Non mi attarderò a dire di come informammo l’Abate, di come tutta l’abbazia si risvegliò prima dell’ora canonica, delle grida di orrore, dello spavento e del dolore che si vedevano sul viso di ciascuno, di come la notizia si propagò a tutto il popolo del pianoro, coi servi che si segnavano e pronunciavano scongiuri. Non so se quella mattina si svolse il primo ufficio secondo le regole, e chi vi prese parte. Io seguii Guglielmo e Severino che fecero avvolgere il corpo di Berengario e ordinarono di distenderlo su un tavolo nell’ospedale.
Allontanatisi l’Abate e gli altri monaci, l’erborista e il mio maestro osservarono a lungo il cadavere, con la freddezza degli uomini di medicina.
“E’ morto annegato,” disse Severino, “non vi è dubbio. Il viso è gonfio, il ventre è teso…”
“Ma non è stato annegato da altri,” osservò Guglielmo, “altrimenti si sarebbe ribellato alla violenza dell’omicida, e avremmo trovato tracce d’acqua sparsa intorno alla vasca. E invece tutto era ordinato e pulito, come se Berengario avesse scaldato l’acqua, riempito il bagno e vi si fosse adagiato di propria volontà.”
“Questo non mi stupisce,” disse Severino. “Berengario soffriva di convulsioni, e io stesso gli avevo detto più volte che i bagni tiepidi servono a calmare l’eccitazione del corpo e dello spirito. Varie volte mi aveva chiesto licenza di accedere ai balnea. Così potrebbe avere fatto questa notte…”
“L’altra notte,” osservò Guglielmo, “perché questo corpo — lo vedi — è restato nell’acqua almeno un giorno…”
“E’ possibile che sia stato l’altra notte,” convenne Severino. Guglielmo lo mise parzialmente al corrente degli avvenimenti della notte prima. Non gli disse che eravamo stati furtivamente nello scriptorium ma, celandogli varie circostanze, gli disse che avevamo inseguito una figura misteriosa che ci aveva sottratto un libro. Severino capì che Guglielmo gli diceva solo una parte della verità, ma non fece altre domande. Osservò che l’agitazione di Berengario, se era lui il ladro misterioso, poteva averlo indotto a cercare la tranquillità in un bagno ristoratore. Berengario, osservò, era di natura molto sensibile, talora una contrarietà o un’emozione gli provocavano tremori, sudori freddi, sbarrava gli occhi e cadeva per terra sputando una bava biancastra.
“In ogni caso,” disse Guglielmo, “prima di venire qui è stato da qualche altra parte, perché non ho visto nei balnea il libro che ha rubato.”
“Sì,” confermai con una certa fierezza, “ho sollevato la sua veste che giaceva accanto alla vasca, e non ho trovato tracce di alcun oggetto voluminoso.”
“Bravo,” mi sorrise Guglielmo. “Dunque è stato da qualche altra pane, poi ammettiamo pure che per calmare la propria agitazione, e forse per sottrarsi alle nostre ricerche, si sia infilato nei balnea e si sia immerso nell’acqua. Severino, ritieni che il male di cui soffriva fosse sufficiente a fargli perdere i sensi e a farlo annegare?”
“Potrebbe essere,” osservò dubbioso Severino. “D’altra parte se tutto è accaduto due notti fa, avrebbe potuto esserci dell’acqua intorno alla vasca, che poi è asciugata. Così non possiamo escludere che sia stato annegato a viva forza.”
“No,” disse Guglielmo. “Hai mai visto un assassinato che, prima di farsi annegare, si toglie gli abiti?” Severino scosse la testa, come se quell’argomento non avesse più gran valore. Da qualche istante stava esaminando le mani del cadavere: “Ecco una cosa curiosa…” disse.
“Quale?”
“L’altro giorno ho osservato le mani di Venanzio, quando il corpo è stato ripulito dal sangue, e ho notato un particolare a cui non avevo dato molta importanza. I polpastrelli di due dita della mano destra di Venanzio erano scuri, come anneriti da una sostanza bruna. Esattamente, vedi?, come ora i polpastrelli di due dita di Berengario. Anzi, qui abbiamo anche qualche traccia sul terzo dito. Allora avevo pensato che Venanzio avesse toccato degli inchiostri nello scriptorium…”
“Molto interessante,” osservò Guglielmo pensieroso, avvicinando gli occhi alle dita di Berengario. L’alba stava sorgendo, la luce all’interno era ancora fioca, il mio maestro soffriva evidentemente della mancanza delle sue lenti. “Molto interessante,” ripeté.”L’indice e il pollice sono scuri sui polpastrelli, il medio solo sulla parte interna, e debolmente. Ma ci sono tracce più deboli anche sulla mano sinistra, almeno sull’indice e sul pollice.”
“Se fosse solo la mano destra, sarebbero le dita di chi afferra qualcosa di piccolo, o di lungo e sottile…”
“Come uno stilo. O un cibo. O un insetto. O un serpente. O un ostensorio. O un bastone. Troppe cose. Ma se ci sono segni anche sull’altra mano potrebbe essere anche una coppa, la destra la tiene salda e la sinistra collabora con minor forza…”
Severino ora sfregava leggermente le dita del morto, ma il colore bruno non scompariva. Notai che si era messo un paio di guanti, che probabilmente usava quando maneggiava sostanze velenose. Annusava, ma senza trarne alcuna sensazione. “Potrei citarti molte sostanze vegetali (e anche minerali) che provocano tracce di questo tipo. Alcune letali, altre no. I miniatori hanno talora le dita sporche di polvere d’oro…”
“Adelmo faceva il miniatore,” disse Guglielmo. “Immagino che di fronte al suo corpo sfracellato tu non abbia pensato a esaminargli le dita. Ma costoro potrebbero aver toccato qualcosa che era appartenuto ad Adelmo.”
“Proprio non so,” disse Severino. “Due morti, entrambi con le dita nere. Cosa ne deduci?”
“Non ne deduco nulla: nihil sequitur geminis ex particularibus unquam. Bisognerebbe ricondurre entrambi i casi a una regola. Per esempio: esiste una sostanza che annerisce le dita di chi la tocca…”
Terminai trionfante il sillogismo: “…Venanzio e Berengario hanno le dita annerite, ergo hanno toccato questa sostanza!”
“Bravo Adso,” disse Guglielmo, “peccato che il tuo sillogismo non sia valido, perché aut semel aut iterum medium generaliter esto, e in questo sillogismo il termine medio non appare mai come generale. Segno che abbiamo scelto male la premessa maggiore. Non dovevo dire: tutti coloro che toccano una certa sostanza hanno le dita nere, perché potrebbero esserci anche persone con le dita nere e che non han toccato la sostanza. Dovevo dire: tutti coloro e solo tutti coloro che han le dita nere hanno certamente toccato una data sostanza. Venanzio e Berengario, eccetera. Col che avremmo un Darii, un ottimo terzo sillogismo di prima figura.”
“Allora abbiamo la risposta!” dissi tutto contento.
“Ahimè Adso, come ti fidi dei sillogismi! Abbiamo solo e di nuovo la domanda. Cioè abbiamo fatto l’ipotesi che Venanzio e Berengario abbiano toccato la stessa cosa, ipotesi senz’altro ragionevole. Ma una volta che abbiamo immaginato una sostanza che, sola tra tutte, provoca questo risultato (il che è ancora da appurare) non sappiamo quale sia e dove coloro l’abbian trovata, e perché l’abbian toccata. E bada bene, non sappiamo neppure se è poi la sostanza che han toccato, quella che li ha condotti a morte. Immagina che un folle volesse uccidere tutti coloro che toccano della polvere d’oro. Diremmo che è la polvere d’oro che uccide?”
Rimasi turbato. Avevo sempre creduto che la logica fosse un’arma universale, e mi accorgevo ora di come la sua validità dipendesse dal modo in cui la si usava. D’altra parte, frequentando il mio maestro mi ero reso conto, e sempre più me ne resi conto nei giorni che seguirono, che la logica poteva servire a molto a condizione di entrarci dentro e poi di uscirne.
Severino, che certo non era un buon logico, frattanto rifletteva secondo la propria esperienza: “L’universo dei veleni è vario come vari sono i misteri della natura,” disse. Indicò una serie di vasi e ampolle che già una volta avevamo ammirato, disposti in bell’ordine negli scaffali lungo i muri, insieme a molti volumi.”Come ti ho già detto, molte di queste erbe, dovutamente composte e dosate, potrebbero dar luogo a bevande e a unguenti mortali. Ecco laggiù, datura stramonium, belladonna, cicuta: possono dare la sonnolenza, l’eccitazione, o entrambe; somministrate con cautela sono ottimi medicamenti, in dosi eccessive portano alla morte. Laggiù c’è la fava di sant’Ignazio, l’angostura pseudo ferruginea, la nux vomica, che potrebbero togliere il respiro…”
“Ma nessuna di queste sostanze lascerebbe segni sulle dita?”
“Nessuna, credo. Poi ci sono sostanze che diventano pericolose solo se ingerite e altre che agiscono invece sulla pelle. L’elleboro bianco può provocare vomiti in chi l’afferra per strapparlo dalla terra. Ci sono delle begonie che quando sono in fiore provocano ebbrezza nei giardinieri che le toccano, come se avessero bevuto del vino. L’elleboro nero, al solo toccarlo, provoca la diarrea. Altre piante danno palpitazioni di cuore, altre alla testa, altre ancora tolgono la voce. Invece il veleno della vipera, applicato alla pelle senza penetrare nel sangue, produce solo una leggera irritazione… Ma una volta mi fu mostrato un composto che, applicato alla parte interna delle cosce di un cane, vicino ai genitali, porta l’animale a morire in breve tempo tra convulsioni atroci, con le membra che piano piano si irrigidiscono…”
“Sai molte cose sui veleni,” osservò Guglielmo con un tono di voce che pareva ammirato. Severino lo fissò e ne sostenne lo sguardo per qualche istante: “So quello che un medico, un erborista, un cultore di scienze dell’umana salute deve sapere.”
Guglielmo restò a lungo sovrappensiero. Poi pregò Severino di aprire la bocca del cadavere, e di osservarne la lingua. Severino, incuriosito, usò una spatola sottile, uno degli strumenti della sua arte medica, ed eseguì. Ebbe un grido di stupore: “La lingua è nera!”
“E’ così allora,” mormorò Guglielmo. “Ha afferrato qualcosa con le dita e lo ha ingerito… Questo elimina i veleni che hai citato prima, che uccidono penetrando attraverso la pelle. Ma non rende più facili le nostre induzioni. Perché ora dobbiamo pensare, per lui e per Venanzio, a un gesto volontario, non casuale, non dovuto a distrazione o a imprudenza, né indotto con la violenza. Hanno afferrato qualcosa e lo hanno introdotto in bocca, sapendo cosa facevano…”
“Un cibo? Una bevanda?”
“Forse. O forse… che so? uno strumento musicale come un flauto…”
“Assurdo,” disse Severino.
“Certo che è assurdo. Ma non dobbiamo trascurare nessuna ipotesi, per straordinaria che sia. Ma ora cerchiamo di risalire alla materia venefica. Se qualcuno che conosca i veleni quanto te si fosse introdotto qui e avesse usato alcune di queste tue erbe, avrebbe potuto comporre un unguento mortale capace di produrre quei segni sulle dita e sulla lingua? Capace di essere posto in un cibo, in una bevanda, su un cucchiaio, su qualcosa che si mette in bocca?”
“Sì,” ammise Severino, “ma chi? E poi, anche ammessa questa ipotesi, come sarebbe stato propinato il veleno ai nostri due poveri confratelli?”
