li conosceva già quei versi. Tutti li conoscevano. E così, Enar lasciò cadere la spada, perché era un eroe e un sant'uomo, il fratello minore del Signore. Ma io non posso lasciar andare la mia morte. La stringerò fino alla fine, la terrò in gran conto, l'odierò, la mangerò, la berrò, le presterò ascolto, le cederò il mio letto, la compiangerò, tutto tranne lasciarla andare.

Uscì dalle sue riflessioni per ammirare il pomeriggio sulle paludi: il cielo, riflesso in una lontana curva di canale, era d'un azzurro fosco privo di nubi e la luce del sole splendeva dorata sopra le spianate bigie dei canneti e tra gli steli delle canne. Soffiava il raro vento dolce d'occidente. Una giornata perfetta. Com'è bello il mondo, com'è bello il mondo! Una spada in mano mia, rivolta contro di me. O Signore, perché crei tanta bellezza per ucciderci?

Proseguì con passo stanco, stringendosi il nodo della sciarpa con uno strattone nervoso. Di questo passo, tra poco si sarebbe ritrovata a girovagare tra gli acquitrini gridando a squarciagola, come Abberkam.

Ed eccolo, quando parli del lupo: eccolo che arrancava con quella sua andatura da cieco, come se riuscisse a vedere soltanto i suoi pensieri, e percuoteva la strada con il grosso bastone, manco stesse ammazzando un serpente. I lunghi capelli grigi gli svolazzavano attorno alla faccia. Non stava gridando, gridava soltanto di notte, e ormai nemmeno per molto, però parlava, gli vedeva le labbra che si muovevano. Poi lui la notò, e serrò la bocca, e si ricompose, guardingo come un animale selvatico. Si andarono incontro sulla stretta passerella, e non c'erano altri esseri umani in quel deserto di canne e melma e acqua e vento.

«Buona sera, Capo Abberkam,» disse Yoss, quando furono a pochi passi. Che omone che era, non riusciva mai a capacitarsi di quanto fosse alto e largo e pesante fin quando non lo rivedeva, la pelle scura ancora liscia come quella di un giovincello, anche se la testa non stava più tanto eretta e i capelli erano grigi e ribelli. E quel grosso naso a uncino e gli occhi diffidenti, ciechi. Abberkam borbottò una specie di saluto, rallentando appena l'andatura.

Oggi Yoss si sentiva incompresa. Era nauseata dai propri pensieri e dolori e manchevolezze. Si fermò, di modo che lui si dovesse arrestarsi per evitare di sbatterle contro, e disse, «Eri alla veglia, ieri sera?»

Lui abbassò gli occhi sulla donna. A Yoss parve che la stesse mettendo a fuoco. Poi alla fine Abberkam domandò, «Veglia?»

«Ieri sera hanno sepolto il vecchio Uad. Tutti gli uomini si sono ubriacati, ed è una bella fortuna che non sia definitivamente scoppiata la faida.»

«Faida?» ripeté lui col suo vocione profondo.

Forse non era più capace di concentrarsi, eppure Yoss era indotta lo stesso a parlargli, ad arrivare a lui. «I Dewi e i Kamanner. Stanno litigando su quell'isola arabile poco a nord del villaggio. E quei due poveri ragazzi vorrebbero essere compagni, mentre i loro padri li minacciano di morte se soltanto si guardano. Che idiozia! Perché non dividono l'isola e lasciano che i loro figli si congiungano e che se la spartiscano? Temo che uno di questi giorni scorrerà il sangue.»

«Il sangue,» disse il Capo, facendo eco un'altra volta come un demente, e poi, con quella vociona profonda, la voce che lei aveva sentito gridare per lo strazio, di notte nelle paludi, disse lentamente, «Quegli uomini. Quei bottegai. Hanno anime da possidenti. Non ammazzeranno. Ma non spartiranno nemmeno. Se si tratta di proprietà, non lasceranno correre. Mai.»

Lei rivide la spada levata.

«Ah,» fece, rabbrividendo. «Allora i ragazzi dovranno aspettare… che i vecchi muoiano…»

«Troppo tardi,» disse il Capo. La guardò negli occhi per un istante, astuto e strano, poi si scostò i capelli con un gesto impaziente, grugnì qualcosa tipo arrivederci e partì così di colpo che Yoss quasi si dovette accucciare per lasciargli strada. Ecco come avanza un Capo, pensò sarcastica mentre riprendeva il cammino. Grosso, largo, occupa spazio, calpesta forte la terra. E così, così avanza una vecchina, curva, curva.

Alle sue spalle sentì uno strano rumore – spari, pensò subito, perché gli usi e costumi cittadini ti rimangono scolpiti nei nervi – e si voltò di scatto. Abberkam s'era fermato, e adesso stava tossendo con espettorazioni esplosive, tremende, la sua impalcatura possente ingobbita sugli spasmi che quasi lo mettevano in ginocchio. Yoss conosceva quella tosse. L'Ekumene doveva avere delle medicine adatte, ma lei aveva lasciato la città prima che arrivassero. Si portò accanto ad Abberkam, e quando la crisi passò e lui rimase lì boccheggiante, terreo in viso, gli disse, «È berlot. Lo stai superando o lo stai prendendo?»

Lui scrollò il capo.

Lei attese.

Mentre attendeva pensò, Che m'importa se è malato o meno? A lui importa, forse? È venuto qui per morire. L'ho sentito ululare nelle paludi al buio, l'inverno scorso. Ululare per l'agonia. Divorato dalla vergogna, come un uomo con un cancro che l'ha già divorato tutto, eppure non riesce a morire.

«Tutto a posto,» rispose il Capo, con voce roca, irosa, desideroso soltanto che lei se ne andasse, perciò Yoss fece un cenno col capo e se ne andò. Lascialo morire. Come fa a voler vivere ancora sapendo quel che ha perso, il potere, l'onore, e con quel che ha fatto? Ha mentito, tradito i suoi sostenitori, ha commesso appropriazione indebita. Il perfetto politicante. Il gran Capo Abberkam, eroe della Liberazione, capo del Partito Mondiale, che ha distrutto il Partito Mondiale per avidità e follia.

Si guardò alle spalle una volta soltanto. Abberkam si stava muovendo molto piano, o forse s'era addirittura fermato, non ne era ben sicura. Lei proseguì, prendendo a destra dove la passerella si biforcava, scendendo nel sentiero di palude che portava alla sua casupola.

Trecento anni prima questi acquitrini erano stati una vasta valle agricola verdeggiante, una delle prime a essere irrigate e coltivate dalla Compagnia delle Piantagioni Agricole quando aveva portato i suoi schiavi da Werel alla colonia su Yeowe. Troppo ben irrigata, troppo ben coltivata: i fertilizzanti chimici e i sali del terreno s'erano accumulati fino a rendere impossibile la crescita di alcunché, di modo che i possidenti s'erano trasferiti altrove a procacciarsi profitti. Qua e là le sponde dei canali d'irrigazione erano smottate, e le acque del fiume erano tornate a scorrere liberamente, raccogliendosi in laghetti e defluendo in anse, portandosi dietro pian piano anche il terreno. Adesso lì crescevano le canne, chilometri e chilometri di canneto che si curvava al vento, all'ombra delle nubi e delle ali dei trampolieri. Qua e là, su un'isola di roccia più solida, restavano alcuni campi e un villaggio di schiavi, qualche mezzadro, gente inutile su una terra inutile. La libertà della desolazione. E per tutte le paludi c'erano case disabitate.

Man mano che invecchiava, la popolazione di Werel e Yeowe si riduceva al silenzio, come gli raccomandava la loro religione. Quando i loro figli erano cresciuti, quando avevano terminato la loro opera di padrone di casa e cittadino, quando l'anima si fortificava con l'indebolirsi del corpo, si lasciavano alle spalle la vita e tornavano a mani vuote in posti solitari. Persino nelle Piantagioni i Boss avevano lasciato liberi gli schiavi di andarsene nel deserto, affrancati. Qui al nord, i liberti delle città arrivati nelle paludi vivevano come reclusi in case abbandonate. Adesso, dopo la Liberazione, arrivavano anche le donne.

Alcune case erano fatiscenti, e ogni facitore d'anima le poteva reclamare. Molte, come la capanna di canne intrecciate di Yoss, erano proprietà di abitanti di villaggio che le conservavano per darle a un liberto eremita come adempimento religioso, come modo per arricchire la propria anima. A Yoss non dispiaceva sapere di essere una fonte di profitto spirituale per il suo padrone di casa, un individuo avido il cui conto in sospeso con la Provvidenza sarebbe stato altrimenti in notevole passivo. Le piaceva sentirsi utile. Lo prendeva per un altro segno della sua incapacità a lasciar andare la sua presa sul mondo, come le aveva comandato il Signore Iddio Kamye. Non sei più utile, le aveva detto in cento modi, ancora e ancora, sin da quando aveva compiuto sessant'anni, ma lei non lo stava ad ascoltare. Aveva lasciato il mondo rumoroso per venire nelle paludi, ma dimenticava il mondo chiacchierando e spettegolando e cantando e gridando nelle proprie orecchie. Non voleva ascoltare la voce sommessa del Signore.

