6 Selver

Quella notte non ci furono canti. Solamente grida e silenzi. Quando le navi volanti bruciarono, Selver esultò, e lacrime gli spuntarono agli occhi, ma nessuna parola alla bocca. Distolse lo sguardo, in silenzio; il lanciafiamme era pesante nelle sue mani: si accinse a guidare nuovamente il gruppo entro la città.

Ciascun gruppo di persone dell’Ovest e del Nord era guidato da un ex schiavo come lui: uno che avesse servito gli umani alla Centrale e conoscesse gli edifici e le vie della città.

Molte delle persone che erano venute per l’attacco quella notte non avevano mai visto la città degli umani; molte di loro non avevano mai visto un umano. Erano venute perché seguivano Selver, perché erano spinte dal cattivo sogno e solamente Selver poteva insegnare loro a padroneggiarlo.

Ce n’erano centinaia e centinaia, uomini e donne; avevano atteso in profondo silenzio nel buio e nella pioggia, tutt’intorno al perimetro della città, mentre gli ex schiavi, due o tre alla volta, facevano quelle cose che, a loro giudizio, occorreva fare per prime: spaccare la conduttura dell’acqua, tagliare i fili che portavano la luce della Casa del Generatore, fare irruzione nell’Arsenale e saccheggiarlo.

Le prime morti, quelle delle guardie, erano avvenute in silenzio, mediante armi da caccia: cappio, coltello, freccia; molto rapidamente, nel buio. La dinamite, rubata tempo prima, nella notte, al campo dei boscaioli quindici chilometri più a sud, venne messa nell’Arsenale, nella cantina dell’edificio del Quartier Generale, mentre i fuochi vennero appiccati in altri luoghi; poi suonò l’allarme, i fuochi scoppiarono e sia la notte che il silenzio fuggirono.

La maggior parte del rumore di tuono e d’alberi caduti della fucileria veniva dagli umani che si difendevano, poiché solamente gli ex schiavi avevano preso armi dall’Arsenale e le avevano usate; tutti gli altri rimasero con le lance, i coltelli e gli archi. Ma era stata la dinamite, collocata e accesa da Reswan e da altri che avevano lavorato come schiavi nei campi dei tagliaboschi, a fare il rumore che aveva conquistato ogni altro rumore, a far scoppiare le pareti del Quartier Generale e a distruggere gli hangar e le navi.

C’erano circa millesettecento umani nella città quella notte, e circa cinquecento di essi erano femmine; si diceva che tutte le femmine umane fossero laggiù in quel momento, e questo era il motivo che aveva spinto all’azione Selver e gli altri, anche se non si erano ancora radunate tutte le persone che desideravano partecipare all’attacco. Un numero di uomini compreso tra quattromila e cinquemila era giunto attraverso le foreste all’Incontro di Endtor, e da lì alla città, a quella notte.

I fuochi bruciavano alti, e l’odore dell’incendio e del macello era cattivo.

Selver aveva la bocca secca e la gola dolorante, e perciò non poteva parlare, e avrebbe desiderato bere dell’acqua. Mentre guidava il suo gruppo lungo il sentiero centrale della città, un umano giunse di corsa incontro a loro, stagliandosi gigantesco sullo sfondo del buio e il bagliore dell’aria satura di fumo.

Selver sollevò il lanciafiamme e premette sulla lingua dell’arma, proprio mentre l’umano scivolava nel fango e cadeva annaspando sulle ginocchia. Nessun sibilante getto di fiamma corse fuori dalla macchina, si era tutta consumata nel bruciare le navi aeree che non erano chiuse nell’hangar. Selver lasciò cadere la macchina pesante. L’umano non era armato, ed era maschio.

Selver cercò di dire: — Lasciatelo fuggire — ma la sua voce era debole, e due uomini, cacciatori dei boschi di Abtan, erano già corsi davanti a lui, mentre parlava, brandendo lunghi coltelli. Le grosse, nude mani cercarono di afferrarsi all’aria, poi ricaddero immobili. Il grosso corpo giacque in un mucchio informe sul sentiero.

Ce n’erano molti altri che giacevano morti, laggiù in quello che era stato il centro della città. Non c’erano più tanti rumori, a eccezione di quello dei fuochi.

Selver aprì le labbra e lanciò con voce roca il richiamo del ritorno a casa, che pone fine alla caccia; coloro che erano con lui lo raccolsero, e lo ripeterono più chiaramente, più forte, con un falsetto che si prolungò; altre voci risposero, vicine e lontane, nella foschia e nell’odore e nell’oscurità della notte interrotta dalle fiamme.

Invece di condurre subito fuori della città il suo gruppo, Selver segnalò ai compagni di andare avanti da soli e si allontanò lateralmente, sul terreno fangoso, che separava il sentiero da un edificio che era bruciato ed era caduto. Scavalcò il corpo di una femmina umana morta e si chinò su un umano che giaceva a terra, schiacciato da un grosso, annerito palo di legno. Non riuscì a distinguere i lineamenti del viso, cancellati dal fango e dall’oscurità.

Non era giusto; non era necessario; lui non avrebbe dovuto guardare quel morto tra così tanti altri. Non avrebbe dovuto riconoscerlo nel buio. Fece per avviarsi dietro al proprio gruppo. Poi tornò indietro; con sforzo, sollevò il palo e lo tolse dalla schiena di Lyubov; si inginocchiò, facendo scivolare una mano sotto la pesante testa, cosicché Lyubov parve giacere più comodamente, con la faccia lontana dal suolo; e laggiù Selver si inginocchiò, immobile.