Francamente anch’io non riuscivo a immaginarmi Venanzio o Berengario che si lasciavano avvicinare da qualcuno che porgeva loro una sostanza misteriosa convincendoli a mangiarla o a berla. Ma Guglielmo non parve turbato da questa stranezza. “A questo penseremo dopo,” disse, “perché ora vorrei che tu cercassi di ricordare qualche fatto che forse non ti è ancora ritornato alla mente, non so, qualcuno che ti abbia fatto domande sulle tue erbe, qualcuno che entri con facilità nell’ospedale…”
“Un momento,” disse Severino, “molto tempo fa, parlo di anni, conservavo in uno di quegli scaffali una sostanza molto potente, che mi era stata data da un confratello che aveva viaggiato in paesi lontani. Non sapeva dirmi di cosa fosse fatta, certo di erbe, e non tutte note. Era, all’apparenza, vischiosa e giallastra, ma mi fu consigliato di non toccarla, perché se fosse venuta anche solo in contatto con le mie labbra mi avrebbe ucciso in breve tempo. Il confratello mi disse che, ingerita anche in dosi minime, provocava nel volgere di mezz’ora un senso di grande spossatezza, poi una lenta paralisi di tutte le membra, e infine la morte. Non voleva portarla con sé e me ne fece dono. La tenni a lungo, perché mi proponevo di esaminarla in qualche modo. Poi un giorno venne sul pianoro una grande bufera. Uno dei miei aiutanti, un novizio, aveva lasciata aperta la porta dell’ospedale, e l’uragano aveva sconvolto tutta la stanza in cui ora siamo. Ampolle rotte, liquidi sparsi sul pavimento, erbe e polveri disperse. Lavorai un giorno a rimettere in ordine le mie cose, e mi feci aiutare solo per spazzare via i cocci e le erbe ormai irrecuperabili. Alla fine mi accorsi che mancava proprio l’ampolla di cui ti parlavo. Dapprima mi preoccupai, poi mi convinsi che si era infranta e confusa con altri detriti. Feci lavare bene il pavimento dell’ospedale, e gli scaffali…”
“E avevi visto l’ampolla poche ore prima dell’uragano?”
“Sì… O meglio, no, ora che ci penso. Stava dietro una fila di vasi, ben nascosta, e non la controllavo ogni giorno…”
“Quindi, per quanto ne sai, avrebbe potuto esserti sottratta anche molto tempo prima dell’uragano, senza che tu lo sapessi?”
“Ora che mi ci fai riflettere, sì, indubbiamente.”
“E quel tuo novizio potrebbe averla sottratta e poi potrebbe aver colto il destro dell’uragano per lasciare di proposito la porta aperta e mettere confusione tra le tue cose.”
Severino apparve molto eccitato: “Certo, sì. Non solo, ma ricordando quanto avvenne, mi stupii molto che l’uragano, per quanto violento, avesse rovesciato tante cose. Potrei benissimo dire che qualcuno ha approfittato dell’uragano per sconvolgere la stanza e produrre più danni di quanto il vento non avesse potuto fare!”
“Chi era il novizio?”
“Si chiamava Agostino. Ma è morto l’anno scorso, cadendo da una impalcatura mentre con altri monaci e famigli ripuliva le sculture della facciata della chiesa. E poi, a ben pensarci, lui aveva giurato e spergiurato di non aver lasciata aperta la porta prima dell’uragano. Fui io, infuriato, che lo ritenni responsabile dell’incidente. Forse era davvero innocente.”
“E così abbiamo una terza persona, magari ben più esperta di un novizio, che era a conoscenza del tuo veleno. A chi ne avevi parlato?”
“Questo proprio non lo ricordo. All’Abate, certo, chiedendogli il permesso di trattenere una sostanza così pericolosa. E a qualcun altro, forse proprio in biblioteca, perché cercavo degli erbari che mi potessero rivelare qualcosa.”
“Ma non mi hai detto che trattieni presso di te i libri più utili alla tua arte?”
“Sì, e molti,” disse indicando in un angolo della stanza alcuni scaffali carichi di decine di volumi. “Ma allora cercavo certi libri che non potrei trattenere e che anzi Malachia era restio a farmi vedere tanto che dovetti chiederne l’autorizzazione all’Abate.” La sua voce si abbassò e quasi ebbe ritegno a farsi udire da me. “Sai, in un luogo ignoto della biblioteca si conservano anche opere di negromanzia, di magìa nera, ricette di filtri diabolici. Potei consultare alcune di queste opere, per dovere di conoscenza, e speravo di trovare una descrizione di quel veleno e delle sue funzioni. Invano.”
“Quindi ne hai parlato a Malachia.”
“Certo, senz’altro a lui, e forse anche allo stesso Berengario che lo assisteva. Ma non trarre conclusioni affrettate: non ricordo, forse mentre parlavo erano presenti altri monaci, sai, talora lo scriptorium è abbastanza affollato…”
“Non sto sospettando di nessuno. Cerco solo di capire cosa può essere accaduto. In ogni caso mi dici che il fatto avvenne qualche anno fa, ed è curioso che qualcuno abbia sottratto con tanto anticipo un veleno che avrebbe poi usato tanto tempo dopo. Sarebbe indizio di una volontà maligna che ha covato a lungo nell’ombra un proposito omicida.”
Severino si segnò con una espressione di orrore sul volto.”Dio ci perdoni tutti!” disse.
Non c’erano altri commenti da fare. Ricoprimmo il corpo di Berengario, che avrebbe dovuto essere preparato per le esequie.
Stavamo uscendo quando entrò Malachia. Parve contrariato dalla nostra presenza, e accennò a ritirarsi. Dall’interno Severino lo vide e disse: “Mi cercavi? E’ per…” S’interruppe, guardandoci. Malachia gli fece un cenno, impercettibile, come per dire: “Parliamone dopo…” Noi stavamo uscendo, lui stava entrando, ci trovammo tutti e tre nel vano della porta. Malachia disse, in modo piuttosto ridondante:
“Cercavo il fratello erborista… Ho… ho male al capo.”
“Deve essere l’aria chiusa della biblioteca,” gli disse Guglielmo con tono di premurosa comprensione.”Dovreste fare dei suffumigi.”
Malachia mosse le labbra come se volesse ancora parlare, poi rinunziò, abbassò il capo ed entrò, mentre noi ci allontanavamo.
“Cosa va a fare da Severino?” domandai.
“Adso,” mi disse con impazienza il maestro,”impara a ragionare con la tua testa.” Poi cambiò discorso: “Dobbiamo interrogare alcune persone, ora. Almeno,” aggiunse mentre con lo sguardo esplorava il pianoro,”sino a che sono ancora vive. A proposito: d’ora in poi facciamo attenzione a ciò che mangiamo e beviamo. Prendi sempre i tuoi cibi dal piatto comune, e le tue bevande dalla brocca a cui abbiano già attinto gli altri. Dopo Berengario siamo coloro che sanno più cose. Oltre, naturalmente, all’assassino.”
“Ma chi volete interrogare ora?”
“Adso,” disse Guglielmo,”avrai osservato che qui le cose più interessanti avvengono di notte. Di notte si muore, di notte si gira per lo scriptorium, di notte si introducono donne nella cinta… Abbiamo un’abbazia diurna e un’abbazia notturna, e quella notturna pare sciaguratamente più interessante di quella diurna. Pertanto, ogni persona che si aggiri di notte ci interessa, compreso per esempio l’uomo che hai visto ieri sera con la fanciulla. Magari la storia della fanciulla non ha nulla a che vedere con quella dei veleni, e magari sì. In ogni caso ho delle idee sull’uomo di ieri sera, che deve essere persona che sa anche altre cose sulla vita notturna di questo santo luogo. E, lupo nella favola, eccolo per l’appunto che sta passando laggiù.”
Mi additò Salvatore, il quale ci aveva visto a sua volta. Notai una lieve esitazione nel suo passo come se, desiderando evitarci, si fosse arrestato per invertire il cammino. Fu un attimo. Evidentemente si era reso conto che non poteva sottrarsi all’incontro, e riprese la sua marcia. Si rivolse a noi con un vasto sorriso e un “benedicite” alquanto untuoso. Il mio maestro quasi non lo lasciò finire e gli parlò in tono brusco.
“Sai che domani arriva qui l’inquisizione?” gli domandò.
Salvatore non ne parve contento. Con un filo di voce chiese: “E mi?”
“E tu farai bene a dire la verità a me, che sono amico tuo, e sono frate minore come tu sei stato, piuttosto che dirla domani a quelli, che conosci benissimo.”
Assalito così bruscamente, Salvatore parve abbandonare ogni resistenza. Guardò con aria sottomessa Guglielmo come per fargli capire che era pronto a dirgli quel che gli avesse chiesto.
“Questa notte c’era in cucina una donna. Chi era con lei?”
“Oh, femena che vendese como mercandia, no po’ unca bon essere, nì aver cortesia,” recitò Salvatore.
“Non voglio sapere se era una brava ragazza. Voglio sapere chi c’era con lei!”
“Deu, quanto son le femene de malveci scaltride! Pensano dì e note como l’omo schernisca…”
Guglielmo lo afferrò bruscamente per il petto: “Chi c’era con lei, tu o il cellario?”
Salvatore capì che non poteva mentire più a lungo. Cominciò a raccontare una strana storia, dalla quale faticosamente apprendemmo che lui, per compiacere il cellario, gli procacciava ragazze al villaggio, facendole entrare nottetempo nella cinta per vie che non ci volle dire. Ma spergiurò che agiva per puro buon cuore, lasciando trasparire un comico rammarico per il fatto che non trovava modo di trarne anche il suo piacere, in modo che la ragazza, dopo aver accontentato il cellario, desse qualcosa anche a lui. Disse tutto questo con viscidi e lubrichi sorrisi, e ammicchii, come a lasciar intendere che parlava a uomini fatti di carne, adusi alle stesse pratiche. E mi guardava di sottecchi, né io potevo rintuzzarlo come avrei voluto, perché mi sentivo legato a lui da un segreto comune, suo complice e compagno di peccato.
Guglielmo decise a quel punto di tentare il tutto per tutto. Gli chiese di colpo: “Hai conosciuto Remigio prima o dopo essere stato con Dolcino?” Salvatore gli si inginocchiò ai piedi pregandolo tra le lacrime di non volerlo perdere e di salvarlo dall’inquisizione, Guglielmo gli giurò solennemente di non dire a nessuno quanto avrebbe saputo, e Salvatore non esitò a consegnare il cellario alla nostra mercé. Si erano conosciuti alla Parete Calva, entrambi della banda di Dolcino, col cellario era fuggito ed entrato nel convento di Casale, con lui si era trasferito tra i cluniacensi. Biascicava implorazioni di perdono, ed era chiaro che da lui non si sarebbe potuto sapere di più. Guglielmo decise che valeva la pena di prendere di sorpresa Remigio, e lasciò Salvatore, che corse a rifugiarsi in chiesa.
Il cellario era dalla parte opposta dell’abbazia, davanti ai granai, e stava contrattando con alcuni villici della valle. Ci guardò con apprensione, e cercò di mostrarsi molto indaffarato, ma Guglielmo insistette per parlare con lui. Sino ad allora avevamo avuto con quell’uomo pochi contatti; lui era stato cortese con noi, noi con lui. Quella mattina Guglielmo gli si rivolse come avrebbe fatto con un confratello del suo ordine. Il cellario parve imbarazzato di quella confidenza e rispose da principio con molta prudenza.
“Per le ragioni del tuo ufficio tu sei evidentemente costretto ad aggirarti per l’abbazia anche quando gli altri dormono, immagino,” disse Guglielmo.
“Dipende,” rispose Remigio,”talora vi sono piccole faccende da sbrigare e vi debbo dedicare qualche ora di sonno.”
“Non ti è accaduto nulla, in questi casi, che possa indicarci chi si aggirasse, senza avere le tue giustificazioni, tra la cucina e la biblioteca?”
“Se avessi visto qualcosa l’avrei detto all’Abate.”
“Giusto,” convenne Guglielmo, e cambiò bruscamente discorso: “Il villaggio a valle non è molto ricco, vero?”
