Postille a “Il nome della rosa”[4]

Rosa que al prado, encarnada,

te ostentas presuntuosa

de grana y carmín banada:

campa lozana y gustosa;

pero no, que siendo hermosa

también seràs desdichada.

Juana Inés de la Cruz

Il titolo e il senso

Da quando ho scritto Il nome della rosa mi arrivano molte lettere di lettori che mi chiedono cosa significa l’esametro latino finale, e perché questo esametro ha dato origine al titolo. Rispondo che si tratta di un verso da De contemptu mundidi Bernardo Morliacense, un benedettino del XII secolo, il quale varia sul tema dell’ubi sunt (da cui poi il mais où sont les neiges d’antan di Villon), salvo che Bernardo aggiunge al topos corrente (i grandi di un tempo, le città famose, le belle principesse, tutto svanisce nel nulla) l’idea che di tutte queste cose scomparse ci rimangono puri nomi. Ricordo che Abelardo usava l’esempio dell’enunciato nulla rosa estper mostrare come il linguaggio potesse parlare sia delle cose scomparse che di quelle inesistenti. Dopodiché lascio che il lettore tragga le sue conseguenze.

Un narratore non deve fornire interpretazioni della propria opera, altrimenti non avrebbe scritto un romanzo, che è una macchina per generare interpretazioni. Ma uno dei principali ostacoli alla realizzazione di questo virtuoso proposito è proprio il fatto che un romanzo deve avere un titolo.

Un titolo è purtroppo già una chiave interpretativa. Non ci si può sottrarre alle suggestioni generate da Il rosso e il nero o da Guerra e pace. I titoli più rispettosi del lettore sono quelli che si riducono al nome dell’eroe eponimo, come David Copperfield o riducono al nome dell’eroe eponimo, come David Copperfield o Robinson Crusoe, ma anche il riferimento all’eponimo può costituire una indebita ingerenza da parte dell’autore. Le Père Goriotcentra l’attenzione del lettore sulla figura del vecchio padre, mentre il romanzo è anche l’epopea di Rastignac, o di Vautrin alias Collin. Forse bisognerebbe essere onestamente disonesti come Dumas, poiché è chiaro che I tre moschettieri è in verità la storia del quarto. Ma sono lussi rari, e forse l’autore può consentirseli solo per sbaglio.

Il mio romanzo aveva un altro titolo di lavoro, che era l’Abbazia del delitto. L’ho scartato perché fissa l’attenzione del lettore sulla sola trama poliziesca e poteva illecitamente indurre sfortunati acquirenti, in caccia di storie tutte azione, a buttarsi su un libro che li avrebbe delusi. Il mio sogno era di intitolare il libro Adso da Melk. Titolo molto neutro, perché Adso era pur sempre la voce narrante. Ma da noi gli editori non amano i nomi propri, persino Fermo e Luciaè stato riciclato in altra forma, e per il resto ci sono pochi esempi, come Lemmonio Boreo, Rubé o Metello… Pochissimi, rispetto alle legioni di cugine Bette, di Barry Lyndon, di Armance e di Tom Jones che popolano altre letterature.

L’idea del Nome della rosami venne quasi per caso e mi piacque perché la rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce, grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima. Il lettore ne risultava giustamente depistato, non poteva scegliere una interpretazione; e anche se avesse colto le possibili letture nominaliste del verso finale ci arrivava appunto alla fine, quando già aveva fatto chissà quali altre scelte. Un titolo deve confondere le idee, non irreggimentarle.

Nulla consola maggiormente un autore di un romanzo che lo scoprire letture a cui egli non pensava, e che i lettori gli suggeriscono. Quando scrivevo opere teoriche il mio atteggiamento verso i recensori era di tipo giudiziario: hanno capito o no quello che volevo dire? Con un romanzo è tutto diverso. Non dico che l’autore non possa scoprire una lettura che gli pare aberrante, ma dovrebbe tacere, in ogni caso, ci pensino gli altri a contestarla, testo alla mano. Per il resto, la gran maggioranza delle letture fa scoprire effetti di senso a cui non si era pensato. Ma cosa vuol dire che non ci avevo pensato?

Una studiosa francese, Mireille Calle Gruber, ha scoperto sottili paragrammi che uniscono, i semplici (nel senso dei poveri) ai semplicinel senso delle erbe medicamentose, e poi trova che parlo di “mala pianta” dell’eresia. Io potrei rispondere che il termine “semplici” ricorre in entrambi i casi nella letteratura dell’epoca, e così l’espressione “mala pianta”. D’altra parte conoscevo bene l’esempio di Greimas sulla doppia isotopia che nasce quando si definisce l’erborista come “amico dei semplici”. Sapevo o no di giocare di paragrammi? Non conta nulla dirlo ora, il testo è lì e produce i propri effetti di senso. Leggendo le recensioni al romanzo, provavo un brivido di soddisfazione quando trovavo un critico (e i primi sono stati Ginevra Bompiani e Lars Gustaffson) che citava una battuta che Guglielmo pronunciava alla fine del processo inquisitorio, “Cosa vi terrorizza di più nella purezza?”, chiede Adso. E Guglielmo risponde: “La fretta”. Amavo molto, e amo ancora, queste due righe. Ma poi un lettore mi ha fatto notare che nella pagina successiva Bernardo Gui, minacciando il cellario di tortura, dice: `La giustizia non è mossa dalla fretta, come credevano gli pseudo apostoli, e quella di Dio ha secoli a disposizione”. E il lettore giustamente mi domandava quale rapporto avevo voluto instaurare tra la fretta temuta da Guglielmo e la assenza di fretta celebrata da Bernardo. A quel punto io mi sono reso conto che era successo qualcosa di inquietante. Lo scambio di battute tra Adso e Guglielmo, nel manoscritto non c’era. Quel breve dialogo l’ho aggiunto in bozze: per ragioni di concinnitas, avevo bisogno di inserire ancora una scansione prima di ridare la parola a Bernardo. E naturalmente mentre facevo odiare la fretta a Guglielmo (e con molta convinzione, per questo la battuta poi mi piacque molto) mi ero completamente dimenticato che poco più avanti Bernardo parlava di fretta. Se vi rileggete la battuta di Bernardo senza quella di Guglielmo, non è altro che un modo di dire, è ciò che ci aspetteremmo di sentir affermare da un giudice, è una frase fatta tanto quanto “la giustizia è uguale per tutti “. Ahimé, contrapposta alla fretta nominata da Guglielmo, la fretta nominata da Bernardo fa legittimamente nascere un effetto di senso, e il lettore ha ragione di chiedersi se essi stanno dicendo la stessa cosa, o se l’odio per la fretta, espresso da Guglielmo, non sia insensibilmente diverso dall’odio per la fretta espresso da Bernardo. Il testo è lì, e produce i propri effetti. Che io lo volessi o no, ora si è di fronte a una domanda, a una provocazione ambigua, e io stesso mi trovo imbarazzato a interpretare l’opposizione, eppure capisco che lì si annida un senso (forse molti). L’autore dovrebbe morire dopo aver scritto. Per non disturbare il cammino del testo.

Raccontare il processo

L’autore non deve interpretare. Ma può raccontare perché e come ha scritto. I cosiddetti scritti di poetica non servono sempre a capire l’opera che li ha ispirati, ma servono a capire come si risolve quel problema tecnico che è la produzione di un’opera.

Poe nel suo La filosofia della composizione racconta come ha scritto Il corvo. Non ci dice come dobbiamo leggerlo, ma quali problemi si è posto per realizzare un effetto poetico. E definirei l’effetto poetico come la capacità, che un testo esibisce, di generare letture sempre diverse, senza consumarsi mai del tutto.

Chi scrive (chi dipinge o scolpisce o compone musica) sa sempre cosa fa e quanto gli costa. Sa che deve risolvere un problema. Può darsi che i dati di partenza siano oscuri, pulsionali, ossessivi, non più che una voglia o un ricordo. Ma dopo il problema si risolve a tavolino, interrogando la materia su cui si lavora — materia che esibisce delle proprie leggi naturali ma al tempo stesso porta con sé il ricordo della cultura di cui è carica (l’eco dell’intertestualità).

Quando l’autore ci dice che ha lavorato nel raptus dell’ispirazione, mente. Genius is twenty per cent inspiration and eighty per cent perspiration.

Non ricordo per quale sua celebre poesia, Lamartine scrisse che gli era nata di getto, in una notte di tempesta, in un bosco. Quando morì, si ritrovarono i manoscritti con le correzioni e le varianti, e si scoprì che quella era forse la poesia più “lavorata” di tutta la letteratura francese. Quando lo scrittore (o l’artista in genere) dice che ha lavorato senza pensare alle regole del processo, vuol solo dire che lavorava senza sapere di conoscere la regola. Un bambino parla benissimo la lingua materna però non saprebbe scriverne la grammatica. Ma il grammatico non è il solo che conosce le regole della lingua, perché queste le conosce benissimo, senza saperlo, anche il bambino: il grammatico è solo colui che conosce perché e come il bambino conosce la lingua.

