5 Lyubov

Era stato uno shock, incontrare Selver faccia a faccia. Mentre ritornava in elicottero alla Centrale dal villaggio ai piedi della collina, Lyubov cercava di decidere perché fosse stato uno shock, di trovare mediante l’analisi il nervo che aveva fatto un sobbalzo. Infatti, di solito, una persona non si spaventa nell’incontrare per caso un vecchio amico.

Non era stato facile indurre la donna-capo a invitarlo. Tuntar era stato il suo principale sito di studio per tutta l’estate; laggiù aveva vari eccellenti informatori ed era in buoni rapporti con la Loggia e con la donna-capo, che gli aveva permesso di prendere liberamente parte alla vita comune e di osservarla. Rimediare un vero invito da lei, grazie ai buoni uffici degli ex servitori che erano rimasti nella zona, aveva richiesto molto tempo, ma alla fine la donna aveva ceduto, così fornendogli, in accordo con le nuove direttive, una genuina "occasione predisposta dagli Athshiani stessi".

Era stata la sua stessa coscienza, più del colonnello, a insistere su questo punto. Dongh desiderava che lui andasse. Era preoccupato per la Minaccia Creechie. Disse a Lyubov di valutarla, di vedere "come reagiscono adesso al fatto che noi li lasciamo rigorosamente soli". Il colonnello sperava che la valutazione che Lyubov gli avrebbe recato si dimostrasse rassicurante. E Lyubov non sapeva decidere se il rapporto che doveva passare al colonnello dovesse rassicurarlo o no.

Una volta uscito dalla Centrale, per quindici chilometri il terreno era disboscato e i ceppi erano marciti; adesso c’era una larga e ottusa spianata di erba-fibra, grigia e filamentosa sotto la pioggia. Sotto quelle foglie irsute i piccoli arbusti seminati crescevano per la prima volta: sommacco, tremulo nano, i salviformi che, una volta cresciuti, avrebbero a loro volta protetto le piante da seme. Lasciata a se stessa, in quel clima uniforme e piovoso, quell’area si sarebbe potuta riforestare in capo a trent’anni, raggiungere nuovamente lo stato di foresta in massimo rigoglio nel giro di un secolo. Lasciata a se stessa.

Improvvisamente la foresta ricominciò, nello spazio e non nel tempo: sotto l’elicottero, il verde delle infinite tinte delle foglie copriva i lenti rigonfiamenti e le ripiegature dei monti di Nord Sornol.

Come molti terrestri, sulla Terra Lyubov non aveva mai camminato tra gli alberi selvatici, non aveva mai visto un bosco più grande di un isolato cittadino. Dapprima, su Athshe, lui si era sentito oppresso e inquieto nella foresta, soffocato dalla sua interminabile folla e incoerenza di tronchi, fronde, foglie in perpetuo crepuscolo verdastro o marrone.

La massa e il caos di difformi vite in competizione, tutte occupate a spingere e a traboccare verso l’esterno, verso l’alto, verso la luce, il silenzio costituito da molti piccoli rumori senza significato, la totale indifferenza vegetale alla presenza della ragione, tutto questo lo aveva inquietato, e, al pari degli altri, lui si era tenuto entro i confini delle radure e della spiaggia.

Ma a poco a poco aveva cominciato ad amare la foresta. Gosse lo prendeva in giro, chiamandolo signor Gibbone; e in effetti Lyubov aveva un poco l’aspetto di un gibbone, con volto scuro e tondo, braccia lunghe e capelli precocemente grigi, ma i gibboni erano estinti.

Che gli piacesse o no, come studioso di forme di vita intelligenti doveva recarsi nelle foreste a cercare quelle forme di vita; e adesso, dopo quattro anni, si trovava completamente a proprio agio sotto gli alberi: forse più a suo agio sotto gli alberi che in qualsiasi altro posto.

Ed era anche giunto ad amare i nomi dati dagli Athshiani alle loro terre e ai loro luoghi, parole sonore di due sillabe: Sornol, Tuntar, Eshreth, Eshsen… che adesso era Centralville… Endtor, Abtan, e sopra a tutto Athshe, che significava la Foresta, e il Mondo. Allo stesso modo, earth, terra, tellus significano sia il suolo che il pianeta, due significati e uno solo. Ma per gli Athshiani il suolo, il terreno, la terra non erano il luogo a cui i morti ritornano e da cui i viventi traggono vita: la sostanza del loro mondo non era la terra, bensì la foresta. L’uomo terrestre era argilla, polvere rossa. L’uomo Athshiano era ramo e radice. Essi non intagliavano figurine di se stessi nella pietra, ma solo nel legno.

Fece discendere l’elicottero, in una piccola radura a nord della città e avanzò fino a superare la Loggia delle Donne. Gli odori di una comunità Athshiana gravavano pungenti nell’aria: fumo di legna, pesce marcio, erbe aromatiche, sudore alieno.

L’atmosfera di una casa sotterranea, ammesso che un terrestre riuscisse a starci, era un raro composto di CO2 e tanfi vari. Lyubov aveva trascorso molte ore assai stimolanti dal punto di vista intellettuale ripiegato su se stesso e semisoffocato nella nauseabonda oscurità della Loggia degli Uomini di Tuntar. Ma non pareva che questa volta lo volessero invitare.

Naturalmente, gli abitanti della cittadina sapevano del massacro di Campo Smith, ora distante un mese e mezzo. Dovevano averlo saputo presto, perché le notizie si diffondevano rapidamente tra le isole, sebbene non tanto rapidamente da costituire un "misterioso potere di telepatia" come amavano credere i tagliaboschi.

