Ursula Le Guin Il mondo della foresta

1 Davidson

Due episodi del giorno precedente erano nei pensieri del capitano Davidson al suo risveglio, e lui rimase a osservarli nell’oscurità, per un lungo periodo di tempo, senza alzarsi dal letto.

Uno positivo: il nuovo carico di donne era arrivato. Incredibile ma vero. Erano a Centralville, a ventisette anni dalla Terra con la navigazione ultra-luce, e a quattro ore di elicottero da Campo Smith: la seconda infornata di femmine da accoppiamento per la New Tahiti Colony, tutte sane e pulite, 212 capi di razza umana di prima scelta. O che poteva passare per prima scelta, a ogni buon conto. Uno negativo, il rapporto dall’Isola Discarica: raccolti scarsi, massicce erosioni, smottamento totale.

La fila di 212 figurette poppute svanì dalla mente di Davidson, scacciata dall’immagine della pioggia che scendeva sulla terra dissodata, la rimescolava fino a trasformarla in fango, stemperava quel fango fino a ridurlo a una brodaglia rossiccia che scivolava lungo le rocce e precipitava in un mare spazzato dai piovaschi.

L’erosione era cominciata ancor prima che lui lasciasse l’Isola Discarica per andare a comandare Campo Smith, e, poiché era dotato di una memoria visiva eccezionale, del tipo che viene chiamato "memoria eidetica", poteva adesso ricordare la scena, in modo fin troppo chiaro.

Pareva che quel cervellone di Kees fosse nel giusto e che occorresse lasciare in piedi un mucchio di alberi nei punti dove si intendeva innalzare le case coloniche. Ma Davidson non poteva ancora capire perché in un campo di soia si dovrebbe sprecare un mucchio di spazio in alberi, se la terra fosse condotta in modo veramente scientifico. Nell’Ohio non era affatto così: se volevi mais, piantavi mais, e non sprecavi spazio in alberi e altro.

Ma la Terra era un pianeta addomesticato, mentre New Tahiti non lo era. E lui era lì per questo: per addomesticarlo. Se l’Isola Discarica è adesso ridotta a nient’altro che rocce e fossi, facciamoci un segno sopra, ricominciamo su un’altra isola e la prossima volta faremo meglio. Non puoi tenerci fermi, siamo Uomini.

Imparerai presto cosa significhino queste parole, maledetto pianeta, pensò Davidson, e si concesse un sorrisino nell’oscurità della baracca, poiché gli piacevano le sfide. E, pensando agli Uomini, il suo pensiero corse alle Donne, e nuovamente la fila di minuscole figurette si rimise in moto nel suo cervello: figurette sorridenti, ancheggianti.

— Ben! — ruggì, mettendosi a sedere sul letto e posando i piedi nudi sul terreno nudo. — Acqua calda, subito, svelto, scattare!

Il ruggito lo destò completamente, con sua piena soddisfazione. Si stiracchiò e si grattò il torace; s’infilò i calzoncini, uscì a grandi falcate dalla capanna e fece ancora qualche passo nella spianata illuminata dal sole: il tutto in un’unica serie di movimenti armoniosi. Era un uomo alto e robusto, dai muscoli ben tesi, e amava adoperare il suo corpo perfettamente allenato. Ben, il suo creechie, aveva già preparato l’acqua sul fuoco, fumante, come sempre, e se ne stava accovacciato a terra a fissare il vuoto, come sempre. I creechie non dormivano mai: si limitavano a starsene accovacciati, a fissare nel vuoto.

— Colazione, svelto, scat-tare! — gridò Davidson, prendendo il rasoio dall’asse di legno non piallato, dove il creechie l’aveva posato, pronto per lui, insieme con un asciugamano e uno specchio inclinato.

Aveva un mucchio di cose da fare, oggi, poiché aveva deciso, in quell’ultimo minuto prima di alzarsi, di fare un volo fino alla Centrale per dare personalmente un’occhiata alle nuove donne. Non sarebbero durate a lungo, 212 tra più di duemila maschi, e… come la prima infornata… probabilmente erano in maggioranza Spose Coloniali, e solo venti o trenta erano giunte come Personale Ricreativo; ma queste erano certamente delle brave ragazze, vogliose e sportive, e lui intendeva essere il primo della fila per almeno una di loro, questa volta. Sogghignò con la sinistra, mantenendo immobile la guancia destra, sotto il ronzio del rasoio.

Il vecchio creechie se la prendeva assai calma e ci metteva un’ora per portargli la colazione dalle cucine.

— Svelto, scat-tare! — gli gridò Davidson, e Ben accelerò fino a un ritmo di camminata il suo bighellonaggio disossato.

Ben era alto circa un metro, e il pelo della sua schiena era più bianco che verde; era vecchio, e tonto anche per un creechie, ma Davidson sapeva come trattarlo.

Un mucchio di persone non sapeva trattare i creechie, nemmeno una cicca, ma Davidson non aveva mai avuto difficoltà con quelle scimmie; era capace di domare qualsiasi creechie, se ne valeva la pena. Ma non ne valeva la pena. Porta qui un numero sufficiente di persone umane, costruisci macchine e robot, metti fattorie e città, e nessuno avrà più bisogno dei creechie. E la cosa sarà certo un bene.