Non dormiva da quattro giorni, e non rimaneva fermo a sognare da un tempo ancora più lungo… non sapeva esattamente da quanto. Aveva agito, parlato, viaggiato, fatto piani notte e giorno fin da quando aveva lasciato Broter con i suoi seguaci venuti da Cadast.

Era andato da una città all’altra parlando al popolo della foresta, annunciando loro la nuova cosa, svegliandoli dal sogno e portandoli nel mondo, predisponendo tutto in modo che la cosa venisse fatta quella notte, parlando, parlando sempre e ascoltando altri parlare, mai in silenzio e mai solo.

Gli altri l’avevano ascoltata, l’avevano sentita ripetere ed erano giunti fino a lui per seguirlo, e per seguire la nuova via. Avevano raccolto nelle loro mani il fuoco di cui avevano paura: avevano raccolto nelle loro mani il dominio sul sogno cattivo: e avevano liberato sul nemico la morte che essi temevano. Tutto era stato fatto così come, secondo le sue parole, doveva essere fatto. Tutto si era svolto come aveva detto lui.

Le Logge e molte abitazioni degli umani erano state bruciate, le loro navi volanti erano state bruciate o rotte, le loro armi rubate o distrutte; le loro femmine erano morte. I fuochi si stavano spegnendo, la notte diventava assai scura, guastata dal fumo. Selver non riusciva quasi a vedere; alzò gli occhi verso l’est, chiedendosi se l’alba fosse prossima. Inginocchiato laggiù nel fango tra i morti, pensò: Questo è ora il sogno, il sogno cattivo. Io pensavo di guidarlo, ma è stato lui a guidare me.

Nel sogno, le labbra di Lyubov si mossero un poco contro il palmo della sua mano; Selver abbassò gli occhi e vide che le palpebre del morto erano aperte. Il riflesso dei fuochi morenti luccicava sulla superficie degli occhi di Lyubov. Dopo un poco, Lyubov pronunciò il nome di Selver.

— Lyubov, perché sei rimasto qui? Ti avevo detto di allontanarti dalla città questa notte. — Così Selver parlò nel sogno, seccamente, come se fosse adirato nei confronti di Lyubov.

— Sei tu il prigioniero? — disse Lyubov, debolmente e senza sollevare la testa, ma con una voce così normale che Selver pensò, per un istante, che quello non fosse il tempo del sogno, ma invece il tempo del mondo, la notte della foresta. — Oppure lo sono io?

— Nessuno, entrambi, come posso saperlo? Tutti i motori e le macchine sono bruciati. Tutte le donne sono morte. Abbiamo lasciato fuggire gli uomini, se hanno voluto farlo. Ho detto di non dare fuoco alla tua casa, i libri non hanno subito danni. Lyubov, perché tu non sei come gli altri?

— Io sono come loro. Un uomo. Come loro. Come te.

— No, tu sei diverso…

— Io sono come loro. E così lo sei tu. Ascolta, Selver. Non continuare. Non devi continuare a uccidere altri uomini. Devi tornare indietro… tornare a ciò che è tuo… alle tue radici.

— Quando la tua gente se ne sarà andata, allora il sogno cattivo si fermerà.

Adesso! - disse Lyubov, cercando di sollevare la testa, ma aveva la schiena spezzata.

Alzò gli occhi verso Selver, aprì le labbra per parlare. Il suo sguardo cadde e si fissò sull’altro tempo, e le sue labbra rimasero socchiuse, senza parlare. Il respiro sibilò un poco nella sua gola.

Qualcuno chiamava il nome di Selver: molte voci lontane, che continuavano a ripeterlo.

— Non posso stare con te, Lyubov! — disse Selver tra le lacrime e, quando non ebbe risposta, si alzò in piedi e cercò di correre via.

Ma nell’oscurità del sogno poteva solo camminare molto lentamente, come una persona che attraversava a guado l’acqua profonda. Lo Spirito del Frassino camminava davanti a lui, più alto di Lyubov o di qualsiasi umano, alto come un albero, senza volgere verso di lui la sua bianca maschera. E, mentre lo seguiva, Selver parlò a Lyubov: — Torneremo indietro — disse. — Io tornerò indietro. Adesso. Torneremo indietro, te lo prometto!

Ma il suo amico, l’umano gentile che gli aveva salvato la vita e che aveva tradito il suo sogno, Lyubov, non rispose. Camminava in qualche punto della notte, accanto a Selver, invisibile e leggero come la morte.

Un gruppo di persone di Tuntar incappò in Selver che vagava nella notte e piangeva e parlava, dominato dal sogno: lo presero con sé nel loro ritorno a Endtor.

Nella Loggia laggiù rimediata alla meglio… una tenda sull’argine del fiume… Selver giacque, folle e impotente, per due giorni e due notti, mentre i Vecchi Uomini si prendevano cura di lui. Per tutto quel periodo le gente aveva continuato a giungere a Endtor e poi ad allontanarsene, ritornando al Luogo di Eshsen che era stato chiamato Centrale, seppellendo i loro morti laggiù e i morti stranieri; dei loro più di trecento, degli altri più di settecento. C’erano circa cinquecento umani chiusi nel campo di concentramento, il recinto dei creechie, il quale, dato che era vuoto e isolato, non era stato bruciato. Altrettanti umani erano fuggiti: alcuni di essi avevano raggiunto i campi dei tagliaboschi, molto più a sud, che non erano stati attaccati; coloro che ancora si nascondevano o si aggiravano nelle foreste o nelle Terre Tagliate venivano ricercati.