Quando rientrò, Eyid e Wada se n'erano già andati. Il letto era rifatto alla perfezione, e il volpino Tikuli ci stava dormendo sopra, rannicchiato attorno alla propria coda. Gubu, il gatto maculato, stava zampettando in giro per casa, chiedendo di essere nutrito. Lo raccolse, carezzandogli la schiena macchiettata di pelo serico mentre lui le strofinava il naso sotto l'orecchio, facendo quel suo insistente ron-ron-ron di piacere e affetto. Poi lo nutrì. Tikuli non ci fece caso, il che era strano. Tikuli stava dormendo troppo. Yoss si sedette sul letto, grattandogli la base delle rigide orecchie dal pelo rosso. Lui si svegliò e sbadigliò e la guardò con quei dolci occhi gialli, agitando il pennacchio rosso della coda. «Non hai fame?» gli chiese. Mangio solo per farti piacere, rispose Tikuli, scendendo dal letto un po' anchilosato. «Oh, Tikuli, mi diventi vecchio,» disse Yoss, e quella spada le si agitò in petto. Era stata sua figlia Safnan a regalarle Tikuli, un cucciolotto rosso, un tornado di zampe e coda piumosa… quanto tempo fa? Otto anni. Tanto tempo. Una vita per un volpino.

Più di una vita per Safnan. Più di una vita per i suoi figli, i nipotini di Yoss, Enkamma e Uye.

Finché io sono viva, loro sono morti, pensò Yoss, come sempre. Quando loro saranno vivi, io sarò morta. Sono saliti sulla nave che vola come la luce, sono stati tradotti nella luce. Quando torneranno alla vita, quando scenderanno dall'astronave sul mondo chiamato Hain, saranno passati ottant'anni dal giorno che sono partiti, e io sarò morta, morta da molto tempo. Io sono morta. Mi hanno lasciato, e sono morta. Lascia che vivano, Signore, dolce Signore, lascia che vivano, e che io muoia. Sono venuta qui per morire. Per loro. Non posso, non posso permettere che siano morti per me.

Il freddo naso di Tikuli le sfiorò la mano. Lei lo osservò con attenzione. Il color giallo ambra degli occhi era offuscato, azzurrino. Gli carezzò la testa, lo grattò dietro le orecchie, in silenzio.

Lui mangiò qualche boccone per farle piacere, poi risalì sul letto. Yoss si preparò la cena, zuppa e biscotti riscaldati, e la mangiò, senza nemmeno assaporarla. Lavò i tre piatti che aveva usato, accese il fuoco e ci si sedette accanto cercando di leggere il libro lentamente, mentre Tikuli dormiva sul letto e Gubu stava sdraiato per terra con gli occhi tondi e dorati fissi sul fuoco, facendo le fusa. Una volta sola si sollevò per lanciare il suo grido di battaglia, «Uuuuh!», verso qualche rumore arrivato dagli stagni, e si aggirò per un poco nella capanna, poi tornò a sedersi, a fissare il fuoco facendo le fusa. Più tardi, col fuoco spento e la casa completamente al buio in quell'oscurità priva di stelle, Gubu raggiunse Yoss e Tikuli sul letto caldo, dove quel pomeriggio i giovani amanti avevano trovato la loro gioia breve e feroce.


Si ritrovò a pensare ad Abberkam nei due giorni seguenti, mentre lavorava nell'orticello per ripulirlo in vista dell'inverno. Quando il Capo era arrivato lì la prima volta, gli abitanti del villaggio erano tutti eccitati perché andava a vivere in una casa che apparteneva al capetto locale. Per quanto fosse in disgrazia e disonorato, era pur sempre un uomo assai famoso. Capo eletto degli Heyend, una delle principali tribù di Yeowe, Abberkam era salito alla ribalta durante gli ultimi anni della Guerra di Liberazione, alla testa di un grande movimento che propugnava quella che lui chiamava Libertà Razziale. Persino qualche abitante del villaggio aveva abbracciato il principio cardine del Partito Mondiale: su Yeowe doveva vivere soltanto la sua gente. Niente Wereliani, gli odiati colonizzatori ancestrali, niente Boss e Possidenti. La Guerra aveva posto fine alla schiavitù, e negli ultimi anni i diplomatici dell'Ekumene avevano trattato la fine del dominio economico di Werel sui suoi ex pianeti colonia. I Boss e i Possidenti s'erano ritirati su Werel, il Vecchio Mondo, il primo pianeta venendo dal sole, persino quelli le cui famiglie vivevano su Yeowe da secoli. Erano scappati, e i loro soldati erano stati ricacciati sulla loro scia. Come diceva il Partito Mondiale, non dovevano tornare mai più. Né come mercanti né come visitatori, non avrebbero mai più inquinato il suolo e l'anima di Yeowe. E così tutti gli altri stranieri, tutte le altre Potenze. Gli Alieni dell'Ekumene avevano aiutato Yeowe a liberarsi, e adesso se ne dovevano andare pure loro. Qui non c'era posto per quella gente. «Questo è il nostro mondo. Questo è il mondo libero. Qui plasmeremo le nostre anime a immagine e somiglianza di Kamye lo Spadaccino,» aveva detto Abberkam a più riprese, e quell'immagine, la scimitarra, era diventata il simbolo del Partito Mondiale.

Ed era stato versato del sangue. Dalla rivolta di Nadami in poi, trent'anni di lotte, ribellioni, ritorsioni, metà della sua vita, e i conflitti erano proseguiti persino dopo la Liberazione, dopo che tutti i Wereliani se n'erano andati. Sempre, sempre, i giovani erano pronti a correre ad ammazzare chiunque i vecchi gli dicessero di ammazzare, a uccidersi tra di loro, a uccidere le donne, gli anziani, i bambini, sempre c'era una guerra da combattere in nome di Pace, Libertà, Giustizia, in nome del Signore. Le tribù appena liberate combattevano per la terra, i capi cittadini combattevano per il potere. Tutto quel che Yoss aveva creato nella sua vita di educatrice nella capitale era andato in pezzi non solo durante la Guerra di Liberazione ma anche dopo, mentre la città si disintegrava in una guerra di difesa dopo l'altra.

A suo parere, volendo essere giusti, Abberkam, alla guida del Partito Mondiale, nonostante brandisse la spada di Kamye, aveva tentato di scongiurare la guerra, e in parte c'era riuscito. Le sue simpatie andavano all'acquisizione del potere tramite politica e persuasione, arti in cui era maestro. Era arrivato molto vicino al successo pieno. La scimitarra era ovunque, le adunate che applaudivano i suoi discorsi erano immense. ABBERKAM E LIBERAZIONE RAZZIALE! proclamavano gli enormi manifesti che tappezzavano le strade delle città. Lui era certo di vincere le prime elezioni libere mai tenute su Yeowe, di diventare Capo del Consiglio Mondiale. E poi, partendo dal poco o nulla, le voci. Le defezioni. Il suicidio del figlio. Le accuse della madre del figlio, che lo tacciava di depravazione e delle peggiori lussurie. La prova che s'era appropriato di grandi somme di denaro donate al suo partito per soccorrere i distretti impoveriti dal ritiro della capitale wereliana. La rivelazione del piano segreto per assassinare il Nunzio dell'Ekumene e farne poi ricadere la colpa su Demeye, vecchio amico e sostenitore di Abberkam… Tutto ciò l'aveva portato alla rovina. Un capo poteva anche gratificarsi sessualmente, fare un pessimo utilizzo del potere, arricchirsi alle spalle della sua gente ed essere ammirato per questo, ma un capo che tradiva il suo compagno non poteva essere perdonato. Secondo Yoss, era il codice dello schiavo.

Le schiere dei suoi sostenitori gli si erano rivoltate contro, attaccando la vecchia residenza del direttore della Compagnia delle Piantagioni Agricole di Yeowe, di cui Abberkam s'era impadronito. I sostenitori dell'Ekumene s'erano uniti alle forze ancora a lui fedeli per difenderlo e riportare l'ordine nella capitale. Dopo giorni di battaglie nelle strade, con centinaia di persone uccise negli scontri e altre migliaia nei tumulti in tutto il continente, Abberkam s'era arreso. L'Ekumene sosteneva il governo provvisorio per la dichiarazione di un'amnistia. I loro uomini l'avevano accompagnato nelle strade insanguinate e bombardate, nel silenzio più assoluto. La gente stava a guardare, la gente che s'era fidata di lui, la gente che un tempo lo riveriva, la gente che l'aveva odiato, lo guardò passare in silenzio, scortato dagli stranieri, gli Alieni che aveva cercato di cacciare dal suo mondo.

Ne aveva già letto sul giornale. Allora Yoss abitava nelle paludi da più di un anno. «Fategliela pagare,» aveva pensato, e poco altro. Non poteva sapere se gli Alieni erano un alleato sincero oppure solo una nuova specie di possidenti mascherati, ma adorava assistere alla rovina dei capi. I Boss wereliani, i capi tribali tanto pieni di sé o i demagoghi sbraitanti, che mordano pure la polvere! Lei ne aveva già mangiata abbastanza in vita sua.

Quando, qualche mese più tardi, al villaggio le avevano detto che Abberkam stava arrivare nelle paludi come confinato, come facitore d'anima, Yoss era rimasta interdetta, e per un attimo vergognosa di aver dato per scontato che le chiacchiere di quell'uomo fossero solo vuota retorica. Era un religioso, allora? Con tutta la sua lussuria, le orge, i furti, le trame di potere, gli assassinii? No! Da quando aveva perso denaro e potere, Abberkam era rimasto alla ribalta, dando spettacolo della propria povertà e devozione. Era assolutamente privo di vergogna. Yoss era stupita per l'acredine della propria indignazione. La prima volta che l'aveva incontrato le era venuta voglia di sputare su quei piedoni dalle grosse dita, calzati di sandali, che era tutto quel che poteva vedere di lui, visto che si rifiutava di guardarlo in faccia.