Raccontare come si è scritto non significa provare che si è scritto “bene”. Poe diceva che “altro è l’effetto dell’opera e altra la conoscenza del processo”. Quando Kandinsky o Klee ci raccontano come dipingono non ci dicono se uno dei due è migliore dell’altro. Quando Michelangelo ci dice che scolpire vuol dire liberare del proprio soverchio la figura già iscritta nella pietra, non ci dice se la Pietà vaticana è meglio della Rondanini. Talora le pagine più luminose sui processi artistici sono state scritte da artisti minori, che realizzavano effetti modesti ma sapevano riflettere bene sui propri processi: Vasari, Horatio Greenough, Aaron Copland…

Ovviamente, il Medio Evo

Ho scritto un romanzo perché me ne è venuta voglia. Credo sia una ragione sufficiente per mettersi a raccontare. L’uomo è animale fabulatore per natura. Ho incominciato a scrivere nel marzo ’78, mosso da una idea seminale. Avevo voglia di avvelenare un monaco. Credo che un romanzo nasca da una idea di questo genere, il resto è polpa che si aggiunge strada facendo. L’idea doveva essere più antica. Ho ritrovato poi un quaderno datato 1975 dove avevo steso una lista di monaci in un convento imprecisato. Null’altro. All’inizio mi sono messo a leggere il Traité des poisons di Orfila — che avevo acquistato vent’anni prima da un bouquiniste lungo la Senna, per pure ragioni di fedeltà huysmaniana (La bas). Siccome nessuno dei veleni mi soddisfaceva, ho chiesto a un amico biologo di consigliarmi un farmaco che avesse determinate proprietà (che fosse assorbibile via pelle, manovrando qualcosa). Ho distrutto subito la lettera in cui colui mi rispondeva che non conosceva un veleno che facesse al caso mio, perché si tratta di documenti che, letti in altro contesto, potrebbero portarti alla forca.

All’inizio i miei monaci dovevano vivere in un convento contemporaneo (pensavo a un monaco investigatore che leggeva il “Manifesto”). Ma siccome un convento, o un’abbazia, vivono ancora di molti ricordi medievali, mi sono messo a scartabellare tra i miei archivi di medievalista in ibernazione (un libro sull’estetica medievale nel 1956, altre cento pagine sull’argomento nel 1969, qualche saggio strada facendo, ritorni alla tradizione medievale nel 1962 per il mio lavoro su Joyce, e poi nel 1972 il lungo studio sull’Apocalisse e sulle miniature del commento di Beato di Liebana: dunque il Medio Evo veniva tenuto in esercizio). Mi è capitato tra le mani un vasto materiale (schede, fotocopie, quaderni) che si accumulava dal 1952, e destinato ad altri imprecisissimi scopi: per una storia dei mostri, o per un’analisi delle enciclopedie medievali, o per una teoria dell’elenco… A un certo punto mi son detto che, visto che il Medio Evo era il mio immaginario quotidiano, tanto valeva scrivere un romanzo che si svolgesse direttamente nel Medio Evo. Come ho detto in qualche intervista, il presente lo conosco solo attraverso lo schermo televisivo mentre del Medio Evo ho una conoscenza diretta. Quando accendevamo dei falò sul prato, in campagna, mia moglie mi accusava di non saper guardare le scintille che si levavano tra gli alberi e aliavano lungo i fili della luce. Quando poi ha letto il capitolo sull’incendio ha detto: “Ma luce. Quando poi ha letto il capitolo sull’incendio ha detto: “Ma allora le scintille le guardavi! “. Ho risposto: “No, ma sapevo come le avrebbe viste un monaco medievale”.

Dieci anni fa, accompagnando con una lettera dell’autore all’editore il mio commento al commento all’Apocalisse di Beato di Liebana (per Franco Maria Ricci), confessavo: “Comunque la metta, sono nato alla ricerca attraversando foreste simboliche abitate da unicorni e grifoni e comparando le strutture pinnacolari e quadrate delle cattedrali alle punte di malizia esegetica celata nelle tetragone formule delle Summulae, girovagando tra il Vico degli Strami e le navate cistercensi, affabilmente intrattenendomi con colti e fastosi monaci cluniacensi, tenuto d’occhio da un Aquinate grassoccio e razionalista, tentato da Onorio Augustoduniense, dalle sue fantastiche geografie in cui a un tempo si spiegava quare in pueritia coitus non contingat, come si arrivi all’Isola Perduta e come si catturi un basilisco muniti soltanto di uno specchietto da tasca e da incrollabile fede nel Bestiario.

Questo gusto e questa passione non mi hanno mai lasciato, anche se poi, per ragioni morali e materiali (fare il medievalista implica spesso cospicue ricchezze e facoltà di vagare per biblioteche lontane microfilmando manoscritti introvabili) ho battuto altre strade. Così il Medio Evo è rimasto, se non il mio mestiere, il mio hobbye la mia tentazione costante, e lo vedo dovunque, in trasparenza, nelle cose di cui mi occupo, che medievali non sembravano e pur sono.

Segrete vacanze sotto le navate di Autun, dove l’Abate Grivot, oggi, scrive manuali sul Diavolo dalla rilegatura impregnata di zolfo, estasi campestri a Moissac e a Conques, abbacinato da Vegliar di della Apocalisse o da diavoli che stipano in calderoni bollenti le anime dannate; e contemporaneamente letture rigeneranti dell’illuminista monaco Beda, conforti razionali chiesti ad Occam, per capire i misteri del Segno là dove Saussure è ancora oscuro. E così via, con continue nostalgie della Peregrinatio Sancti Brandani, controlli del nostro pensare compiuti sul Libro di Kells, Borges rivisitato nei kenningars celtici, rapporti tra potere e masse persuase controllati nei diari del Vescovo Suger…”

La maschera

In verità non ho solo deciso di raccontare del Medio Evo. Ho deciso di raccontare nel Medio Evo, e per bocca di un cronista dell’epoca. Ero narratore esordiente e sino ad allora i narratori li avevo guardati dall’altra parte della barricata. Mi vergognavo a raccontare. Mi sentivo come un critico teatrale che di colpo si esponga alle luci della ribalta e si vede guardato da coloro coi quali sino ad allora era stato complice in platea.

Si può dire “Era una bella mattina di fine novembre” senza sen tirsi Snoopy? Ma se lo avessi fatto dire a Snoopy? Se cioè “era una bella mattina…” lo avesse detto qualcuno che era autorizzato a dirlo, perché così si poteva fare ai suoi tempi? Una maschera, ecco cosa mi occorreva.

Mi sono messo a leggere o a rileggere i cronisti medievali, per acquistarne il ritmo, e il candore. Essi avrebbero parlato per me, e io ero libero da sospetti. Libero dai sospetti ma non dagli echi dell’intertestualità. Ho riscoperto così ciò che gli scrittori hanno sempre saputo (e che tante volte ci hanno detto): i libri parlano sempre di altri libri e ogni storia racconta una storia già raccontata. Lo sapeva Omero, lo sapeva Ariosto, per non dire di Rabelais o di Cervantes. Per cui la mia storia non poteva che iniziare col manoscritto ritrovato, e anche quella sarebbe stata una citazione (naturalmente). Così scrissi subito l’introduzione, ponendo la mia narrazione a un quarto livello di incassamento, dentro a altre tre narrazioni: io dico che Vallet diceva che Mabillon ha detto che Adso disse…

Ero libero ormai da ogni timore. E a quel punto ho smesso di scrivere, per un anno. Ho smesso perché ho scoperto un’altra cosa che già sapevo (che tutti sapevano) ma che ho capito meglio lavorando.

Ho scoperto dunque che un romanzo non ha nulla a che fare, in prima istanza, con le parole. Scrivere un romanzo è una faccenda cosmologica, come quella raccontata dal Genesi (bisogna pur scegliersi dei modelli, diceva Woody Allen).

Il romanzo come fatto cosmologico

Intendo che per raccontare bisogna anzitutto costruirsi un mondo, il più possibile ammobiliato sino agli ultimi particolari. Se costruissi un fiume, due rive, e sulla riva sinistra ponessi un pescatore, e se a questo pescatore assegnassi un carattere iroso e una fedina penale poco pulita, ecco, potrei incominciare a scrivere, traducendo in parole quello che non può non avvenire. Che fa un pescatore? Pesca (ed ecco tutta una sequenza più o meno inevitabile di gesti). E poi cosa accade? O ci sono pesci che abboccano, o non ce ne sono. Se ci sono, il pescatore li pesca e poi va a casa tutto contento. Fine della storia. Se non ci sono, visto che è irascibile, forse si arrabbierà. Forse spezzerà la canna da pesca. Non è molto, ma è già un bozzetto. Ma c’è un proverbio indiano che dice “siediti sulla riva del fiume e aspetta, il cadavere del tuo nemico non tarderà a passare”. E se lungo la corrente passasse un cadavere — visto che la possibilità è insita nell’area intertestuale del fiume? Non dimentichiamo che il mio pescatore ha la fedina penale sporca. Vorrà correre il rischio di trovarsi nei pasticci? Che farà? Fuggirà, fingerà di non vedere il cadavere? Si sentirà preso da coda di paglia, perché al postutto il cadavere è quello dell’uomo che odiava? Irascibile com’è, si adirerà perché non ha potuto compiere lui la vendetta agognata? Vedete, è bastato ammobiliare con poco il proprio mondo, e già c’è l’inizio di una storia. C’è anche già l’inizio di uno stile, perché un pescatore che pesca dovrebbe impormi un ritmo narrativo lento, fluviale, scandito sulla sua attesa che dovrebbe essere paziente, ma anche sui sussulti della sua impaziente iracondia. Il problema è costruire il mondo, le parole verranno quasi da sole. Rem tene, verba sequentur. Il contrario di quanto, credo, avviene con la poesia: verba tene, res sequentur.