“Sì e no,” rispose Remigio,”vi abitano dei prebendari che dipendono dall’abbazia e costoro condividono la nostra ricchezza, nelle annate grasse. Per esempio il giorno di San Giovanni hanno ricevuto dodici moggi di malto, un cavallo, sette buoi, un toro, quattro giovenche, cinque vitelli, venti pecore, quindici maiali, cinquanta polli e diciassette alveari. E poi venti maiali affumicati, ventisette forme di strutto, mezza misura di miele, tre misure di sapone, una rete da pesca…”
“Ho capito, ho capito,” interruppe Guglielmo,”ma ammetterai che questo non mi dice ancora quale sia la situazione del villaggio, quali tra gli abitanti siano prebendari dell’abbazia, e quanta terra abbia da coltivare in proprio chi non è prebendario…”
“Oh, per questo,” disse Remigio,”una famiglia normale laggiù possiede anche cinquanta tavole di terreno.”
“Quanto è una tavola?”
“Naturalmente, quattro trabucchi quadri.”
“Trabucchi quadri? Quanto sono?”
“Trentasei piedi quadri a trabucco. O sei vuoi, ottocento trabucchi lineari fanno un miglio piemontese. E calcola che una famiglia — nelle terre verso mezzanotte — può coltivare olivi per almeno mezzo sacco di olio.”
“Mezzo sacco?”
“Sì, un sacco fa cinque emine, e una emina fa otto coppe.”
“Ho capito,” disse scoraggiato il mio maestro.”Ogni paese ha le sue misure. Voi per esempio il vino lo misurate a boccali?”
“O a rubbie. Sei rubbie, una brenta e otto brente un bottale. Se vuoi, un rubbo è di sei pinte da due boccali.”
“Credo di aver le idee chiare,” disse Guglielmo rassegnato.
“Desideri sapere altro?” chiese Remigio, con un tono che mi parve di sfida.
“Sì! Ti domandavo su come vivano a valle, perché meditavo oggi in biblioteca sulle prediche alle donne di Umberto da Romans, e in particolare su quel capitolo Ad mulieres pauperes in villulis. Dove dice che esse più di altre sono tentate ai peccati della carne, a causa della loro miseria, e saggiamente dice che esse peccant enim mortaliter, cum peccant cum quocumque laico, mortalius vero quando cum Clerico in sacris ordinibus constituto, maxime vero quando cum Religioso mundo mortuo. Tu sai meglio di me che anche in luoghi santi come le abbazie le tentazioni del demone meridiano non mancano mai. Mi chiedevo se nei tuoi contatti con la gente del villaggio fossi venuto ad apprendere che alcuni monaci, Dio non volesse, abbiano indotto alcune fanciulle in fornicazione.”
Benché il mio maestro dicesse queste cose con tono quasi distratto, il mio lettore avrà capito come quelle parole turbassero il povero cellario. Non so dire se impallidì, ma dirò che tanto mi attendevo che impallidisse che lo vidi impallidire.
“Mi chiedi cose che, se le sapessi, avrei già detto all’Abate,” rispose umilmente.”In ogni caso se, come immagino, queste notizie servono alla tua indagine, non ti tacerò nulla di quanto possa apprendere. Anzi, ora che mi fai pensare, a proposito della tua prima domanda… La notte in cui morì il povero Adelmo, io circolavo per la corte… sai, una storia di galline… voci che avevo raccolto su un qualche maniscalco che nottetempo andava a rubacchiare nel pollaio… Ecco, quella notte mi accadde di vedere — da lontano, non potrei giurare — Berengario che rientrava al dormitorio costeggiando il coro, come se provenisse dall’Edificio… Non me ne stupii, perché tra i monaci si mormorava da tempo su Berengario, forse l’hai saputo…”
“No, dimmi.”
“Bene, come dire? Berengario era sospettato di nutrire passioni che… non si convengono a un monaco…”
“Vuoi forse suggerirmi che aveva rapporti con ragazze del villaggio, come ti stavo domandando?”
Il cellario tossì imbarazzato, ed ebbe un sorriso piuttosto laido: “Oh no… passioni ancora più sconvenienti…”
“Perché un monaco che si diletti carnalmente con fanciulle del villaggio esercita invece passioni in qualche modo convenienti?”
“Non ho detto questo, ma tu mi insegni che c’è una gerarchia nella depravazione come c’è nella virtù. La carne può essere tentata secondo natura e… contro natura.”
“Tu mi stai dicendo che Berengario era mosso da desideri carnali per uomini del suo sesso?”
“Io dico che così si mormorava di lui… Ti comunicavo queste cose come prova della mia sincerità e della mia buona volontà…”
“E io ti ringrazio. E convengo con te che il peccato di sodomia è ben peggiore di altre forme di lussuria, sulle quali francamente non sono portato a investigare…”
“Miserie, miserie, quand’anche si verificassero,” disse con filosofa il cellario.
“Miserie, Remigio. Siamo tutti peccatori. Non cercherei mai la pagliuzza nell’occhio del fratello, tanto temo di avere una gran trave nel mio. Ma ti sarò grato per tutte le travi di cui mi vorrai parlare in futuro. Così ci intratterremo su grandi e robusti tronchi di legno e lasceremo che le pagliuzze volteggino nell’aria. Quanto dicevi che è un trabucco?”
“Trentasei piedi quadri. Ma non affannarti. Quando vorrai sapere qualcosa di preciso verrai da me. Fai conto di avere in me un amico fedele.”
“Tale io ti considero,” disse Guglielmo con calore.”Ubertino mi ha detto che un tempo appartenevi al mio stesso ordine. Non tradirei mai un antico confratello, specie in questi giorni in cui si sta attendendo l’arrivo di una legazione pontificia condotta da un grande inquisitore, famoso per aver bruciato tanti dolciniani. Dicevi che un trabucco fa trentasei piedi quadri?”
Il cellario non era uno sciocco. Decise che non valeva più la pena di giocare al gatto e al topo, tanto più che si accorgeva di essere il topo.
“Frate Guglielmo,” disse, “vedo che tu sai molte più cose di quanto io non immaginassi. Non tradirmi, e io non ti tradirò. E’ vero, sono un povero uomo carnale, e cedo alle lusinghe della carne. Salvatore mi ha detto che tu o il tuo novizio ieri sera li avete sorpresi in cucina. Tu hai viaggiato molto Guglielmo, sai che neppure i cardinali di Avignone sono modelli di virtù. So che non è per questi piccoli e miserabili peccati che stai interrogandomi. Ma capisco anche che hai appreso qualcosa sulla mia storia di un tempo. Ho avuto una vita bizzarra, come accadde a molti di noi minoriti. Anni fa ho creduto nell’ideale di povertà, ho abbandonato la comunità per darmi a vita randagia. Ho creduto alla predicazione di Dolcino, come molti altri come me. Non sono un uomo colto, ho ricevuto gli ordini ma so appena dir messa. So poco di teologia. E forse non riesco neppure ad affezionarmi alle idee. Vedi, un tempo ho tentato di ribellarmi ai signori, ora li servo e per il signore di queste terre comando a quelli come me. O ribellarsi o tradire, è data poca scelta a noi semplici.”
“Talora i semplici capiscono le cose meglio dei dotti,” disse Guglielmo.
“Forse,” rispose il cellario con una alzata di spalle.”Ma non so neppure perché ho fatto quello che ho fatto, allora. Vedi, per Salvatore era comprensibile, veniva dai servi della gleba, da una infanzia di carestie e di malattie… Dolcino rappresentava la ribellione, e la distruzione dei signori. Per me è stato diverso, ero di famiglia cittadina, non sfuggivo alla fame. E’ stata… non so come dire, una festa dei folli, un bel carnevale… Sui monti con Dolcino, prima che fossimo ridotti a mangiare la carne dei nostri compagni morti in battaglia, prima che ne morissero tanti di stenti che non si poteva mangiarli tutti, e si gettavano in pasto agli uccelli e alle fiere sulle pendici del Rebello… o forse anche in questi momenti… respiravamo un’aria… posso dire di libertà? Non sapevo prima cosa fosse la libertà, i predicatori ci dicevano: «La verità vi farà liberi.» Ci sentivamo liberi, pensavamo che fosse la verità. Pensavamo che tutto quello che facevamo fosse giusto…”
“E laggiù avete preso… a unirvi liberamente con una donna?” chiesi, e non so neppure perché, ma mi ossessionavano dalla notte innanzi le parole di Ubertino, e quello che avevo letto nello scriptorium, e gli stessi casi che mi erano accaduti. Guglielmo mi guardò incuriosito, probabilmente non si attendeva che fossi così ardimentoso, e impudente. Il cellario mi fissò come se fossi uno strano animale.
“Sul Rebello,” disse, “c’era gente che per tutta l’infanzia avevan dormito, in dieci e più, in pochi cubiti di stanza, fratelli e sorelle, padri e figlie. Cosa vuoi che fosse per loro accettare questa nuova situazione? Facevano per elezione quello che prima avevano fatto per necessità. E poi di notte, quando temi l’arrivo delle squadre nemiche e ti stringi vicino al tuo compagno, sulla terra, per non sentire freddo… Gli eretici: voi monacelli che venite da un castello e finite in una abbazia, credete che sia un modo di pensare, ispirato dal demonio. Invece è un modo di vivere, ed è… ed è stata… una esperienza nuova… Non c’erano più padroni e Dio, ci dicevano, era con noi. Non dico che avessimo ragione, Guglielmo, e infatti mi vedi qui, perché li abbandonai ben presto. Ma è che non ho mai capito le vostre dispute dotte sulla povertà di Cristo e l’uso e il fatto e il diritto… Te l’ho detto, è stato un gran carnevale, e a carnevale si fanno le cose alla rovescia. Poi diventi vecchio, non diventi saggio, ma diventi ghiottone. E qui faccio il ghiottone… Puoi condannare un eretico, ma vuoi condannare un ghiottone?”
“Basta così, Remigio,” disse Guglielmo.”Non ti interrogo per quello che è successo allora, ma per quello che è accaduto di recente. Aiutami, e io non cercherò certo la tua rovina. Non posso e non voglio giudicarti. Ma mi devi dire cosa sai sui fatti dell’abbazia. Giri troppo, di notte e di giorno, per non sapere qualcosa. Chi ha ucciso Venanzio?”
“Non lo so, te lo giuro. So quando è morto, e dove.”
“Quando? Dove?”
“Lasciami raccontare. Quella notte, un’ora dopo compieta, sono entrato in cucina…”
“Da dove, e per quali ragioni?”
“Dalla porta verso l’orto. Ho una chiave che da tempo mi son fatto fare dai fabbri. La porta della cucina è l’unica che non sia sbarrata dall’interno. E le ragioni… non contano, hai detto tu stesso che non vuoi accusarmi per le debolezze della mia carne…” Sorrise imbarazzato.”Ma non vorrei nemmeno che credessi che passo i miei giorni nella fornicazione… Quella sera cercavo cibo da regalare alla ragazza che Salvatore doveva far entrare nella cinta…”
“Da dove?”
“Oh, la cinta delle mura ha altre entrate, oltre al portale. Le conosce l’Abate, le conosco io… Ma quella sera la ragazza non venne, la rimandai indietro proprio a causa di quello che scoprii, e che sto per raccontarti. Ecco perché tentai di farla tornare ieri notte. Se voi foste giunti un poco dopo avreste trovato me invece di Salvatore, fu lui ad avvertirmi che c’era gente nell’Edificio, e io tornai nella mia cella…”
“Torniamo alla notte tra domenica e lunedì.”
“Ecco: io entrai in cucina e vidi per terra Venanzio, morto.”
“In cucina?”
“Sì, vicino all’acquaio. Forse era appena disceso dallo scriptorium.”
“Nessuna traccia di lotta?”
“Nessuna. O meglio, vicino al corpo c’era una tazza infranta, e segni di acqua per terra.”