Alcuni venivano uccisi, poiché molti dei più giovani cacciatori, maschi e femmine, udivano ancora solamente la voce di Selver che diceva: Uccideteli. Altri avevano lasciato alle proprie spalle la notte dell’uccisione, come se fosse stata un incubo, il sogno cattivo che doveva essere compreso perché non dovesse più ripetersi; e costoro, quando si trovavano di fronte a un umano assetato e sfinito che si nascondeva impaurito in un cespuglio, non erano capaci di ucciderlo. In tal modo finiva a volte che era lui a ucciderli.

C’erano gruppi di dieci e venti umani, armati di asce da boscaioli e pistole, sebbene poche di esse fossero ancora cariche; questi gruppi venivano seguiti fino a quando un numero sufficiente di cacciatori non si fosse raccolto nella foresta intorno a loro, poi venivano sopraffatti, legati e riportati a Eshsen.

Vennero tutti catturati nel giro di due giorni o tre, poiché tutta quella parte di Sornol pullulava di gente della foresta: non c’era mai stata a memoria d’uomo una riunione di persone, in un solo luogo, che fosse grande anche solo la metà o la decima parte di quella; alcuni continuavano ancora a giungere da altre città e dalle altre Terre, altri cominciavano già a tornare a casa.

Gli umani che venivano catturati venivano messi insieme con gli altri nel recinto, sebbene esso fosse sovraffollato e le sue capanne fossero troppo piccole per gli umani. Veniva data loro acqua, venivano nutriti due volte al giorno, e guardati da duecento cacciatori armati, notte e giorno.

Nel pomeriggio seguito alla Notte di Eshsen, una nave volante giunse strepitando dall’est e volò bassa, come se volesse atterrare; poi schizzò in alto come un uccello da preda che avesse mancato la sua vittima, e volò in cerchio intorno al campo d’atterraggio distrutto, la città ancora fumante, le Terre Tagliate.

Reswan si era premurato di distruggere tutte le radio, e forse era stato il silenzio della radio a far giungere l’elicottero da Kushil o Rieshwel, dove c’erano tre piccole città degli umani. I prigionieri del recinto uscirono di corsa dalle capanne e gridarono in direzione della macchina ogni volta che questa si portò strepitando al disopra della loro testa; una volta la nave gettò un piccolo oggetto legato a un paracadute, che toccò terra nel recinto; infine si allontanò strepitando nel cielo.

Erano rimaste quattro navi come quella, ora, su tutto Athshe: tre in Kushil e una in Rieshwel, tutte del tipo piccolo che poteva portare quattro umani; avevano anche mitragliatrici e lanciafiamme, e opprimevano come un macigno la mente di Reswan e degli altri, mentre Selver era perduto per loro, intento a camminare lungo i misteriosi sentieri dell’altro tempo.

Selver si destò sul tempo del mondo il terzo giorno: esile, stordito, affamato, silenzioso. Dopo essersi bagnato nel fiume e avere mangiato, ascoltò Reswan e la donna-capo di Berre e gli altri che erano stati scelti come comandanti. Essi gli riferirono che cosa era successo nel mondo mentre lui sognava.

Quando li ebbe uditi tutti, Selver si guardò intorno, fissandoli, ed essi videro il dio in lui. Nel malessere di disgusto e di paura che aveva fatto seguito alla Notte di Eshsen, alcuni di loro erano giunti a dubitare. I loro sogni erano inquieti e pieni di sangue e di fuoco; erano circondati tutto il giorno da stranieri, gente venuta da ogni luogo esterno alla foresta, centinaia di loro, migliaia, tutti radunati lassù come nibbi sopra una carogna, ciascuno sconosciuto all’altro: e pareva loro che la fine delle cose fosse giunta e nulla fosse mai più destinato a ritornare uguale a prima, o giusto. Ma alla presenza di Selver ricordarono il loro scopo; la loro angoscia si tranquillizzò, e attesero che lui parlasse.

— L’uccisione è finita — disse. — Assicuratevi che ciascuno lo sappia. — Si guardò intorno. — Devo parlare con coloro che sono chiusi nel recinto. Chi li comanda, laggiù?

— Tacchino, Piedipiatti, Occhi Umidi — disse Reswan, l’ex schiavo.

— Tacchino è vivo? Bene. Aiutami ad alzarmi, Greda, ho delle anguille al posto delle ossa…

Dopo essere stato in piedi per qualche tempo, si sentì maggiormente in forze, ed entro un’ora partì per Eshsen, a due ore di cammino da Endtor.

Quando giunsero al recinto, Reswan salì su una scala appoggiata alla parete e urlò nell’inglese rudimentale insegnato agli schiavi: — Dong-a, vieni alla porta, svelto, scat-tare!

Giù nelle stradine, tra le basse capanne di cemento, alcuni degli umani gridarono contro di lui e gli lanciarono pugni di spazzatura. Lui si chinò per evitarli, e attese.

Il vecchio colonnello non uscì, ma Gosse, che essi chiamavano Occhi Umidi, uscì zoppicando da una capanna e rispose a Reswan: — Il colonnello Dongh è malato, non può uscire.

— Malato che tipo?

— Intestino, malattia dell’acqua. Che cosa vuoi?