E gli abitanti della cittadina sapevano anche che i milleduecento schiavi di Centralville erano stati liberati poco dopo il massacro di Campo Smith, e Lyubov era d’accordo col colonnello che i nativi potevano interpretare il secondo avvenimento come un risultato del primo. Ciò dava quel che il colonnello Dongh avrebbe definito "un’impressione erronea" ma la cosa probabilmente non aveva importanza.

L’importante era che gli schiavi fossero stati liberati. I torti che erano stati fatti non potevano venire raddrizzati, ma almeno non si continuava a farne altri. Tutti potevano ricominciare dall’inizio: i nativi senza quella perplessità, penosa e incapace di trovare risposta, sul perché gli "umani" trattassero gli uomini come animali; e lui alleggerito del fardello di dover spiegare, dell’intimo bruciore della colpevolezza irrimediabile.

Sapendo quanto valutassero la sincerità e l’assenza di sotterfugi nel parlare di argomenti spaventosi o preoccupanti, lui si aspettava che la gente di Tuntar parlasse con lui di quelle cose, con trionfo, con scuse, con gioia, o con perplessità. Ma nessuno ne parlò. Nessuno parlò molto con lui, di nessun argomento.

Lui era giunto nella cittadina nel tardo pomeriggio che era un po’ come arrivare in una città terrestre alle prime luci dell’alba. Gli Athshiani dormivano effettivamente… l’opinione dei coloni, come tante altre volte, si faceva beffe di realtà che si sarebbero potute osservare facilmente… ma il loro punto fisiologico più basso era collocato tra il mezzogiorno e le quattro del pomeriggio, mentre per i terrestri è di solito tra le due e le cinque del mattino; ed essi avevano un ciclo con due massimi di alta temperatura e di alta attività, in corrispondenza dei due crepuscoli, l’alba e la sera.

La gran parte degli adulti dormiva cinque o sei ore su ventiquattro, distribuite in numerosi sonnellini brevi; gli adepti dormivano ancor meno, fino a un minimo di due ore su ventiquattro, così, se ci si limitava a dare l’etichetta di "pigrizia" ai loro brevi sonni e ai loro stati di sogno, si poteva dire che non dormivano mai.

Era molto più facile fare così che comprendere ciò che essi facevano in realtà. In quel momento, a Tuntar, le cose stavano appena ricominciando a rimettersi in moto dopo il rallentamento della sera.

Lyubov notò la presenza di molti estranei. Essi lo fissarono, ma nessuno si avvicinò; erano delle semplici presenze che camminavano lungo altri sentieri, nell’ombra delle grandi querce. Alla fine, sul suo cammino giunse qualcuno che lui conosceva: Sherrar, la cugina della donna-capo, una vecchia che aveva poca importanza e poca intelligenza.

Lei lo salutò civilmente, ma non seppe o non volle rispondere alle sue domande sulla donna-capo e sui suoi due principali informatori, Egath il coltivatore di alberi da frutto e Tubab il Sognatore. Oh, la donna-capo era molto indaffarata, e chi era Egath, forse lui intendeva Geban, e Tubab forse era lì o forse laggiù, o magari chissà dove.

Lei rimase con Lyubov, e nessun altro parlò con lui. Si fece strada, accompagnato dalla vecchietta zoppicante, lamentosa, minuscola e verde, tra i solchi e i boschetti di Tuntar, fino alla Loggia degli Uomini.

— Là dentro hanno un mucchio di lavoro — gli disse Sherrar.

— Sognano?

— E come potrei saperlo? Vieni con me, Lyubov, andiamo a vedere…

Sapeva che Lyubov voleva sempre vedere le cose, ma non sapeva immaginare cosa fargli vedere per trascinarlo via.

— Vieni a vedere le reti da pesca — disse debolmente.

Una ragazza che passava lì vicino, una delle Giovani Cacciatrici, alzò lo sguardo su di lui: un’occhiata nera, uno sguardo carico di animosità, quale lui non aveva mai ricevuto da alcun Athshiano, tolto forse qualche bambino piccolo, spaventato, fino al punto di accigliarsi, dalla sua alta statura e dalla sua faccia senza pelo. Ma quella ragazza non era affatto spaventata.

— D’accordo — disse a Sherrar, sentendo che l’unico corso a lui possibile era quello della docilità. Se gli Athshiani avevano realmente sviluppato… dopo tanto, e d’improvviso… il senso dell’inimicizia di gruppo, allora lui doveva accettare questo stato di cose, e semplicemente cercare di dimostrare loro che era sempre un loro amico fedele, immutabile.

Ma come poteva essere cambiato così in fretta, dopo così tanto tempo, il loro modo di sentire e di pensare? E per quale ragione? Al Campo Smith, le provocazioni erano state immediate, e intollerabili: la crudeltà di Davidson era capace di spingere alla violenza perfino gli Athshiani. Ma quella città, Tuntar, non era mai stata attaccata dai terrestri, non aveva subito incursioni per la cattura di schiavi, non aveva visto disboscare o incendiare la foresta locale.

Lyubov stesso, era stato laggiù… l’antropologo non può sempre lasciare la propria ombra fuori del quadro da lui ritratto… ma non c’era più stato negli ultimi due mesi. Gli abitanti avevano ricevuto la notizia di Campo Smith, e adesso tra di loro c’erano dei rifugiati, ex schiavi, che avevano subito offese per mano dei terrestri e che ne avrebbero parlato. Ma potevano una notizia e qualche diceria cambiare gli ascoltatori, cambiarli radicalmente?… visto che la loro non-aggressività era così profonda, penetrava fino alle radici della loro cultura e della loro società e proseguiva nel loro inconscio, nel loro "tempo del sogno" e forse nella loro stessa fisiologia?