Infatti, quel mondo, New Tahiti, era letteralmente fatto per gli uomini. Una volta spazzato e ripulito, una volta abbattute le buie foreste per creare grandi campi di grano, eliminate la tenebra primeva, la barbarie e l’ignoranza, sarebbe diventato un paradiso, un vero Eden. Un mondo migliore della Terra ormai esausta. E sarebbe stato il suo mondo. Poiché questo era ciò che Don Davidson era, nel profondo del suo cuore: un addomesticatore di mondi. Non era persona che amasse vantarsi, ma conosceva la propria misura. Semplicemente, lui era fatto così. Sapeva ciò che voleva, e come ottenerlo. E lo otteneva sempre.

La colazione atterrò tiepida nel suo stomaco. Il buon umore di Davidson non venne rovinato neppure dalla vista di Kees Van Sten che veniva verso di lui, grasso, bianco e preoccupato, con gli occhi che gli sporgevano dalle orbite come azzurre palline da golf.

— Don — disse Kees senza salutare — i boscaioli sono di nuovo andati a caccia di cervi nelle Strisce. Diciotto paia di palchi sono appese nella sala del Ritrovo.

— Nessuno è mai riuscito a impedire ai bracconieri il bracconaggio, Kees.

— Voi potreste fermarli. È per questo che viviamo sotto la legge marziale, è per questo che l’esercito governa in questa colonia. Per far rispettare le leggi.

Un attacco frontale da Ciccio Cervello! Era quasi da ridere.

— D’accordo — disse Davidson, in tono ragionevole — potrei fermarli. Ma guardate, sono gli uomini, quelli di cui mi curo; è il mio lavoro, come dite voi. E sono gli uomini, quelli che contano. Non gli animali. Se un po’ di caccia extra-legale aiuta gli uomini a vivere questa vita da maledetti, allora io intendo chiudere un occhio. Quegli uomini devono avere qualche ricreazione.

— Hanno giochi di società, sport, hobby, film, nastri di tutti i principali avvenimenti sportivi dello scorso secolo, liquori, marijuana, allucinogeni, e un’infornata fresca di donne alla Centrale. Per quelli che sono insoddisfatti delle disposizioni poco fantasiose dell’esercito a riguardo dell’omosessualità igienica. Sono marci e viziati, i vostri eroi della frontiera, e non hanno alcun bisogno di sterminare una rara specie locale per "ricreazione". Se voi non prenderete provvedimenti, io sarò costretto a segnalare una grave infrazione dei Protocolli Ecologici nel mio rapporto al capitano Gosse.

— Voi fatelo pure, se vi sembra necessario — disse Davidson, che non perdeva mai la calma.

Era quasi patetico, il modo in cui gli europei come Kees diventavano tutti rossi in viso, quando perdevano il controllo delle proprie emozioni.

— Si tratta del vostro lavoro, dopotutto. Non ve ne porto rancore; potranno discutere tra loro la cosa alla Centrale, e decidere chi ha ragione. Vedete, voi volete mantenere questo posto così com’è, in realtà, Kees. Come un solo grosso Parco Nazionale. Per guardarlo, per studiarlo. Giusto, siete uno specialista. Ma vedete, noi siamo soltanto delle persone normali che cercano di portare avanti il lavoro.

"La Terra ha bisogno di legno, ne ha un bisogno disperato. Noi troviamo il legno su New Tahiti. E così… diventiamo boscaioli. Vedete, la cosa che ci rende diversi è che con voi, in realtà, la Terra non viene davanti a tutto il resto. Con me, sì, invece."

Kees lo guardò di traverso, con quei suoi occhi azzurri, grossi come palle da golf.

— Davvero? Voi desiderate trasformare questo mondo in un’immagine della Terra, eh? Un deserto di cemento?

— Quando dico "Terra", Kees, voglio dire le persone. Voi vi preoccupate dei cervi e degli alberi e dell’erba-fibra: benissimo, è il vostro mestiere. Ma io preferisco vedere le cose in prospettiva, dalla cima: e la cima, vedete, sono gli uomini. Noi siamo qui, ora; e perciò questo mondo viaggerà alla nostra maniera. Che vi piaccia o no, si tratta di una realtà che voi dovete affrontare; è il modo in cui vanno le cose, semplicemente. Sentite, Kees, io andavo a prendere l’elicottero per recarmi alla Centrale a dare un’occhiata ai nuovi arrivi. Volete venire con me?

— No, grazie, capitano Davidson — disse lo specialista, e si avviò verso la baracca del Laboratorio.

Era davvero arrabbiato. Tutto sconvolto per quei maledetti cervi. Grandi animali, certo. Nei vividi ricordi di Davidson ricomparve il primo che aveva visto, lì sulla Terra di Smith: un’immensa sagoma rossa, alta due metri alla spalla, con una corona di stretti palchi dorati; una bestia veloce e coraggiosa, il miglior animale da caccia che si possa immaginare.

Sulla Terra usavano robocervi perfino nei parchi delle Montagne Rocciose Superiori e dell’Himalaya, oggigiorno, e i cervi veri erano quasi spariti. Quelle bestie erano il sogno di qualsiasi cacciatore. E dunque finivano cacciate. Oh, diavolo, perfino i creechie selvatici davano loro la caccia, con quei loro schifosi piccoli archetti.

E i cervi finivano cacciati perché erano fatti per quello. Ma il povero piagnucoloso Kees e il suo cuoricino gentile non riuscivano a capirlo. In effetti era un tipo abbastanza intelligente, ma non realistico, non abbastanza duro. Non si metteva in testa che bisogna puntare sulla parte vincente, altrimenti perdi. Ed è l’Uomo a vincere, ogni volta. L’antico Conquistador.