— Parlare… Padron dio — disse Reswan nella propria lingua, spostando lo sguardo in direzione di Selver — il Tacchino si nasconde, vuoi parlare con Occhi Umidi?

— Va bene.

— Attenti alla porta, voi arcieri!… Alla porta, signor Goss-a, svelto, scat-tare! La porta venne aperta quel tanto di larghezza e di tempo che permisero a Gosse di uscire con un po’ di fatica. Rimase fermo davanti a essa, da solo, fronteggiando il gruppo guidato da Selver. Cercava di non appoggiarsi a una gamba, ferita nella Notte di Eshsen. Indossava un pigiama strappato, sporco di fango e umido di pioggia. I capelli grigiastri gli pendevano in lunghi festoni intorno alle orecchie e sulla fronte. Alto il doppio dei suoi catturatori, si teneva molto rigido, e li fissava con disperazione coraggiosa, irata.

— Che cosa volete?

— Dobbiamo parlare, signor Gosse — disse Selver, che aveva imparato da Lyubov a parlare correttamente. — Io sono Selver dell’Albero di Frassino di Eshreth. Sono l’amico di Lyubov.

— Sì, ti conosco. Che hai da dire?

— Ho da dire che le uccisioni sono finite, se questa può diventare una promessa mantenuta dal tuo popolo e dal mio. Tutti voi potete andarvene in libertà, se siete disposti a raccogliere tutta la vostra gente dei campi di taglialegna di Sornol Meridionale, Kushil e Rieshwel, e farla stare tutta insieme qui. Potete abitare qui dove la foresta è morta, dove voi piantate le vostre erbe da seme. Non ci deve più essere abbattimento di alberi.

Il volto di Gosse si era fatto interessato. — I campi non sono stati attaccati?

— No.

Gosse non disse nulla.

Selver studiò la sua faccia, e dopo qualche tempo riprese a parlare: — Ci sono meno di duemila del vostro popolo che vivono ancora nel mondo, penso. Le vostre donne sono tutte morte. Negli altri campi ci sono ancora armi. E noi siamo più di quanti potreste uccidere.

"Suppongo che lo sappiate, e che per questo non abbiate cercato di farvi portare dei lanciafiamme dalle navi volanti, per uccidere le guardie e poi fuggire. Non vi sarebbe servito a nulla: siamo effettivamente così tanti. Se voi farete insieme con noi la promessa, sarà molto meglio, e poi potrete aspettare senza danni che una delle vostre Grandi Navi venga, e potrete lasciare il mondo. Questo succederà tra tre anni, ritengo."

— Sì, tre anni locali… Come lo sai?

— Be’, gli schiavi hanno orecchie, signor Gosse.

Gosse finalmente lo osservò. Poi distolse lo sguardo, si agitò nervosamente, cercò di mettere comoda la gamba. Guardò nuovamente Selver, distolse nuovamente lo sguardo.

— Avevamo già "promesso" di non fare del male a nessuno del tuo popolo. È questo il motivo per il quale i lavoratori sono stati rimandati a casa. E non è servito a niente, voi non ci avete ascoltato.

— Non era una promessa fatta a noi.

— Come possiamo fare una qualsiasi specie di accordo o trattato con un popolo che non ha governo, non ha autorità centrale?

— Non lo so. Non sono sicuro che voi sappiate che cosa sia una promessa. Quella di cui parlate è stata presto infranta.

— Che cosa intendi dire? Da chi, come?

— A Rieshwel, New Java. Quattordici giorni fa. Una città è stata bruciata, la sua gente uccisa dagli umani del Campo di Rieshwel.

— Di che cosa parli?

— Notizie portate a noi da messaggeri di Rieshwel.

— È una menzogna. Siamo sempre stati in contatto radio con New Java, fino al massacro. Nessuno ha ucciso dei nativi, né laggiù né in alcun altro luogo.

— Voi dite la verità che conoscete — disse Selver. — Io dico la verità che conosco io. Io accetto la vostra ignoranza delle uccisioni di Rieshwel; ma voi dovete accettare la mia parola che sono state fatte. Resta questo punto: la promessa deve essere fatta a noi e insieme con noi, e deve essere mantenuta. Penso che voi desideriate parlare di queste cose con il colonnello Dongh e gli altri.

Gosse fece per rientrare nel recinto, poi si volse indietro e disse con la sua voce profonda, roca: — Chi sei, tu, Selver? Sei stato tu… a organizzare l’attacco? Sei stato tu a guidarli?

— Sì, sono stato io.

— Allora tutto questo sangue ricade sulla tua testa — disse Gosse, e con improvvisa crudeltà: — Anche quello di Lyubov, lo sai. È morto… il tuo "amico Lyubov".

Selver non capì la frase "questo sangue ricade sulla tua testa". Aveva imparato l’omicidio, ma della colpa conosceva poco più del nome. Mentre i suoi occhi incontravano per un istante lo sguardo pallido e offeso di Gosse, provò timore. Un malessere si sollevò in lui, un gelo mortale. Cercò di allontanarlo da sé, chiudendo gli occhi per un momento. Infine disse: — Lyubov è mio amico, e quindi non è morto.

— Voi siete dei bambini — disse Gosse, con odio. — Bambini, selvaggi. Non avete alcun concetto della realtà. Questo non è un sogno, questa è la realtà! Voi avete ucciso Lyubov. Lyubov è morto. Voi avete ucciso le donne… le donne… le avete bruciate vive, le avete ammazzate come animali!