Ma poi, durante l'inverno, aveva sentito gli ululati tra gli acquitrini, in piena notte, nel vento gelido. Tikuli e Gubu avevano drizzato un orecchio, senza farsi spaventare da quel suono orripilante. Così, dopo un minuto, aveva riconosciuto una voce umana, un uomo che gridava a squarciagola – ubriaco? folle? – che ululava implorante, e si era dovuta alzare per andare da lui, nonostante il terrore che provava, ma lui non stava implorando aiuto da mano umana. «Signore, mio Signore, Kamye!» gridava, e guardando fuori dalla porta l'aveva visto sulla passerella, un'ombra contro le pallide nubi notturne, che camminava strappandosi i capelli e gridando come una bestia, come un'anima in pena.

Dopo quella notte aveva smesso di giudicarlo. Loro due erano uguali. La volta seguente che l'aveva incontrato, l'aveva guardato in faccia rivolgendogli la parola, e costringendolo a parlarle.

Non capitava spesso. Lui viveva assolutamente appartato. Nessuno attraversava le paludi per vederlo. Spesso la gente del villaggio arricchiva la propria anima dando a Yoss del cibo, le eccedenze del raccolto, gli avanzi, certe volte, nelle feste comandate, una pietanza cucinata apposta per lei, ma non vedeva mai nessuno portare qualcosa alla casa di Abberkam. Forse gli avevano già fatto offerte che lui era stato troppo orgoglioso per accettare. Forse avevano paura di offrire.

Portò allo scoperto le radici con la povera vanga dal manico corto che le aveva regalato Em Dewi, e ripensò ad Abberkam che ululava, e a come tossiva. Safnan era quasi morta di berlot, quando aveva quattro anni. Yoss aveva sentito quella tosse tremenda per settimane. Che Abberkam fosse andato al villaggio in cerca di medicine, l'altro giorno? C'era arrivato, o era tornato indietro?

Si mise addosso lo scialle, perché il vento s'era di nuovo raffreddato, stava arrivando l'autunno. Poi andò alla passerella e prese a destra.

La casa di Abberkam era tutta di legno, posata su una zattera di tronchi affondata nell'acqua torbacea della palude. Erano case molto vecchie, risalivano a duecento anni prima e anche più, quando nella vallata crescevano gli alberi. Era stata una casa colonica, molto più grande della sua capanna, un posto scuro e vasto col tetto bisognoso di riparazioni, qualche finestra sbarrata, le assi del porticato allentate mentre le calpestava. Disse il suo nome, lo ripeté più forte. Il vento fischiava tra le canne. Bussò, attese, spinse la porta pesante. Dentro era buio. Si trovava in una specie di vestibolo. Lo sentì che parlava nella stanza accanto. «Mai giù nell'accesso, nell'intento, toglilo, toglilo,» stava dicendo la profonda voce rauca, poi tossì. Lei aprì la porta. Per un minuto fu costretta ad aspettare che gli occhi si adattassero all'oscurità prima di riuscire a vedere dove si trovava. Era la vecchia stanza sul davanti della casa. Le finestre erano chiuse e sbarrate, il fuoco spento. Vide una credenza, un tavolo, un divano, ma accanto al camino c'era un letto. Le coperte sfatte erano scivolate per terra, e Abberkam era nudo sul letto, si agitava, vaneggiava per la febbre. «Oh, Signore!» esclamò Yoss. Quell'enorme ammasso nero e lustro di sudore, quei seni e quel ventre con le spirali di peli grigi, quelle braccia possenti e le mani che brancicavano, come faceva ad andargli vicino?

Ci riuscì in qualche modo, diventando meno timida e cauta appena lo scoprì indebolito dalla febbre e poi, quando tornò lucido, obbediente alle sue richieste. Lo ricoprì, gli mise addosso tutte le coperte che aveva e anche un tappetino che trovò per terra in una stanza inutilizzata, accese il fuoco più caldo che le riuscì e dopo un paio d'ore Abberkam cominciò a sudare, il sudore gli sprizzò fino a inzuppare lenzuola e materasso. «Sei esagerato,» lo rimbrottò in piena notte, spingendolo e tirandolo per farlo arrivare barcollante fino al divano decrepito, dove lui si stese avvolto nel tappeto affinché il letto si potesse asciugare al calore del fuoco. Mentre il Capo tossiva e rabbrividiva, Yoss gli preparò un infuso con le erbe che s'era portata dietro, e bevve la tisana rovente assieme a lui. Abberkam s'addormentò di colpo, e dormì come se fosse morto, senza farsi svegliare nemmeno dalla tosse che lo squassava. Anche Yoss s'addormentò di colpo, e quando si svegliò si ritrovò sulle pietre nude del focolare, con la fiamma che stava languendo, il giorno bianco alle finestre.

Abberkam giaceva come una catena montagnosa sotto il divano, che adesso lei notò essere alquanto sporco. Il respiro era rumoroso, ma profondo e regolare. Yoss si alzò un pezzetto per volta, tutta un dolore, accese il fuoco per scaldarsi, poi fece il tè e indagò lo stato della dispensa. Era rifornita dei generi essenziali, evidentemente il Capo si faceva arrivare i viveri da Veo, la più vicina città di una certa importanza. Si preparò una bella colazione, e quando Abberkam si alzò gli fece un altra tisana. La febbre era calata. Adesso il pericolo è l'acqua nei polmoni, pensò. L'avevano messa in guardia sull'acqua nei polmoni ai tempi di Safnan, e quello era un uomo di una sessantina d'anni. Se smetteva di tossire, era un brutto segno. Lo fece mettere seduto. «Tossisci,» gli disse.

«Fa male,» grugnì lui.

«Devi,» insistette lei, e lui tossì, coff, coff.

«Ancora!» gli ordinò, e lui tossì fin quando tutto il corpo fu scosso dai sussulti.

«Ottimo,» disse Yoss. «Adesso dormi.» E lui dormì.

Tikuli e Gubu dovevano morire di fame! Corse a casa, nutrì i suoi animaletti, li carezzò, si cambiò la biancheria, si sedette accanto al fuoco per una mezz'ora mentre Gubu le faceva le fusa sotto l'orecchio. Poi tornò attraverso la palude alla casa del Capo.

Per il crepuscolo il letto era asciutto, così lo rimise sotto le coperte. Si fermò per la notte, ma lo lasciò al mattino, dicendogli, «Torno stasera». Lui non disse una parola, era ancora molto ammalato, indifferente alla situazione sua e della donna.

Il giorno dopo stava nettamente meglio, la tosse era catarrosa e grassa, una buona tosse. Yoss si ricordava perfettamente di quando Safnan aveva finalmente cominciato a tossire una buona tosse. Ogni tanto era sveglio del tutto, e quando gli portò la bottiglia che Yoss aveva riciclato come vaso da notte, lui la prese, dando le spalle alla donna per pisciarci dentro. Pudore, un'ottima dote per un Capo, pensò lei. Era soddisfatta di lui e di se stessa. S'era dimostrata utile. «Stanotte ti lascio. Fa' in modo che le coperte non scivolino giù. Torno domattina,» gli disse, compiaciuta di sé, del suo polso, della sua irresponsabilità.

Quando tornò a casa in quella serata fredda e serena, Tikuli era acciambellato in un angolo della stanza in cui non aveva mai dormito prima. Non mangiò, e quando cercò di smuoverlo, di carezzarlo, di farlo dormire sul letto, lui strisciò di nuovo nel suo angolino. Lasciami stare, le disse, distogliendo lo sguardo, distogliendo gli occhi, e ficcando nella curva della zampa anteriore il naso nero e aguzzo, in quel momento asciutto. Lasciami stare, ripeté paziente, lasciami morire, perché è questo che sto facendo.

Yoss s'addormentò, dal momento che era molto stanca. Gubu rimase in giro per gli acquitrini tutta la notte. Al mattino Tikuli era ancora in quello stato, rannicchiato per terra nel punto in cui non aveva mai dormito prima, e aspettava.

«Devo uscire,» gli disse. «Ma tornerò presto, molto presto. Aspettami, Tikuli.»

Lui non disse niente, guardando altrove con quegli appannati occhi d'ambra. Non era lei che stava aspettando.

Yoss attraversò le paludi di buon passo, col ciglio asciutto, furente, inutile. Abberkam era come l'aveva lasciato. Gli diede una pappina di grano, lo accudì e gli disse, «Non mi posso fermare. Il mio cagnolino è malato, devo tornare».

«Cagnolino,» fece eco l'omone con la sua voce cavernosa.

«Un volpino. Me l'ha regalato mia figlia.» Perché glielo doveva spiegare, perché si scusava? Uscì. Quando rientrò, Tikuli era sempre nel punto in cui l'aveva lasciato. Lei rammendò, cucinò del cibo che pensava potesse andar bene per Abberkam, cercò di leggere il libro sui mondi dell'Ekumene, sul mondo privo di guerre, dove era sempre inverno, dove le persone sono sia maschio che femmina. A metà pomeriggio credette opportuno tornare da Abberkam, e si stava appunto alzando quando si alzò anche Tikuli, che le si avvicinò pian pianino. Yoss tornò a sedersi sulla seggiola e si chinò per raccoglierlo, e lui le mise il muso aguzzo nella mano, sospirò e si adagiò con la testa sulle zampe. Sospirò ancora.

Yoss rimase seduta a piangere per un po', non troppo a lungo, poi si alzò per prendere la vanga da giardino e uscì di casa. Scavò una fossa di fianco al camino di pietra, in un angolo solatio. Quando rientrò e raccolse Tikuli pensò con un brivido di terrore, Non è morto! Era morto, solo che non s'era ancora raffreddato. Il folto vello rossiccio tratteneva il calore del corpo. Lei l'avvolse nella sua sciarpa azzurra e lo prese tra le braccia, lo portò alla sua tomba, sentendo ancora attraverso il tessuto quel fioco tepore, e la lieve rigidità del corpo, come una statua di legno. Riempì la tomba, su cui posò una pietra caduta dal camino. Non riuscì a dire nulla, ma in testa aveva un'immagine simile a una preghiera, Tikuli che correva nel sole.