Davidson attraversò a grandi passi la colonia, col sole del mattino negli occhi: l’odore di legna segata e di fumo di legna erano dolci nell’aria tiepida. Ogni cosa pareva linda e chiara, per un campo di taglialegna. I duecento uomini del campo avevano domato una bella area di foresta, in tre soli mesi terrestri.

Campo Smith: un paio di grandi cupole geodetiche di corruplastica, quaranta baracche di legno costruite dai manovali creechie, la segheria, la caldaia che innalzava il suo pennacchio azzurrognolo su centinaia di metri quadri di tronchi e assi segate; e più in alto il campo di volo e il grosso hangar prefabbricato per gli elicotteri e i macchinari pesanti. Tutto lì.

Ma quando erano giunti laggiù, non c’era nulla. Alberi. Un mucchio buio, una confusione, un intrico di alberi, senza termine e senza scopo. Un fiume sonnolento, sovrastato e soffocato da alberi, qualche tana dei creechie nascosta tra gli alberi, qualche cervo rosso, scimmie pelose, uccelli. E alberi. Radici, tronchi, rami, sterpi, foglie, foglie al disopra e foglie al disotto e in faccia e negli occhi, foglie interminabili su un’interminabilità di alberi.

New Tahiti era prevalentemente acqua, mari bassi e caldi interrotti qua e là da atolli, isolette, arcipelaghi e le cinque grandi Terre che giacevano in un arco di duemilacinquecento chilometri lungo il quarto di sfera nordoccidentale. E tutte quelle macchiette e pagliuzze di terra erano coperte di alberi.

Oceano; foresta. Questa era la tua scelta su New Tahiti. Acqua e luce del sole, oppure oscurità e foglie.

Ma adesso erano giunti gli uomini per porre fine all’oscurità, e trasformare il caos della giungla in tavole chiare e segate, più preziose, sulla Terra, dell’oro. Alla lettera, poiché l’oro si poteva ottenere dall’acqua di mare e sotto il ghiaccio dell’Antartide, ma non il legno; il legno veniva solamente dagli alberi. E sulla Terra si trattava di un lusso assolutamente necessario. Dunque, le foreste extraterrestri diventavano legno.

Duecento persone con seghe automatiche e trasportatori avevano già tagliato otto "strisce" di un chilometro e mezzo di ampiezza sulla Terra di Smith, in tre mesi. I ceppi della striscia più vicina al Campo erano già bianchi e friabili; trattati chimicamente, si sarebbero trasformati in cenere fertile per l’epoca in cui i coloni permanenti, gli agricoltori, sarebbero venuti a insediarsi sulla Terra di Smith. Gli agricoltori non avrebbero avuto altro da fare che piantare i semi e aspettare che germogliassero.

Era già stato fatto una volta, in precedenza. Si trattava di una strana faccenda, che, anzi, costituiva la prova che New Tahiti era fatta apposta perché gli umani se ne impadronissero. Tutto ciò che c’era sul pianeta era giunto dalla Terra, circa un milione d’anni prima, e l’evoluzione aveva seguito una linea così parallela a quella della Terra che le cose si potevano riconoscere immediatamente: pini, querce, noccioli, castagni, abeti, agrifogli, meli, frassini; cervo, uccello, topo, gatto, scoiattolo, scimmia.

Gli umanoidi di Hain-Davenant, naturalmente, affermavano di averlo fatto nello stesso periodo in cui avevano colonizzato la Terra, ma, se stavi ad ascoltare quegli extraterrestri, ti accorgevi che affermavano di avere colonizzato ogni pianeta della galassia e di avere inventato ogni cosa, dal sesso alle puntine da disegno.

Le teorie che parlavano di Atlantide erano assai più realistiche, e quel pianeta poteva essere benissimo una colonia perduta di Atlantide. Ma gli umani erano morti. E la cosa più prossima che si era sviluppata dalla linea delle scimmie per sostituirli era stato un creechie, una "creatura", alto un metro e coperto di pelo verde.

Come extraterrestri erano abbastanza normali, ma come persone umane erano un grosso fiasco, non ce l’avevano fatta. Magari ce l’avrebbero fatta in un altro milione di anni, chissà. Ma il Conquistador era arrivato prima. Adesso l’evoluzione non si muoveva più alla velocità di una mutazione casuale una volta al millennio, ma alla velocità delle astronavi della Flotta Terrestre.

— Ehi, capitano!

Davidson si voltò, con solo un microsecondo di ritardo nella reazione, ma si trattava di un ritardo sufficientemente alto per dargli fastidio. C’era qualcosa, in quel maledetto pianeta, nella sua luce dorata e nel cielo nuvoloso, nei suoi venti tiepidi che sapevano di foglie marce e di polline, c’era qualcosa che ti portava a sognare a occhi aperti. Ti mettevi a bighellonare pensando ai Conquistadores e al destino ecc., e alla fine ti ritrovavi lento e scemo come un creechie.

— ’giorno, Ok! — disse con brio al caposquadra dei taglialegna.

Nero e robusto come un fil di ferro, Oknanawi Nabo era fisicamente l’opposto di Kees, ma aveva la stessa aria preoccupata.

— Avete mezzo minuto?

— Certo. Che cosa ti rode, Ok?

— Quei piccoli bastardi.