Che un Athshiano potesse venire spinto, da atroci crudeltà, a un tentativo di omicidio, lui lo sapeva: l’aveva visto succedere… una sola volta. Che una comunità frantumata potesse venire provocata allo stesso modo, da offese altrettanto insopportabili, lui doveva crederlo: era accaduto a Campo Smith. Ma che racconti e chiacchiere riferite, per quanto potessero essere allarmanti o offensivi, potessero far adirare una comunità stabile di quella gente, fino al punto di farla agire contro i loro costumi e la stessa ragione, farla uscire completamente dal loro intero modello di vita, questo non riusciva a credere. Era una cosa psicologicamente improbabile. Qualche elemento doveva essere sfuggito alla sua analisi.

Il vecchio Tubab uscì dalla Loggia, proprio mentre Lyubov le passava davanti. Dietro al vecchio veniva Selver.

Selver uscì strisciando dalla porta-tunnel, si alzò in piedi, batté gli occhi alla luminosità del giorno, resa grigia dalla pioggia, attutita dalle foglie. I suoi occhi scuri incontrarono lo sguardo di Lyubov, quando li alzò. Nessuno dei due parlò. Lyubov provò un profondo timore.

Mentre tornava a casa con l’elicottero, e cercava con l’analisi il nervo che era stato traumatizzato, si chiese: Perché quel timore? Perché ho avuto paura di Selver? Un’intuizione indimostrabile, oppure una semplice falsa analogia? Una cosa irrazionale in qualsiasi caso.

Nulla tra Selver e Lyubov era cambiato. Ciò che Selver aveva fatto a Campo Smith poteva trovare giustificazione; e anche se non avesse potuto trovarne, la cosa non faceva differenza. L’amicizia che li univa era troppo profonda per poter essere toccata dal dubbio morale.

Avevano lavorato insieme, duramente; si erano insegnati reciprocamente, in un senso più che letterale, le loro lingue. Si erano parlati senza riserve. E l’amore di Lyubov nei riguardi dell’amico era reso ancora più profondo da quella gratitudine che il salvatore nutre nei riguardi di colui al quale ha avuto il privilegio di salvare la vita.

Anzi, fino a quel momento lui non aveva compreso fino in fondo quanto fossero profondi l’amore e la fedeltà che provava nei riguardi di Selver. Che la sua paura fosse in realtà la paura personale che Selver, avendo imparato l’odio razziale, potesse rifiutarlo, nonostante la sua fedeltà, e trattarlo non già come un "tu", ma come "uno di quelli"?

Dopo quella prima lunga occhiata, Selver venne avanti lentamente e salutò Lyubov, tendendo le mani.

Il contatto fisico era uno dei grandi canali di comunicazione, per il popolo della foresta. Tra i terrestri, il toccarsi ha sempre grandi probabilità di implicare minaccia o aggressione, e così per loro non c’è nulla, quasi mai, che stia fra i due estremi: la stretta di mano formale e la carezza sessuale. Tutto quello spazio vuoto era riempito, negli Athshiani, da vari costumi di contatto fisico.

La carezza come segnale e come rassicurazione era altrettanto essenziale, in loro, quanto lo è tra madre e figlio o tra due amanti; ma il suo peso era sociale, e non solo materno o sessuale. Faceva parte del loro linguaggio. Pertanto seguiva dei modelli, era codificata, e tuttavia restava infinitamente modificabile.

«Hanno sempre le zampe addosso» li prendevano in giro alcuni coloni, incapaci di vedere in quegli scambi di contatto qualcosa di diverso dal loro erotismo, che, costretto a concentrarsi esclusivamente sul sesso e poi rimosso e frustrato, invade e avvelena ogni piacere sensuale umano, ogni risposta: la vittoria di un Cupido accecato e furtivo sulla grande madre di tutti i mari e tutte le stelle, tutte le foglie degli alberi, tutti i gesti dell’uomo, Venus Genitrix…

Così, Selver venne avanti con le mani tese, strinse la mano di Lyubov alla maniera terrestre, e poi gli afferrò entrambe le braccia e gliele strofinò poco sopra il gomito. Era alto poco più di metà statura di Lyubov, e ciò rendeva difficile e sgraziato ogni gesto per entrambi, ma non c’era nulla di insicuro o di infantile nel tocco di quelle mani piccole, dalle ossa sottili, dal pelo verde, sulle braccia di Lyubov. Era una rassicurazione. Lyubov fu molto grato di riceverla.

— Selver, quale fortuna incontrarti qui. Desidero tanto parlare con te…

— Non posso, ora, Lyubov.

Aveva parlato gentilmente, ma, nell’udire le sue parole, la speranza di Lyubov in un’amicizia immutata svanì. Selver era cambiato. Era cambiato radicalmente: dalla radice, alla lettera.

— Posso ritornare — chiese Lyubov, con insistenza — un altro giorno, e parlare con te, Selver? Per me è importante…

— Oggi lascio questo luogo — disse Selver, ancor più gentilmente, ma staccando la mano dal braccio di Lyubov, e distogliendo anche lo sguardo.

In questo modo si poneva letteralmente fuori contatto. L’educazione chiedeva che Lyubov facesse lo stesso e lasciasse cadere la conversazione. Ma in tal caso non ci sarebbe stato nessun altro con cui parlare. Il vecchio Tubab non aveva neppure alzato gli occhi su di lui; la città gli aveva girato la schiena. E quell’uomo era Selver, che era stato suo amico.

— Selver, il massacro di Kelme Deva, forse tu pensi che esso ci allontani. Ma invece no. Forse ci porta più vicini. E il tuo popolo nei recinti degli schiavi… sono stati messi tutti in libertà, cosicché non ci sono più offese che si separano. E anche se ce ne fossero… ce ne sono sempre state… io sono sempre… io sono l’uomo che sono sempre stato, Selver.