Il primo anno di lavoro del mio romanzo è stato dedicato alla costruzione del mondo. Lunghi regesti di tutti i libri che si potevano trovare in una biblioteca medievale. Elenchi di nomi e schede anagrafiche per molti personaggi, tanti dei quali poi sono stati esclusi dalla storia. Vale a dire che dovevo sapere anche chi erano gli altri monaci che nel libro non appaiono; e non era necessario che il lettore li conoscesse, ma dovevo conoscerli io. Chi ha detto che la narrativa deve fare concorrenza allo Stato Civile? Ma forse deve fare concorrenza anche all’assessorato all’urbanistica. E così lunghe indagini architettoniche, su foto e su piani nell’enciclopedia dell’architettura, per stabilire la pianta dell’abbazia, le distanze, persino il numero degli scalini in una scala a chiocciola. Marco Ferreri una volta mi ha detto che i miei dialoghi sono cinematografici perché durano il tempo giusto. Per forza, quando due dei miei personaggi parlavano andando dal refettorio al chiostro, io scrivevo con la pianta sott’occhio, e quando erano arrivati smettevano di parlare.

Occorre crearsi delle costrizioni, per potere inventare liberamente. In poesia la costrizione può essere data dal piede, dal verso, dalla rima, da quello che i contemporanei hanno chiamato il respiro secondo l’orecchio… In narrativa la costrizione è data dal mondo sottostante. E questo non ha nulla a che vedere con il realismo (anche se spiega persino il realismo). Si può costruire un mondo del tutto irreale, in cui gli asini volano e le principesse vengono risuscitate da un bacio: ma occorre che quel mondo, puramente possibile e irrealistico, esista, secondo strutture definite in partenza (bisogna sapere se è un mondo dove una principessa può essere risuscitata solo dal bacio di un principe, o anche da quello di una strega, e se il bacio di una principessa ritrasforma in principe solo i rospi o anche, poniamo, gli armadilli).

Faceva parte del mio mondo anche la Storia, ed ecco perché ho letto e riletto tante cronache medievali, e leggendole mi sono accorto che dovevano entrare nel romanzo anche cose che all’inizio non mi avevano neppure sfiorato l’immaginazione, come le lotte per la povertà, o l’inquisizione contro i fraticelli. Per esempio: perché nel mio libro ci sono i fraticelli trecenteschi? Se dovevo scrivere una storia medievale, avrei dovuto farla svolgere nel XIII o nel XII secolo, perché li conoscevo meglio del XIV. Ma avevo bisogno di un investigatore, possibilmente inglese (citazione intertestuale), che avesse un grande senso dell’osservazione e una particolare sensibilità per l’interpretazione degli indizi. Queste qualità non si trovavano se non nell’ambito francescano, e dopo Ruggiero Bacone; inoltre una teoria sviluppata dei segni la troviamo solo con gli occamisti, o meglio c’era anche prima, ma prima l’interpretazione dei segni o era di tipo simbolico o tendeva a leggere nei segni le idee e gli universali. Solo tra Bacone e Occam si usano i segni per indirizzarsi alla conoscenza degli individui. Dunque dovevo situare la storia nel XIV secolo, con molta irritazione, perché mi ci muovevo più a fatica. Di lì nuove letture, e la scoperta che un francescano del XIV secolo, anche inglese, non poteva ignorare la disputa sulla povertà, specie se era amico o seguace, o conoscente di Occam. (Per inciso, all’inizio avevo deciso che l’investigatore dovesse essere Occam stesso, poi vi ho rinunciato, perché umanamente il Venerabile Inceptor mi è antipatico.) Ma perché si svolge tutto alla fine di novembre del 1327? Perché in dicembre Michele da Cesena è già ad Avignone (ed ecco cosa vuole dire ammobiliare un mondo in un romanzo storico: alcuni elementi, come il numero di scalini, dipendono da una decisione dell’autore, altri, come i movimenti di Michele, dipendono dal mondo reale, che per avventura, in questo tipo di romanzi, viene a coincidere col mondo possibile della narrazione).

Ma novembre era troppo presto. Infatti io avevo anche bisogno di ammazzare un maiale. Perché? Ma è semplice, per poter ficcare un cadavere a testa in giù in un orcio di sangue. E perché questo bisogno? Perché la seconda tromba dell’Apocalisse dice che… Mica potevo cambiare l’Apocalisse, faceva parte del mondo. Bene, succede che (mi sono informato) i maiali si ammazzano solo col freddo, e novembre poteva essere troppo presto. A meno che non mettessi l’abbazia in montagna, in modo da avere già della neve. Altrimenti la mia storia avrebbe potuto svolgersi in pianura, a Pomposa, o a Conques.

È il mondo costruito che ci dirà come la storia deve poi andare avanti. Tutti mi chiedono perché il mio Jorge evochi, nel nome, Borgés, e perché Borgés sia così malvagio. Ma io non lo so. Volevo un cieco a guardia di una biblioteca (il che mi sembrava una buona idea narrativa) e biblioteca più cieco non può che dare Borgés, anche perché i debiti si pagano. E poi è attraverso commenti e miniature spagnole che l’Apocalisse influenza tutto il Medio Evo. Ma quando ho messo Jorge in biblioteca non sapevo ancora che fosse lui l’assassino. Per così dire, ha fatto lui tutto da solo. E non si pensi che questa è una posizione “idealistica “, come chi dicesse si pensi che questa è una posizione “idealistica “, come chi dicesse che i personaggi hanno una vita loro e l’autore, come in trance, li fa agire per quello che essi gli suggeriscono. Sciocchezze da tema della maturità. E che i personaggi sono costretti ad agire secondo le leggi del mondo in cui vivono. Ovvero, il narratore è prigioniero delle proprie premesse.

Un’altra bella storia è stata quella del labirinto. Tutti i labirinti di cui avevo notizia, e avevo tra le mani il bello studio di Santarcangeli, erano labirinti all’aperto. Potevano essere assai complicati e pieni di circonvoluzioni. Ma io avevo bisogno di un labirinto chiuso (avete mai visto una biblioteca all’aperto?) e se il labirinto era troppo complicato, con molti corridoi e sale interne, sarebbe mancata l’areazione sufficiente. E una buona areazione era necessaria per alimentare l’incendio (questo sì, che alla fine l’Edificio dovesse bruciare mi era molto chiaro, ma anche questo per ragioni cosmologico — storiche: nel Medio Evo cattedrali e conventi bruciavano come zolfanelli, immaginare una storia medievale senza incendio è come immaginare un film di guerra nel Pacifico senza un aeroplano da caccia che precipita in fiamme). Ed ecco che ho lavorato per due o tre mesi alla costruzione di un labirinto adatto, e alla fine ho dovuto aggiungerci delle feritoie, altrimenti di aria ve ne sarebbe stata sempre troppo poca.

Chi parla

Avevo molti problemi. Volevo un luogo chiuso, un universo concentrazionario, e per chiuderlo meglio era opportuno che introducessi oltre le unità di luogo, anche le unità di tempo (visto che quella di azione era dubbia). Dunque un’abbazia benedettina, con la vita scandita dalle ore canoniche (forse il modello inconscio era l’Ulysses, per la struttura ferrea a ore del giorno; ma era anche la Montagna Incantata, per il luogo rupestre e sanatoriale in cui avrebbero dovuto svolgersi tante conversazioni). Le conversazioni mi ponevano molti problemi, ma quelli li ho risolti poi scrivendo. C’è una tematica, poco trattata nelle teorie della narrativa, che è quella dei turn ancillaries, e cioè degli artifici attraverso i quali il narratore passa la parola ai vari personaggi. Si veda quali differenze ci sono tra questi cinque dialoghi:

1.

— Come stai?

— Non male e tu?


2.

— Come stai? disse Giovanni.

— Non male, e tu? disse Piero.


3.

— Come, — disse Giovanni —, come stai?

E Piero, di botto: — Non male, e tu?


4.

— Come stai? — si premurò Giovanni.

— Non male, e tu? — cachinnò Piero.


5.

Disse Giovanni: — Come stai?