Si appoggiarono con la schiena a un tratto rotto di recinzione. Davidson accese la sua prima sigaretta drogata del giorno. La luce del sole, tinta di azzurrino dal fumo, scendeva tiepida per l’aria. La foresta dietro il campo, una striscia non tagliata larga mezzo chilometro, era piena dei suoni esili, interminabili, crepitanti, ridacchianti, agitati, ronzanti, argentei di cui sono pieni i boschi la mattina. Avrebbe potuto trovarsi nell’Idaho del 1950, quella radura. Oppure nel Kentucky del 1830. O nella Gallia del 50 a.C. "Ti-whit" disse un uccello distante.

— Preferirei togliermeli dai piedi, capitano.

— I creechie? Che cosa intendi dire, Ok?

— Semplicemente di lasciarli andare. Non riesco a ottenere abbastanza lavoro da loro, alla segheria, per compensare quello che mangiano. O per compensare il maledetto grattacapo che sono. Non lavorano, e basta.

— No, lavorano se sai farli lavorare. Hanno costruito il campo.

Il volto di ossidiana di Oknanawi era arcigno. — Be’, voi dovete avere il tocco magico con i creechie, credo. Io non l’ho. — Tacque. — In quel corso di Storia Applicata che ho fatto nell’addestramento per Oltre-spazio, dicevano che lo schiavismo non ha mai funzionato. Era antieconomico.

— Giusto, ma qui non si tratta di schiavismo, Ok, ragazzo mio. Quando allevi mucche, lo chiami schiavismo? No. E il sistema funziona.

Impassibile, il caposquadra annuì; ma disse: — Sono troppo piccoli. Ho cercato di affamare quelli più intrattabili. Ma si limitano a starsene immobili e a lasciarsi morire di fame.

— Sono piccoli, certo, ma non devi lasciarti fregare da loro, Ok. Sono duri; hanno una resistenza terribile; e non provano il dolore come gli uomini. Questa è la parte che tu dimentichi, Ok. Tu pensi che colpirne uno sia come colpire un bambino, più o meno. Credimi, è invece come colpire un robot, per quello che sentono. Senti, tu ti sei fatto qualcuna delle femmine, e sai che ti danno l’impressione di non provare nulla, né piacere né dolore, si limitano a starsene lì come materassi, qualunque cosa uno faccia. E tutti i creechie sono uguali. Probabilmente hanno nervi più primitivi di quelli dell’uomo. Come i pesci.

"Senti, te ne racconto una da far rizzare i capelli, a questo proposito. Quando ero alla Centrale, prima di venire qui, uno dei maschi domestici mi ha attaccato, una volta. Sì, lo so, ti dicono che non lottano mai, ma quello è impazzito, ha perso le rotelle, e per fortuna non era armato, altrimenti mi avrebbe ucciso. Sono stato costretto quasi a ucciderlo, perché si decidesse anche solo a fermarsi. E continuava a saltarmi addosso.

"Era incredibile la battuta che si prendeva, senza neppure accorgersene. Come un insetto: tocca a te smettere di calpestarlo, perché lui non si è accorto che l’hai già sfracellato. Da’ un’occhiata."

Davidson chinò il capo per mostrare una cicatrice ancora rigonfia, dietro un orecchio, in mezzo ai capelli tagliati a spazzola.

— Quel colpo, accidenti, per poco non mi ha spaccato il cranio. E mi ha colpito dopo che gli avevo già spaccato il braccio e gli avevo ridotto la faccia a una marmellata di mirtilli. Continuava a saltarmi addosso.

"La faccenda, Ok, è che i creechie sono pigri, sono stupidi, sono traditori, e non sentono il dolore. Bisogna essere duri con loro, e continuare a esserlo."

— Non ne vale la fatica, capitano. Quei piccoli, maledetti bastardi cocciuti, non fanno la lotta, non fanno il lavoro, non fanno nulla di nulla. L’unica cosa che fanno è che mi fanno venire l’angoscia.

C’era una sorta di calma, nei mugugni di Oknanawi, che tradiva un fondo di ostinazione. Non avrebbe mai battuto i creechie, a causa del fatto che erano tanto più piccoli di lui; ciò era chiaro nella sua mente, e adesso era chiaro anche a Davidson, che accettò subito la situazione. Sapeva da che lato prendere i propri uomini.

— Senti, Ok. Prova questo: prendi i capi del malcontento e di’ loro che gli farai un’iniezione di allucinogeni. Mescalina, acido, qualsiasi cosa: non ne distinguono uno dall’altro. Ma ne hanno una grande paura. Non forzare troppo la cosa, e vedrai che funzionerà. Te lo garantisco.

— E perché hanno paura degli allucinogeni? — chiese il capomastro, incuriosito.

— Come posso saperlo? Perché le donne hanno paura dei topi? Non cercare il buon senso nelle donne o nei creechie, Ok! Anzi, a proposito, stamattina vado alla Centrale: devo mettere il dito su una Ragazza di Colonia per te?

— Mi basta che teniate giù il dito da almeno una, fino a quando non avrò un permesso — rispose Ok, sogghignando.

Un gruppo di creechie passò davanti a loro, portando una lunga trave di tre metri per trenta centimetri, destinata alla Sala Ricreativa che stava sorgendo accanto al fiume. Le figurine lente e curve portavano la grossa trave come un gruppo di formiche che trasportasse un bruco morto: ostili e inette. Oknanawi le osservò e poi disse: — Capitano, mi fanno venire la pelle d’oca.

La frase era strana, sulle labbra di un tipo robusto e tranquillo come Ok.

— Be’, sono d’accordo con te, a dire il vero, Ok, che non ne valgono la fatica, o il rischio. Se quello stronzo di Lyubov non fosse sempre tra i piedi e il colonnello non fosse così maniaco nel seguire il regolamento, io penso che potremmo limitarci a ripulire le aree in cui ci insediamo, invece di questo tran-tran del Lavoro Volontario.