Dapprima l’Athshiano non diede risposta. La sua strana faccia, i grandi occhi profondamente incassati, i lineamenti forti, distorti da cicatrici e confusi dal pelo corto di seta che seguiva e pure oscurava ogni contorno, questa faccia era voltata dall’altra parte rispetto a Lyubov, chiusa, ostinata. Poi, tutt’a un tratto, girò lo sguardo, come se lo facesse a dispetto delle proprie intenzioni.

— Lyubov, non dovevi venire qui. Devi lasciare la Centrale, tra due notti. Non so che cosa tu sia. Sarebbe stato meglio che non ti avessi mai conosciuto.

E con questo si allontanò: un passo leggero come quello di un gatto dalle lunghe gambe, un guizzo verde, tra le querce scure di Tuntar, sparito. Tubab si avviò lentamente dietro ai suoi passi, anche ora senza degnare Lyubov di un solo sguardo. Una fine pioggerellina cadeva senza rumore sulle foglie di quercia e sugli stretti sentieri che portavano alla Loggia e al fiume. Solo se ascoltavate attentamente potevate udire la pioggia: una musica che si alzava da una moltitudine troppo vasta perché una sola mente potesse afferrarla, un singolo accordo interminabile suonato sull’intera foresta.

— Selver è un dio — disse la vecchia Sherrar. — Adesso vieni a vedere le reti da pesca.

Lyubov declinò l’invito. Sarebbe stata cattiva educazione e cattiva politica fermarsi; e poi lui non ne aveva cuore.

Cercò di dire a se stesso che Selver non aveva rifiutato lui, Lyubov, bensì lui in quanto terrestre. Ma non faceva differenza. Non la fa mai.

Lui era sempre spiacevolmente sorpreso nello scoprire quanto fossero vulnerabili i suoi sentimenti, quanto lo ferisse il rimanere ferito. Questa sorta di sensibilità da adolescente era una vergogna, ormai avrebbe dovuto avere una pelle più coriacea.

La piccola vecchietta, con la sua pelliccia verde tutta spolverata e inargentata di gocce di pioggia, sospirò di sollievo quando lui le disse addio. Mentre metteva in moto l’elicottero, si trovò a sorridere alla vista di lei che zoppicava via, tra gli alberi, con tutta la velocità che le era possibile, come una piccola rana che fosse riuscita a sfuggire a un serpente.

La qualità è una faccenda importante, ma lo è altrettanto la quantità: la dimensione relativa. La normale reazione di un adulto nei confronti di una persona assai più piccola può essere arrogante, o protettiva, o paternalistica, o affezionata, o di sopraffazione, ma qualunque venga a essere la sua forma, è probabile che questa reazione sia più adatta a un bambino che a un adulto. Inoltre, quando la persona con taglia da bambino è coperta da un manto di pelo, un’ulteriore reazione psicologica fa la comparsa; una risposta che Lyubov aveva chiamato "Reazione dell’Orsacchiotto di Peluche". Poiché gli Athshiani usavano molto la carezza, le manifestazioni di questa reazione non erano del tutto fuori luogo, ma le sue motivazioni rimanevano alquanto dubbie. E infine c’era l’inevitabile Reazione al Fenomeno da Baraccone, il cercare di tenersi lontano da ciò che sia umano ma che non ne abbia pienamente l’aspetto.

Ma, del tutto al di fuori di questo, c’era il fatto che gli Athshiani, come del resto i terrestri, erano, a volte, semplicemente buffi. Alcuni di loro avevano davvero l’aspetto di piccole rane, gufi, bruchi pelosi. Sherrar non era la prima dama attempata che, vista dal di dietro, fosse parsa buffa agli occhi di Lyubov…

E questo è uno dei guai della colonia, pensò, mentre faceva prendere il volo all’elicottero e Tuntar svaniva sotto le querce e i frutteti senza foglie. Noi non abbiamo nessuna vecchietta. E neppure dei vecchietti, eccetto Dongh, che del resto ha solo sessant’anni. Ma le vecchie sono diverse da qualsiasi altro tipo di persona, perché dicono sempre quello che pensano.

Gli Athshiani sono governati, entro i limiti di quello che può essere il loro governo, da vecchie donne. L’intelletto spetta agli uomini, la politica alle donne, e l’etica all’interazione di entrambi: questo il loro ordinamento. Ha un suo certo fascino, e funziona… per loro.

Peccato che l’Amministrazione non abbia mandato anche un paio di care nonnine, insieme con tutte quelle giovani donne nubili fertili seno alto. A esempio, la ragazza che era da me la notte scorsa, è davvero una brava ragazza, ed è brava a letto, ha un cuore gentile, ma mio Dio, dovranno ancora passare quarant’anni prima che abbia qualcosa da dire a un uomo…

E per tutto il tempo, al di sotto dei suoi pensieri riguardanti le donne giovani e quelle vecchie, lo shock non si allontanava: l’intuizione o la comprensione che non voleva lasciarsi riconoscere.

Doveva pensarci bene, sviscerare la cosa, prima di fare rapporto al Quartier Generale.

Selver: che dire di Selver, dunque?

Selver era certamente una figura chiave per Lyubov. Perché? Perché lo conosceva bene, oppure a causa di qualche reale potere della sua personalità, un potere che Lyubov non era mai riuscito a individuare consciamente?

Eppure l’aveva individuato; aveva scelto Selver molto presto, riconoscendo in lui una persona straordinaria. "Sam" si era chiamato allora: l’attendente di tre ufficiali che condividevano una baracca prefabbricata. Lyubov ricordava che Benson si vantava del bravo creechie che avevano, l’avevano addomesticato bene.