Portò del cibo sotto il portico per Gubu, che era rimasto fuori tutto il giorno, e infine si avviò lungo la passerella. Era una serata coperta, silenziosa. Le canne s'ergevano grigie, e gli stagni avevano una lucentezza plumbea.

Abberkam era seduto nel letto, certamente più in forma, forse con una riga di febbre, ma niente di serio. Era affamato, ottimo segno. Quando gli portò il vassoio, lui le disse, «Sta bene il cagnolino?»

«No,» rispose Yoss, girando il capo dall'altra parte, poi solo dopo un minuto riuscì ad aggiungere, «È morto».

«È nelle mani del Signore,» disse quella voce profonda e roca, e lei rivide Tikuli che correva nel sole, alla presenza di qualcuno, un essere gentile come la luce del sole.

«Sì,» disse. «Grazie.» Le labbra le tremarono e la gola le si serrò. Continuò a studiare il disegno della sciarpa azzurra, foglie azzurre stampate su un fondo più scuro, cercando di trovare qualcosa da fare. Per il momento tornò a controllare il fuoco, poi ci si sedette accanto. Si sentiva molto stanca.

«Prima che il Signore, Kamye, levasse la spada, faceva il mandriano,» disse Abberkam. «E lo chiamavano il Signore delle Bestie, e Mandria di Cervi, perché quando entrò nella foresta venne tra i cervi, e anche i leoni gli camminavano a fianco tra i cervi, senza far danno. Nessuno aveva paura.»

Parlava a voce tanto bassa che le ci volle un po' per capire che stava citando passi dell'Arkamye.

Yoss mise un altro blocco di torba sul fuoco, poi tornò a sedersi.

«Dimmi da dove vieni, Capo Abberkam,» gli disse.

«La piantagione di Gebba.»

«All'est?»

Lui fece segno di sì con la testa.

«Com'era?»

Il fuoco cominciò a covare sotto la cenere, esalando un fumo pungente. La notte era assolutamente silenziosa. Quando era arrivata dalla città in quei posti, il silenzio l'aveva tenuta sveglia, una notte dopo l'altra.

«Com'era?» ripeté l'omone quasi in un sussurro. Come molta gente della loro razza, l'iride scura gli riempiva l'occhio, eppure Yoss scorse il lampo bianco mentre la scrutava. «Sessant'anni fa,» riprese lui. «Vivevamo nel complesso della piantagione. I canneti. Alcuni di noi ci lavoravano, a tagliar canne e a faticare alla segheria. Quasi tutte le donne, e i bambini. La maggior parte degli uomini e i ragazzi sopra i nove o dieci anni scendevano in miniera. Anche qualche ragazza, le volevano piccoline per lavorare nei pozzi in cui un uomo non si poteva infilare. Io ero grosso. Mi mandarono in miniera che avevo ancora otto anni.»

«E com'era?»

«Buio,» rispose lui. Di nuovo Yoss vide il lampo degli occhi. «Se ci ripenso mi domando come facevamo a vivere, come facevamo a sopravvivere in quel posto. L'aria giù in miniera era tanto densa di polvere da essere nera. Aria nera. La tua lanterna non riusciva a far luce oltre un metro e mezzo. In quasi tutti i punti c'era dell'acqua, che arrivava alle ginocchia di un adulto. In un pozzo aveva preso fuoco una parete di carbone bituminoso, stava bruciando, così tutte le gallerie erano intasate di fumo. Continuavano a lavorarci perché i filoni si trovavano dietro quel carbone. Indossavamo delle maschere, coi filtri, ma non servivano a molto. Respiravamo fumo. Respiravo sempre male, come adesso. Non è solo colpa del berlot. È quel fumo di un tempo. Gli uomini morivano di silicosi. Tutti. A quaranta, quarantacinque anni morivano. I Boss regalavano del denaro alla tua tribù quando un uomo moriva. Una gratifica di morte. Certuni pensavano che ne fosse valsa la pena, mentre morivano.»

«Come hai fatto a uscirne?»

«Mia madre,» rispose Abberkam. «Era la figlia del capo del villaggio. M'ha insegnato lei. Mi ha insegnato religione e libertà.»

Yoss pensò che l'aveva già detto. Era diventata la risposta classica, il mito standard.

«Come? Cosa ti diceva?»

Pausa. «Mi ha insegnato il Verbo,» disse poi Abberkam. «E mi ha detto, "Tu e tuo fratello, voi siete la gente vera, voi siete la gente del Signore, i suoi servitori, i suoi guerrieri, i suoi leoni, soltanto voi. Il Signore Dio Kamye è venuto tra noi dal Verbo Antico, e adesso è nostro, abita tra noi". Ci ha chiamati Abberkam, Lingua del Signore, e Domerkam, Braccio del Signore. Per dire la verità e lottare per essere liberi.»

«Che ne è stato di tuo fratello?» chiese Yoss dopo una breve pausa.

«Ucciso a Nadami,» rispose Abberkam, e poi entrambi rimasero di nuovo in silenzio.

Nadami era stato il primo grande focolaio dell'Insurrezione che aveva portato alla liberazione di Yeowe. Nella piantagione di Nadami gli schiavi e i liberti di città avevano combattuto per la prima volta fianco a fianco contro i possidenti. Se gli schiavi fossero stati capaci di unirsi contro i possidenti, contro le Corporazioni, avrebbero guadagnato la libertà molti anni prima. Ma il movimento di liberazione si era frantumato in continuazione in rivalità tribali, con i capetti che lottavano per il potere nei territori appena liberati, trattando con i Boss per consolidare i propri guadagni. Trent'anni di guerra e distruzione prima che i Wereliani, in numero nettamente inferiore, fossero sconfitti, cacciati dal pianeta, lasciando gli Yeowiani liberi di saltarsi alla gola tra di loro.

«Tuo fratello è stato fortunato,» commentò Yoss.

Poi guardò il Capo, domandandosi come avrebbe preso questa provocazione. Il suo grande volto scuro aveva un'espressione mite alla luce del camino. I capelli grigi e ruvidi erano sfuggiti alla treccia poco tesa in cui li aveva legati per tenerli lontani dagli occhi, e adesso gli coprivano il viso. Abberkam replicò, con voce lenta e dolce, «Era il mio fratello minore. Era Enar del Campo dei Cinque Eserciti».

Oh, allora tu sei Kamye in persona? ribatté Yoss tra sé e sé, turbata, indignata, cinica. Che razza di ego! Però c'era un'altra implicazione. Enar aveva levato la spada per uccidere il fratello maggiore su quel campo di battaglia, per impedirgli di diventare Signore del Mondo. E Kamye gli aveva detto che la spada che brandiva portava la sua stessa morte, che non esiste signoria o libertà in vita, si può soltanto abbandonare la vita, la brama, il desiderio. Allora Enar aveva abbassato la spada per andare nel deserto, nel silenzio, dicendo soltanto, «Fratello, io sono te». E Kamye aveva raccolto quella spada per combattere le Armate della Desolazione, sapendo che non esiste vittoria.

Allora chi era, quell'uomo? Quel bestione? Quel vecchio malato, quel bambino nel buio delle miniere, quel bullette), quel ladro, quel mentitore che era convinto di parlare in nome del Signore?

«Stiamo parlando troppo,» disse Yoss, anche se nessuno dei due aveva aperto bocca negli ultimi cinque minuti. Gli versò una tazza di tè e tolse la teiera dal fuoco, dove l'aveva tenuta a sobbollire per umidificare l'aria, poi raccolse lo scialle. Lui la guardò con la medesima espressione mite, una faccia quasi frastornata.

«Era la libertà che volevo,» disse. «La nostra libertà.»

A lei poco interessava della sua coscienza. «Stai al caldo,» gli disse.

«Esci a quest'ora?»

«Non mi posso perdere sulla passerella.»

Però fu una strana passeggiata, perché era senza lanterna, ed era una notte molto buia. Mentre avanzava a tentoni sulla strada rialzata, ripensò all'aria nera nelle miniere di cui lui le aveva parlato, a un'aria che inghiottiva la luce. Pensò al corpo nero e pesante di Abberkam. Pensò a quante poche volte le era capitato di passeggiare da sola di notte. Quand'era bambina, alla piantagione di Banni, di notte gli schiavi venivano rinchiusi nel complesso. Le donne stavano nei quartieri delle donne e non uscivano mai da sole. Prima della Guerra, quando era arrivata in città come liberta per frequentare la scuola di tirocinio, aveva assaporato la libertà, ma negli anni cupi della Guerra e anche dopo la Liberazione una donna non poteva girare tranquilla per le strade di notte. Nei quartieri operai non c'era polizia, e nemmeno lampioni. I signori della guerra dei vari distretti sguinzagliavano le loro bande a fare razzie. Dovevi stare all'erta persino in pieno giorno, tenerti in mezzo alla folla, essere sempre sicura di avere una via di fuga.

Temeva che le potesse sfuggire il punto in cui doveva svoltare, ma quando ci arrivò ormai gli occhi si erano abituati all'oscurità, e riuscì persino a distinguere la chiazza della sua casa nel paesaggio indistinto dei canneti. Gli Alieni ci vedevano male di notte, da quel che le avevano detto. Avevano degli occhietti piccini, dei puntini col bianco tutto intorno, come un vitellino impaurito. Quegli occhi non le piacevano, anche se amava il colore della loro pelle, un marrone scuro o rossiccio, più caldo di quel marrone bigio della pelle degli schiavi oppure del nero con sfumature bluastre della pellaccia che Abberkam aveva ereditato dal possidente che gli aveva violentato la madre. Pelli cianotiche, come le definivano delicatamente gli Alieni, un adattamento oculare allo spettro luminoso del sole del sistema wereliano.