“Perché sai che era acqua?”
“Non lo so. Ho pensato che fosse acqua. Cosa poteva essere?”
Come Guglielmo mi fece osservare dopo, quella tazza poteva significare due cose diverse. O proprio lì in cucina qualcuno aveva dato da bere a Venanzio una pozione velenosa, o il poveretto aveva già ingerito il veleno (ma dove? e quando?) ed era sceso a bere per calmare una improvvisa arsura, uno spasimo, un dolore che gli bruciava le viscere, o la lingua (ché certamente la sua doveva essere nera come quella di Berengario).
In ogni caso per il momento non si poteva sapere di più. Scorto il cadavere, e terrorizzato, Remigio si era chiesto cosa fare, e aveva risolto di non fare nulla. A chiedere soccorso, avrebbe dovuto ammettere di aver vagato durante la notte per l’Edificio, né avrebbe giovato al confratello ormai perduto. Pertanto aveva risolto di lasciare le cose così come erano, attendendo che qualcuno scoprisse il corpo il mattino dopo, all’apertura delle porte. Era corso a trattenere Salvatore, che già stava facendo penetrare la ragazza nell’abbazia, poi — lui e il suo complice — se ne erano tornati a dormire, se mai sonno si poteva chiamare la veglia agitata che ebbero sino a mattutino. E a mattutino, quando i porcai vennero ad avvertire l’Abate, Remigio credeva che il cadavere fosse stato scoperto dove lui l’aveva lasciato, ed era rimasto allibito scoprendolo nella giara. Chi aveva fatto sparire il cadavere dalla cucina? Su questo Remigio non aveva nessuna idea.
“L’unico che può muoversi liberamente per l’Edificio è Malachia,” disse Guglielmo.
Il cellario reagì con energia: “No, Malachia no. Cioè, non credo… In ogni caso non sono io che ti ho detto qualcosa contro Malachia…”
“Stai tranquillo, qualsiasi sia il debito che ti lega a Malachia. Sa qualcosa di te?”
“Sì,” arrossì il cellario, “e si è comportato da uomo discreto. Fossi in te io sorveglierei Bencio. Aveva strani legami con Berengario e Venanzio… Ma ti giuro, non ho visto altro. Se saprò qualcosa te lo dirò.”
“Per ora può bastare. Tornerò da te se ne avrò bisogno.” Il cellario, evidentemente sollevato, tornò ai suoi traffici, redarguendo aspramente i villici che frattanto avevano spostato non so quali sacchi di sementi.
In quel mentre ci raggiunse Severino. Portava in mano le lenti di Guglielmo, quelle che gli erano state sottratte due notti prima.”Li ho trovati nel saio di Berengario,” disse. “Li ho visti sul tuo naso, l’altro giorno in biblioteca. Sono i tuoi, vero?”
“Dio sia lodato,” esclamò gioiosamente Guglielmo.”Abbiamo risolto due problemi! Ho le mie lenti e so finalmente di sicuro che era Berengario l’uomo che ci derubò l’altra notte nello scriptorium!”
Avevamo appena finito di parlare che arrivò di corsa Nicola da Morimondo, più trionfante ancora di Guglielmo. Teneva nelle mani un paio di lenti finite, montate sulla loro forcella: “Guglielmo,” gridava,”ce l’ho fatta da solo, li ho finiti, credo che funzionino!” Poi vide che Guglielmo aveva altre lenti sul volto e rimase di sasso. Guglielmo non volle umiliarlo, si tolse le sue vecchie lenti e misurò le nuove: “Sono migliori delle altre,” disse.”Vuol dire che terrò le vecchie di riserva, e porterò sempre le tue.” Poi si volse a me: “Adso, ora mi ritiro in cella a leggere quelle carte che sai. Finalmente! Aspettami da qualche parte. E grazie, grazie a voi tutti fratelli carissimi.”
Suonava l’ora terza e mi portai in coro, a recitar con gli altri l’inno, i salmi, i versetti e il Kyrie. Gli altri pregavano per l’anima del morto Berengario. Io ringraziavo Iddio di averci fatto ritrovare non uno ma due paia di lenti.
Per la grande serenità, dimenticate tutte le brutture che avevo viste e udite, mi assopii, risvegliandomi quando l’ufficio ebbe termine. Mi resi conto che quella notte non avevo dormito e mi turbai pensando che avevo anche usato molto delle mie forze. E a quel punto, uscito all’aperto, il mio pensiero cominciò a essere ossessionato dal ricordo della fanciulla.
Cercai di distrarmi, e mi misi a muovere in fretta per il pianoro. Provavo un senso di lieve vertigine. Battevo le mani intirizzite l’una contro l’altra. Pestavo i piedi per terra. Avevo ancora sonno, eppure mi sentivo sveglio e pieno di vita. Non capivo cosa mi stesse accadendo.
In verità, dopo il mio incontro peccaminoso con la fanciulla, gli altri terribili avvenimenti mi avevano fatto quasi dimenticare quella vicenda, e d’altra parte, subito dopo essermi confessato a frate Guglielmo, il mio animo si era sgravato del rimorso che avevo avvertito al risveglio dopo il mio colpevole cedimento, tanto che mi era parso di aver consegnato al frate, con le parole, lo stesso fardello di cui esse erano la voce significativa. A che altro serve infatti il benefico lavacro della confessione, se non a scaricare il peso del peccato, e del rimorso che comporta, nel seno stesso di Nostro Signore, ottenendo con il perdono una nuova aerea leggerezza dell’anima, così da dimenticare il corpo martoriato dalla nequizia? Ma non di tutto mi ero liberato. Ora che passeggiavo al sole pallido e freddo di quella mattinata invernale, circondato dal fervore degli uomini e degli animali, cominciavo a ricordare gli avvenimenti passati in modo diverso. Come se di tutto quanto era accaduto non rimanessero più il pentimento e le parole consolatrici del lavacro penitenziale, ma solo immagini di corpi e di umane membra. Mi balzava alla mente sovreccitata il fantasma di Berengario gonfio di acqua, e rabbrividivo di ribrezzo e pietà. Poi come per fugare quel lemure, la mia mente si rivolgeva ad altre immagini di cui la memoria fosse fresco ricettacolo, e non potevo evitare di vedere, evidente ai miei occhi (agli occhi dell’anima, ma quasi come se apparisse innanzi agli occhi carnali), l’immagine della fanciulla, bella e terribile come esercito schierato in battaglia.
Mi sono ripromesso (vecchio amanuense di un testo mai scritto prima d’ora ma che per lunghi decenni ha parlato nella mia mente) di essere cronista fedele, e non solo per amore della verità, né per il desiderio (peraltro degnissimo) di ammaestrare i miei lettori futuri; ma anche per liberare la mia memoria appassita e stanca di visioni che per tutta la vita l’hanno affannata. E quindi devo dire tutto, con decenza ma senza vergogna. E devo dire, ora, e a chiare lettere, quello che allora pensai e quasi tentai di nascondere a me stesso, passeggiando per il pianoro, mettendomi talvolta a correre per potere attribuire al moto del corpo i battiti improvvisi del mio cuore, soffermandomi ad ammirare le opere dei villani e illudendomi di distrarmi nella loro contemplazione, aspirando l’aria fredda a pieni polmoni, come fa chi beve del vino per dimenticare timore o dolore.
Invano. Io pensavo alla fanciulla. La mia carne aveva dimenticato il piacere, intenso, peccaminoso e passeggero (cosa vile) che mi aveva dato il congiungermi con lei; ma la mia anima non aveva dimenticato il suo volto, e non riusciva a sentire perverso questo ricordo, anzi palpitava come se in quel volto risplendessero tutte le dolcezze del creato.
Avvertivo, in modo confuso e quasi negando a me stesso la verità di quanto sentivo, che quella povera, lercia, impudente creatura che si vendeva (chissà con quanta proterva costanza) ad altri peccatori, quella figlia di Eva che, debolissima come tutte le sue sorelle, aveva tante volte fatto commercio della propria carne, era tuttavia un qualcosa di splendido e mirifico. Il mio intelletto la sapeva fomite di peccato, il mio appetito sensitivo l’avvertiva come ricettacolo di ogni grazia. E’ difficile dire cosa provassi. Potrei tentare di scrivere che, ancora preso dalle trame del peccato, desideravo, colpevolmente, di vederla apparire a ogni istante, e quasi spiavo il lavoro degli operai per scrutare se dall’angolo di una capanna, dal buio di una stalla, apparisse quella figura che mi aveva sedotto. Ma non scriverei il vero, oppure tenterei di porre un velo alla verità per attenuarne la forza e l’evidenza. Perché la verità è che io “vedevo” la fanciulla, la vedevo nei rami dell’albero spoglio che palpitavano leggermente quando un passero intirizzito volava a cercarvi rifugio; la vedevo negli occhi delle giovenche che uscivano dalla stalla, e la udivo nel belato degli agnelli che incrociavano il mio errare. Era come se tutto il creato mi parlasse di lei, e desideravo, sì, di rivederla, ma ero pur pronto ad accettare l’idea di non rivederla mai più, e di non congiungermi mai più con lei, purché potessi godere del gaudio che mi pervadeva quel mattino, e averla sempre vicina anche se fosse stata, e per l’eternità, lontana. Era, ora cerco di capire, come se tutto l’universo mondo, che chiaramente è quasi un libro scritto dal dito di Dio, in cui ogni cosa ci parla dell’immensa bontà del suo creatore, in cui ogni creatura è quasi scrittura e specchio della vita e della morte, in cui la più umile rosa si fa glossa del nostro cammino terreno, tutto insomma, di altro non mi parlasse se non del volto che avevo a mala pena intravisto nelle ombre odorose della cucina. Indulgevo a queste fantasie perché mi dicevo (o meglio non mi dicevo, perché in quel momento non formulavo pensieri traducibili in parole) che se il mondo intero è destinato a parlarmi della potenza, bontà, e saggezza del creatore, e se quel mattino il mondo intero mi parlava della fanciulla che (per peccatrice che fosse) era pur sempre un capitolo del gran libro del creato, un versetto del grande salmo cantato dal cosmo — mi dicevo (ora dico), che se questo avveniva non poteva non far parte del grande disegno teofanico che regge l’universo, disposto a modo di cetra, miracolo di consonanza e di armonia. Quasi inebriato, godevo allora della presenza di lei nelle cose che vedevo, e in esse desiderandola, nella vista di esse mi appagavo. E pure sentivo come un dolore, perché al tempo stesso soffrivo di un’assenza, pur essendo felice di tanti fantasmi di una presenza. Mi riesce difficile spiegare questo mistero di contraddizione, segno che l’animo umano è assai fragile e non procede mai dirittamente lungo i sentieri della ragione divina, che ha costruito il mondo come un perfetto sillogismo, ma di questo sillogismo coglie solo proposizioni isolate e sovente disconnesse, donde la nostra facilità a cadere vittima delle illusioni del maligno. Era illusione del maligno quella che quella mattina mi rendeva così commosso? Penso oggi che lo fosse, perché ero novizio, ma penso che l’umano sentimento che mi agitava non fosse cattivo in sé, ma solo in riferimento al mio stato. Perché di per sé era il sentimento che muove l’uomo verso la donna affinché l’uno si congiunga con l’altra, come vuole l’apostolo delle genti, ed entrambi siano carne di una sola carne, e insieme procreino nuovi esseri umani e si assistano mutuamente dalla gioventù alla vecchiaia. Solo che l’apostolo così parlò per coloro che cercano il rimedio alla concupiscenza e a chi non voglia bruciare, ricordando però che ben più preferibile è lo stato di castità, a cui io monaco mi ero consacrato. E quindi io pativo quella mattina ciò che era male per me, ma per altri forse era bene, e bene dolcissimo, per cui ora capisco che il mio turbamento non era dovuto alla pravità dei miei pensieri, in sé degni e soavi, ma alla pravità del rapporto tra i miei pensieri e i voti che avevo pronunciato. E quindi facevo male a godere di una cosa buona sotto una certa ragione, cattiva sotto un’altra, e il mio difetto stava nel tentare di conciliare con l’appetito naturale i dettami dell’anima razionale. Ora so che soffrivo del contrasto tra l’appetito elicito intellettivo, dove avrebbe dovuto manifestarsi l’imperio della volontà, e l’appetito elicito sensitivo, soggetto delle umane passioni. Infatti actus appetiti sensitivi in quantum habent trasmutationem corporalem annexam, passiones dicuntur, non autem actus voluntatis. E il mio atto appetitivo era per l’appunto accompagnato da un tremore di tutto il corpo, da un impulso fisico a gridare e ad agitarmi. L’angelico dottore dice che le passioni in sé non sono cattive, salvo che van moderate dalla volontà guidata dall’anima razionale. Ma la mia anima razionale era in quel mattino sopita dalla stanchezza la quale teneva a freno l’appetito irascibile, che si rivolge al bene e al male in quanto termini di conquista, ma non l’appetito concupiscibile, che si rivolge al bene e al male in quanto conosciuti. A giustificare la mia irresponsabile leggerezza di allora dirò oggi, e con le parole del dottore angelico, che ero indubbiamente preso di amore, che è passione ed è legge cosmica, perché anche la gravità dei corpi è amore naturale. E da questa passione ero naturalmente sedotto, perché in questa passione appetitus tendit in appetibile realiter consequendum ut sit ibi finis motus. Per cui naturalmente amor facit quod ipsae res quae amantur, amanti aliquo modo uniantur et amor est magis cognitivus quam cognitio. Infatti io ora vedevo la fanciulla meglio di quanto l’avessi vista la sera prima, e la capivo intus et in cute perché in essa capivo me e in me essa stessa. Mi chiedo ora se quello che provavo fosse l’amore di amicizia, in cui il simile ama il simile e vuole solo il bene altrui, o amore di concupiscenza, in cui si vuole il proprio bene e il mancante vuole solo ciò che lo completa. E credo che amore di concupiscenza fosse stato quello della notte, in cui volevo dalla fanciulla qualcosa che non avevo mai avuto, mentre in quella mattina dalla fanciulla non volevo nulla, e volevo solo il suo bene, e desideravo che essa fosse sottratta alla crudele necessità che la piegava a darsi per poco cibo, e fosse felice, né volevo chiederle più nulla ma solo continuare a pensarla e vederla nelle pecore, nei buoi, negli alberi, nella luce serena che avvolgeva di gaudio la cinta dell’abbazia.