"Tanto, finiranno per essere cancellati, prima o poi, e dunque è meglio che lo siano prima. Le razze primitive devono sempre cedere il passo alle razze civili. O venire assimilate. Ma quant’è vero Iddio, non possiamo assimilare un mucchio di scimmie verdi. E, come dici tu, hanno giusto quel tanto d’intelligenza che basta a non renderle mai degne fino in fondo di fiducia. Come quelle grosse scimmie che vivevano una volta in Africa, come diavolo si chiamavano?"

— Gorilla?

— Proprio quelle. Andrà assai meglio, qui da noi, quando non ci saranno più creechie, esattamente come adesso va meglio senza gorilla in Africa. Ci bloccano la strada… Ma il colonnello Din-Don-Dan ci dice di usare manovali creechie, e noi usiamo i creechie. Per ora. Giusto? Ci vediamo questa sera, Ok.

— D’accordo, capitano.

Davidson andò a prendere l’elicottero al Quartier Generale di Campo Smith: un cubo di assi di pino, quattro metri per quattro, due scrivanie, la macchinetta dell’acqua refrigerata, il tenente Birno che riparava un walkie-talkie.

— Non far bruciare l’accampamento, Birno.

— Portatemi una Ragazza di Colonia, capitano. Bionda, misure 85, 55, 90.

— Cristo, niente di più?

— Mi piacciono asciutte, vedete, senza troppa polpa.

Birno tracciò espressivamente nell’aria le sue preferenze. Con un sorriso d’intesa, Davidson salì fino all’hangar. Mentre sorvolava il campo, si sporse a guardarlo: cubetti per bambini, linee di sentieri simili a schizzi, lunghe spianate irte di ceppi sporgenti; tutto si restrinse quando la macchina si alzò: vide il verde delle foreste non tagliate della grande isola, e al di là di quel verde cupo il verde pallido del mare che si stendeva interminabile. Ora Campo Smith pareva una macchia gialla, una pagliuzza su un vasto tappeto verde.

Attraversò lo Stretto di Smith e le pendici alberate, profondamente corrugate, della parte nord dell’Isola Centrale, e per mezzogiorno scese a Centralville. Sembrava una vera città, dopo tre mesi trascorsi nei boschi; c’erano vere e proprie strade, veri edifici, ed era laggiù fin dagli albori della Colonia, quattro anni addietro.

Non ti accorgevi della piccola, inconsistente cittadina di frontiera che era, finché non guardavi un chilometro più a sud e vedevi scintillare al di sopra della spianata di monconi e dei frangifiamme di cemento un’unica torre dorata, più alta di ogni altra cosa di Centralville. La nave non era di quelle grandi, ma quaggiù sembrava enorme. E si trattava solamente di una lancia, una navetta, una scialuppa; la nave ultra-luce della serie, la Shackleton, era mezzo milione di chilometri più su, in orbita. La lancia era solo una traccia, un’unghia della poderosità, della forza, della precisione dorata, della grandiosità della tecnologia della Terra, capace di congiungere tra loro le stelle.

Ecco perché gli occhi di Davidson si riempirono per un istante di lacrime, alla vista della nave venuta dalla madrepatria. E non se ne vergognava affatto. Era un patriota: lui, Davidson, era fatto così, e non poteva farci niente.

E presto, mentre camminava lungo quelle stradine da cittadina di pionieri, con i loro grandi panorami di niente all’uno e all’altro capo, cominciò a sorridere. Poiché le donne c’erano davvero, perfettamente, e si vedeva subito che erano arrivi freschi. Quasi tutte indossavano gonne lunghe e aderenti e scarpe grandi, simili a galosce, rosse, viola o dorate, e camicette arricciate di filo d’oro o d’argento.

Sparite quelle trasparenti, mostraseno. La moda era cambiata; peccato. E tutte portavano i capelli pettinati in alto a formare una sorta di casco cilindrico: probabilmente se li spruzzavano con qualche fissatore colloso. L’effetto era brutto come il peccato, ma era il tipo di cosa che solo le donne sarebbero disposte a fare con i loro capelli, e dunque risultava eccitante.

Davidson fece un sorriso a una piccola eurafricana pettoruta che aveva più capelli che testa; non ne ricavò alcun sorriso in risposta, bensì un ancheggiare, nell’allontanarsi da lui, che diceva a tutte lettere: seguimi, seguimi, seguimi.

Ma non la seguì. Era ancora presto. Si recò al Quartier Generale della Centrale: pietra a presa rapida e plastipiastre, Modello Standard, quaranta uffici, dieci refrigeratori d’acqua da bere e l’arsenale nel sotterraneo, e si presentò al Comando dell’Amministrazione Coloniale Centrale di New Tahiti.

Venne presentato a un paio di membri dell’equipaggio della lancia, inoltrò una richiesta per un nuovo scortecciatore semiautomatico alla Foresteria, e combinò di vedersi al Bar Luau alle due del pomeriggio con il suo vecchio amico Juju Sereng.

Si recò al bar un’ora prima, per mettersi in corpo un po’ di cibo solido prima che avessero inizio le bevute. Laggiù trovò Lyubov, seduto insieme con un paio di individui nell’uniforme della Flotta: qualche razza indeterminata di specialisti, scesi con la lancia della Shackleton.