— Avremmo dovuto lasciarle in vita? — disse Selver con una violenza uguale a quella di Gosse, ma piano, con la voce che cantava un poco. — Per riprodurvi come insetti nella carcassa del Mondo? Per schiacciarci? Le abbiamo uccise per sterilizzarvi.

"Io so che cos’è un realista, signor Gosse. Io e Lyubov abbiamo parlato di queste parole. Un realista è un uomo che conosce sia il mondo sia i propri sogni. Voi non siete sani: non c’è un solo uomo su mille, tra voi, che sappia come sognare. Neppure Lyubov, e lui era il migliore di tutti.

"Voi dormite, vi svegliate e dimenticate i vostri sogni, dormite di nuovo e poi vi svegliate di nuovo, e in questo modo passate l’intera vostra vita, e pensate che questa sia l’esistenza, la vita, la realtà! Voi non siete bambini, voi siete uomini adulti, ma insani. Ed è per questo che noi abbiamo dovuto uccidervi, prima che ci faceste diventare pazzi. E ora ritornate pure dentro, a parlare della realtà con gli altri uomini insani. Parlatene a lungo, e bene!"

Le guardie aprirono la porta, minacciando con le lance gli umani che si affollavano dietro di essa; Gosse rientrò nel recinto, e le sue grosse spalle erano curve, come se dovesse ripararsi dalla pioggia.

Selver era molto stanco. La donna-capo di Berre e un’altra donna accorsero da lui e gli camminarono a fianco, mettendosi le sue braccia intorno alle spalle, in modo che non cadesse, neppure se fosse inciampato. La giovane cacciatrice Greda, una cugina del suo Albero, scherzò con lui, e lui le rispose a cuor leggero, ridendo. Il viaggio di ritorno a Endtor parve prolungarsi per giorni interi.

Selver era troppo stanco per mangiare. Bevve un poco di brodo caldo e si stese accanto al Fuoco degli Uomini. Endtor non era una città, ma un semplice accampamento vicino al grande fiume, un luogo di pesca favorito da tutte le città che un tempo erano esistite in quella parte della foresta, prima che giungessero gli umani.

Non c’era una Loggia. Due anelli di pietre nere intorno ai fuochi e una lunga banchina erbosa lungo il fiume, dove tende di cuoio e di vimini intrecciati potevano venire innalzate: questo era Endtor. Il fiume Menend, il più grande corso d’acqua di Sornol, parlava incessantemente nel mondo e nei sogni di Endtor.

C’erano molti vecchi uomini accanto al fuoco, e alcuni di essi gli erano noti fin da Broter e Tuntar e dalla sua città di Eshreth, ora distrutta, altri gli erano ignoti; poteva vedere nei loro occhi e nei loro gesti, e udire dalla loro voce, che erano Grandi Sognatori; un numero di sognatori così grande non si era forse mai riunito in un solo luogo, in precedenza. Mentre era steso in tutta la sua lunghezza, con la testa sollevata sulle mani, fissando il fuoco, disse: — Ho chiamato matti gli umani. Sono io stesso matto?

— Tu non riconosci un tempo dall’altro — disse il vecchio Tubab, gettando una pigna nel fuoco — perché per troppo tempo non hai sognato, né dormendo né nella veglia. Il costo di ciò richiede molto tempo per essere pagato.

— I veleni che prendono gli umani fanno pressappoco lo stesso effetto della mancanza di sonno e di sogno — disse Heben, che era stato schiavo sia alla Centrale sia a Campo Smith. — Gli umani avvelenano se stessi allo scopo di sognare. Ho visto in loro lo sguardo del sognatore, dopo che avevano preso il veleno.

"Ma non potevano chiamare a sé il sogno, né controllarlo, né intesserlo o dargli forma, né cessare di sognare: ne erano sospinti, sopraffatti. Non sapevano affatto che cosa avessero dentro di sé. E la stessa cosa succede a un uomo che non sogna per molti giorni.

"Anche se fosse il più saggio della Loggia, sarebbe ugualmente pazzo, di tanto in tanto, prima o poi, ancora per molto tempo in seguito. Sarebbe spinto, reso schiavo. Non capirebbe se stesso."

Un uomo molto vecchio, che parlava con l’accento del Sornol Meridionale, posò le mani sulla spalla di Selver, lo accarezzò e disse: — Mio caro giovane dio, tu hai bisogno di cantare, questo ti farebbe bene.

— Non posso. Canta tu per me.

Il vecchio cantò; altri si unirono, con le voci acute e sottili, quasi stonate, come il vento che soffia tra le canne acquatiche di Endtor. Cantarono una delle canzoni del frassino, che parlava delle foglie delicate e solcate da robuste nervature che diventano gialle in autunno quando le bacche diventano rosse, e poi una notte il primo gelo le inargenta.

Mentre Selver ascoltava il canto del frassino, Lyubov era sdraiato accanto a lui. Da sdraiato non pareva così mostruosamente alto e grosso di membra. Dietro a lui c’era l’edificio semidiroccato, sventrato dal fuoco, che nereggiava contro le stelle.

— Io sono come te — disse Lyubov, senza guardare Selver, con quella voce di sogno che cerca di rivelare la propria falsità. Il cuore di Selver era appesantito dal dolore per l’amico.

— Ho mal di testa — disse Lyubov, con la propria voce, strofinandosi il dorso del collo come faceva sempre, e mentre così faceva Selver tese la mano per toccarlo, per consolarlo.