Ora so che causa dell’amore è il bene e ciò che è bene si definisce per conoscenza, e non si può amare se non ciò che si è appreso come bene, mentre la fanciulla l’avevo appresa, sì, come bene dell’appetito irascibile, ma come male della volontà. Ma allora ero in preda a tanti e tanto contrastanti moti dell’animo perché ciò che provavo era simile all’amore più santo proprio come lo descrivono i dottori: esso mi produceva l’estasi, in cui amante e amato vogliono la stessa cosa (e per misteriosa illuminazione io in quel momento sapevo che la fanciulla, dovunque essa fosse, voleva le stesse cose che io stesso volevo), e per essa io provavo gelosia, ma non quella cattiva, condannata da Paolo nella prima ai corinzi, che è principium contentionis, e non ammette consortium in amato, ma quella di cui parla Dionigi nei Nomi Divini, per cui anche Dio è detto geloso propter multum amorem quem habet ad existentia (e io amavo la fanciulla proprio perché essa esisteva, ed ero lieto, non invidioso, che essa esistesse). Ero geloso nel modo in cui per l’angelico dottore la gelosia è motus in amatum, gelosia di amicizia che induce a muoversi contro tutto ciò che nuoce all’amato (e io altro non fantasticavo, in quell’istante, che di liberare la fanciulla dal potere di chi ne stava comprando le carni insozzandola con le proprie passioni nefaste).
Ora so, come dice il dottore, che l’amore può ledere l’amante quando sia eccessivo. E il mio era eccessivo. Ho tentato di spiegare cosa allora provassi, non tento per nulla di giustificare quanto provavo. Parlo di quelli che furono i miei colpevoli ardori di gioventù. Erano male, ma la verità mi impone di dire che allora li avvertii come estremamente buoni. E questo valga ad ammaestrare chi, come me, incapperà nelle reti della tentazione. Oggi, vegliardo, conoscerei mille modi di sfuggire a tali seduzioni (e mi chiedo quanto debba esserne fiero, dappoiché sono libero dalle tentazioni del demone meridiano; ma non libero da altre, tal che mi chiedo se quanto sto ora facendo non sia colpevole acquiescenza alla passione terrestre della rimemorazione, stolido tentativo di sfuggire al flusso del tempo, e alla morte).
Allora, mi salvai quasi per istinto miracoloso. La fanciulla mi appariva nella natura e nelle umane opere che mi circondavano. Cercai quindi, per felice intuito dell’anima, di immergermi nella distesa contemplazione di quelle opere. Osservai il lavoro dei vaccari che stavano portando i buoi fuori della stalla, dei porcai che recavano cibo ai maiali, dei pastori che aizzavano i cani a riunire le pecore, dei contadini che portavano farro e miglio ai mulini e ne uscivano con sacchi di buon cibo. Mi immersi nella contemplazione della natura, cercando di dimenticare i miei pensieri e cercando di guardare solo gli esseri come essi ci appaiono, e di obliarmi nella loro visione, giocondamente.
Come era bello lo spettacolo della natura non ancora toccato dalla sapienza, spesso perversa, dell’uomo!
Vidi l’agnello, a cui è stato dato questo nome quasi in riconoscimento della sua purezza e bontà. Infatti il nome agnus deriva dal fatto che questo animale agnoscit, riconosce la propria madre, e ne riconosce la voce in mezzo al gregge mentre la madre tra tanti agnelli d’identica forma e di identico belato riconosce sempre e soltanto il figlio suo, e lo nutre. Vidi la pecora, che ovis è detta ab oblatione perché serviva sin dai primi tempi ai riti sacrificali; la pecora che, come è suo costume, sul far dell’inverno, cerca l’erba con avidità e si riempie di foraggio prima che i pascoli siano bruciati dal gelo. E le greggi erano sorvegliate dai cani, così chiamati da canor a causa del loro latrato. Animale perfetto tra gli altri, con doti superiori di acutezza, il cane riconosce il proprio padrone, ed è addestrato alla caccia alle fiere nei boschi, alla guardia delle greggi contro i lupi, protegge la casa e i piccoli del padrone suo, e talora in tale funzione di difesa viene ucciso. Il re Garamante, che era stato tradotto in prigionia dai suoi nemici, era stato riportato in patria da una muta di duecento cani che si fecero strada in mezzo alle schiere avversarie; il cane di Giasone Licio, dopo la morte del padrone, continuò a rifiutare cibo sino a morire d’inedia; quello del re Lisimaco si gettò sul rogo del proprio padrone per morire con lui. Il cane ha il potere di risanare le ferite lambendole con la lingua e la lingua dei suoi cuccioli può guarire le lesioni intestinali. Per natura è solito utilizzare due volte lo stesso cibo, dopo averlo vomitato. Sobrietà che è simbolo di perfezione di spirito, così come il potere taumaturgico della sua lingua è simbolo della purificazione dei peccati ottenuta attraverso la confessione e la penitenza. Ma che il cane ritorni a ciò che ha vomitato è anche segno che, dopo la confessione, si ritorna agli stessi peccati di prima, e questa moralità mi fu assai utile quel mattino per ammonire il mio cuore, mentre ammiravo le meraviglie della natura.
Frattanto il mio passo mi portava alle stalle dei buoi, che stavano uscendo in quantità guidati dai loro bovari. Mi parvero subito quali erano e sono, simboli di amicizia e bontà, perché ogni bue sul lavoro si volge a cercare il proprio compagno di aratro, se per caso esso in quel momento sia assente, e a esso si rivolge con affettuosi muggiti. I buoi imparano ubbidienti a ritornare da soli alla stalla quando piove, e quando si riparano alla greppia allungano continuamente il capo per guardare fuori se il maltempo sia cessato, perché ambiscono di ritornare al lavoro. E coi buoi uscivano in quel momento dalle stalle i vitellini che, femmine e maschi, traggono il loro nome dalla parola viriditas o anche da virgo, perché a quella età essi sono ancora freschi, giovani e casti, e male avevo fatto e facevo, mi dissi, a vedere nelle loro movenze graziose una immagine della fanciulla non casta. A queste cose pensai, riappacificato col mondo e con me stesso, osservando il gaio lavoro dell’ora mattutina. E non pensai più alla fanciulla, ovvero mi sforzai di trasformare l’ardore che provavo per essa in un senso di interiore gaiezza e di pace devota. Mi dissi che il mondo era buono, e ammirevole. Che la bontà di Dio è manifestata anche dalle bestie più orride, come spiega Onorio Augustoduniense. E’ vero, ci sono serpenti così grandi che divorano i cervi e nuotano attraverso l’oceano, vi è la bestia cenocroca dal corpo d’asino, le corna di stambecco, il petto e le fauci di leone, il piede di cavallo ma bisolco come quello del bue, un taglio della bocca che arriva sino alle orecchie, la voce quasi umana e al posto dei denti un solo solido osso. E vi è la bestia manticora, dal volto d’uomo, un triplice ordine di denti, il corpo di leone, la coda di scorpione, gli occhi glauchi, il colore di sangue e la voce simile al sibilo dei serpenti, ghiotta di carne umana. E vi son mostri con otto dita per piede, e musi di lupo, unghie adunche, pelle di pecora e latrato di cane, che diventano neri anziché bianchi con la vecchiaia, e di molto eccedono la nostra età. E vi sono creature con occhi sugli omeri e due fori sul petto in luogo di narici, perché mancano del capo, e altre ancora che abitano lungo il fiume Gange, che vivono solo dell’odore di un certo pomo, e quando se ne allontanano, muoiono. Ma anche tutte queste bestie immonde cantano nella loro varietà le lodi del Creatore e la sua saggezza, come il cane, il bue, la pecora, l’agnello e la lince. Come è grande, mi dissi allora, ripetendo le parole di Vincenzo Belovacense, la più umile bellezza di questo mondo, e come piacevole è per l’occhio della ragione il considerare attentamente non solo i modi e i numeri e gli ordini delle cose, così decorosamente stabiliti per tutto l’universo, ma anche il volgere dei tempi che incessantemente si dipanano attraverso successioni e cadute, segnati dalla morte di ciò che è nato. Confesso, da quel peccatore che sono, con l’anima da poco ancora prigioniera della carne, che fui mosso allora da spirituale dolcezza verso il creatore e la regola di questo mondo, e ammirai con gioiosa venerazione la grandezza e la stabilità del creato.
In questa buona disposizione di spirito mi trovò il mio maestro quando, trascinato dai miei piedi e senza rendermene conto, compiuto quasi il periplo dell’abbazia, mi ritrovai dove ci eravamo lasciati due ore innanzi. Lì stava Guglielmo, e quanto mi disse mi distrasse dei miei pensieri e mi volse di nuovo la mente ai tenebrosi misteri dell’abbazia.
Guglielmo pareva molto contento. Aveva in mano il foglio di Venanzio, che finalmente aveva decifrato. Andammo nella sua cella, lontano da orecchie indiscrete, ed egli mi tradusse quello che aveva letto. Dopo la frase in alfabeto zodiacale (secretum finis Africae manus supra idolum age primum et septimum de quatuor), ecco cosa diceva il testo greco:
«Il veleno tremendo che dà la purificazione…
L’arma migliore per distruggere il nemico…
Usa le persone umili vili e brutte, trai piacere dal loro difetto…
Non debbono morire… Non nelle case dei nobili e dei potenti ma dai villaggi dei contadini, dopo abbondante pasto e libagioni… Corpi tozzi, visi deformi.