Davidson non teneva in troppa considerazione la Marina (un branco di svitati che si divertiva a saltare da una stella all’altra e lasciava all’Esercito tutta la parte fangosa, polverosa, pericolosa del lavoro sul campo), ma i gradi sono gradi, e poi era divertente lo spettacolo di Lyubov che se la faceva da amiconi con alcune persone in uniforme. Lyubov stava parlando, e gesticolava tutto convinto, come faceva sempre.

Mentre gli passava accanto, Davidson gli diede una pacca sulla spalla e gli fece: — Ehi, Raj, vecchio furfante, come te la passi?

Proseguì senza stare ad aspettare l’occhiataccia dell’altro, ma gli sarebbe piaciuto vederla. Probabilmente quel Lyubov era effeminato come tanti altri intellettuali, e gli dava fastidio la virilità di Davidson. Comunque, Davidson non intendeva perder tempo a nutrire ostilità verso Lyubov: quell’uomo non ne valeva la fatica.

Al Luau si poteva avere una bistecca di cacciagione, prima scelta. Che cosa avrebbero detto sulla vecchia Terra se avessero visto un uomo mangiarsi un chilo di carne in un pasto solo? Poveri marpioni, con le loro bistecche di soia! E poi arrivò Juju con… così come Davidson aveva previsto con certezza… la crema delle nuove Ragazze di Colonia: due succose beltà, non certo appartenenti alla categoria delle Spose, ma al Personale Ricreativo. Oh, a volte la vecchia Amministrazione Coloniale raggiungeva il suo scopo! Fu un pomeriggio lungo e rovente.

Ritornando in volo al campo, attraversò lo Stretto di Smith allo stesso livello del sole posato in cima a un vastissimo letto dorato di foschia sovrastante il mare. Cantava, mentre pilotava l’elicottero senza alcuna preoccupazione. La Terra di Smith giunse in vista, velata dai vapori, e c’era del fumo al disopra del campo, una chiazza nerastra, come se dell’olio lubrificante fosse finito nell’inceneritore delle immondizie.

In mezzo a quel fumo non si potevano neppure distinguere gli edifici. Solamente quando cominciò a scendere sul campo d’atterraggio, scorse il jet segnato dal fuoco, gli elicotteri fracassati, l’hangar incendiato.

Fece riprendere quota all’elicòttero e ritornò in volo sul campo, a un’altitudine talmente scarsa da rischiare di colpire l’alto cono dell’inceneritore, che era l’unica cosa che rimanesse ancora in piedi. Tutto il resto se n’era andato: segheria, fornace, deposito della legna segata, Quartier Generale, baracche, caserma, recinto dei creechie, tutto. Gusci vuoti e rottami anneriti, ancora fumanti.

Ma non si era trattato di un incendio della foresta. La foresta era ancora in piedi, e verdeggiava intatta, a fianco a fianco con le rovine. Davidson virò di nuovo sul campo d’atterraggio, toccò terra, accese le luci per cercare la moto, ma anch’essa era un rottame annerito, in mezzo alle rovine puzzolenti e fumanti dell’hangar e delle macchine.

Si mise a correre lungo il sentiero che scendeva verso l’accampamento. Mentre passava davanti a quella che era stata la baracca della radio, riacquistò d’improvviso il buon senso. Senza esitare nemmeno per una falcata, cambiò direzione, si allontanò dal sentiero battuto, passò dietro la baracca sventrata. E laggiù si fermò. Tese le orecchie.

Non c’era nessuno. Tutto taceva. I fuochi erano già spenti da tempo; solamente le grosse pile di assi lavorate fumavano ancora, mostrando un cuore rosso intenso al di sotto delle ceneri e dei frammenti bruciacchiati. Valevano più dell’oro, quegli oblunghi mucchietti di cenere, prima… Ma nessuna spirale di fumo si levava ormai dagli scheletri anneriti della caserma e delle baracche; e in mezzo alle ceneri c’erano delle ossa.

Il cervello di Davidson era super-chiaro e in piena attività, a questo punto, mentre si teneva accovacciato dietro la baracca della radio.

C’erano due possibilità. Uno: un attacco da un altro campo. Qualche ufficiale di King o di New Java dava i numeri e stava cercando di fare un coup de planète.

Due: un attacco dall’esterno del pianeta. Rivide la torre dorata, ai moli spaziali della Centrale. Ma se la Shackleton era passata alla pirateria, perché cominciare con la cancellazione di un piccolo campo, invece di impadronirsi di Centralville?

No, doveva trattarsi di un’invasione, di qualche alieno. Qualche razza sconosciuta, o forse i Cetiani o gli Hainiti avevano deciso di assalire le colonie terrestri. Lui non si era mai fidato di quei maledetti umanoidi doppiogiochisti.

Il colpo doveva essere stato effettuato con una bomba incendiaria. La forza d’invasione, appoggiata da jet, vagoni volanti, bombe nucleari, poteva essere nascosta su un’isola, su un atollo, in qualsiasi punto del quarto di sfera sudovest. Avrebbe fatto meglio a ritornare al suo elicottero per trasmettere l’allarme, poi cercare di darsi un’occhiata intorno, in perlustrazione, in modo da riferire al Quartier Generale la propria valutazione della situazione reale. E stava rimettendosi in piedi quando udì le voci.

Non voci umane. Acute, leggere, bla-bla-bla. Alieni.

Chino sulle mani e sulle ginocchia dietro il tetto di plastica della baracca, che ora giaceva sul terreno, deformato dal calore fino ad assumere l’aspetto di un’ala di pipistrello, Davidson s’irrigidì e rimase in ascolto.