Ma Lyubov era d’ombra e di luce dei falò, nel tempo del mondo, e i vecchi cantavano la canzone del frassino, dei piccoli fiori bianchi sui rami neri in primavera, tra le foglie nervate.

Il giorno dopo, gli umani imprigionati nel recinto mandarono a chiamare Selver. Lui giunse a Eshsen nel pomeriggio, e si incontrò con loro all’esterno del recinto, sotto le fronde di una quercia, poiché la gente di Selver si sentiva un poco a disagio sotto il cielo nudo e aperto.

Eshsen era stato un boschetto di querce; quell’albero era il più grande dei pochi che i coloni avessero lasciato in piedi. Stavano sulla lunga discesa dietro il bungalow di Lyubov, una delle sei o sette case che fossero riuscite a superare indenni la notte dell’incendio. Insieme a Selver, sotto la quercia c’erano Reswan, la donna-capo di Berre, Greda di Cadast, e altri che volevano partecipare all’incontro: una dozzina in tutto.

Molti arcieri facevano la guardia, temendo che gli umani avessero con sé delle armi nascoste, ma sedevano dietro cespugli o rovine lasciate dall’incendio, in modo da non dominare la scena con un suggerimento di minaccia.

Insieme con Gosse e con il colonnello Dongh c’erano tre degli umani che venivano chiamati ufficiali e due degli appartenenti al campo dei tagliaboschi: alla vista di uno di loro, Benton, gli ex schiavi trattennero il respiro. Benton aveva l’abitudine di punire i "creechie pigri" castrandoli in pubblico.

Il colonnello aveva un aspetto smagrito; la sua pelle, che normalmente aveva un colore giallo-marrone, ora appariva giallastro-grigia; la sua malattia non era una finzione.

— Ora, la prima cosa è — disse il colonnello, quando si furono tutti messi al loro posto, gli esseri umani in piedi, la gente di Selver accosciata o seduta sul terriccio umido e soffice composto di foglie di quercia — la prima cosa è che io desidero subito avere una definizione operativa di cosa esattamente significano quei vostri termini, e che cosa significano in termini di garantire la sicurezza del personale sotto il mio comando qui.

Seguì un silenzio.

— Voi capite l’inglese, vero, almeno alcuni di voi?

— Sì. Ma non capisco la vostra domanda, signor Dongh.

— Colonnello Dongh, prego!

— Allora voi chiamatemi colonnello Selver, prego!

Una nota di canto s’infilò nella voce di Selver; si alzò in piedi, pronto per la contesa, con le melodie musicali che scorrevano nella sua mente come fiumi.

Ma il vecchio umano si limitò a starsene lì immobile, grosso e pesante, rabbioso, ma senza accettare la sfida.

— Non sono venuto qui per farmi insultare da voi piccoli umanoidi — disse.

Ma le sue labbra tremavano, mentre lo diceva. Era vecchio, e sconcertato, e umiliato. Ogni anticipazione del trionfo si allontanò da Selver. Non c’era più trionfo nel mondo, solo morte. Tornò a sedere.

— Non intendevo insultanti, colonnello Dongh — disse, rassegnato. — Vorreste ripetere la domanda, per favore?

— Desidero udire i vostri termini, e poi udrete i nostri, non c’è altro.

Selver ripeté ciò che aveva detto a Gosse.

Dongh ascoltò con evidente impazienza. — D’accordo. Ora, voi non sapete che noi abbiamo una radio funzionante nel recinto prigione: l’abbiamo già da tre giorni.

Selver lo sapeva benissimo, poiché Reswan aveva immediatamente controllato la natura dell’oggetto lanciato dall’elicottero, per timore che fosse un’arma: le guardie gli avevano riferito che era una radio, e lui aveva lasciato che gli uomini se la tenessero. Selver si limitò ad annuire col capo. — E perciò siamo stati in contatto con i tre campi periferici, i due sulla Terra del Re e quello su New Java, per tutto il tempo, e se avessimo deciso di tentare una sortita e di fuggire da quel recinto prigione, sarebbe stato assai semplice farlo: gli elicotteri ci avrebbero gettato le armi e avrebbero coperto i nostri movimenti con le loro armi di bordo; sarebbe bastato un lanciafiamme a farci uscire dal recinto, e in caso di bisogno gli elicotteri hanno anche bombe capaci di far saltare in aria un’intera zona. Voi non le avete mai viste agire, naturalmente.

— Se aveste lasciato il recinto, dove sareste andati?

— Il punto è che, senza introdurre nella presente discussione alcun fattore momentaneamente irrilevante, oppure erroneo, adesso siamo certamente molto superati in numero dalle vostre forze, ma abbiamo i quattro elicotteri dei campi, che voi non avete modo di distruggere, in quanto sono sotto guardia armata in ogni momento, ora, e inoltre abbiamo tutta la potenza di fuoco pesante, cosicché la fredda realtà della situazione è che possiamo dire di essere in parità e parlare da posizioni di reciproca uguaglianza.

"Questa naturalmente è una situazione temporanea. Se necessario, abbiamo il permesso di mantenere un’azione difensiva di polizia per evitare lo scoppio di una guerra. Inoltre, abbiamo dietro di noi l’intera potenza bellica della Flotta Interstellare Terrestre, che potrebbe spazzare via dal cielo il vostro pianeta. Ma queste idee sono intangibili per voi, perciò cerchiamo di limitarci a esprimere nel modo più semplice e chiaro che siamo pronti a negoziare con voi, per il momento, in termini di un uguale schema di riferimenti."