Molti Athshiani, specialmente Sognatori delle Logge, non potevano cambiare il loro schema di sonno policiclico per accomodarlo a quello terrestre. Se recuperavano il sonno normale nel corso della notte, ciò impediva loro di recuperare il sonno REM, o sonno paradosso, il cui ciclo di 120 minuti regolava la loro vita sia di giorno che di notte, e non poteva venire adattato alla giornata lavorativa terrestre.

Una volta che abbiate imparato a fare i vostri sogni da svegli, a tenere in equilibrio la vostra sanità di mente non sul filo di rasoio della ragione, ma sul doppio supporto, la fine bilancia, della ragione e del sogno, una volta imparato questo, non potete disimpararlo più di quanto possiate disimparare a pensare.

E così, molti degli uomini diventavano storditi, confusi, ritirati in se stessi, perfino catatonici. Le donne, sconcertate e degradate, si comportavano con la scontrosa inquietudine di coloro che sono da poco caduti in schiavitù. I maschi non adepti e alcuni dei Sognatori più giovani si comportavano meglio; si adattavano, lavorando duramente nei campi dei taglialegna o diventando dei bravi servitori.

Sam era stato uno di questi, un cameriere efficiente, privo di fisionomia, cuoco, lavandaio, maggiordomo e capro espiatorio dei suoi tre padroni. Aveva imparato l’arte di rendersi invisibile. Lyubov l’aveva preso in prestito come informatore etnologico, e si era guadagnato subito, grazie a qualche affinità di mente e di natura, la fiducia di Sam. Aveva trovato in Sam l’informatore ideale, esperto dei costumi del proprio popolo, capace di comprendere i significati, e rapido nel tradurli, nel renderli comprensibili a Lyubov, colmando la distanza tra due linguaggi, due culture, due specie del genere Homo.

Da due anni Lyubov continuava a viaggiare, studiare, interrogare, osservare, e non era riuscito a trovare la chiave che gli avrebbe permesso di penetrare nella mente degli Athshiani. Anzi, non sapeva neppure dove fosse la serratura.

Aveva studiato le abitudini degli Athshiani che riguardavano il sonno, e aveva scoperto che essi, a quanto pareva, non ne avevano. Aveva collegato un’infinità di elettrodi a un’infinità di crani coperti di pelo verde, e non era riuscito a trarre alcun senso dai tracciati familiari, i "fusi" e i picchi, le onde alfa, delta e teta che apparivano sullo schermo.

Era stato Selver a fargli capire, alla fine, il significato della parola "sogno", che era anche la parola per dire "radice", e a dargli in questo modo la chiave del regno del popolo della foresta. E con Selver come soggetto elettroencefalografico aveva per la prima volta visto, e compreso, gli straordinari schemi di impulsi di un cervello che entrava in uno stato onirico, uno stato di sogno, che non era né il sonno né la veglia: una condizione che stava in rapporto con il sonno onirico terrestre come il Partenone sta in rapporto con una capanna di fango: la stessa cosa, fondamentalmente, ma con l’aggiunta di complessità, qualità e controllo.

E poi, che altro?

Selver avrebbe potuto fuggire. Era rimasto, prima come un valletto, poi… grazie a uno dei pochi privilegi utili di Lyubov in qualità di Specialista… come Assistente Scientifico, ancora chiuso a chiave la notte con tutti gli altri creechie nel recinto… i Quartieri del Personale Lavorativo Volontario Autoctono.

«Posso portarti a Tuntar con l’elicottero e lavorare con te laggiù» gli aveva detto Lyubov, la terza o quarta volta che aveva parlato con Selver. «Per l’amor di Dio, perché vuoi restare qui?»

E Selver aveva risposto: «Mia moglie Thele è nel recinto».

Lyubov aveva cercato di farla liberare, ma lei era in forza alla cucina del Quartier Generale, e i sergenti che comandavano la cucina si opponevano a ogni interferenza dei "pezzi grossi" e degli "specialisti". Lyubov doveva procedere con i piedi di piombo, per evitare che scaricassero sulla donna il loro risentimento.

Tanto la donna quanto Selver parevano disposti ad aspettare pazientemente fino al momento in cui tutti e due insieme potessero venir fatti evadere o liberati. Maschi e femmine creechie erano rigorosamente segregati nei recinti… perché, nessuno pareva saperlo… e moglie e marito avevano raramente la possibilità di vedersi.

Lyubov riuscì a organizzare qualche loro incontro nella baracca che aveva tutta per sé alla periferia nord del campo. E proprio una volta che Thele tornava al Quartier Generale dopo uno di questi incontri, Davidson l’aveva vista ed era stato evidentemente colpito dalla sua grazia fragile e spaventata. Se l’era fatta portare nel proprio alloggio, quella notte, e l’aveva violentata.

Nell’atto, l’aveva uccisa; la cosa era già accaduta altre volte, per effetto della diversità fisica; oppure era stata lei stessa che aveva cessato di vivere. Al pari di taluni terrestri, gli Athshiani possedevano il segreto dell’autentico desiderio di morte, e potevano smettere di vivere con un atto di volontà.

Nell’uno o nell’altro caso, era stato Davidson a ucciderla. Omicidi come quello erano già avvenuti in precedenza. Ciò che non era mai avvenuto in precedenza era ciò che aveva poi fatto Selver, due giorni dopo la sua morte.

Lyubov era arrivato solo nelle fasi finali. Ricordava ancora i suoni; lui stesso che correva lungo la Strada Principale sotto la rovente luce del sole; la polvere, il gruppo di uomini. Il tutto era durato al massimo cinque minuti: un tempo assai lungo per una lotta omicida.