Gubu le danzò attorno mentre scendeva il sentierino, silenzioso le pizzicò le gambe con la coda. «Attento,» lo rimproverò lei, «altrimenti ti pesto.» Gli era tanto grata che lo raccolse da terra appena entrati in casa. Questa sera non l'aspettava il saluto gioioso e nobile di Tikuli, né stasera né mai. Ron-ron-ron, faceva Gubu sotto il suo orecchio, dammi ascolto, io sono qui, la vita continua, dov'è la cena?


In fin dei conti, il capo aveva una punta di polmonite, così Yoss andò al villaggio per chiamare la clinica di Veo. Quelli mandarono un dottore che disse che non andava malaccio, bastava tenerlo su seduto a tossire, gli infusi d'erbe andavano bene, bastava tenerlo sotto controllo, questo sì, e se ne andò, grazie tante. Così lei trascorse i pomeriggi col Capo. Senza Tikuli la casa sembrava tanto tetra, le giornate di fine autunno parevano tanto fredde, e poi cos'altro aveva da fare? Le piaceva quella casa galleggiante, grande e buia. Non era affatto intenzionata a fare i lavori di casa per il Capo o per qualsiasi uomo che non sapesse badare a se stesso, però ficcanasò, si aggirò nelle stanze che Abberkam non usava o che forse non aveva mai nemmeno visitato. Ne trovò una che le piaceva al piano di sopra, con delle lunghe finestre basse lungo tutta la parete ovest. La spazzò e pulì le finestre con i loro piccoli pannelli verdognoli. Quando lui dormiva, lei saliva a sedersi in quella stanza, su un tappeto sdrucito di lana, il suo unico arredo. Il camino era stato murato con dei mattoni scompagnati, ma il calore arrivava dal fuoco di torba acceso al piano di sotto, e con la schiena contro i mattoni tiepidi e il sole che entrava di sbieco, Yoss se ne stava al calduccio. Lì trovava una pace che sembrava appartenere a quella stanza, alla conformazione dell'aria, a quei vetri verdi e disomogenei. Sedeva lì in silenzio, senza far nulla, soddisfatta, come non le era mai successo a casa sua.

Il Capo si riprese molto lentamente. Spesso era imbronciato, arcigno, sembrava la persona incivile che in un primo tempo lei aveva pensato fosse, immerso in uno stato stuporoso di rabbia e vergogna egocentrica. Altri giorni, invece, era disposto a parlare, e persino ad ascoltare, ogni tanto.

«Stavo leggendo un libro sui mondi dell'Ekumene,» gli disse Yoss mentre aspettava che le frittelle di fagioli fossero pronte per essere girate dall'altra parte. In quegli ultimi giorni cucinava e mangiava con lui nel tardo pomeriggio, poi lavava i piatti per tornare a casa prima che facesse buio. «È molto interessante. Sembra accertato che discendiamo tutti dal popolo di Hain, tutti quanti. Noi, e anche gli Alieni. Persino i nostri animali hanno degli antenati comuni.»

«Così dicono,» grugnì il Capo.

«Non è questione di chi lo dice. Chiunque controlli i dati lo può verificare. È un fatto genetico. Che poi non ti piaccia non cambia la cosa.»

«Cos'è un "fatto" vecchio di un milione di anni?» replicò il Capo. «Cos'ha a che vedere con te, con me, con noi? Questo è il nostro mondo. Noi siamo noi. Non abbiamo nulla a che spartire con quelli.»

«Adesso sì,» ribatté Yoss seccamente, mentre girava le frittelle di fagioli.

«Non se fosse andata come volevo.»

Lei si mise a ridere. «Non ti dai mai per vinto, eh?»

«No.»

Dopo aver mangiato, lui a letto sul vassoio, lei su uno sgabello presso il focolare, Yoss proseguì, con la sensazione di stuzzicare un toro, di sfidare una valanga a precipitare. Per quanto fosse debole e malato, in lui, nella sua mole, non soltanto fisica, era racchiusa una minaccia. «Era tutto qua, allora?» gli chiese. «Il Partito Mondiale. Avere il pianeta tutto per noi, senza Alieni? Tutto qua?»

«Sì,» rispose lui, con un rombo cupo.

«Perché? Abbiamo tanto a che spartire con l'Ekumene. Ha spezzato il dominio delle Corporazioni. Sta dalla nostra parte.»

«Ci hanno portato su questo mondo come schiavi, ma è anche il mondo in cui troveremo la nostra strada. Kamye è venuto con noi, il Mandriano, lo Schiavo, Kamye lo Spadaccino. Questo è il suo mondo. La nostra terra. Nessuno ce la può regalare. Non abbiamo bisogno di spartire il sapere delle altre genti o di seguire i loro dèi. Qui è dove viviamo, questa terra. Qui è dove moriremo per raggiungere il Signore.»

Dopo un po', Yoss disse, «Ho una figlia, e un nipote e una nipote. Hanno lasciato questo mondo quattro anni fa. Sono su una nave diretta verso Hain. Gli anni che mi restano da vivere per loro sono solo pochi minuti, un'ora. Ci arriveranno dopo ottant'anni di viaggio, tra settantasei anni. A quell'altra terra. Vivranno e moriranno là. Non qui.»

«Tu volevi che partissero?»

«È stata una scelta loro.»

«Non tua.»

«Non sono io a vivere la loro vita.»

«Ma ti dispiace,» disse Abberkam.

Il silenzio che cadde tra loro fu pesante.

«È sbagliato, sbagliato, sbagliato!» sbottò lui, con voce forte e sonora. «Avevamo il nostro destino, la nostra strada verso il Signore, e ce l'hanno sottratto, siamo di nuovo schiavi! I saggi Alieni, gli scienziati con tutto il loro sapere e le loro invenzioni, i nostri antenati, come si definiscono… "Fai questo!" ordinano, e lo facciamo. "Fai quello!" e lo facciamo. "Portate i vostri figli su una magnifica astronave e volate verso i nostri mondi magnifici!" E imbarchiamo i nostri figli, che non torneranno mai più a casa. Non conosceranno mai la loro casa. Non sapranno mai chi sono. Non sapranno mai quali mani li potevano stringere.»

Stava tenendo un comizio. Per quanto lei avesse capito che era un discorso che doveva aver già pronunciato un centinaio di volte, così pomposo e declamatorio, aveva le lacrime agli occhi. E anche lui aveva le lacrime agli occhi. Non gli avrebbe mai permesso di servirsi di lei, di giocare con lei, di aver potere su di lei.

«Anche se fossi d'accordo con te, perché allora hai mentito, Abberkam?» gli disse. «Hai mentito al tuo popolo, hai rubato!»

«Mai. Tutto quel che ho fatto, sempre, ogni mio respiro è stato per il Partito Mondiale. Sì, ho speso dei soldi, tutti quelli che trovavo, ma per cosa se non per la causa? Sì, ho minacciato il Nunzio, volevo cacciare lui e tutti gli altri da questo mondo! Sì, gli ho mentito, perché ci vogliono controllare, ci vogliono possedere, e io farei di tutto per salvare la mia gente dalla schiavitù… di tutto!»

Abbatté i pugni massicci sulle ginocchia, poi si fermò per riprendere fiato, singhiozzante.

«E non ci posso fare nulla, Kamye!» gridò, nascondendo il viso tra le braccia.

Poi rimase in silenzio, sconvolto.

Dopo molto tempo si passò le mani sul volto, come un bambino, si ravviò i capelli ribelli e stopposi, si stropicciò occhi e naso, poi raccolse il vassoio e se lo appoggiò sulle ginocchia, prese la forchetta, tagliò un pezzetto di frittella di fagioli, se lo infilò in bocca, masticò e inghiottì. Se può lui posso anch'io, pensò Yoss, e l'imitò. Finirono la cena. Yoss si alzò per andare a prendere il vassoio. «Mi dispiace,» disse.

«Allora era già finito,» disse il Capo con un filo di voce. La guardò dritto in faccia, la vide, e lei capì che lo faceva di rado.

Rimase immobile, senza comprendere, in attesa.

«Era già finito, allora. Da anni. Ciò di cui ero convinto ai tempi di Nadami. Che ci bastasse scacciarli per essere liberi. Ci siamo persi nel prosieguo infinito della guerra. Sapevo che era una menzogna. Che importava se mentivo ancora?»

Lei capì soltanto che era terribilmente sconvolto e forse anche fuori di senno, e che aveva sbagliato a provocarlo. Erano vecchi tutt'e due, entrambi sconfitti, entrambi avevano perso i propri figli. Perché desiderava tanto ferirlo? Gli posò la mano sulla sua per un attimo, in silenzio, prima di raccogliere il vassoio.

Mentre lavava i piatti nell'acquaio, lui la chiamò. «Vieni qui, per favore!» Non s'era mai comportato in quel modo, così lei tornò di corsa nella stanza.

«Tu chi eri?» le domandò.

Rimase immobile a fissarlo.

«Prima di venire qui,» aggiunse lui impaziente.

«Sono partita dalla piantagione per fare il tirocinio,» gli spiegò. «Vivevo in città. Insegnavo fisica. Gestivo l'insegnamento della scienza nelle scuole. Ho educato io mia figlia.»

«Come ti chiami?»

«Yoss. Tribù di Seddewi, da Banni.»

Lui fece un cenno col capo, e dopo un altro secondo Yoss tornò in cucina. Non sapeva nemmeno come mi chiamo, pensò.


Ogni giorno lo costringeva ad alzarsi, a camminare un poco, a stare seduto. Lui obbediva, ma era stanco. Il pomeriggio seguente lo fece camminare a lungo, e quando lui tornò a letto chiuse subito gli occhi. Yoss scivolò lungo le scale scricchiolanti verso la stanza con le finestre a occidente, dove rimase seduta a lungo in perfetta quiete.