Stuprano vergini e giacciono con meretrici, non malvagi, senza timore.
Una verità diversa, una diversa immagine della verità…
I venerandi fichi.
La pietra svergognata rotola per la pianura… Sotto gli occhi.
Bisogna ingannare e sorprendere ingannando, dire le cose all’opposto di quanto si credeva, dire una cosa e intenderne un’altra.
A essi le cicale canteranno da terra.»
Niente altro. A mio giudizio, troppo poco, quasi nulla. Sembravano le farneticazioni di un demente, e lo dissi a Guglielmo.
“Potrebbe darsi. E appare senz’altro più demente di quanto non fosse a causa della mia traduzione. Conosco il greco abbastanza approssimativamente. E tuttavia, posto che Venanzio fosse pazzo, o fosse pazzo l’autore del libro, questo non ci direbbe perché tante persone, e non tutte pazze, si sono date da fare, prima per nascondere il libro e poi per recuperarlo…”
“Ma le cose che sono scritte qui, provengono dal libro misterioso?”
“Si tratta senz’altro di cose scritte da Venanzio. Lo vedi anche tu, non si tratta di una pergamena antica. E devono essere appunti presi leggendo il libro, altrimenti Venanzio non avrebbe scritto in greco. Egli ha certamente ricopiato, abbreviandole, delle frasi che ha trovato sul volume sottratto al finis Africae. Lo ha portato nello scriptorium e ha iniziato a leggerlo, annotando ciò che gli pareva degno di nota. Poi è accaduto qualcosa. O si è sentito male, o ha udito qualcuno salire. Allora ha riposto il libro, con gli appunti, sotto al suo tavolo, probabilmente ripromettendosi di riprenderlo la sera dopo. In ogni caso è solo partendo da questo foglio che potremo ricostruire la natura del libro misterioso, ed è solo dalla natura di quel libro che sarà possibile inferire la natura dell’omicida. Perché in ogni delitto commesso per possedere un oggetto, la natura dell’oggetto dovrebbe fornirci una idea sia pur pallida della natura dell’assassino. Se si uccide per un pugno d’oro, l’assassino sarà persona avida, se per un libro, l’assassino sarà ansioso di custodire per sé i segreti di quel libro. Occorre dunque sapere cosa dice il libro che noi non abbiamo.”
“E voi sarete in grado, da queste poche righe, di capire di quale libro si tratta?”
“Caro Adso, queste sembrano le parole di un testo sacro, il cui significato va al di là della lettera. Leggendole stamattina, dopo che avevamo parlato con il cellario, mi ha colpito il fatto che anche qui si fa cenno ai semplici e ai contadini, come portatori di una verità diversa da quella dei saggi. Il cellario ha lasciato capire che qualche strana complicità lo legava a Malachia. Che Malachia avesse nascosto qualche pericoloso testo ereticale che Remigio gli aveva consegnato? Allora Venanzio avrebbe letto e annotato qualche misteriosa istruzione concernente una comunità di uomini rozzi e vili in rivolta contro tutto e tutti. Ma…”
“Ma?”
“Ma due fatti stanno contro questa mia ipotesi. L’uno è che Venanzio non pareva interessato a tali questioni: era un traduttore di testi greci, non un predicatore di eresie… L’altro è che frasi come quelle dei fichi, della pietra o delle cicale non verrebbero spiegate da questa prima ipotesi…”
“Forse sono enigmi con un altro significato,” suggerii.”Oppure avete un’altra ipotesi?”
“Ce l’ho, ma è ancora confusa. Mi pare, leggendo questa pagina, di avere già letto alcune di queste parole, e mi tornano alla mente frasi quasi simili che ho visto altrove. Mi pare anzi che questo foglio parli di qualcosa di cui si è già parlato nei giorni scorsi… Ma non ricordo cosa. Devo pensarci su. Forse dovrò leggere altri libri.”
“Come mai? Per sapere cosa dice un libro ne dovete leggere altri?”
“Talora si può fare così. Spesso i libri parlano di altri libri. Spesso un libro innocuo è come un seme, che fiorirà in un libro pericoloso, o all’inverso, è il frutto dolce di una radice amara. Non potresti, leggendo Alberto, sapere cosa avrebbe potuto dire Tommaso? O leggendo Tommaso sapere cosa avesse detto Averroè?”
“E’ vero,” dissi ammirato. Sino ad allora avevo pensato che ogni libro parlasse delle cose, umane o divine, che stanno fuori dai libri. Ora mi avvedevo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero è come si parlassero fra loro. Alla luce di questa riflessione, la biblioteca mi parve ancora più inquietante. Era dunque il luogo di un lungo e secolare sussurro, di un dialogo impercettibile tra pergamena e pergamena, una cosa viva, un ricettacolo di potenze non dominabili da una mente umana, tesoro di segreti emanati da tante menti, e sopravvissuti alla morte di coloro che li avevano prodotti, o se ne erano fatti tramite.
“Ma allora,” dissi, “a che serve nascondere i libri, se dai libri palesi si può risalire a quelli occulti?”
“Sull’arco dei secoli non serve a nulla. Sull’arco degli anni e dei giorni serve a qualcosa. Vedi infatti come noi ci troviamo smarriti.”
“E quindi una biblioteca non è uno strumento per distribuire la verità, ma per ritardarne l’apparizione?” chiesi stupito.
“Non sempre e non necessariamente. In questo caso lo è.”
Dopo queste considerazioni il mio maestro decise di non fare più nulla. Ho già detto che aveva talvolta di questi momenti di totale mancanza di attività, come se il ciclo incessante degli astri si fosse arrestato, ed egli con esso e con essi. Così fece quel mattino. Si distese sul pagliericcio con gli occhi aperti nel vuoto e le mani incrociate sul petto, muovendo appena le labbra come se recitasse una preghiera, ma in modo irregolare e senza devozione.
Pensai che pensasse, e risolsi di rispettare la sua meditazione. Tornai nella corte e vidi che il sole si era affievolito. Da bella e limpida che era, la mattinata (mentre il giorno stava avviandosi a consumare la sua prima metà) stava diventando umida e brumosa. Grosse nuvole muovevano da mezzanotte e stavano invadendo la sommità del pianoro coprendola di una caligine leggera. Pareva nebbia, e forse nebbia saliva anche da terra, ma a quella altezza era difficile distinguere le brume che venivano dal basso da quelle che scendevano dall’alto. Si incominciava a distinguere a fatica la mole degli edifici più lontani.
Vidi Severino che radunava i porcai e alcuni dei loro animali, con allegria. Mi disse che andavano lungo le falde del monte, e a valle, a cercare i tartufi. Io non conoscevo ancora quel frutto prelibato del sottobosco che cresceva in quella penisola, e sembrava tipico delle terre benedettine, vuoi a Norcia — nero — vuoi in quelle terre — più bianco e profumato. Severino mi spiegò cosa fosse, e quanto fosse gustoso, preparato nei modi più vari. E mi disse che era difficilissimo da trovare, perché si nascondeva sotto la terra, più segreto di un fungo, e gli unici animali capaci di scovarlo seguendo il loro olfatto erano i porci. Salvo che, come lo trovavano, volevano divorarselo, e bisognava subito allontanarli e intervenire a dissotterrarlo. Seppi più avanti che molti gentiluomini non sdegnavano darsi a quella caccia, seguendo i porci come fossero segugi nobilissimi, e seguiti a loro volta dai servi con le zappe. Ricordo anzi che più avanti negli anni un signore dei miei paesi sapendo che conoscevo l’Italia, mi chiese come mai aveva visto laggiù dei signori andare a pascolare i maiali, e io risi comprendendo che invece andavano in cerca di tartufi. Ma come io dissi a colui che questi signori ambivano a ritrovare il “tartufo” sotto la terra per poi mangiarselo, quello capì che io dicessi che cercavano “der Teufel”, ovvero il diavolo, e si segnò devotamente guardandomi sbalordito. Poi l’equivoco si sciolse e ne ridemmo entrambi. Tale è la magìa delle umane favelle, che per umano accordo significano spesso, con suoni eguali, cose diverse.
Incuriosito dai preparativi di Severino risolsi di seguirlo, anche perché compresi che egli si dava a quella cerca per dimenticare le tristi vicende che opprimevano tutti; e io pensai che aiutando lui a dimenticare i suoi pensieri avrei forse, se non scordato, almeno tenuto a freno i miei. Né nascondo, poiché ho deciso di scrivere sempre e solo la verità, che segretamente mi seduceva l’idea che, disceso a valle, avrei forse potuto intravvedere qualcuno di cui non dico. Ma a me stesso e quasi ad alta voce asserii invece che, siccome per quel giorno si attendeva l’arrivo delle due legazioni, avrei forse potuto avvistarne una.
Man mano che si scendevano i tornanti del monte, l’aria si schiariva; non che tornasse il sole, ché la parte superiore del cielo era gravata dalle nuvole, ma le cose si distinguevano nettamente, perché la nebbia rimaneva sopra le nostre teste. Anzi, scesi che fummo di molto, mi voltai a guardare la cima del monte, e non vidi più nulla: da metà della salita in avanti, la sommità del colle, il pianoro, l’Edificio, tutto, scomparivano tra le nubi.
Il mattino del nostro arrivo, quando già eravamo tra i monti, a certi tornanti, era ancora possibile scorgere, a non più di dieci miglia e forse meno, il mare. Il nostro viaggio era stato ricco di sorprese, perché d’un tratto ci si trovava come su di una terrazza montana che dava a picco su golfi bellissimi, e dopo non molto si penetrava in gole profonde, dove montagne si elevavano tra le montagne, e l’una ottundeva all’altra la vista della costa lontana, mentre il sole penetrava a fatica in fondo alle valli. Mai come in quel luogo d’Italia avevo visto così strette e repentine interpenetrazioni di mare e monti, di litorali e paesaggi alpini, e nel vento che sibilava tra le gole si poteva intendere l’alterna lotta dei balsami marini e dei gelidi soffi rupestri.
Quel mattino invece tutto era grigio, e quasi bianco latte, e non v’erano orizzonti anche quando le gole si aprivano verso le coste lontane. Ma mi attardo in ricordi di poco interesse ai fini della vicenda che ci affanna, mio paziente lettore. Così non dirò delle alterne vicende della nostra ricerca dei “derteufel”. E dirò piuttosto della legazione dei frati minori, che avvistai per primo, correndo subito verso il monastero per avvertire Guglielmo.
Il mio maestro lasciò che i nuovi arrivati entrassero e fossero salutati dall’Abate secondo il rito. Poi andò incontro al gruppo e fu una sequenza di abbracci e di saluti fraterni.
Era già trascorsa l’ora della mensa, ma una tavola era stata imbandita per gli ospiti e l’Abate ebbe la finezza di lasciarli tra loro, e soli con Guglielmo, sottratti ai doveri della regola, liberi di nutrirsi e di scambiare al tempo stesso le loro impressioni: dato che infine si trattava, Dio mi perdoni la sgradita similitudine, come di un consiglio di guerra, da tenersi al più presto prima che arrivasse l’oste nemica, e cioè la legazione avignonese.
Inutile dire che i nuovi venuti si incontrarono subito anche con Ubertino, che tutti salutarono con la sorpresa, la gioia e la venerazione che erano dovute e alla sua lunga assenza, e ai timori che avevano circondato la sua scomparsa, e alle qualità di quel coraggioso guerriero che da decenni aveva già combattuto la loro stessa battaglia.
Dei frati che componevano il gruppo dirò poi parlando della riunione del giorno dopo. Anche perché io parlai pochissimo con loro, preso come ero dal consiglio a tre che si stabilì immantinenti tra Guglielmo, Ubertino e Michele da Cesena.