Quando Lyubov era giunto, Selver era accecato dal sangue, era una sorta di giocattolo con cui Davidson si divertiva, eppure si era rimesso in piedi e stava ritornando all’attacco, non con la rabbia del guerriero impazzito, ma con la disperazione dell’intelligenza. E continuava ad attaccare.

Era Davidson quello che infine, portato alla rabbia dalla paura, a causa di quella terribile ostinazione, aveva sbattuto Selver a terra con un pugno, aveva fatto un passo avanti e aveva sollevato il piede per schiacciargli il cranio sotto gli stivali. Mentre stava per calare il piede, Lyubov aveva fatto irruzione nel cerchio di uomini.

Aveva fermato la lotta… infatti, per quanto fosse potuta essere grande la sete di sangue dei dieci o dodici uomini che avevano assistito alla scena, quella sete era ormai soddisfatta, ed essi avevano aiutato Lyubov a fermare Davidson… e da allora in poi, Lyubov aveva odiato Davidson, ed era stato odiato da lui, poiché si era interposto tra l’uccisore e la sua morte.

Poiché infatti, se è tutto il resto dell’umanità a venire ucciso dal suicida, è se stesso che l’omicida uccide; solamente, lui lo deve rifare ancora, e ancora, e ancora.

Lyubov aveva raccolto da terra Selver, un peso leggerissimo tra le sue braccia. Il volto mutilato aveva premuto sulla sua camicia, e il sangue vi era penetrato fino a bagnargli la pelle.

Aveva portato Selver al proprio bungalow, gli aveva steccato il polso fratturato, aveva fatto tutto il possibile per la sua faccia, l’aveva tenuto nel proprio letto, una notte dopo l’altra aveva cercato di parlargli, di giungere fino a lui nella solitudine del suo dolore e della sua vergogna. Si era trattato, naturalmente, di una cosa che andava contro i regolamenti.

Nessuno gli aveva fatto notare i regolamenti. E neppure aveva avuto bisogno di farlo. Lui sapeva di avere messo a repentaglio la poca simpatia di cui godeva presso gli ufficiali della colonia.

Aveva fatto sempre attenzione a tenersi dalla giusta parte del Quartier Generale, protestando solo di fronte ai casi estremi di brutalità contro gli indigeni, usando la persuasione e non la provocazione, e cercando di conservare le poche briciole di potere e di influenza da lui possedute.

Non poteva evitare lo sfruttamento degli Athshiani. Era molto peggio di quanto non gli avesse fatto credere il suo tirocinio, ma poteva fare poco, a tal riguardo, ora come ora. I suoi rapporti all’Amministrazione e al Comitato per i Diritti avrebbero potuto… dopo il viaggio di andata e ritorno, cinquantaquattro anni… avere qualche effetto; la Terra avrebbe potuto perfino decidere che la politica di Colonia Aperta per il pianeta Athshe era un grave errore. Meglio cinquantaquattro anni che mai. Se si fosse perso la tolleranza dei suoi superiori, essi avrebbero potuto censurare o invalidare i suoi rapporti, e allora non ci sarebbe stata alcuna speranza.

Ma era troppo arrabbiato, ora, per continuare con quella strategia. Al diavolo gli altri, se insistevano nel voler vedere le sue attenzioni verso un amico come un insulto alla Madreterra e un tradimento della colonia. Se lo avessero etichettato "l’amante degli alieni", la sua utilità per gli Athshiani sarebbe svanita; ma non poteva collocare al di sopra dei pressanti bisogni di Selver un bene collettivo che era solo possibile. Non puoi salvare un popolo vendendo il tuo amico.

Davidson, stranamente infuriato dalle piccole ferite che Selver gli aveva arrecato e dall’interferenza di Lyubov, era andato in giro a dire che intendeva farla finita con quel creechie ribelle; e certo l’avrebbe fatto, se ne avesse avuto la possibilità. Lyubov rimase con Selver notte e giorno per due settimane, e poi lo portò via dalla Centrale e lo fece scendere in una città della costa occidentale, Broter, dove Selver aveva dei parenti.

Non c’erano penalità per chi aiutasse gli schiavi a fuggire, poiché gli Athshiani non erano schiavi in nessun senso, se non di fatto: erano Personale di Lavoro Autoctono Volontario. Lyubov non fu neppure rimproverato. Ma gli ufficiali regolari nutrirono una sfiducia totale, invece che parziale, nei suoi confronti, da allora in poi; e anche i suoi colleghi dei Servizi Speciali, gli esobiologi, i coordinatori agricoli e forestali, gli fecero capire, varie volte, che si era comportato in modo irrazionale, donchisciottesco o stupido.

«Credevi di venire a un picnic?» gli aveva domandato Gosse.

«No, non credevo che fosse nessun porco picnic» aveva risposto Lyubov, sgarbato.

«Non capisco perché un esperto di forme d’intelligenza si voglia legare volontariamente a una Colonia Aperta. Sai che la gente che studi finirà per essere schiacciata, e probabilmente spazzata via. È il modo in cui vanno le cose. È la natura umana, e certo saprai che non puoi cambiarla. Allora, perché venire a osservare il processo? Per masochismo?»

«Non so che cosa sia la "natura umana". Forse lasciare descrizioni di ciò che spazziamo via fa parte della natura umana… E poi, è forse più piacevole, per un ecologo?»

Gosse aveva ignorato queste parole. «D’accordo, scrivi pure le tue descrizioni. Ma tienti fuori della mischia. Un biologo che studia una colonia di ratti non ci mette dentro le mani per salvare dei singoli ratti che gli sono simpatici e che corrono dei pericoli, lo sai.»