Non male, — rispose Piero con voce incolore.

Poi, con un sorriso indefinibile: — E tu?


Tranne i primi due casi, negli altri si osserva quello che si definisce “istanza dell’enunciazione”. L’autore interviene con un commento personale a suggerire quale senso possano assumere le parole dei due. Ma tale intenzione è davvero assente dalle soluzioni apparentemente asettiche dei primi due casi? E il lettore, è più libero nei due casi asettici, dove potrebbe subire una imposizione emotiva senza accorgersene (si pensi all’apparente neutralità del dialogo hemingwayano!) oppure è più libero negli altri tre casi, dove almeno sa a che gioco l’autore stia giocando?

È un problema di stile, è un problema ideologico, è un problema di “poesia “, tanto come la scelta di una rima interna o di un’assonanza, o l’introduzione di un paragramma. Si deve trovare una certa coerenza. Forse nel mio caso ero facilitato, perché tutti i dialoghi sono riferiti da Adso, ed è più che evidente che Adso impone il suo punto di vista a tutta la narrazione.

I dialoghi mi ponevano poi un altro problema. Quanto poteva no essere medievali? In altri termini, mi rendevo conto, già scrivendo, che il libro assumeva una struttura da melodramma buffo, con lunghi recitativi, e ampie arie. Le arie (per esempio la descrizione del portale) facevano il verso alla grande retorica dell’Età Media, e lì i modelli non mancavano. Ma i dialoghi? A un certo punto temevo che i dialoghi fossero Agata Christie, mentre le arie erano Suger o San Bernardo. Sono andato a rileggermi i romanzi medievali, voglio dire l’epopea cavalleresca, e mi sono accorto che, con qualche licenza da parte mia, rispettavo però un uso narrativo e poetico che non era ignoto al Medio Evo. Ma il problema mi ha a lungo arrovellato, e non sono sicuro di aver risolto questi cambi di registro tra aria e recitativo.

Altro problema: l’incassamento delle voci ovvero delle istanze narrative. Sapevo che stavo raccontando (io) una storia con le parole di un altro, e avendo avvertito nella prefazione che le parole di questo altro erano state filtrate da almeno altre due istanze narrative, quella di Mabillon e quella dell’abate Vallet, anche se si poteva supporre che essi avessero lavorato solo come filologi di un testo non manipolato (ma chi ci crede?). Però il problema si riproponeva all’interno della narrazione fatta in prima persona da Adso. Adso racconta a ottant’anni quello che ha visto a diciotto. Chi parla, l’Adso diciottenne o l’Adso ottantenne? Tutti e due, è ovvio, ed è voluto. Il gioco stava nel mettere in scena di continuo Adso vecchio che ragiona su ciò che ricorda di aver visto e sentito come Adso giovane. Il modello (ma non sono andato a rileggermi il libro, mi bastavano remoti ricordi) era il Serenus Zeitblom del Doctor Faustus. Questo doppio gioco enunciativo mi ha affascinato e appassionato moltissimo. Anche perché, tornando a ciò che dicevo sulla maschera, duplicando Adso duplicavo ancora una volta la serie di intercapedini, di schermi, posti tra me come personalità biografica, o me come autore narrante, io narrante, e i personaggi narrati, compresa la voce narrativa. Mi sentivo sempre più protetto, e tutta l’esperienza mi ha ricordato (vorrei dire carnalmente, e con l’evidenza di un sapore di madeleine imbevuta di tiglio) certi giochi infantili sotto le coperte, quando mi sentivo come in un sottomarino, e di lì lanciavo messaggi a mia sorella, sotto le coperte di un altro lettino, entrambi isolati dal mondo esterno, e totalmente liberi di inventare lunghe corse sul fondo di mari silenziosi.

Adso è stato molto importante per me. Sin dall’inizio volevo raccontare tutta la storia (coi suoi misteri, i suoi eventi politici e teologici, le sue ambiguità) con la voce di qualcuno che passa attraverso gli avvenimenti, li registra tutti con la fedeltà fotografica di un adolescente, ma non li capisce (e non li capirà a fondo neppure da vecchio, tanto che poi sceglie una fuga nel nulla divino che non era quella che gli aveva insegnato il suo maestro). Far capire tutto attraverso le parole di qualcuno che non capisce nulla. Leggendo le critiche, mi accorgo che questo è uno degli aspetti del romanzo che ha meno impressionato i lettori colti, o almeno, direi che nessuno lo ha rilevato, o quasi. Ma mi chiedo ora se questo non sia stato uno degli elementi che hanno determinato la leggibilità del romanzo da parte di lettori non sofisticati. Si sono identificati con l’innocenza del narratore, e si sono sentiti giustificati anche quando non capivano tutto. Li ho restituiti ai loro tremori di fronte al sesso, alle lingue ignote, alle difficoltà del pensiero, ai misteri della vita politica… Queste sono cose che capisco ora, après coup, ma forse allora trasferivo ad Adso molti dei miei tremori di adolescente, certamente nelle sue palpitazioni d’amore (però sempre con la garanzia di poter agire per interposta persona: infatti Adso vive i suoi patimenti d’amore solo attraverso le parole con cui i dottori della chiesa parlavano d’amore). L’arte è la fuga dall’emozione personale,, me lo avevano insegnato sia Joyce che Eliot.

La lotta contro l’emozione è stata durissima. Avevo scritto una bella preghiera, modellata sull’elogio della Natura di Alano di Lilla, da mettere in bocca a Guglielmo in, un momento di emozione. Poi ho capito che ci saremmo emozionati entrambi, io come autore e lui come personaggio. Io come autore non dovevo, per ragioni di poetica. Lui come personaggio non poteva, perché era fatto di altra pasta, e le sue emozioni erano tutte mentali, oppure represse. Così ho eliminato quella pagina. Dopo aver letto il libro una amica mi ha detto: “L’unica mia obiezione è che Guglielmo non ha mai un moto di pietà”. L’ho riferito a un altro amico che mi ha risposto: “È giusto, quello è lo stile della sua pietas”. Forse era così. E così sia.

E così sia.

La preterizione

Adso mi è servito per risolvere ancora un’altra questione. Avrei potuto fare svolgere la storia in un Medio Evo in cui tutti sapevano di cosa si parlava. Come in una storia contemporanea, se un personaggio dice che il Vaticano non approverebbe il suo divorzio, non si deve spiegare cos’è il Vaticano e perché non approva il divorzio. Ma in un romanzo storico non si può fare così perché vi si narra anche per chiarire meglio a noi contemporanei cosa sia accaduto, e in che senso ciò che è accaduto conti anche per noi.

Il rischio è allora quello del salgarismo. I personaggi di Salgari fuggono nella foresta, braccati dai nemici, e inciampano in una radice di baobab: ed ecco che il narratore sospende l’azione e ci fa una lezione di botanica sui baobab. Ora è diventato topos, amabile come i vizi delle persone che abbiamo amato, ma non si dovrebbe fare.

Ho riscritto centinaia di pagine per evitare questo tipo di caduta; ma non ricordo di essermi mai accorto di come risolvessi il problema. Me ne son reso conto solo due anni dopo, e proprio mentre cercavo di spiegarmi perché il libro fosse letto anche da persone che non potevano certo amare i libri così “colti “. Lo stile narrativo di Adso è fondato su quella figura di pensiero che si chiama preterizione. Ricordate l’esempio illustre? “Cesare taccio, che per ogni piaggia…” Si dice di non voler parlare di qualcosa che tutti conoscono benissimo, e nel dirlo si parla di quella cosa. Questo è un poco il modo in cui Adso accenna a persone ed eventi come ben noti, e tuttavia ne parla. Quanto a quelle persone e a quegli eventi che il lettore di Adso, tedesco della fine del secolo, non poteva conoscere, perché si erano svolti in Italia all’inizio del secolo, Adso non ha reticenze a parlarne, e in tono didascalico, perché tale era lo stile del cronista medievale, voglioso di introdurre nozioni enciclopediche ogni qual volta nominasse qualcosa. Dopo aver letto il manoscritto, un’amica (non la stessa di prima) mi disse che era stata colpita dal tono giornalistico del racconto, non da romanzo, ma da articolo di Espresso, così disse, se ben ricordo. Sulle prime ci rimasi male, poi capii quello che lei aveva colto, ma senza riconoscere. È così che raccontano i cronisti di quei secoli, e se noi parliamo oggi di cronaca è perché allora si scrivevano tante croniche.