Michele doveva essere un ben strano uomo: ardentissimo nella sua passione francescana (aveva talora i gesti, gli accenti di Ubertino nei suoi momenti di rapimento mistico); molto umano e gioviale nella sua terrestre natura di uomo delle Romagne, capace di apprezzare la buona tavola e felice di ritrovarsi con gli amici; sottile ed evasivo, di colpo diventando accorto e abile come una volpe, sornione come una talpa, quando si sfioravano problemi di rapporti tra i potenti; capace di grandi risate, di fervide tensioni, di eloquenti silenzi, abile nel distogliere lo sguardo dall’interlocutore quando la domanda di quello richiedeva di mascherare, con la distrazione, il rifiuto della risposta.
Di lui ho già detto qualcosa nelle pagine precedenti, ed erano cose che avevo sentito dire, forse da persone a cui erano state dette. Ora invece capivo meglio molti dei suoi atteggiamenti contraddittori e dei repentini mutamenti di disegno politico con cui negli ultimi anni aveva stupito i suoi stessi amici e seguaci. Ministro generale dell’ordine dei frati minori, era in principio l’erede di san Francesco, di fatto l’erede dei suoi interpreti: doveva competere con la santità e la saggezza di un predecessore come Bonaventura da Bagnoregio, doveva garantire il rispetto della regola ma al tempo stesso le fortune dell’ordine, così potente e vasto, doveva prestare orecchio alle corti e alle magistrature cittadine da cui l’ordine traeva, sia pure sotto forma di elemosine, doni e lasciti, motivo di prosperità e ricchezza; e doveva nel contempo badare che il bisogno di penitenza non trascinasse fuori dall’ordine gli spirituali più accesi, disciogliendo quella splendida comunità, di cui era a capo, in una costellazione di bande d’eretici. Doveva piacere al papa, all’impero, ai frati di povera vita, a san Francesco che certo lo sorvegliava dal cielo, al popolo cristiano che lo sorvegliava da terra. Quando Giovanni aveva condannato tutti gli spirituali come eretici, Michele non aveva esitato a consegnargli cinque tra i più riottosi frati di Provenza, lasciando che il pontefice li mandasse al rogo. Ma avvertendo (e non doveva essere stata estranea l’azione di Ubertino) che molti nell’ordine simpatizzavano per i seguaci della semplicità evangelica, aveva appunto agito in modo che il capitolo di Perugia, quattro anni dopo, facesse proprie le istanze dei bruciati. Naturalmente cercando di riassorbire un bisogno, che poteva essere ereticale, nei modi e nelle istituzioni dell’ordine, e volendo che ciò che l’ordine ora voleva fosse voluto anche dal papa. Ma, mentre attendeva di convincere il papa, senza il cui consenso non avrebbe voluto procedere, non aveva disdegnato di accettare i favori dell’imperatore e dei teologi imperiali. Ancora due anni prima del giorno in cui lo vidi aveva ingiunto ai suoi frati, nel capitolo generale di Lione, di parlare della persona del papa solo con moderazione e rispetto (e questo pochi mesi dopo che il papa aveva parlato dei minoriti protestando contro “i loro latrati, i loro errori e le loro insanie”). Ma ora era a tavola, amicissimo, con persone che del papa parlavano con rispetto meno che nullo.
Del resto ho già detto. Giovanni lo voleva ad Avignone, egli voleva e non voleva andare, e l’incontro del giorno dopo avrebbe dovuto decidere sui modi e sulle garanzie di un viaggio che non avrebbe dovuto apparire come un atto di sottomissione ma neppure come un atto di sfida. Non credo che Michele avesse mai incontrato di persona Giovanni, almeno da che era papa. In ogni caso non lo vedeva da tempo, e i suoi amici si affrettavano a dipingergli a tinte molto scure la figura di quel simoniaco.
“Una cosa dovrai imparare,” gli diceva Guglielmo,”a non fidarti dei suoi giuramenti, che egli mantiene sempre alla lettera, violandoli nella sostanza.”
“Tutti sanno,” diceva Ubertino,”cosa accadde ai tempi della sua elezione…”
“Non la chiamerei elezione, bensì imposizione!” intervenne un commensale, che sentii poi chiamare come Ugo da Novocastro, dall’accento affine a quello del mio maestro.”Intanto già la morte di Clemente V non è mai stata molto chiara. Il re non gli aveva più perdonato di aver promesso di processare la memoria di Bonifacio VIII, e poi di aver fatto di tutto per non sconfessare il suo predecessore. Come sia morto a Carpentras, nessuno sa bene. Fatto sta che quando i cardinali convengono a Carpentras per il conclave, il nuovo papa non viene fuori, perché (e giustamente) la disputa si sposta sulla scelta tra Avignone e Roma. Non so bene cosa sia successo in quei giorni, un massacro mi dicono, coi cardinali minacciati dal nipote del papa morto, i loro servi trucidati, il palazzo dato alle fiamme, i cardinali che si appellano al re, questi che dice che non ha mai voluto che il papa disertasse Roma, che pazientino, e facciano una buona scelta… Poi Filippo il Bello muore, anche lui Dio sa come…”
“O lo sa il diavolo,” disse segnandosi, imitato da tutti, Ubertino.
“O lo sa il diavolo,” ammise Ugo con un sogghigno.”Insomma, succede un altro re, sopravvive diciotto mesi, muore, muore in pochi giorni anche il suo erede appena nato, suo fratello il reggente prende il trono…”
“Ed è proprio questo Filippo V che, quando era ancora conte di Poitiers, aveva rimesso insieme i cardinali che fuggivano da Carpentras,” disse Michele.
“Infatti,” continuò Ugo, “li rimette in conclave a Lione nel convento dei domenicani, giurando di difendere la loro incolumità e di non tenerli prigionieri. Però appena quelli si mettono alla sua mercé, non solo li fa rinchiudere a chiave (che sarebbe poi la giusta usanza) ma gli diminuisce i cibi di giorno in giorno sino a che non abbiano preso una decisione. E a ciascuno promette di sostenerlo nelle sue pretese al soglio. Quando poi prende il trono, i cardinali, stanchi di essere prigionieri da due anni, per timore di rimanere lì anche tutta la vita, mangiando malissimo, accettano tutto, i ghiottoni, mettendo sulla cattedra di Pietro quello gnomo ultrasettantenne…”
“Gnomo certo sì,” rise Ubertino,”e di aspetto tisicuzzo, ma più robusto e più astuto di quanto si credesse!”
“Figlio di calzolaio,” bofonchiò uno dei legati.
“Cristo era figlio di falegname!” lo rampognò Ubertino.”Non è questo il fatto. E’ un uomo colto, ha studiato legge a Montpellier e medicina a Parigi, ha saputo coltivare le sue amicizie nei modi più acconci per avere e i seggi episcopali e il cappello cardinalizio quando gli pareva opportuno, e quando è stato consigliere di Roberto il Savio a Napoli ha sbalordito molti per il suo acume. E come vescovo di Avignone ha dato tutti i consigli giusti (giusti, dico, ai fini di quella squallida impresa) a Filippo il Bello per rovinare i Templari. E dopo l’elezione è riuscito a sfuggire a un complotto di cardinali che volevano ucciderlo… Ma non è di questo che volevo dire, parlavo della sua abilità nel tradire i giuramenti senza poter essere incolpato di spergiuro. Quando fu eletto, e per essere eletto, ha promesso al cardinale Orsini che avrebbe riportato il seggio pontificio a Roma, e ha giurato sull’ostia consacrata che se non avesse mantenuto la sua promessa non sarebbe mai più salito su di un cavallo o su di un mulo. Ebbene sapete cosa ha fatto quella volpe? Quando si è fatto incoronare a Lione (contro la volontà del re, che voleva che la cerimonia avvenisse ad Avignone) ha viaggiato poi da Lione ad Avignone in battello!”
I frati risero tutti. Il papa era uno spergiuro, ma non gli si poteva negare un certo ingegno.
“E’ uno spudorato,” commentò Guglielmo.”Ugo non ha detto che non tentò neppure di nascondere la sua mala fede? Non mi hai raccontato tu Ubertino di ciò che ha detto all’Orsini il giorno del suo arrivo ad Avignone?”
“Certo,” disse Ubertino,”gli disse che il cielo di Francia era così bello che non vedeva perché dovesse mettere piede in una città piena di rovine come Roma. E che siccome il papa, come Pietro, aveva il potere di legare e di sciogliere, lui questo potere ora esercitava, e decideva di rimanere lì dove era e dove stava così bene. E come l’Orsini cercò di ricordargli che il suo dovere era di vivere sul colle vaticano, lo richiamò seccamente all’obbedienza, e troncò la discussione. Ma non è finita la storia del giuramento. Quando scese dal battello avrebbe dovuto montare una cavalla bianca, seguito dai cardinali su cavalli neri, come vuole la tradizione. E invece è andato a piedi al palazzo episcopale. Né mi risulta che davvero sia mai più montato a cavallo. E da quest’uomo, Michele, tu ti attendi che tenga fede alle garanzie che ti darà?”
Michele stette a lungo in silenzio. Poi disse: “Posso capire il desiderio del papa di rimanere ad Avignone, e non lo discuto. Ma lui non potrà discutere il nostro desiderio di povertà e la nostra interpretazione dell’esempio di Cristo.”
«Non essere ingenuo, Michele,» intervenne Guglielmo, «il vostro, il nostro desiderio, fa apparire in una luce sinistra il suo. Devi renderti conto che da secoli non era mai asceso sul trono pontifico un uomo più avido. Le meretrici di Babilonia contro cui tuonava un tempo il nostro Ubertino, i papi corrotti di cui parlavano i poeti del tuo paese come quell’Alighieri, erano agnelli mansueti e sobrii in confronto di Giovanni. E’ una gazza ladra, un usuraio ebreo, ad Avignone si fanno più traffici che a Firenze! Ho saputo della ignobile transazione col nipote di Clemente, Bertrand de Goth, quello del massacro di Carpentras (in cui tra l’altro i cardinali furono alleggeriti di tutti i loro gioielli): costui aveva messo le mani sul tesoro dello zio, che non era da poco, e a Giovanni non era sfuggito nulla di ciò che aveva rubato (nella Cum venerabiles elenca con precisione le monete, i vasi d’oro e d’argento, i libri, i tappeti, le pietre preziose, gli ornamenti…). Giovanni però finse di ignorare che Bertrand aveva messo le mani su più di un milione e mezzo di fiorini d’oro durante il sacco di Carpentras, e discusse di altri trentamila fiorini, che Bertrand confessava di aver avuto dallo zio per «un proposito pio», e cioè per una crociata. Si stabilì che Bertrand avrebbe trattenuto metà della somma per la crociata e l’altra metà sarebbe andata al soglio pontificio. Poi Bertrand non fece mai la crociata, o almeno non l’ha ancora fatta, e il papa non ha visto un fiorino…»
“Non è poi così abile, allora,” osservò Michele.
“E’ l’unica volta che si è fatto giocare in materia di danaro,” disse Ubertino.”Devi sapere bene con che razza di mercante tu abbia a che fare. In tutti gli altri casi ha mostrato una abilità diabolica nel raccogliere danaro. E’ un re Mida, quello che tocca diventa oro che affluisce nelle casse di Avignone. Ogni volta che sono entrato nei suoi appartamenti ho trovato banchieri, cambiatori di moneta, e tavole cariche d’oro, e chierici che contavano e impilavano fiorini gli uni sugli altri… E vedrai che palazzo si è fatto costruire, con ricchezze che un tempo si attribuivano solo all’imperatore di Bisanzio o al Gran Cane dei tartari. E adesso capisci perché ha emanato tutte quelle bolle contro l’idea della povertà. Ma lo sai che ha spinto i domenicani, in odio al nostro ordine, a scolpire statue di Cristo con la corona reale, la tunica di porpora e d’oro e calzari sontuosi? Ad Avignone sono stati esposti crocifissi con Gesù inchiodato per una sola mano, mentre con l’altra tocca una borsa appesa alla sua cintura, per indicare che Egli autorizza l’uso del danaro per fini di religione…”
“Oh lo spudorato!” esclamò Michele.”Ma questa è pura bestemmia!”