Quattro creechie si avvicinarono a pochi passi da lui, sul sentiero. Erano creechie selvatici, completamente nudi a eccezione di un’ampia cintura di cuoio che recava coltelli e piccoli tascapani. Nessuno aveva i calzoncini e il collare di cuoio che venivano assegnati ai creechie addomesticati. Probabilmente, i Volontari chiusi nel recinto erano stati ridotti in cenere insieme con gli umani.

Si fermarono poco più avanti del suo nascondiglio, continuando a parlarsi col loro lento bla-bla-bla, e Davidson trattenne il respiro. Non voleva farsi scorgere. Chissà che diavolo ci facevano, laggiù, dei creechie? Non potevano essere altro che spie o esploratori del nemico.

Uno dei creechie indicò in direzione sud, mentre parlava, e si voltò, cosicché Davidson poté vederlo in faccia. E riconoscerlo.

Tutti i creechie erano uguali tra loro, ma questo era differente. Davidson aveva vergato la propria firma su tutta quella faccia, meno di un anno prima. Era il creechie che era impazzito e che lo aveva assalito giù alla Centrale, il creechie omicida, il beniamino di Lyubov. E che diavolo ci faceva, lì al campo?

La mente di Davidson guizzò, ticchettò; con le reazioni scattanti come sempre, si alzò in piedi, improvviso, alto, tranquillo, arma alla mano.

— Voi creechie — disse. — Fermi. Restate immobili. Giù le braccia. Niente mosse.

La sua voce crepitava come una sferza. Le quattro piccole creature non si mossero. Quella con la faccia rincalcata lo fissò da dietro il cumulo nero di macerie, e i suoi occhi larghi e vacui erano privi di ogni luce.

— Rispondete, adesso. Questo fuoco, chi l’ha fatto? Nessuna risposta.

— Rispondete: svelti, scat-tare! Niente risposta, e io brucio prima lui, poi lui, capito? Questo fuoco, chi l’ha fatto?

— Noi abbiamo bruciato il campo, capitano Davidson — disse quello venuto dalla Centrale, con una voce strana e morbida che a Davidson ricordò quella di qualche umano a lui noto. — Gli umani sono tutti morti.

— Voi l’avete bruciato? Cosa intendi dire?

Chissà perché, non gli riusciva di ricordare il nome dello Sfregiato.

— C’erano duecento umani qui. Novanta schiavi del mio popolo. Novecento del mio popolo sono usciti dalla foresta. Prima abbiamo ucciso gli umani nel luogo della foresta dove tagliavano gli alberi, poi abbiamo ucciso quelli che erano in questo luogo, mentre le case bruciavano. Pensavo che foste stato ucciso. Sono lieto di vedervi, capitano Davidson.

Erano parole assolutamente folli, e naturalmente si trattava di menzogne. Non potevano averli uccisi tutti: Ok, Birno, Van Sten, e tutto il resto, duecento uomini; almeno qualcuno sarebbe riuscito a scappare. I creechie non avevano altro che archi e frecce. E, comunque, i creechie non potevano averlo fatto.

I creechie non lottavano, non uccidevano, non facevano la guerra. Erano non-aggressivi intra-specie, ossia stavano fermi a fare da bersaglio. Non restituivano il colpo. Chiaro come il sole, non potevano avere massacrato duecento uomini con un colpo solo. Il creechie era pazzo.

Il silenzio, il debole puzzo di bruciato nella luminosità lunga e tiepida del crepuscolo, le facce color verde pallido, dagli occhi immobili, che lo guardavano, non volevano dire niente: erano solo un sogno pazzo e cattivo, un incubo.

— Chi lo ha fatto per voi?

— Novecento del mio popolo — disse lo Sfregiato, con quella sua voce maledettamente simile a una voce umana che lui non riusciva a ricordare.

— No, non loro. Chi altri? Chi vi ha fatto agire? Chi vi ha detto cosa fare?

— Mia moglie, me l’ha detto.

Davidson scorse la tensione rivelatrice che si stava accumulando nella creatura, e tuttavia il creechie gli balzò addosso con tale leggerezza, in modo talmente obliquo, che la pistola mancò il colpo, andando a bruciare un braccio o una spalla invece di colpire tra gli occhi.

Poi il creechie fu su di lui: era metà della sua taglia e del suo peso, eppure gli fece perdere l’equilibrio con l’impeto dell’attacco, perché Davidson si era affidato alla presenza della pistola e non si aspettava l’aggressione. Le braccia del creechie erano sottili, dure, coperte di pelliccia, entro la stretta delle sue mani; e mentre Davidson lottava per sciogliersi, il creechie cantava.

Davidson si trovò sulla schiena, premuto a terra, disarmato. Quattro musi verdi posavano lo sguardo su di lui. Lo Sfregiato cantava ancora: un bla-bla sfiatato, ma che pareva contenere un motivetto musicale. Gli altri tre ascoltavano, e mostravano ih un ghigno i denti bianchi.

Davidson non aveva mai visto un creechie sorridere. Non aveva mai fissato lo sguardo in una faccia di creechie dal disotto. Sempre dal disopra, dall’alto in basso. Dalla cima.

Non cercò di liberarsi, perché per il momento sarebbe stata fatica vana. Per piccoli che fossero, lo superavano di numero, e lo Sfregiato aveva la sua pistola. Doveva attendere. Ma provava un malessere indefinito, una nausea che faceva torcere e sussultare il suo corpo, contro la sua stessa volontà. Le piccole mani lo tenevano al suolo senza sforzo apparente, le piccole facce verdi dondolavano sopra di lui e sorridevano.