Il respiro

Ma i lunghi brani didascalici andavano messi anche per un’altra, ragione. Dopo aver letto il manoscritto, gli amici della casa editrice mi suggerirono di accorciare le prime cento pagine, che trovavano molto impegnative e faticose. Non ebbi dubbi, rifiutai, perché, sostenevo, se qualcuno voleva entrare nell’abbazia e viverci sette giorni, doveva accettarne il ritmo. Se non ci riusciva, non sarebbe mai riuscito a leggere tutto il libro. Quindi, funzione penitenziale, iniziatoria, delle prime cento pagine, e a chi non piace peggio per lui, rimane alle falde della collina. Entrare in un romanzo è come fare un’escursione in montagna: occorre imparare un respiro, prendere un passo, altrimenti ci si ferma subito. È lo stesso di ciò che avviene in poesia. Pensate come sono insopportabili quei poeti recitati da attori che, per “interpretare”, non rispettano la misura del verso, fanno degli enjambe ments recitativi come se parlassero in prosa, stanno dietro al contenuto e non al ritmo. Per leggere una poesia in endecasillabi e terza rima occorre assumere il ritmo cantato che il poeta voleva. Meglio recitar Dante come se fossero le rime del Corriere dei Piccolidi un tempo, che non correndo a tutti i costi dietro al senso. In narrativa il respiro non è affidato alle frasi, ma a macro proposizioni più ampie, a scansioni di eventi. Ci sono romanzi che respirano come gazzelle e altri che respirano come balene, o elefanti. L’armonia non sta nella lunghezza del fiato, ma nella regolarità con cui lo si tira: anche perché se a un certo punto (ma non dovrebbe essere troppo sovente) il fiato si interrompe e un capitolo (o una sequenza) finiscono prima che il respiro sia tirato del tutto, questo può giocare un ruolo importante nell’economia del racconto, segnare un punto di rottura, un colpo di scena. Almeno così si vede fare dai grandi: “La sventurata rispose” — punto e a capo non ha lo stesso ritmo di “Addio monti”, ma quando arriva è come se il bel cielo di Lombardia si coprisse di sangue. Un grande romanzo è quello in cui l’autore sa sempre a che punto accelerare, frenare e come dosare questi colpi di pedale nel quadro di un ritmo di fondo che rimane costante. E in musica si può “rubare”, ma che non si rubi troppo, se no abbiamo quei cattivi esecutori che credono che, per fare Chopin, basti esagerare nel rubato. Non sto parlando di come ho risolto i miei problemi, bensì di come me li sono posti. E se dovessi dire che me li ponevo coscientemente, mentirei. C’è un pensiero compositivo che pensa anche attraverso il ritmo delle dita che battono sui tasti della macchina.

Vorrei dare un esempio di come raccontare sia pensare con le dita. È chiaro che la scena dell’amplesso in cucina è costruita tutta con citazioni da testi religiosi, a partire dal Cantico dei Canticisino a san Bernardo e a Jean de Fecamp, o santa Hildegarda di Bingen. Almeno, anche chi non ha pratica di mistica medievale, ma un po’ di orecchio, se ne è accorto. Ma quando ora qualcuno mi chiede di chi sono le citazioni e dove finisce una e incomincia l’altra, non sono più in grado di dirlo.

Infatti io avevo decine e decine di schede con tutti i testi, e talora delle pagine di libro, e delle fotocopie, moltissime, molte più di quante non ne abbia poi usate. Ma quando ho scritto la scena l’ho scritta di getto (solo dopo l’ho limata, come a passarci sopra una vernice omogeneizzante, perché si vedessero ancora meno le suture). Dunque, scrivevo, accanto avevo tutti i testi, buttati senz’ordine, e spostavo l’occhio ora su uno ora sull’altro, copiando un brano, poi collegandolo subito a un altro. È il capitolo che, in prima stesura, ho scritto più rapidamente di tutti. Ho capito dopo che cercavo di seguire con le dita il ritmo dell’amplesso, e quindi non potevo arrestarmi per scegliere la citazione giusta. Ciò che rendeva giusta la citazione inserita in quel punto era il ritmo con cui la inserivo, scartavo con gli occhi quelle che avrebbero arrestato il ritmo delle dita. Non posso dire che la stesura dell’evento sia durata quanto l’evento (benché ci siano degli amplessi abbastanza lunghi), ma ho cercato di abbreviare il più possibile la differenza tra tempo dell’amplesso e tempo della scrittura. E dico scrittura non nel senso barthesiano, bensì nel senso del dattilografo, sto parlando della scrittura come atto materiale, fisico. E sto parlando di ritmi del corpo, non di emozioni. L’emozione, ormai filtrata, era tutta prima, nella decisione di assimilare estasi mistica ed estasi erotica, nel momento in cui avevo letto e scelto i testi da usare. Dopo, nessuna emozione, era Adso che faceva all’amore, non io, io dovevo solo tradurre la sua emozione in un gioco di occhi e di dita, come se avessi deciso di raccontare una storia d’amore suonando il tamburo.

Costruire il lettore

Ritmo, respiro, penitenza… Per chi, per me? No, certo, per il lettore. Si scrive pensando a un lettore. Così come il pittore dipinge pensando allo spettatore del quadro. Dopo aver dato un colpo di pennello, si allontana di due o tre passi e studia l’effetto: guarda cioè al quadro come dovrebbe guardarlo, in condizioni di luce acconcia, lo spettatore quando l’ammirerà appeso alla parete. Quando l’opera è finita, si instaura un dialogo tra il testo e i suoi lettori (l’autore è escluso). Mentre l’opera si fa, il dialogo è doppio. C’è il dialogo tra quel testo e tutti gli altri testi scritti prima (si fanno libri solo su altri libri e intorno ad altri libri) e c’è il dialogo tra l’autore e il proprio lettore modello. L’ho teorizzato in altre opere come Lector in fabula o prima ancora in Opera aperta, né l’ho inventato io.

Può accadere che l’autore scriva pensando a un certo pubblico empirico, come facevano i fondatori del romanzo moderno, Richardson o Fielding o Defoe, che scrivevano per i mercanti e le loro mogli, ma scrive per il pubblico anche Joyce che pensa a un lettore ideale affetto da un’ideale insonnia. In entrambi i casi, sia che si creda di parlare a un pubblico che è lì, soldi alla mano, fuori dalla porta, sia che ci si proponga di scrivere per un lettore a venire, scrivere è costruire, attraverso il testo, il proprio modello di lettore.

Cosa vuol dire pensare a un lettore capace di superare lo scoglio penitenziale delle prime cento pagine? Significa esattamente scrivere cento pagine allo scopo di costruire un lettore adatto per quelle che seguiranno.

C’è uno scrittore che scrive solo per i posteri? No, neppure se lo afferma, perché, siccome non è Nostradamus, non può che configurarsi un autore che scriva per pochi lettori? Sì, se con questo si intende che il Lettore Modello che egli si configura, nelle sue previsioni, ha poche possibilità di essere impersonato dai più. Ma anche in questo caso lo scrittore scrive con la speranza, neppur troppo segreta, che proprio il suo libro crei, e in gran numero, molti nuovi rappresentanti di questo lettore voluto e perseguito con tanta acribia artigiana, postulato, incoraggiato dal suo testo.

La differenza è se mai tra il testo che vuole produrre un lettore nuovo e quello che cerca di andare incontro ai desideri dei lettori tali quali li si trova già per la strada. In questo secondo caso abbiamo il libro scritto, costruito secondo un formulario buono per prodotti serializzati, l’autore fa una sorta di analisi di mercato, e si adegua. Che lavori per formule lo si vede sulla distanza, analizzando i vari romanzi che ha scritto, e rilevando che in tutti, cambiando i nomi, i luoghi e le fisionomie, si racconta la stessa storia. Quella che il pubblico già chiedeva.

Ma quando lo scrittore pianifica il nuovo, e progetta un lettore diverso, non vuole essere un analista di mercato che fa la lista delle richieste espresse, bensì un filosofo, che intuisce le trame dello Zeitgeist. Egli vuole rivelare al proprio pubblico ciò che esso dovrebbe volere, anche se non lo sa. Egli vuole rivelare il lettore a se stesso.

Se Manzoni avesse dovuto badare a quello che il pubblico chiedeva, la formula l’aveva, il romanzo storico di ambiente medievale, con personaggi illustri, come nella tragedia greca, re e principesse (e non fa così nell’Adelchi?) e grandi e nobili passioni, e imprese guerresche, e celebrazione delle glorie italiche in un’epoca in cui l’Italia era terra di forti. Non facevano così, prima di lui, con lui e l’Italia era terra di forti. Non facevano così, prima di lui, con lui e dopo di lui, tanti romanzieri storici più o meno sciagurati, dall’ardopo di lui, tanti romanzieri storici più o meno sciagurati, dall’artigiano d’Azeglio, al focoso e lutulento Guerrazzi, all’illeggibile Cantù? E invece cosa fa Manzoni? Sceglie il Seicento, epoca di schiavitù, e personaggi vili, e l’unico spadaccino è un fellone, e di battaglie non ne racconta, e ha il coraggio di appesantire la storia con documenti e grida… E piace, piace a tutti, a dotti e a indotti, a grandi e piccini, a pinzoccheri e a mangiapreti. Perché aveva intuito che i lettori del suo tempo dovevano avere quello, anche se non lo sapevano, anche se non lo chiedevano, anche se non credevano che fosse commestibile. E quanto lavora, di lima, sega e martello, e risciacquatura di panni, per rendere palatabile il suo prodotto. Per obbligare i lettori empirici a diventare il lettore modello che egli aveva vagheggiato.