Mentre preparava la cena, lo fece sedere sulla seggiola. Parlava, per tirarlo su di morale, perché lui non si lamentava mai delle sue pretese, eppure sembrava tetro e pensieroso, e Yoss non si dava pace di averlo turbato il giorno prima. Non erano forse lì entrambi per lasciarsi alle spalle tutte quelle storie, tutti i loro errori e fallimenti, come pure gli amori e le vittorie? Gli parlò di Wada e di Eyid, tirando per le lunghe la storia degli amanti sfortunati, che erano appunto nel letto di casa sua proprio quel pomeriggio. «Non avevo nessun posto dove andare quando venivano,» disse. «Poteva essere piuttosto spiacevole, in giornate fredde come questa. Mi toccava gironzolare per le botteghe del villaggio. Devo ammettere che così è meglio. Questa casa mi piace.»

Lui grugnì e poco altro, ma lei capì che la stava ascoltando con attenzione, quasi che stesse cercando di capire, come uno straniero che non comprendesse la lingua.

«A te non importa niente della casa, vero?» proseguì Yoss ridendo, mentre versava la minestra. «Almeno sei onesto. Eccomi qui che faccio finta di essere una santa, di rifarmi un'anima, e mi interesso alle cose, mi ci attacco, le amo.» Si sedette a mangiare la zuppa accanto al fuoco. «Sopra c'è una bella stanza,» aggiunse. «La stanza d'angolo sul davanti, quella che dà a ovest. Dev'esserci successo qualcosa di bello in quella camera, forse un tempo ci vivevano due persone innamorate. Mi piace guardare le paludi da lì.»

Quando fu pronta per uscire, lui le chiese, «Se ne saranno già andati?»

«I cerbiatti? Oh, sì. Da un pezzo. Dalle loro famiglie piene d'odio. Immagino che, se potessero abitare assieme sul serio, anche loro sarebbero presto pieni d'odio. Sono tanto ignoranti. Come possono farne a meno? Il villaggio è abitato da gente dalla mente ristretta, sono tanto poveri. Però si aggrappano al loro amore come se lo sapessero… era questa la loro verità…»

«Tienti stretta l'unica cosa nobile che esiste,» disse Abberkam. Lei conosceva già la citazione.

«Vuoi che ti legga qualcosa?» gli domandò. «Ho l'Arkamye, me lo posso portare dietro.»

Lui scrollò il capo, con un improvviso sorriso franco. «Non serve, lo conosco,» rispose.

«Tutto?»

Lui fece segno di sì.

«Quando sono arrivata qui volevo impararlo a memoria, almeno in parte. Ma non l'ho mai fatto. Sembra non ci sia mai il tempo. Tu l'hai imparato qui?»

«Tanto tempo fa. In prigione. A Gebba. Là c'era un sacco di tempo… Adesso me ne sto qui e me lo recito.» Il suo sorriso indugiò mentre la guardava. «Mi fa compagnia in tua assenza.»

Lei rimase senza parole.

«La tua presenza mi è dolce,» le confessò.

Yoss si avvolse nello scialle e corse fuori quasi senza salutare.

Tornò a casa in mezzo a una ridda di sensazioni confuse e conflittuali. Che mostro che era quell'uomo! Le faceva il filo, non c'era alcun dubbio. Anzi, quella era un'avance. Se ne stava sdraiato nel letto come un grosso bue abbattuto, con un fischio nei polmoni e i capelli ingrigiti! Quella voce profonda e morbida, quel sorriso, sapeva come servirsi di quel sorriso, sapeva come centellinarlo. Sapeva come circuire una donna, se era vero quel che si diceva ne aveva circuite un migliaio, circuite e possedute e scartate, eccoti un po' di sperma per ricordarti del tuo Capo, e ciao ciao, bambina. Ossignore!

E allora perché le era saltato in testa di raccontargli di Eyid e Wada che stavano nel suo letto? Che donnetta stupida, si disse mentre avanzava in mezzo a quel maligno vento da oriente che spazzava i canneti grigi. Stupida, stupida vecchia.

Gubu le andò incontro, zampettando e dandole dei colpetti morbidi sulle gambe e sulle mani, agitando la corta coda nodosa dalle macchiette nere. Gli aveva lasciato la porta aperta, gli bastava spingere. Era socchiusa. Per tutta la stanza erano sparse piume di qualche specie di uccellino, e sul tappetino del focolare trovò una chiazza di sangue e qualche viscere. «Mostro,» gli disse. «Vai fuori ad ammazzare!» Lui fece la sua danza di guerra e gridò Uuuh! Uuuh! Gubu dormì tutta la notte rannicchiato contro il fondoschiena di Yoss, e ogni volta che lei si girava era obbligato ad alzarsi per scavalcarla e rannicchiarsi dall'altra parte.

Lei si girò di frequente, immaginandosi o sognando il peso e il calore di un corpo massiccio, il peso delle mani sui suoi seni, labbra che le tiravano i capezzoli, succhiando la vita.


Accorciò le sue visite ad Abberkam. Il Capo era già capace di alzarsi, di badare alle sue cose, di prepararsi la colazione. Lei gli teneva rifornita la scatola della torba presso il camino, e la dispensa piena, e adesso gli portava la cena ma non si fermava a mangiare con lui. Lui restava quasi sempre serio e silenzioso, e lei stava attenta a quel che diceva. Stavano in guardia. Le mancavano le ore nella stanza a occidente al piano di sopra, ma era acqua passata, una specie di sogno, una dolcezza scomparsa.

Un pomeriggio Eyid arrivò da sola alla casa di Yoss, cupa in volto. «Credo che non tornerò più qua,» le disse.

«Che è successo?»

La fanciulla si strinse nelle spalle.

«Vi sorvegliano?»

«No. Non lo so. Sa, potrei… Potrei essere pregna.» Usava il vecchio termine da schiavi per "incinta".

«Hai usato i contraccettivi, vero?» Li aveva comprati a Veo per la coppietta, in gran quantità.

Eyid fece un cenno vago col capo. «Credo sia un errore,» disse, imbronciando il labbro.

«Fare l'amore? Usare anticoncezionali?»

«Credo sia un errore,» ripeté la ragazza, con una fulminea occhiata rancorosa.

«Va bene,» fece Yoss.

Eyid si voltò.

«Arrivederci, Eyid.»

Senza una parola, Eyid si avviò per il sentiero.

Tienti stretta l'unica cosa nobile che esiste, pensò amareggiata Yoss.

Andò dietro la casa, alla tomba di Tikuli, ma faceva troppo freddo per star fuori a lungo, un freddo uniforme, doloroso, da mezzo inverno. Entrò e chiuse la porta. La stanza sembrava piccola e buia e bassa. Lo stento fuoco di torba era basso e fumoso. Nel bruciare non faceva alcun rumore. Non c'era il minimo suono fuori dalla casa. Il vento era calato, le canne intirizzite dal gelo erano immobili.

Voglio della legna, voglio un fuoco di legna, pensò Yoss. Una fiamma guizzante e scoppiettante, un fuoco presso cui raccontare una storia, come facevamo nella casa delle nonne alla piantagione.

Il giorno dopo risalì un sentiero di palude per andare a una casa in rovina a meno di un chilometro di distanza, dove staccò qualche asse dal portico crollato. Quella sera il suo camino ospitò una fiamma rombante. Cominciò ad andare alla casa in rovina una o più volte al giorno, e ammassò una catasta considerevole accanto al mucchio di torba, nell'angolo del camino opposto alla rientranza dove c'era il suo letto. Non andava più da Abberkam. Lui si era ripreso, e lei voleva una meta. Non aveva modo di tagliare le assi più lunghe, perciò le spingeva nel fuoco un pezzo per volta. Così un'asse durava tutta una serata. Sedeva accanto al fuoco brillante e cercava di leggere il primo libro dell'Arkamye. Certe volte Gubu stava sdraiato sulla pietra del focolare a guardare la fiamma, sussurrando pure lui, ron, ron, e ogni tanto s'addormentava. Odiava così tanto addentrarsi nei canneti ghiacciati che lei gli aveva fatto una cassetta per i bisogni nel retrocucina, e lui se ne serviva metodico.

Il freddo non accennava a calare, il peggior inverno che avesse mai dovuto affrontare nelle paludi. Gli spifferi crudeli la guidavano a crepe nelle pareti di legno di cui era ignara. Non avendo stracci con cui tapparle, utilizzava fango e canne pressate. Se lasciava che il fuoco si spegnesse, la casetta diventava una ghiacciaia nel giro di un'ora. Il fuoco di torba, ben disposto, le faceva passare la nottata. Anche di giorno metteva spesso un pezzo di legno, solo per la fiamma, la luce, la compagnia.

Doveva andare al villaggio. Aveva smesso di andarci per un po' di giorni, sperando che la morsa del gelo s'allentasse, e così aveva finito praticamente tutto. Faceva freddo più che mai. I blocchi di torba che bruciavano nel camino in quel momento erano tutto terriccio e bruciavano male, con una fiamma stenta, così ci mise in mezzo un pezzo di legno per tenere vivo il fuoco e calda la casa. Si mise addosso ogni giacca e scialle che aveva, poi partì con la sporta. Gubu la guardò ammiccando dal focolare. «Stai pur comodo,» gli disse. «Che bestia saggia.»

Il freddo era spaventoso. Yoss pensò che, se fosse mai scivolata sul ghiaccio rompendosi una gamba, non sarebbe passato nessuno per giorni. Se cado, mi assidero in poche ore. Bene bene bene, sono nelle mani del Signore, e tanto nel giro di pochi anni muoio comunque. Signore, lascia almeno che arrivi al villaggio a scaldarmi!