Lo Sfregiato terminò di cantare. Si inginocchiò sul petto di Davidson, con in una mano un coltello, nell’altra la sua pistola.

— Tu non sai cantare, capitano Davidson, vero? Be’, allora forse potrai correre al tuo elicottero, e volare via, e dire al colonnello, alla Centrale, che questo posto è stato bruciato e che gli umani sono stati tutti uccisi.

Sangue, dello stesso stupefacente colore rosso del sangue umano, macchiava il pelo del braccio destro del creechie, e il coltello tremava nella sua zampa verde. La faccia affilata e segnata di cicatrici si abbassò a fissare la faccia di Davidson da molto vicino, e ora Davidson poté scorgere la strana luce che bruciava nel profondo di quegli occhi scuri come il carbone. La voce era ancora morbida e tranquilla.

Lo lasciarono libero.

Davidson si rialzò con cautela, ancora stordito per la caduta che lo Sfregiato gli aveva fatto fare. Ora i creechie si tenevano ben lontano da lui, sapendo che il suo allungo era il doppio del loro; ma lo Sfregiato non era il solo che avesse un’arma: c’era una seconda pistola puntata sulla sua pancia. E quello che impugnava la pistola era Ben. Il suo creechie Ben, quel piccolo bastardo rognoso, con l’aria stupida come sempre, ma con in mano una pistola.

È difficile voltare la schiena a due pistole puntate su di te, ma Davidson fece proprio questo, e si avviò in direzione del campo d’atterraggio.

Una voce alle sue spalle disse qualche parola creechie, stridula e forte. Un’altra gli gridò: — Svelto, scat-tare! — seguito da uno strano suono, come un cinguettio di uccelli, che doveva essere una risata creechie.

Uno sparo colpì la strada e rimbalzò con un sibilo, a poca distanza da lui. Cristo, non vale, quelli avevano le pistole e lui non era armato. Cominciò a correre. Poteva correre più in fretta di qualsiasi creechie. E quelli non erano capaci di usare una pistola.

— Corri — disse la voce pacata, dietro di lui.

Aveva parlato lo Sfregiato… Selver, ecco come si chiamava.

Sam, lo avevano chiamato, finché Lyubov non aveva fermato Davidson, impedendogli di dargli quello che si meritava, e poi ne aveva fatto il suo beniamino: in seguito lo avevano chiamato Selver. Cristo, ma che cos’era tutto questo, era un incubo?

Continuò a correre. Il sangue gli pulsava alle orecchie. Corse nel crepuscolo dorato e fumoso. C’era un corpo steso attraverso il sentiero, all’andata non se n’era neppure accorto. Non era bruciato, sembrava un pallone bianco, svuotato di tutta l’aria. Aveva occhi azzurri, grandi e sbarrati.

Non osavano ucciderlo, uccidere Davidson. Non gli avevano più sparato. Era impossibile. Non potevano ucciderlo.

Ecco l’elicottero, sicuro e lucente… Davidson si tuffò sul sedile e mise in volo la macchina prima che i creechie potessero tentare qualcosa. Gli tremavano le mani, ma non molto: era solo lo shock. Non potevano ucciderlo. Descrisse un cerchio intorno alla collina e poi ritornò indietro a bassa quota, a tutta velocità, alla ricerca dei quattro creechie. Ma nulla si muoveva tra le rovine dell’accampamento.

C’era un accampamento, quella mattina. Duecento uomini. C’erano quattro creechie pochi minuti fa. Non si era sognato tutto. Non potevano scomparire così. Erano laggiù, nascosti. Aprì il boccaporto della mitragliatrice sulla prua dell’elicottero e tempestò la terra bruciata e i cadaveri ormai freddi dei suoi uomini e le macchine distrutte e i ceppi bianchi e marci, volando avanti e indietro finché le munizioni non furono terminate e i conati dell’arma non cessarono bruscamente.

Adesso le mani di Davidson non tremavano più, il suo corpo provava un senso di pacificazione, e lui era certo di non essersi lasciato prendere da nessun sogno.

Ritornò in volo sullo Stretto, per riferire la notizia a Centralville. Mentre volava, si accorse che la sua faccia si rilassava e riprendeva le abituali linee calme. Non avrebbero potuto accusarlo del disastro, poiché lui non era stato neppure presente.

Forse avrebbero ritenuto significativo il fatto che i creechie avessero colpito mentre lui era assente, sapendo che l’attacco non avrebbe avuto successo se fosse stato presente per organizzare la difesa.

E almeno una cosa positiva sarebbe uscita da tutto l’accaduto. Avrebbero fatto ciò che avrebbero dovuto fare fin dall’inizio, e avrebbero ripulito il pianeta in funzione dell’occupazione umana. Neppure Lyubov avrebbe potuto impedire loro di cancellare i creechie, ormai… soprattutto quando avessero udito che era stato il creechie beniamino di Lyubov a guidare il massacro!

Per un po’ di tempo, sarebbero stati favorevoli allo sterminio di quei parassiti, d’ora in poi; e forse… ripeto forse… avrebbero affidato a lui quel lavoretto. Di fronte a quel pensiero, un altro uomo avrebbe anche potuto sorridere. Ma lui mantenne impassibile il volto.

Il mare sotto di lui era grigiastro dell’ultima luce del crepuscolo, e davanti a lui si stendevano le collinette delle isole, i profondi corrugamenti, i numerosissimi fiumi e le molteplici foglie delle foreste immerse nella tenebra.

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