A questo, Lyubov era sbottato. Aveva sopportato troppo.

«No, certamente no» aveva detto. «Un ratto non può essere un amico. Selver è mio amico. In realtà è l’unico uomo di questo pianeta che io consideri mio amico.»

Queste parole avevano ferito il povero vecchio Gosse, che voleva essere per Lyubov una figura paterna, e non avevano fatto del bene a nessuno. Eppure era la verità. E la verità vi renderà liberi… Io amo Selver, lo rispetto, l’ho salvato; ho sofferto con lui; ho paura di lui. Selver è mio amico.

Selver è un dio.

Così aveva detto la piccola vecchietta verde, come se tutti lo sapessero, con la stessa semplicità con cui avrebbe potuto dire che Tizio era un cacciatore.

«Selver Sha’ab.»

Ma che cosa significava sha’ab, però? Molte parole della Lingua delle Donne, il parlare quotidiano degli Athshiani, venivano dalla Lingua degli Uomini, che era uguale per tutte le comunità, e quelle parole, molte volte, non solo avevano due sillabe, ma avevano anche due significati. Erano come monete: diritto e rovescio. Sha’ab significava dio, o entità numinosa, o essere potente; significava anche un’altra cosa, del tutto differente; ma Lyubov non riusciva a ricordare quale fosse. A questo punto dei suoi pensieri, lui era già a casa, nel bungalow, e gli bastava andare a guardare nel dizionario che lui e Selver avevano compilato in quattro mesi di lavoro faticoso ma armonioso. Ma certo: Sha’ab, traduttore.

Era quasi troppo opportuno, troppo a proposito.

C’era un legame tra i due significati? Spesso c’era, ma non con tale frequenza da costituire una regola. Se un dio era un traduttore, che cosa traduceva? Selver era effettivamente un interprete dotato, ma quel dono aveva trovato espressione solamente in un avvenimento fortuito: il fatto che una lingua totalmente straniera fosse stata portata nel suo mondo.

Uno sha’ab era una persona che traduceva il linguaggio del sogno e della filosofia, la Lingua degli Uomini, nel linguaggio di tutti i giorni? Ma tutti i Sognatori sapevano farlo. Poteva allora essere una persona che sapeva tradurre nella vita della veglia l’esperienza centrale della visione: una persona che serviva da legame tra le due realtà, considerate uguali dagli Athshiani, il tempo del sogno e il tempo del mondo, le cui connessioni, per quanto vitali, sono oscure? Un legame, una persona che poteva dire a voce le percezioni del subconscio. "Parlare" quel linguaggio è agire. Fare una nuova cosa. Cambiare o essere cambiato radicalmente, dalla radice. Poiché la radice è il sogno.

E il traduttore è il dio. Selver aveva portato una nuova parola nella lingua del suo popolo. Aveva compiuto una nuova azione. La parola, l’azione, era l’omicidio. Solo un dio poteva condurre un nuovo venuto, grande come la Morte, sul ponte che unisce le due realtà.

Ma lui aveva imparato a uccidere i propri fratelli tra i suoi stessi sogni di oltraggio e di lutto, o dalle azioni… mai prima sognate… degli stranieri? Parlava il proprio linguaggio o parlava quello del capitano Davidson?

Ciò che sembrava nascere dalle radici della sua stessa sofferenza ed esprimere la sua personalità trasformata, poteva in realtà essere un’infezione, una malattia straniera, che non avrebbe trasformato in un nuovo popolo la sua razza, ma invece l’avrebbe distrutta.


Non era nella natura di Raj Lyubov chiedersi: "Che cosa posso fare?". Carattere e tirocinio lo portavano a non interferire negli affari degli altri. Il suo lavoro consisteva nello scoprire che cosa facessero, e la sua inclinazione era di lasciare che continuassero a farlo. Preferiva venire illuminato, piuttosto di illuminare; cercare dei fatti invece che la Verità.

Ma anche l’anima meno missionaria, a meno che non pretenda di essere priva di emozioni, si trova a volte a dover scegliere tra un peccato da commettere concretamente e uno di omissione. "Che cosa stanno facendo?" diventa tutt’a un tratto: "Che cosa stiamo facendo?" e poi: "Che cosa devo fare io?".

Di avere adesso raggiunto un punto di scelta simile, lui lo sapeva, e tuttavia non sapeva chiaramente perché, e neppure le alternative che gli fossero offerte.

Non poteva proprio fare altro, per aumentare le possibilità di sopravvivenza degli Athshiani, al momento; Lepennon, Or e l’ansible avevano fatto più di quanto lui avesse sperato di veder fare nel corso della sua vita.

L’Amministrazione di Terra era esplicita in ogni comunicazione ansible, e il colonnello Dongh, sebbene ricevesse pressioni, da alcuni del suo staff e dai capi del disboscamento, di ignorare le direttive, eseguiva alla lettera gli ordini. Era un ufficiale fedele alla consegna; e inoltre, la Shackleton sarebbe ritornata per osservare e far rapporto sul modo in cui gli ordini venivano eseguiti.

Un rapporto aveva il suo peso, ora che quell’ansible, quella machina ex machina, serviva a impedire la vecchia, tranquilla autonomia coloniale, e a renderti passibile di condanna, entro la durata della tua vita, per ciò che facevi.

Non c’era più un margine di cinquantaquàttro anni per gli errori. La politica non era più una cosa statica. Una decisione della Lega dei Mondi poteva portare la colonia, da un giorno all’altro, a essere confinata su una sola delle Isole, o a ricevere la proibizione di tagliare alberi, o l’incoraggiamento a uccidere i nativi… non c’era modo di saperlo.