Ci arrivò, e passò parecchie ore presso la stufa del pasticcere a raccogliere pettegolezzi, e presso la stufa a legna del giornalaio a leggere vecchi giornali su una nuova guerra nella provincia d'Oriente. Le zie di Eyid e il padre, la madre e le zie di Wada le chiesero tutti come stava il Capo. Le dissero anche di andare dal suo padrone di casa, perché Kebi aveva qualcosa per lei. Per lei Kebi aveva un pacchetto di mediocre tè da quattro soldi. Perfettamente disposta a far sì che il suo padrone di casa si arricchisse l'anima, Yoss lo ringraziò per il tè. Lui le chiese di Abberkam. Il Capo era stato malato? E adesso stava meglio? Lui ficcanasò, lei gli rispose con indifferenza. È facile vivere in silenzio, si disse, quel che mi è difficile è convivere con queste voci.

Detestava l'idea di lasciare quella stanza calda, ma la sporta era più pesante di quel che gradiva trasportare, e i tratti ghiacciati sulla strada sarebbero stati difficili da distinguere col calar del sole. Si accomiatò e attraversò di nuovo il villaggio per tornare alla passerella. Era più tardi di quel che avesse pensato. Il sole era piuttosto basso, nascosto dietro uno sbarramento di nubi in un cielo già cupo, come se lesinasse anche soltanto una mezz'ora di calore e di luce. Voleva tornare a casa al suo fuocherello, e così si avviò di buon passo.

Mentre teneva lo sguardo fisso davanti a sé per timore del ghiaccio, in un primo momento sentì soltanto la voce. La conosceva, e credette che Abberkam fosse impazzito di nuovo! Perché le stava correndo incontro tra le urla. Si fermò intimorita, ma lui stava gridando il suo nome. «Yoss! Yoss! È tutto a posto!» gridava andandole dritto incontro, un omone invasato, tutto sporco, infangato, ghiaccio e terra nei capelli grigi, le mani nere, e gli si riusciva a vedere persino il bianco degli occhi.

«Vattene,» gli disse, «stammi lontano, stai lontano da me!»

«D'accordo,» fece lui, «ma la casa, la casa…»

«Che casa?»

«Casa tua, è bruciata. L'ho vista, stavo venendo al villaggio quando ho visto il fumo in mezzo alle paludi…»

Lui proseguì a parlare, ma Yoss rimase come paralizzata, senza prestare più ascolto. Aveva chiuso la porta, lasciando cadere il saliscendi. Non aveva chiuso a chiave, ma il saliscendi era scattato, e Gubu non sarebbe mai riuscito a uscire. Era in casa. Chiuso dentro. Quegli occhi accesi, disperati, la vocetta che gridava…

Yoss scattò in avanti. Abberkam la bloccò.

«Lasciami passare,» gli disse. «Devo passare.» Poi posò la sporta e cominciò a correre.

Il Capo la prese per il braccio, Yoss fu bloccata quasi come da un'onda del mare, fu costretta a girarsi. Il corpo enorme e quella voce l'attorniavano. «Tutto a posto, il gattino sta bene, è a casa mia,» stava dicendo. «Yoss! La casa è andata a fuoco. Il gattino sta bene.»

«Cos'è successo?» disse lei, gridando infuriata. «Lasciami stare! Non capisco! Cos'è successo?»

«Per favore, calmati, per favore,» l'implorò lui, lasciandola andare. «Ci andiamo subito, così vedrai. Ma non è rimasto molto da vedere.»

Yoss camminò accanto a lui su gambe tremanti, mentre il Capo le raccontava cos'era successo. «Ma com'è cominciato?» gli chiese. «Com'è possibile?»

«Una scintilla. Hai lasciato il fuoco acceso? Certo, certo che sì, fa un tal freddo. Ma c'erano delle pietre mancanti dal camino, me ne sono accorto. Scintille, se c'era della legna nel fuoco… forse ha preso un'asse del pavimento, forse il canniccio. Poi ha preso fuoco tutto con questo clima secco, tutto è secco, niente piogge. Oh, Signore, Signore misericordioso, pensavo che fossi dentro. Pensavo fossi in casa. Ho visto il fuoco, ero sulla passerella… poi un attimo dopo sono arrivato alla porta, non so come, avrò volato, non so… ho spinto, era chiusa, allora ho aperto e ho visto tutta la parete in fondo e il soffitto che bruciavano, erano in fiamme. C'era tanto fumo che non ho capito se eri dentro, sono entrato, l'animaletto era rintanato in un angolo… ho pensato a quanto hai pianto quando è morto quell'altro, ho cercato di prenderlo, lui è uscito dalla porta come un razzo, e mi sono accorto che dentro non c'era più nessuno, così sono andato alla porta, poi è crollato il tetto.» Fece una risata selvaggia, trionfante. «M'ha beccato in testa, vedi?» Si chinò, ma lei non era lo stesso abbastanza alta da scorgergli la cima del capo. «Ho visto il tuo secchio, così ho cercato di gettare dell'acqua contro il muro per salvare qualcosa, poi ho capito che era una pazzia, stava bruciando tutto, non è rimasto niente. Quando mi sono avviato per il sentiero l'animaletto, il tuo micio, mi stava aspettando là, tutto tremante. Ha lasciato che lo prendessi in braccio, e non sapevo cosa farne, così sono tornato di corsa a casa mia e l'ho lasciato là. Ho chiuso la porta. Lì è al sicuro. Poi m'è venuto in mente che forse eri andata al villaggio, e sono tornato a cercarti.»

Erano arrivati al bivio. Yoss si spostò sul bordo della passerella per guardare in basso. Una chiazza di fumo, un monticello nero. Stecchi neri. Ghiaccio. Fu scossa da un brivido, e sentì una nausea tale che si dovette rannicchiare, inghiottendo saliva gelata. Il cielo e i canneti sfilavano da destra a sinistra, mulinando nei suoi occhi. Non riusciva a fermarli.

«Su, su, va tutto bene. Vieni con me.» Era consapevole della voce, delle mani e delle braccia, di un vasto calore che la sorreggeva. Gli camminò accanto a occhi chiusi. Dopo un po' li riuscì ad aprire per guardare con attenzione la strada.

«Oh, la mia sporta… l'ho lasciata là… è tutto quel che possiedo,» disse di colpo con una risatina, girandosi e quasi cadendo, perché quel movimento aveva di nuovo scatenato le vertigini.

«Ce l'ho io. Su, ormai ci siamo.» Portava la sua sporta in modo strano, nell'incavo del gomito. L'altro braccio era attorno a lei, per aiutarla a stare in piedi e camminare. Arrivarono alla casa del Capo, la casa scura sulla zattera. Era affacciata su uno spettacolare cielo giallo e arancio, con delle strisce rosa che salivano in cielo dal punto in cui il sole era tramontato. I capelli del sole, come li chiamavano quand'era bambina. Girarono le spalle a quello splendore, entrando nella casa buia.

«Gubu?» chiamò Yoss.

Ci misero del tempo a trovarlo. Era accucciato sotto il divano. Lo dovette tirar fuori a forza, perché non voleva saperne di uscire. Aveva il pelo pieno di polvere, che si sollevò mentre lo carezzava. Alla bocca aveva un filo di bava, e tremava ed era silenzioso tra le sue braccia. Yoss carezzò a lungo la schiena argentea picchiettata, i fianchi maculati, il pelo bianco e serico del ventre. Alla fine Gubu chiuse gli occhi, ma nell'istante stesso in cui Yoss si mosse appena, balzò giù, tornando a nascondersi sotto il divano.

Yoss si sedette e disse, «Scusami, scusami, Gubu, mi dispiace».

Sentendola parlare, il Capo rientrò nella stanza dal retrocucina. Si teneva le mani bagnate davanti al corpo, e lei si chiese perché mai non se le asciugava. «Sta bene?» le domandò.

«Ci metterà un po',» rispose Yoss. «L'incendio. E una casa sconosciuta. Sono… i gatti sono abitudinari. Non amano i posti strani.»

Non riusciva a coordinare pensieri o parole, uscivano a strappi, scollegati.

«È un gatto, allora?»

«Un gatto maculato, sì.»

«Questi animaletti appartenevano ai Boss, stavano nelle case dei Boss. Noi non ne avevamo.»

Lei lo prese per un rimprovero. «Sono arrivati da Werel coi Boss, certo. Come noi.» Appena quelle parole taglienti le furono uscite di bocca, le venne da pensare che forse lui l'aveva detto solo per giustificarsi della propria ignoranza.

Il Capo rimase immobile, con le mani protese. «Mi dispiace,» disse. «Credo che mi servano delle bende.»

Yoss mise a fuoco lentamente sulle mani.

«Te le sei ustionate,» gli disse.

«Non molto. Non saprei quando.»

«Fammi vedere.» Lui si avvicinò, girando le manone a palmo in su: una stria di vesciche rosso vivo sulla pelle azzurrina delle dita di una mano, e una ferita aperta e sanguinante alla base del pollice dell'altra.

«Me ne sono accorto solo mentre lavavo i piatti,» disse. «Non faceva male.»

«Fammi vedere la testa,» fece lei, ricordandosi di quel particolare. Lui s'inginocchiò, mostrandole una conformazione fuligginosa e irsuta tutta incrostata, con una bruciatura nera e rossa giusto in cima. «Ossignore,» esclamò Yoss.

Il nasone e gli occhi del Capo spuntarono da sotto quel viluppo grigiastro, vicini a lei, e la guardarono ansiosi. «So che m'è cascato addosso il tetto,» disse lui, e Yoss cominciò a ridere.