La pazienza di Selver era alquanto corta; sapeva che questa ira era sintomo del deteriorarsi del suo stato mentale, ma non riusciva più a controllarla.

— Andate avanti, allora!

— Bene, per prima cosa, desidero far chiaramente comprendere che non appena abbiamo avuto la radio, abbiamo detto agli uomini degli altri campi di non portarci armi e di non compiere alcun tentativo di salvataggio aereo, e che le rappresaglie erano strettamente fuori luogo…

— Questo è stato prudente da parte vostra. E poi?

Il colonello Dongh fece per ribattere collericamente, ma si fermò; divenne pallidissimo.

— Non c’è nessun posto per sedersi? — chiese.

Selver aggirò il gruppo degli umani, risalì il pendio, entrò nel bungalow di due stanze, vuote, e prese la sedia pieghevole che era accanto al tavolo. Prima di lasciare la stanza silenziosa, si chinò e posò la guancia sulla superficie scabra e rozza di legno della scrivania, dove Lyubov si era sempre seduto quando aveva lavorato con Selver o da solo; alcune delle sue carte erano ancora lì; Selver le sfiorò delicatamente. Portò fuori la sedia e la posò sulla terra resa umida dalla pioggia, per Dongh. Il vecchio si sedette, mordendosi le labbra; i suoi occhi a forma di mandorla erano ridotti a due fessure a causa del dolore.

— Signor Gosse, forse voi potete parlare per il colonnello — disse Selver. — Non si sente bene.

— Parlerò io — disse Benton, facendo un passo avanti, ma Dongh scosse la testa e mormorò: — Gosse.

Con il colonnello come ascoltatore invece che come negoziatore, le cose andarono meglio. Gli umani accettavano i termini di Selver. Con una reciproca promessa di pace, avrebbero ritirato tutti dai loro campi e si sarebbero limitati ad abitare in una sola area, la regione che avevano disboscato in Sornol Centrale: circa cinquemila chilometri quadrati di terreno ondulato, ricco di acque. Si impegnavano a non entrare nelle foreste; il popolo della foresta si impegnava a non sconfinare nelle Terre Tagliate.

I quattro elicotteri rimasti furono oggetto di una disputa. Gli umani insistevano sul fatto che ne avevano bisogno per portare dalle altre isole a Sornol i loro compagni. Poiché le macchine portavano solamente quattro persone e richiedevano varie ore per ciascun viaggio, a Selver pareva che gli umani sarebbero giunti a Eshsen assai più presto viaggiando a piedi, e offrì loro il trasbordo attraverso gli stretti; ma risultò poi che gli umani non camminavano mai troppo a lungo. Benissimo, potevano tenersi gli elicotteri per quella che chiamavano "Operazione Trasporto Aereo". Dopodiché, avrebbero dovuto distruggerli. Rifiuto. Ira. Si preoccupavano maggiormente di proteggere le loro macchine che non i loro corpi.

Selver cedette, dicendo che potevano tenersi gli elicotteri, purché li facessero volare solamente al disopra delle Terre Tagliate e distruggessero le armi che c’erano a bordo. Su questo, discussero ancora, ma tra di loro, mentre Selver attendeva, ripetendo di tanto in tanto i termini della sua richiesta, poiché non intendeva cedere su quel punto.

— Che differenza può fare, Benton? — disse infine il vecchio colonnello, furioso e tremante. — Non vedi che non possiamo usare quelle maledette armi? Ci sono tre milioni di questi alieni, distribuiti su tutte queste maledette isole, tutte coperte di alberi e sottobosco, senza città, senza reti di comunicazione vitali, senza controllo centrale.

"Non puoi sconfiggere con le bombe una struttura militare basata sulla guerriglia, è stato dimostrato; anzi, è stato dimostrato proprio nella parte del mondo dove sono nato io: l’hanno dimostrato per circa trent’anni, scacciando le grandi potenze militari una dopo l’altra, nel ventesimo secolo. E non saremo in posizione di dimostrare la nostra superiorità finché non arriverà una nave. Lasciamo pure andare le armi pesanti, basta che ci restino le armi personali per la caccia e la difesa."

Era il loro Vecchio Uomo, e la sua opinione finì col prevalere, così come sarebbe potuto succedere in una Loggia degli Uomini. Benton si ritirò offeso. Gosse cominciò a parlare di ciò che sarebbe potuto succedere se la tregua fosse stata infranta, ma Selver lo fermò.

— Queste sono possibilità, e non abbiamo ancora finito con le certezze. La vostra Grande Nave deve ritornare tra tre anni, cioè tre anni e mezzo dei vostri. Fino ad allora voi sarete liberi qui. Non sarà troppo dura per voi. Null’altro sarà portato via da Centralville, a eccezione di certi lavori di Lyubov che voglio conservare. Voi avete ancora gran parte dei vostri utensili per tagliare gli alberi e muovere il terreno; se vi occorrono altri utensili, le miniere di ferro di Peldel sono nel vostro territorio. Penso che tutto sia chiaro. Ciò che resta da sapere è questo: quando quella nave arriverà, che cosa cercherà di fare di voi, e di noi?

— Non lo sappiamo — disse Gosse.

Dongh diede la spiegazione: — Se non aveste distrutto il comunicatore ansible, potremmo ricevere informazioni aggiornate su questi argomenti, e i nostri rapporti potrebbero ovviamente influenzare la decisione che forse si sta prendendo riguardo a una scelta definitiva dello stato di questo pianeta, e noi potremmo cominciare a metterla in opera prima che la nave ritorni da Prestno.