Manzoni non scriveva per piacere al pubblico così come era, ma per creare un pubblico a cui il suo romanzo non potesse non piacere. E guai se non fosse piaciuto, lo vedete con quanta ipocrisia e serenità parla dei suoi venticinque lettori. Venticinque milioni, ne vuole.

Che lettore modello volevo, mentre scrivevo? Un complice, certo, che stesse al mio gioco. Io volevo diventare completamente medievale e vivere nel Medio Evo come se fosse il mio tempo (e viceversa). Ma al tempo stesso volevo, con tutte le mie forze, che si disegnasse una figura di lettore il quale, superata l’iniziazione, diventasse mia preda, ovvero preda del testo e pensasse di non voler altro che ciò che il testo gli offriva. Un testo vuole essere una esperienza di trasformazione per il proprio lettore. Tu credi di voler sesso, e trame criminali in cui alla fine si scopre il colpevole, e molta azione, ma al tempo stesso ti vergogneresti di accettare una venerabile paccottiglia fatta di mani della morta e fabbri del convento. Ebbene io ti darò latino, e poche donne, e teologia a bizzeffe e sangue a litri come nel Grand Guignol, in modo che tu dica “ma è falso, non ci sto!” E a questo punto dovrai essere mio, e provare il brivido della infinita onnipotenza di Dio, che vanifica l’ordine del mondo. E poi, se sarai bravo, accorgerti del modo in cui ti ho tratto nella trappola, perché infine te lo dicevo ad ogni passo, ti avvertivo bene che ti stavo traendo a dannazione, ma il bello dei patti col diavolo è che li si firma ben sapendo con chi si tratta. Altrimenti, perché essere premiato con l’inferno?

E siccome volevo che fosse preso come piacevole l’unica cosa che ci fa fremere, e cioè il brivido metafisico, non mi restava che scegliere (tra i modelli di trama) quella più metafisica e filosofica, il romanzo poliziesco.

La metafisica poliziesca

Non a caso il libro parte come se fosse un giallo (e continua a illudere il lettore ingenuo, sino alla fine, così che il lettore ingenuo può anche non accorgersi che si tratta di un giallo dove si scopre assai poco, e il detective viene sconfitto). Io credo che alla gente piacciano i gialli non perché ci sono i morti ammazzati, né perché vi si celebra il trionfo dell’ordine finale (intellettuale, sociale, legale e morale) sul disordine della colpa. È che il romanzo poliziesco rappresenta una storia di congettura, allo stato puro. Ma anche una diagnosi medica, una ricerca scientifica, anche una interrogazione metafisica sono casi di congettura. In fondo la domanda base della filosofia (come quella della psicoanalisi) è la stessa del romanzo poliziesco: di chi è la colpa? Per saperlo (per credere di saperlo) bisogna congetturare che tutti i fatti abbiano una logica, la logica che ha imposto loro il colpevole. Ogni storia di indagine e di congettura ci racconta qualcosa presso a cui abitiamo da sempre (citazione pseudo-heideggeriana). A questo punto è chiaro perché la mia storia di base (chi è l’assassino?) si dirama in tante altre storie, tutte storie di altre congetture, tutte intorno alla struttura della congettura in quanto tale. congettura in quanto tale. Un modello astratto della congetturalità è il labirinto. Ma ci sono tre tipi di labirinto. Uno è quello greco, quello di Teseo. Questo labirinto non consente a nessuno di perdersi: entri e arrivi al centro, e poi dal centro all’uscita. Per questo al centro c’è il Minotauro, altrimenti la storia non avrebbe sapore, sarebbe una semplice passeggiata. Il terrore nasce caso mai perché non sai dove arriverai e cosa farà il Minotauro. Ma se tu svolgi il labirinto classico, ti ritrovi tra le mani un filo, il filo d’Arianna. Il labirinto classico è il filo d’Arianna di se stesso.

Poi c’è il labirinto manieristico: se lo svolgi ti ritrovi tra le mani una specie di albero, una struttura a radici con molti vicoli ciechi. L’uscita è una sola, ma puoi sbagliare. Hai bisogno di un filo d’Arianna per non perderti. Questo labirinto è un modello di trialand-error process. Infine c’è la rete, ovvero quella che Deleuze e Guattari chiamano rizoma. Il rizoma è fatto in modo che ogni strada può connettersi con ogni altra. Non ha centro, non ha periferia, non ha uscita, perché è potenzialmente infinito. Lo spazio della congettura è uno spazio a rizoma. Il labirinto della mia biblioteca è ancora un labirinto manieristico, ma il mondo in cui Guglielmo si accorge di vivere è già strutturato a rizoma: ovvero, è strutturabile, ma mai definitivamente strutturato. Un ragazzo di diciassette anni mi ha detto che non ha capito nulla delle discussioni teologiche, ma che esse agivano come prolungamenti del labirinto spaziale (come se fossero musica thrilling in un film. di Hitchcock). Credo che sia accaduto qualcosa del genere: anche il lettore ingenuo ha fiutato che si trovava di fronte a una storia di labirinti, e non di labirinti spaziali. Potremmo dire una storia di labirinti, e non di labirinti spaziali. Potremmo dire che, curiosamente, le letture più ingenue erano le più “strutturali”. Il lettore ingenuo è entrato a contatto diretto, senza mediazione dei contenuti, con il fatto che è impossibile che ci sia una storia.

Il divertimento

Volevo che il lettore si divertisse. Almeno quanto mi stavo divertendo io. Questo è un punto molto importante, che sembra contrastare con le idee più pensose che crediamo di avere circa il romanzo.

Divertire non significa di-vertere, distogliere dai problemi. Robinson Crusoe vuole divertire il proprio lettore modello, raccontandogli dei calcoli e delle operazioni quotidiane di un bravo homo oeconomicus assai simile a lui. Ma il semblable di Robinson, dopo che si è divertito leggendosi in Robinson, in qualche modo dovrebbe aver capito qualcosa di più, essere diventato un altro. Divertendosi, in qualche modo, ha imparato. Che il lettore impari qualcosa circa il mondo o qualcosa circa il linguaggio, questa differenza contrassegna diverse poetiche della narratività, ma il punto non cambia. Il lettore ideale del Finnegans Wake deve alla fine divertirsi quanto il lettore di Carolina Invernizio. Tanto quanto. Ma in modo diverso. Ora, il concetto divertimento è storico.

Ci sono modi di divertirsi e di divertire diversi per ogni stagione del romanzo. È indubbio che il romanzo moderno ha cercato di deprimere il divertimento della trama per privilegiare altri tipi di divertimento. Io, grande ammiratore della poetica aristotelica, ho sempre pensato che, malammiratore della poetica aristotelica, ho sempre pensato che, malgrado tutto, un romanzo deve divertire anche e soprattutto attraverso la trama.

È indubbio che se un romanzo diverte, ottiene il consenso di un pubblico. Ora, per un certo periodo, si è pensato che il consenso fosse una spia negativa. Se un romanzo trova consenso, allora è perché non dice nulla di nuovo, e dà al pubblico ciò che esso si attendeva già.

Credo però non sia la stessa cosa dire “se un romanzo dà al lettore ciò che si attendeva, trova consenso” e “se un romanzo trova consenso è perché dà al lettore ciò che esso si attendeva “. La seconda affermazione non è sempre vera. Basti pensare a Defoe o a Balzac, per arrivare sino al Tamburo di latta o a Cent’anni di solitudine.Si dirà che l’equazione “consenso = disvalore” è stata incoraggiata da certe posizioni polemiche prese da noi del gruppo 63, e anche prima del ’63, quando si identificava il libro di successo col libro consolatorio, e il romanzo consolatorio col romanzo a intrecbro consolatorio, e il romanzo consolatorio col romanzo a intreccio, mentre si celebrava l’opera sperimentale, che fa scandalo ed è rifiutata dal grande pubblico. E queste cose sono state dette, aveva un senso dirle, e sono quelle che hanno maggiormente scandalizzato i letterati benpensanti e che non sono mai più state dimenticate dai cronisti — e giustamente perché erano state pronunciate proprio per ottenere quest’effetto, e pensando a romanzi tradizionali dall’impianto fondamentalmente consolatorio e privi di innovazioni interessanti rispetto alla problematica ottocentesca. E che poi allora si formassero schieramenti, e si facesse sovente di ogni erba un fascio, talora per ragioni di guerra per bande, è fatale. Mi ricordo che i nemici erano Lampedusa, Bassani e Cassola, e oggi, personalmente, farei sottili differenze tra i tre. Lampedusa aveva scritto un buon romanzo fuori tempo, e si polemizzava contro la celebrazione che se ne faceva come se proponesse una nuova via alla letteratura italiana, mentre al contrario ne chiudeva gloriosamente un’altra. Su Cassola non ho cambiato opinione. Su Bassani invece oggi andrei molto ma molto più cauto e se fossi nel ’63 lo accetterei come compagno di strada. Ma il problema di cui voglio parlare è un altro.