«Ci vuole ben più di un tetto che ti casca in testa!» fece. «Hai niente, che so, degli stracci puliti. Mi ricordo di aver lasciato degli strofinacci puliti nell'armadietto dell'acquaio. Disinfettanti?»

Continuò a parlare mentre puliva la ferita alla testa. «Non so nulla di ustioni, tranne che bisogna cercare di tenerle pulite e lasciarle scoperte perché si secchino. Dovremmo chiamare la clinica di Veo. Domani posso andare al villaggio.»

«Credevo fossi un dottore o un'infermiera.»

«Ero direttrice di una scuola!»

«Mi hai curato.»

«Perché sapevo cos'avevi. Di ustioni però non so nulla. Vado al villaggio a chiamare. Però non stasera.»

«Non stasera,» concordò lui. Poi fletté le mani, con una smorfia in viso. «Stavo per preparare la cena per noi,» disse. «Non immaginavo ci fosse qualcosa che non andava nelle mani. Non so quando può essere successo.»

«Quando hai salvato Gubu,» disse Yoss con voce pratica, poi cominciò a piangere. «Mostrami cosa volevi mangiare, ci penso io,» disse attraverso le lacrime.

«Mi rincresce per le tue cose,» disse il Capo.

«Non c'era niente di importante. Ho addosso quasi tutti i vestiti che possiedo,» rispose Yoss, sempre piagnucolando. «Non c'era nulla. Persino poco cibo. Solo l'Arkamye. E il mio libro sui mondi.» Pensò alle pagine che s'annerivano e s'arricciavano mentre il fuoco le leggeva. «Me l'aveva mandato un'amica dalla città, non ha mai approvato che io sia venuta qui, a far finta di bere acqua e stare in silenzio. Aveva ragione, dovrei tornare, non sarei mai dovuta venir qua. Che bugiarda che sono, che sciocca! Rubare legna! Rubare legna per farmi un bel fuocherello! Per stare calda e allegra! Così ho dato fuoco alla casa, così ho perso tutto, ho distrutto la casa di Kebi, il mio povero gattino, le tue mani, è tutta colpa mia. Mi sono dimenticata delle scintille del fuoco di legna, quel camino era fatto per il fuoco di torba, me ne sono scordata. Mi dimentico tutto, la testa mi tradisce, la mia memoria mente, io mento. Disonoro il Signore fingendo di rivolgermi a lui quando non posso rivolgermi a lui, quando non riesco a dimenticare il mondo. Allora lo brucio! Così la spada ti taglia le mani.» Gli prese le mani tra le sue e ci chinò sopra il capo. «Le lacrime disinfettano,» aggiunse. «Oh, scusami, scusami!»

Le grandi mani ustionate riposarono tra le sue. Il Capo si chinò a baciarle i capelli, carezzandoli con le labbra e la guancia. «Ti racconterò l'Arkamye,» le disse. «Adesso calmati. Dobbiamo mangiare qualcosa. Tu hai molto freddo. Secondo me, sei sotto shock. Siediti qua. Riesco ancora a mettere un tegame sul fuoco.»

Lei obbedì. Aveva ragione, sentiva un gran freddo. Si accucciò accanto al fuoco. «Gubu?» sussurrò. «Gubu, è tutto a posto. Vieni, vieni, piccolino.» Ma sotto il divano non si mosse nulla.

Abberkam le si fermò accanto, offrendole qualcosa. Un bicchiere. Era vino, vino rosso.

«Hai del vino?» gli domandò, stupita.

«Di solito bevo acqua e sto zitto. Certe volte bevo vino e parlo. Bevi.»

Lei prese umilmente il bicchiere. «Non ero sotto shock,» precisò.

«Nulla riesce a scioccare una donna di città,» fece lui serissimo. «Adesso mi dovresti aprire questo barattolo.»

«Come hai fatto a stappare il vino?» gli chiese mentre svitava il coperchio di un barattolo di pesce stufato.

«Era già aperto,» rispose il Capo con voce profonda, imperturbabile.

Per mangiare si sedettero di fronte al focolare, servendosi direttamente dal tegame appeso al gancio sul fuoco. Yoss tenne bassi, all'altezza del pavimento, dei pezzetti di pesce perché Gubu li vedesse da sotto il divano, e sussurrò al gatto, ma lui non ne volle sapere di uscire.

«Uscirà quando avrà molta fame,» disse Yoss. Era stanca di quel tremolio piagnucoloso della sua voce, del nodo alla gola, della vergogna. «Grazie per il cibo,» disse. «Adesso mi sento meglio.»

Si alzò per andare a lavare la pentola e i cucchiai. Dato che lei gli aveva detto che non si doveva bagnare le mani, il Capo non si offrì di aiutarla, ma rimase seduto immobile accanto al fuoco, come un grosso masso scuro.

«Vado di sopra,» disse Yoss quand'ebbe finito. «Forse riesco a prendere Gubu per portarmelo dietro. Posso avere un paio di coperte?»

Lui fece segno di sì. «Sono lassù. Ho acceso il fuoco,» aggiunse poi. Yoss non capiva. Era in ginocchio per guardare sotto il sofà. In quel mentre capì quanto doveva essere ridicola, una vecchia infagottata negli scialli con il culo all'aria, che sussurrava "Gubu! Gubu!" a un mobile. Ma poi sentì un fruscio, e Gubu le arrivò dritto in mano, aggrappandosi alla sua spalla con il naso nascosto sotto l'orecchio. Yoss si drizzò sui talloni e guardò raggiante Abberkam. «Eccolo!» disse, mentre si alzava in piedi con una certa difficoltà. «Buona notte.»

«Buona notte, Yoss,» fece lui. Yoss non osava prendere la lampada a olio, così risalì le scale al buio, tenendo stretto Gubu tra le mani fino a che non fu entrata nella stanza a occidente ed ebbe chiuso la porta. Poi rimase a bocca aperta. Abberkam aveva ripristinato il camino, e a un certo punto della serata aveva acceso la zolla di torba già pronta. Il bagliore rossastro guizzava contro le finestre basse e lunghe, nere per la notte, e l'odore era così dolce. Un lettone che prima si trovava in un'altra camera adesso occupava questa, ed era già preparato, con materasso e lenzuola e un nuovo panno bianco di lana. Sullo scaffale presso il camino vide una brocca e una bacinella. Il vecchio tappeto su cui si sedeva di solito era stato battuto e spazzolato, e adesso era steso presso il focolare, liso e pulito.

Gubu le fece forza con le zampe contro le braccia. Quando lo appoggiò a terra, il gatto filò di corsa sotto il letto. Lì sarebbe stato benone. Yoss versò nella bacinella un goccio d'acqua dalla brocca, poi la posò sulla pietra del focolare nel caso gli venisse sete. Per i bisogni poteva usare il mucchio di cenere. Qui c'è tutto quel che ci serve, pensò, ammirando ancora sbigottita la stanza immersa nella penombra, la luce soffusa che baciava le finestre dall'interno.

Poi uscì, chiudendosi la porta alle spalle, e scese dabbasso. Abberkam era ancora seduto davanti al camino. Le lanciò un'occhiata luminosa. Lei non sapeva cosa dire.

«T'è piaciuta la stanza?» le chiese.

Lei annuì.

«Hai detto che forse un tempo è stata la stanza di due amanti. Io ho pensato che forse poteva essere la stanza di due amanti futuri.»

Dopo qualche secondo lei rispose, «Forse».

«Non stanotte,» aggiunse lui con quel suo basso brontolio, che lei comprese essere una risata. Già una volta l'aveva visto sorridere, e adesso lo sentiva ridere.

«No, non stanotte,» disse recisa.

«Mi servono le mani,» fece lui. «Per quello, per te, mi serve tutto.»

Yoss non rispose, limitandosi a guardarlo.

«Per piacere, Yoss, siediti.» Lei si sedette sulla pietra del focolare di fronte ad Abberkam.

«Quand'ero malato ho riflettuto su molte cose,» le disse lui, sempre con un filo di retorica nella voce. «Ho tradito la mia causa, ho mentito e ho rubato in suo nome, perché non potevo ammettere di aver perso la fede. Temevo gli Alieni perché temevo i loro dèi. Quante divinità! Temevo potessero sminuire il mio Signore. Sminuire lui!» Rimase in silenzio per un minuto, per riprendere fiato. Yoss sentiva il rantolo nel profondo dei polmoni. «Ho tradito molte volte la madre di mio figlio. Lei, altre donne, me stesso. Non ho tenuto fede all'unica cosa nobile.» Spalancò le mani, con una piccola smorfia, per guardare le piaghe. «Tu invece non l'hai fatto.»

Qualche tempo dopo Yoss disse, «Sono rimasta con il padre di Safnan appena qualche anno. Ho avuto altri uomini. Ma adesso che importa?»

«Non è questo che intendo. Voglio dire che tu non hai tradito i tuoi uomini, tua figlia, te stessa. D'accordo, è acqua passata. Dirai, adesso che importa, non importa più nulla. Però anche adesso mi dài una possibilità, questa bella occasione, la dài a me, l'occasione di tenerti, di tenerti stretta.»

Lei non disse nulla.

«Sono arrivato qui coperto di vergogna,» proseguì lui. «E tu mi hai reso onore.»

«E perché io? Chi sono io per giudicarti?»

«"Fratello, io sono te."»

Lei lo guardò terrorizzata, appena uno sguardo, poi abbassò gli occhi sul fuoco. La fiamma della torba era bassa e calda, ed emanava appena un fil di fumo. Yoss pensò al calore, alla tenebra del corpo di quell'uomo.

«Ci sarà mai pace tra noi?» chiese alla fine.

«Hai bisogno di pace?»

Dopo un po' Yoss fece un mezzo sorriso.

«Farò del mio meglio,» rispose Abberkam. «Fermati in questa casa.»

Lei assentì.

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