Come operasse la Lega e che tipo di politiche stesse sviluppando non poteva ancora indovinarsi dalle monotone direttive dell’Amministrazione. Dongh era preoccupato da quei futuri aperti, molteplici, ma Lyubov li amava. Nella diversità c’è vita e dove c’è vita c’è speranza: ecco la somma generale dei suoi credo. Somma invero modesta.

I coloni lasciavano stare gli Athshiani, e gli Athshiani lasciavano stare i coloni. Una situazione salubre, e una situazione da non disturbare senza necessità. L’unica cosa che potesse disturbarla era la paura.

Al momento ci si poteva attendere che gli Athshiani fossero sospettosi e ancora animati dal risentimento, ma non particolarmente impauriti. E per quanto riguardava il panico sorto a Centralville alla notizia del massacro di Campo Smith, nulla era accaduto che potesse farlo rivivere.

Nessun Athshiano, in nessun luogo, aveva dato segni di violenza dopo di allora; e con la liberazione degli schiavi, con tutti i creechie svaniti di nuovo nelle loro foreste, non c’era più la continua irritazione della xenofobia. I coloni cominciavano finalmente a rilassarsi.

Se Lyubov avesse fatto rapporto di avere visto Selver a Tuntar, Dongh e gli altri si sarebbero allarmati. Avrebbero potuto fare pressioni per tentare di catturare Selver e di riportarlo indietro per processarlo.

Il Codice Coloniale proibiva di portare in giudizio un membro di una società planetaria per avere infranto le leggi di un’altra, ma la Corte Marziale scavalcava questo tipo di distinzioni.

Potevano processare, condannare e fucilare Selver. Riportando da New Java Davidson, per fare da testimone. Oh, no, pensò Lyubov, rimettendo il dizionario nello scaffale stracolmo. Oh, no, pensò, e poi non ci pensò più. E così effettuò la sua scelta senza neppure accorgersi di averla fatta.

Inoltrò un breve rapporto, il giorno seguente. Diceva che a Tuntar le cose procedevano come sempre, e che lui non era stato né allontanato né minacciato. Era un rapporto assai tranquillizzante, ed era il meno accurato che Lyubov avesse mai scritto.

Venivano omesse tutte le cose importanti: la non apparizione della donna-capo, il rifiuto di Tubab di salutare Lyubov, il gran numero di stranieri in città, l’espressione della giovane cacciatrice, la presenza di Selver…

Naturalmente, quest’ultima era un’omissione intenzionale, ma per tutto il resto il rapporto si atteneva rigorosamente ai fatti, pensò Lyubov; lui aveva semplicemente omesso talune impressioni soggettive, così come deve fare ogni scienziato. Ebbe un feroce mal di testa mentre scriveva il rapporto, e uno ancora peggiore quando lo consegnò.

Sognò molto, quella notte, ma non poté ricordare il sogno il mattino seguente. A notte fonda, il secondo giorno dopo la sua visita a Tuntar, lui si svegliò, e nell’ululato isterico delle sirene d’allarme e nei tonfi delle esplosioni fronteggiò, alla fine, ciò che si era rifiutato di vedere. Lyubov fu l’unico uomo di Centralville che non venne colto di sorpresa. In quel momento seppe che cos’era: un traditore.

Eppure, neanche ora, non era chiaro nella sua mente che si trattava di un’incursione degli Athshiani. Era il terrore nella notte.

La sua baracca era stata ignorata, dato che si trovava nel proprio spiazzo, lontano dalle altre case; forse gli alberi che la circondavano l’avevano protetta. Il centro della città era completamente in preda alle fiamme. Perfino il cubo di pietra del Quartier Generale bruciava dall’interno, come un forno spaccato. Là dentro c’era l’ansible, il prezioso collegamento.

C’erano fuochi anche in direzione del deposito degli elicotteri e del campo d’atterraggio. Dove avevano preso gli esplosivi? E i fuochi, come avevano fatto a scoppiare tutti insieme? Tutti gli edifici affacciati sui due lati della Strada Principale, costruiti in legno, bruciavano; il rumore dell’incendio era terribile.

Lyubov corse verso i fuochi. L’acqua scorreva sulla strada; pensò in un primo momento che provenisse da un idrante, poi si accorse che la condotta proveniente dal fiume Menend si rovesciava inutilmente al suolo, mentre le case bruciavano con quel pauroso ruggito risucchiante.

Come avevano fatto? C’erano le sentinelle, c’erano sempre sentinelle in jeep al campo d’atterraggio… Colpi: raffiche, le vacue chiacchiere di una mitragliatrice. Tutt’intorno a Lyubov c’erano piccole figurette che correvano, ma corse in mezzo a esse senza badare loro.

Era davanti all’Ostello, adesso, e vide una delle ragazze ferma sulla soglia, col fuoco che le guizzava alla schiena e la via della fuga aperta davanti a lei. Ma non si muoveva. Lyubov le gridò, poi attraversò il cortile per raggiungerla e le strappò le mani dagli stipiti a cui si afferrava nel panico: la tirò via con la forza dicendo gentilmente: — Vieni, cara, vieni.

La ragazza venne via, ma non abbastanza in fretta. Mentre attraversavano il cortile, la facciata del piano superiore, bruciando dall’interno, cadde lentamente verso di loro, spinta dalle travi del tetto che crollava. Assi e travi caddero come frammenti di una granata; l’estremità infuocata di una trave colpì Lyubov e lo gettò a terra disteso. Giacque con la faccia in giù, nel lago di fango illuminato dal fuoco. Non vide la piccola cacciatrice coperta di pelo verde balzare sulla ragazza, farla cadere a terra sulla schiena, tagliarle la gola. Ormai non poteva vedere più nulla.

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