È che nessuno si ricorda più di quanto è accaduto nel 1965, quando il gruppo si era riunito a Palermo, di nuovo, per discutere sul romanzo sperimentale (e dire che gli atti sono ancora in catalogo, col titolo Il romanzo sperimentale, da Feltrinelli, con la data 1965 in copertina, e 1966 sul finito di stampare). Ora nel corso di quel dibattito si trovavano cose molto interessanti. Anzitutto la relazione iniziale di Renato Barilli, già teorico di tutti gli sperimentalismi del Nouveau Roman, che si trovava a quel punto a fare i conti col nuovo Robbe Grillet, e con Grass, e con Pynchon (non si dimentichi che ora Pynchon viene citato tra gli iniziatori del post-moderno, ma allora questa parola non esisteva, almeno in Italia, e stava cominciando John Barth in America), e citava il riscoperto Roussel, che amava Verne, e non citava Borgés perché la sua rivalutazione non era ancora iniziata. E cosa diceva Barilli? Che sino ad allora si era privilegiata la fine dell’intreccio, e il blocco dell’azione nell’epifania e nell’estasi materialistica. Ma che stava iniziando una nuova fase della narrativa con la rivalutazione dell’azione, sia pure di una azione autre.

Io analizzavo l’impressione che avevamo provato la sera prima assistendo a un curioso collage cinematografico di Baruchello e Grifi, Verifica incerta, una storia fatta con spezzoni di storie, anzi di situazioni standard, di topoi, del cinema commerciale. E rilevavo che là dove il pubblico aveva reagito con maggior piacere era nei punti in cui, sino a pochi anni fa, avrebbe reagito dando segni di scandalo, e cioè dove le conseguenze logiche e temporali dell’azione tradizionale venivano eluse e le sue attese apparivano violentemente frustrate. L’avanguardia stava diventando tradizione, ciò che era dissonante qualche anno prima diventava miele per le orecchie (o per gli occhi). E da questo non si poteva che trarre una conclusione. L’inaccettabilità del messaggio non era più criterio principe per una narrativa (e per qualsiasi arte) sperimentale, visto che l’inaccettabile era ormai codificato come piacevole. Si profilava un ritorno conciliato a nuove forme di accettabile, e di piacevole. E ricordavo che, se al tempo delle serate futuriste di Marinetti era indispensabile che il pubblico fischiasse, “oggi è invece improduttiva e sciocca la polemica di chi giudica fallito un esperimento per il fatto che viene accettato come normale: è un rifarsi allo schema assiologico dell’avanguardia storica, e a questo punto l’eventuale critico dell’avanguardia altro non è che un marinettiano in ritardo. Ribadiamo che solo in un momento storico preciso l’inaccettabilità del messaggio da parte del ricettore è diventata una garanzia di valore… Sospetto che forse dovremo rinunciare a quella arrière pensée, che domina costantemente le nostre discussioni, per cui lo scandalo esterno dovrebbe essere una verifica della validità di un lavoro. La stessa dicotomia tra ordine e disordine, tra opera di consumo e opera di provocazione, pur non perdendo di validità, andrà riesaminata forse in un’altra prospettiva: cioè, credo che sarà possibile trovare elementi di rottura e contestazione in opere che apparentemente si prestano ad un facile consumo, ed accorgersi al contrario che certe opere, che appaiono come provocatorie e fanno ancora saltare sulla sedia il pubblico, non contestano nulla… In questi giorni ho trovato qualcuno che, insospettito perché un prodotto gli era piaciuto troppo, lo sospendeva in una zona di dubbio…” E via dicendo.

1965. Erano gli anni in cui iniziava la pop art, e dunque cadevano le distinzioni tradizionali tra arte sperimentale, non figurativa, e arte di massa, narrativa e figurativa. Gli anni in cui Pousseur, riferendosi ai Beatles, mi diceva “essi lavorano per noi”, non accorgendosi però ancora che lui stava lavorando anche per loro (e avrebbe dovuto venire Cathy Berberian a mostrarci che i Beatles, ricondotti a Purcell, come era giusto, potevano essere eseguiti in concerto accanto a Monteverdi e a Satie).

Il post-moderno, l’ironia, il piacevole

Dal 1965 a oggi si sono definitivamente chiarite due idee. Che si poteva ritrovare l’intreccio anche sotto forma di citazione di altri intrecci, e che la citazione avrebbe potuto essere meno consolatoria dell’intreccio citato (sarà del 1972 l’almanacco Bompiani intitolato al Ritorno dell’intreccio, sia pure attraverso la rivisitazione ironica, e ammirata al tempo stesso, di Ponson du Terrail e di Eugène Sue, e all’ammirazione con poca ironia di certe grandi pagine di Dumas). Si poteva avere un romanzo non consolatorio, abbastanza problematico, e tuttavia piacevole?

Questa sutura, e il ritrovamento non solo dell’intreccio ma anche della piacevolezza, doveva essere attuata dai teorici americani del Post-Modernismo.

Malauguratamente “post-moderno” è un termine buono à tout faire. Ho l’impressione che oggi lo si applichi a tutto ciò che piace a chi lo usa. D’altra parte sembra ci sia un tentativo di farlo slittare all’indietro: prima sembrava adattarsi ad alcuni scrittori o artisti operanti negli ultimi vent’anni, poi via via è arrivato sino a inizio secolo, poi più indietro, e la marcia continua, tra poco la categoria del post-moderno arriverà a Omero.

Credo tuttavia che il post-moderno non sia una tendenza circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale, o meglio un Kunstwollen, un modo di operare. Potremmo dire che ogni epoca ha il proprio post-moderno, così come ogni epoca avrebbe il proprio manierismo (tanto che mi chiedo se post-moderno non sia il nome moderno del Manierismo come categoria metastorica). Credo che in ogni epoca si arrivi a dei momenti di crisi quali quelli descritti da Nietzsche nella Seconda Inattuale, sul danno degli studi storici. Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta. L’avanguardia storica (ma anche qui intenderei quella di avanguardia come categoria metastorica) cerca di regolare i conti con il passato. “Abbasso il chiaro di luna “, motto futurista, è un programma tipico di ogni avanguardia, basta mettere qualcosa di appropriato al posto del chiaro di luna. L’avanguardia distrugge il passato, lo sfigura: le Demoiselles d’Avignonsono il gesto tipico dell’avanguardia; poi l’avanguardia va oltre, distrutta la figura l’annulla, arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura sarà la condizione minima del curtain wall, l’edificio come stele, parallelepipedo puro, in letteratura la distruzione del flusso del discorso, sino al collage alla Bourroughs, sino al silenzio o alla pagina bianca, in musilage alla Bourroughs, sino al silenzio o alla pagina bianca, in musica sarà il passaggio dall’atonalità al rumore, al silenzio assoluto (in questo senso il Cage delle origini è moderno

Ma arriva il momento che l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre, perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l’arte concettuale). La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente. Penso all’atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle “ti amo disperatamente”, perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà dire: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente”. A questo punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un’epoca di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d’amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell’ironia… Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d’amore.

Ironia, gioco meta linguistico, enunciazione al quadrato. Per cui se, col moderno, chi non capisce il gioco non può che rifiutarlo, col post-moderno è anche possibile non capire il gioco e prendere le cose sul serio. Che è poi la qualità (il rischio) dell’ironia. C’è sempre chi prende il discorso ironico come se fosse serio. Penso che i collages di Picasso, di Juan Gris e di Braque fossero moderni: per questo la gente normale non li accettava. Invece i collages che faceva Max Ernst, montando pezzi di incisioni ottocentesche, erano post-moderni: si possono anche leggere come un racconto fantastico, come il racconto di un sogno, senza accorgersi che rappresenta no un discorso sull’incisione, e forse sul collage stesso. Se il post moderno è questo, è chiaro perché Sterne o Rabelais fossero post moderni, perché lo è certamente Borgés, perché in uno stesso artista possano convivere, o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moderno e quello post-moderno. Si veda cosa accade con Joyce. Il Portrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima, sono più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wakeè già post-moderno, o al meno apre il discorso post-moderno, richiede, per essere compreso, non la negazione del già detto, ma il suo ripensamento ironico.