"Ma a causa della sconsiderata distruzione dovuta alla vostra ignoranza del vostro stesso interesse, non abbiamo neppure una radio capace di comunicare per più di poche centinaia di chilometri."

— Che cos’è l’ansible? — La parola era già apparsa durante le trattative; era un parola nuova per Selver.

— Un DCI — disse il colonnello, acido.

— Un tipo di radio — disse Gosse, arrogante. — Ci mette in contatto istantaneo con il nostro pianeta natale.

— Senza l’attesa di ventisette anni?

Gosse fissò Selver a occhi sbarrati. — Giusto. Giustissimo. Hai imparato un mucchio di cose da Lyubov, vero?

— Sì, proprio — intervenne Benton. — Era il piccolo amichetto verde di Lyubov. Ha raccolto tutto ciò che valeva la pena di sapere, e anche un mucchio d’altro. Come ad esempio tutti i punti da sabotare, e dove erano collocate le guardie, e come entrare nel magazzino delle armi. Devono essere stati in contatto fino al momento in cui è cominciato il massacro.

Gosse parve turbato. — Raj è morto. Tutte queste cose sono ormai irrilevanti, Benton. Dobbiamo stabilire…

— State forse cercando di insinuare in qualche modo che il capitano Lyubov fosse implicato in qualche attività che si possa chiamare tradimento nei riguardi della Colonia, Benton? — disse Dongh, guardandolo torvo e premendosi le mani contro la pancia. — Non ci sono mai state spie o traditori nel mio stato maggiore, è stato scelto accuratamente ancor prima che lasciassimo la Terra e io conosco il tipo di uomini con cui devo trattare.

— Io non insinuo niente, colonnello. Io dico chiaro che è stato Lyubov a mettere idee in testa ai creechie, e se i nostri ordini non fossero stati cambiati dopo che quella nave della Flotta è venuta qui, non sarebbe mai successo.

Sia Gosse che Dongh fecero per ribattere immediatamente.

— Voi tutti siete molto malati — osservò Selver, alzandosi in piedi e ripulendosi, poiché le foglie di quercia, umide e color grigio cupo, aderivano al suo corto pelame, come a seta. — Mi spiace che abbiamo dovuto chiudervi nel recinto dei creechie; non è un buon luogo per la mente.

"Per favore, mandate a chiamare i vostri uomini dei campi. Quando tutti saranno qui e le grosse armi saranno state distrutte, e la promessa sarà stata pronunciata da tutti noi, allora vi lasceremo soli. Le porte del recinto saranno aperte quando io mi allontanerò da qui, oggi. C’è altro da dire?"

Nessuno disse altro. Tutti abbassarono gli occhi su di lui. Sette grossi uomini, con pelle senza peli, abbronzata o bruna, coperti di stoffa, dagli occhi cupi, dai volti torvi. Dodici piccoli uomini, verdi o marrone-verde, coperti di pelo, con i grandi occhi delle creature seminotturne, con volti segnati. Tra i due gruppi, Selver, il traduttore fragile, sfigurato, che teneva i destini di tutti nelle sue mani vuote. La pioggia cadeva piano sulla terra bruna intorno a loro.

— Addio, allora — disse Selver, e guidò via la sua gente.

— Non sono poi così stupidi — disse la donna-capo di Berre, mentre accompagnava Selver nel viaggio di ritorno a Endtor. — Pensavo che giganti come quelli dovessero essere stupidi, ma anch’essi hanno visto che sei un dio, l’ho letto sulle loro facce alla fine del parlare. Come parli bene quel loro glub-glub. Come sono brutti, pensi che anche i loro bambini siano senza pelo?

— Questo non lo verremo mai a sapere, spero.

— Ugh! Pensa a fare da balia a un bambino che non sia peloso. Come cercare di allattare un pesce.

— Gli umani sono tutti insani — disse il vecchio Tubab, che aveva un aspetto profondamente desolato. — Lyubov non era come quelli, quando veniva a Tuntar. Era ignorante, ma sensibile. Quelli, invece, continuano a discutere, e disprezzano il vecchio, e si odiano l’un l’altro, così — e contorse la faccia coperta di pelo verde, per imitare l’espressione dei Terrestri, di cui, naturalmente non aveva potuto capire le parole. — È questo, Selver, ciò che hai detto loro, che sono matti?

— Ho detto loro che sono malati. Ma del resto, sono stati vinti, e feriti, e chiusi in quella gabbia di pietra. Dopo una cosa come questa, qualsiasi persona sarebbe malata e bisognosa di cure.

— E chi li curerà? — disse la donna-capo di Berre. — Le loro donne sono tutte morte. Peccato per loro. Povere brutte creature… sono dei grossi ragni nudi, ugh!

— Sono uomini, uomini, come noi, uomini — disse Selver, con voce stridula e tagliente come un coltello.

— Oh, mio caro Padron dio, lo so, voglio solo dire che sembrano ragni — disse la vecchia donna, accarezzandogli la guancia. — Sentite, voialtri, Selver è consumato a causa di tutto questo andare avanti e indietro tra Endtor ed Eshsen, sediamoci un po’ a riposare.

— Non qui — disse Selver. Erano ancora nelle Terre Tagliate, tra ceppi e pendii erbosi, sotto il cielo nudo. — Quando saremo sotto gli alberi… — Inciampò, e coloro che non erano dèi lo aiutarono a camminare lungo la strada.

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