Sul post-moderno è stato detto quasi tutto sin dall’inizio (e cioè da saggi come “La letteratura dell’esaurimento” di John Barth, che è del 1967, e che è stato recentemente pubblicato da Calibano, nel numero 7 sul post-moderno americano). Non è che sia del tutto d’accordo con le pagelle che i teorici del post-modernismo (Barth compreso) assegnano a scrittori e artisti, stabilendo chi è post-moderno e chi non ancora. Ma mi interessa il teorema che i teorici della tendenza traggono dalle loro premesse: “Il mio scrittore ideale post-moderno non imita e non ripudia né i suoi genitori novecenteschi né i suoi nonni ottocenteschi. Ha digerito il modernismo, ma non lo porta sulle spalle come un peso… Questo scrittore forse non può sperare di raggiungere o commuovere i cultori di James Michener e Irving Wallace, per non parlare degli analfabeti lobotomizzati dai mass media, ma dovrebbe sperare di raggiungere e divertire, almeno qualche volta, un pubblico più vasto del circolo di quelli che Thomas Mann chiamava i primi cristiani, i devoti dell’Arte… Il romanzo post-moderno ideale dovrebbe superare le diatribe tra realismo e irrealismo, formalismo e “contenutismo”, letteratura pura e letteratura dell’impegno, narrativa d’élite e narrativa di massa… L’analogia che preferisco è piuttosto con il buon jazz o con la musica classica: a riascoltare e ad analizzare lo spartito si scoprono molte cose che non si erano colte la prima volta, ma la prima volta deve saperti prendere al punto da farti desiderare di riascoltare, e questo vale sia per gli specialisti che per i non specialisti.” Così Barth, nel 1980, riprendendo il tema, ma questa sotto il titolo “La letteratura della pienezza”. Naturalmente il discorso può essere ripreso con maggior gusto del paradosso, come fa Leslie Fiedler. Il numero di Calibanopubblica un suo saggio del 1981, e recentissimamente la nuova rivista Linea d’ombrapubblica un suo dibattito con altri autori americani. Fiedler provoca, è ovvio. Loda L’ultimo dei Mohicani, la narrativa d’avventure, il Gothic, la robaccia disprezzata dai critici e che ha saputo creare dei miti, e popolare l’immaginario di più di una generazione. Si chiede se apparirà ancora qualcosa come La capanna dello zio Tom, che possa essere letto con eguale passione in cucina, in salotto e nella stanza dei bambini. Mette Shakespeare dalla parte di quelli che sapevano divertire, insieme a Via col vento. Sappiamo tutti che è critico troppo fine per crederci. Vuole semplicemente rompere la barriera che è stata eretta tra arte e piacevolezza. Intuisce che raggiungere un pubblico vasto e popolare i suoi sogni, significa forse oggi fare avanguardia e ci lascia ancora liberi di dire che popolare i sogni dei lettori non vuol dire necessariamente consolarli. Può voler dire ossessionarli.

Il romanzo storico

Da due anni rifiuto di rispondere a questioni oziose. Del tipo: la tua è un’opera aperta o no? E che ne so, non sono fatti miei, sono fatti vostri. Oppure: con quale dei tuoi personaggi ti identifichi? Dio mio, ma con chi si identifica un autore? Con gli avverbi, è ovvio.

Di tutte le questioni oziose la più oziosa è stata quella di coloro che suggeriscono che raccontare del passato sia un modo di sfuggire al presente. È vero? mi chiedono. E probabile, rispondo, se Manzoni ha raccontato del Seicento è perché non gli interessava l’Ottocento, e il Sant’Ambrogiodi Giusti parla agli austriaci del suo tempo mentre chiaramente il Giuramento di Pontidadi Berchet parla di favole del tempo che fu. Love story si impegna sul proprio tempo mentre la Certosa di Parmaraccontava solo fatti avvenuti venticinque anni prima… Inutile dire che tutti i problemi dell’Europa moderna si formano, così come li sentiamo oggi, nel Medio Evo, dalla democrazia comunale alla economia bancaria, dalle monarchie nazionali alle città, dalle nuove tecnologie alle rivolte dei poveri: il Medio Evo è la nostra infanzia a cui occorre sempre tornare per fare l’anamnesi. Ma si può parlare di Medio Evo anche nello stile di Excalibur. E dunque il problema è un altro, e non eludibile. Che cosa vuol dire scrivere un romanzo storico? Credo che vi siano tre modi di raccontare intorno al passato. Uno è il romance, dal ciclo bretone alle storie di Tolkien, e ci sta dentro anche la “Gothic novel”, che novel non è ma appunto romance. Il passato come scenografia, pretesto, costruzione favolistica, per dare libero sfogo alla immaginazione. Dunque non è neppure necessario che il romance si svolga nel passato, basta che non si svolga ora e qui e che dell’ora e del qui non parli, neppure per allegoria. Molta fantascienza è puro romance. Il romance è la storia di un altrove.

Poi viene il romanzo di cappa e spada, come quello di Dumas. Il romanzo di cappa e spada sceglie un passato “reale” e riconoscibile, e per renderlo riconoscibile lo popola di personaggi già registrati dall’enciclopedia (Richelieu, Mazarino) ai quali fa compiere alcune azioni che l’enciclopedia non registra (aver incontrato Milady, aver avuto contatti con un certo Bonacieux) ma da cui l’enciclopedia non viene contraddetta. Naturalmente, per corroborare l’impressione di realtà, i personaggi storici faranno anche quello che (per consenso della storiografia) hanno fatto (assediare la Rochelle, aver avuto rapporti intimi con Anna d’Austria, aver avuto a che fare con la Fronda). In questo quadro (“vero”) si inseriscono i personaggi di fantasia, i quali però manifestano sentimenti che potrebbero essere attribuiti anche a personaggi di altre epoche. Quello che d’Artagnan fa ricuperando a Londra i gioielli della regina, avrebbe potuto farlo anche nel XV o nel XVIII secolo. Non è necessario vivere nel Seicento per aver la psicologia di d’Artagnan.

Nel romanzo storico invece non è necessario che entrino in scena personaggi riconoscibili in termini di enciclopedia comune. Pensate ai Promessi sposi, il personaggio più noto è il cardinal Federigo, che prima di Manzoni conoscevano in pochi (e ben più noto era l’altro Borromeo, San Carlo). Ma ogni cosa che fanno Renzo, Lucia o Fra Cristoforo non poteva che essere fatta nella Lombardia del Seicento. Quello che i personaggi fanno serve a far capire meglio la storia, ciò che è avvenuto. Vicende e personaggi sono inventati, eppure ci dicono sull’Italia dell’epoca cose che i libri di storia non ci avevano mai detto con altrettanta chiarezza.

In questo senso certamente io volevo scrivere un romanzo storico, e non perché Ubertino o Michele fossero davvero esistiti e dicessero più o meno quello che avevano detto davvero, ma perché tutto quello che personaggi fittizi come Guglielmo dicevano avrebbe dovuto essere stato detto a quell’epoca.

Non so quanto sono stato fedele a questo proposito. Non credo di averlo disatteso quando mascheravo citazioni di autori posteriori (come Wittgenstein) facendole passare per citazioni dell’epoca. In quei casi sapevo benissimo che non erano i miei medievali a essere moderni, caso mai erano i moderni a pensar medievale. Piuttosto mi chiedo se talora non ho prestato ai miei personaggi fittizi una capacità di mettere insieme, dalle disiectamembra di pensieri del tutto medievali, alcuni ircocervi concettuali che, come tali, il Medio Evo non avrebbe riconosciuto come propri. Ma credo che un romanzo storico debba fare anche questo: non solo individuare nel passato le cause di quel che è avvenuto dopo, ma anche disegnare il processo per cui quelle cause si sono avviate lentamente a produrre i loro effetti.

Se un mio personaggio, comparando due idee medievali, ne trae una terza idea più moderna, egli fa esattamente quello che la cultura ha poi fatto, e se nessuno ha mai scritto ciò che lui dice, è certo che qualcuno, sia pure in modo confuso, avrebbe dovuto incominciare a pensarlo (magari senza dirlo, preso da chissà quanti timori e pudori).

In ogni caso c’è una faccenda che mi ha molto divertito: ogni qual volta un critico o un lettore hanno scritto o detto che un mio personaggio affermava cose troppo moderne, ebbene, in tutti quei casi e proprio in quei casi, io avevo usato citazioni testuali del XIV secolo.

E ci sono altre pagine in cui il lettore ha goduto come squisitamente medievali atteggiamenti che io sentivo come illegittimamente moderni. È che ciascuno ha una propria idea, di solito corrotta, del Medio Evo. Solo noi monaci di allora sappiamo la verità ma, a dirla, talora si viene portati al rogo.

Per finire

Ho ritrovato — due anni dopo aver scritto il romanzo — un mio appunto del 1953, quando ancora facevo l’università. “Orazio e l’amico chiamano il conte di P. per risolvere il mistero dello spettro. Conte di P., gentiluomo eccentrico e flemmatico. Per contro, un giovane capitano delle guardie danesi con metodi americani. Sviluppo normale dell’azione secondo le linee della tragedia. All’ultimo atto il conte di P., radunata la famiglia, spiega l’arcano: l’assassino è Amleto. Troppo tardi, Amleto muore.” Anni dopo ho scoperto che una idea del genere l’aveva avuta da qualche parte Chesterton. Pare che il gruppo dell’Oulipo abbia recentemente costruito una matrice di tutte le possibili situazioni poliziesche e abbia trovato che rimane da scrivere un libro in cui l’assassino sia il lettore. Morale: esistono idee ossessive, non sono mai personali, i libri si parlano tra loro, e una vera indagine poliziesca deve provare che i colpevoli siamo noi.

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