“Ha aggiunto,” continuò Guglielmo,”una terza corona alla tiara papale, non è vero Ubertino?”
“Certo. All’inizio del millennio papa Ildebrando ne aveva assunta una, con la scritta Corona regni de manu Dei, l’infame Bonifacio ne aveva aggiunta di recente una seconda, scrivendovi Diadema imperii de manu Petri, e Giovanni non ha fatto altro che perfezionare il simbolo: tre corone, il potere spirituale, quello temporale e quello ecclesiastico. Un simbolo dei re persiani, un simbolo pagano…”
C’era un frate che sino ad allora era rimasto in silenzio, occupato con molta devozione a ingoiare i buoni cibi che l’Abate aveva fatto portare in tavola. Porgeva un orecchio distratto ai vari discorsi, emettendo ogni tanto un riso sarcastico all’indirizzo del pontefice, o un grugnito di approvazione alle interiezioni di sdegno dei commensali. Ma per il resto badava a pulirsi il mento dei sughi e dei pezzi di carne che lasciava cadere dalla bocca sdentata ma vorace, e le uniche volte che aveva rivolto la parola a uno dei suoi vicini era stato per lodare la bontà di una qualche leccornia. Seppi poi che era messer Girolamo, quel vescovo di Caffa che Ubertino giorni prima credeva ormai defunto (e debbo dire che quell’idea che fosse morto da due anni circolò come notizia vera per tutta la cristianità per molto tempo, perché l’udii anche dopo; e in effetti morì pochi mesi dopo quel nostro incontro, e continuo a pensare che fosse deceduto per la gran rabbia che la riunione del giorno dopo gli avrebbe messo in corpo, che quasi avrei creduto schiattasse subito e immediatamente, tanto era fragile di corpo e bilioso di umore).
S’intromise a quel punto nel discorso, parlando con la bocca piena: “E poi sapete che l’infame ha elaborato una costituzione sulle taxae sacrae poenitentiariae dove specula sui peccati dei religiosi per trarne altro danaro. Se un ecclesiastico commette peccato carnale, con una monaca, con una parente, o anche con una donna qualsiasi (perché succede anche questo!) potrà essere assolto solo pagando sessantasette lire d’oro e dodici soldi. E se commette bestialità, saranno più di duecento lire, ma se l’ha commessa solo con fanciulli o animali, e non con femmine, la ammenda sarà ridotta di cento lire. E una monaca che si sia data a molti uomini, sia insieme che in momenti diversi, fuori o dentro il convento, e poi vuole diventare abbadessa, dovrà pagare centotrentun lire d’oro e quindici soldi…”
“Andiamo messer Girolamo,” protestò Ubertino,”sapete quanto poco ami il papa, ma su questo devo difenderlo! E’ una calunnia messa in giro ad Avignone, non ho mai visto questa costituzione!”
“C’è,” affermò vigorosamente Girolamo.”Neppure io l’ho vista, ma c’è.”
Ubertino scosse la testa e gli altri tacquero. Mi avvidi che erano abituati a non prendere troppo sul serio messer Girolamo, che l’altro giorno Guglielmo aveva definito uno sciocco. Guglielmo in ogni caso cercò di riprendere la conversazione: “In ogni caso, vero o falso che sia, questa voce ci dice di quale sia il clima morale di Avignone, dove chiunque, sfruttati e sfruttatori, sanno di vivere più in un mercato che nella corte di un rappresentante di Cristo. Quando Giovanni è salito in trono si parlava di un tesoro di settantamila fiorini d’oro, e ora c’è chi dice che ne abbia ammassati più di dieci milioni.”
“E’ vero,” disse Ubertino.”Michele, Michele, non sai che vergogne ho dovuto vedere ad Avignone!”
“Cerchiamo di essere onesti,” disse Michele.”Sappiamo che anche i nostri hanno commesso degli eccessi. Ho avuto notizie di francescani che attaccavano in armi i conventi domenicani e denudavano i frati nemici per imporre loro la povertà… E’ per questo che non osai oppormi a Giovanni ai tempi dei casi di Provenza… Voglio addivenire con lui a un accordo, non umilierò il suo orgoglio, gli chiederò solo che non umilii la nostra umiltà. Non gli parlerò di danaro, gli chiederò solo di consentire con una sana interpretazione delle scritture. E questo dovremo fare coi legati suoi, domani. Alla fin fine sono uomini di teologia, e non tutti saranno rapaci come Giovanni. Quando degli uomini saggi avranno deliberato su un’interpretazione scritturale, egli non potrà…”
“Egli?” interruppe Ubertino.”Ma tu non conosci ancora le sue follie in campo teologico. Egli vuole legare davvero tutto di sua mano, in cielo e in terra. In terra abbiamo visto cosa fa. Quanto al cielo… Ebbene, egli non ha ancora espresso le idee che ti dico, non pubblicamente almeno, ma io so di certo che ne ha mormorato coi suoi fidi. Egli sta elaborando alcune proposizioni folli, se non perverse, che cambierebbero la sostanza stessa della dottrina, e toglierebbero ogni forza alla nostra predicazione!”
“Quali?” domandarono molti.
“Chiedete a Berengario, egli lo sa, me ne aveva parlato lui.” Ubertino si era rivolto a Berengario Talloni, che era stato negli anni scorsi uno dei più decisi avversari del pontefice nella sua stessa corte. Venuto da Avignone, si era da due giorni ricongiunto col gruppo degli altri francescani e con loro era arrivato all’abbazia.
“E’ una storia oscura e quasi incredibile,” disse Berengario.”Pare dunque che Giovanni abbia in mente di sostenere che i giusti non godranno della visione beatifica sino a dopo il Giudizio. E’ da tempo che sta riflettendo sul versetto nove del capitolo sesto dell’Apocalisse, là dove si parla dell’apertura del quinto sigillo: dove appaiono sotto l’altare quelli che sono stati uccisi per testimoniare la parola di Dio e chiedono giustizia. A ciascuno viene data una veste bianca dicendo loro di pazientare ancora un poco… Segno, ne argomenta Giovanni, che essi non potranno vedere Dio nella sua essenza se non al compimento del giudizio finale.”
“Ma a chi ha detto queste cose?” domandò Michele esterrefatto.
“Sinora a pochi intimi, ma la voce si è diffusa, dicono che stia preparando un intervento aperto, non subito, forse tra qualche anno, sta consultandosi coi suoi teologi…”
“Ah ah!” ghignò Girolamo masticando.
“Non solo, sembra che voglia andare oltre e sostenere che neppure l’inferno sarà aperto prima di quel giorno… Nemmeno per i demoni.”
“Gesù Signore aiutaci!” esclamò Girolamo.”E cosa racconteremo allora ai peccatori se non possiamo minacciarli di un inferno immediato, subito appena morti!?”
“Siamo nelle mani di un pazzo,” disse Ubertino.”Ma non capisco perché voglia sostenere queste cose…”
“Va in fumo tutta la dottrina delle indulgenze,” lamentò Girolamo,”e neppure lui potrà più venderne. Perché un prete che ha peccato di bestialità deve pagare tante lire d’oro per evitare un castigo tanto remoto?”
“Non tanto remoto,” disse con forza Ubertino,”i tempi sono vicini!”
“Lo sai tu caro fratello, ma i semplici non lo sanno. Ecco come stanno le cose!” gridò Girolamo che non aveva più l’aria di godere del proprio cibo.”Che idea nefasta, gliela devono aver messa in capo questi frati predicatori… Ah!” e scosse il capo.
“Ma perché?” ripeté Michele da Cesena.
“Non credo ci sia una ragione,” disse Guglielmo.”E’ una prova che egli si concede, un atto d’orgoglio. Vuole essere veramente colui che decide per il cielo e per la terra. Sapevo di queste mormorazioni, me lo aveva scritto Guglielmo di Occam. Vedremo alla fine se la spunterà il papa o la spunteranno i teologi, la voce tutta della chiesa, i desideri stessi del popolo di Dio, i vescovi…”
“Oh, su materie dottrinali egli potrà piegare anche i teologi,” disse triste Michele.
“Non è detto,” rispose Guglielmo.”Viviamo in tempi in cui i sapienti di cose divine non hanno timore a proclamare che il papa sia un eretico. I sapienti di cose divine sono a loro modo la voce del popolo cristiano. Contro cui neppure il papa potrà ormai andare.”
“Peggio, peggio ancora,” mormorò Michele spaventato.”Da un lato un papa folle, dall’altro il popolo di Dio che, sia pure per bocca dei suoi teologi, pretenderà tra poco di interpretare liberamente le scritture…”
“Perché, cosa avete fatto voi di diverso a Perugia?” domandò Guglielmo.
Michele si scosse come punto sul vivo: “Per questo voglio incontrare il papa. Nulla noi possiamo su cui anch’egli non concordi.”
“Vedremo, vedremo,” disse Guglielmo in modo enigmatico.
Il mio maestro era davvero molto acuto. Come faceva a prevedere che Michele stesso avrebbe poi deciso di appoggiarsi ai teologi dell’impero e al popolo per condannare il papa? Come faceva a prevedere che, quando quattro anni dopo Giovanni avrebbe enunciato per la prima volta la sua incredibile dottrina, ci sarebbe stata una sollevazione da parte di tutta la cristianità? Se la visione beatifica era tanto ritardata, come avrebbero potuto i defunti intercedere per i viventi? E dove sarebbe finito il culto dei santi? Proprio i minoriti avrebbero iniziato le ostilità condannando il papa, e Guglielmo di Occam sarebbe stato in prima fila, severo e implacabile nelle sue argomentazioni. La lotta sarebbe durata per tre anni, sinché Giovanni, giunto vicino alla morte, avrebbe fatto parziale ammenda. Lo udii descrivere anni dopo, come apparve nel concistoro del dicembre 1334, più piccolo di quanto fosse mai apparso sino ad allora, rinsecchito dall’età, novantenne e moribondo, pallido in viso, e avrebbe detto (la volpe, così abile nel giocare sulle parole non solo per violare i propri giuramenti ma anche per rinnegare le proprie ostinazioni): “Noi confessiamo e crediamo che le anime separate dal corpo e completamente purificate siano in cielo, in paradiso con gli angeli, e con Gesù Cristo, e che esse vedano Dio nella sua divina essenza, chiaramente e faccia a faccia…” e poi con una pausa, nessuno seppe mai se dovuta alla difficoltà del respiro o alla volontà perversa di sottolineare l’ultima clausola come avversativa,”nella misura in cui lo stato e la condizione dell’anima separata lo permetta.” La mattina dopo, era di domenica, si fece mettere su una sedia allungata e dal dorso reclinato, accolse il bacio della mano dai suoi cardinali, e morì.
Ma nuovamente divago, e racconto altre cose da quelle che dovrei raccontare. Anche perché in fondo, il resto di quella conversazione a tavola non aggiunge molto alla comprensione delle vicende di cui narro. I minoriti si accordarono sul contegno da tenere per il giorno dopo. Valutarono uno per uno i loro avversari. Commentarono con preoccupazione la notizia, data da Guglielmo, dell’arrivo di Bernardo Gui. E ancora più il fatto che a presiedere la legazione avignonese sarebbe stato il cardinal Bertrando del Poggetto. Due inquisitori erano troppi: segno che si voleva usare contro i minoriti l’argomento dell’eresia.
“Tanto peggio,” disse Guglielmo,”noi tratteremo da eretici loro.”
“No, no,” disse Michele, “procediamo con cautela, non dobbiamo compromettere alcun accordo possibile.”
“Per quanto riesco a pensare,” disse Guglielmo,”pur avendo lavorato per la realizzazione di questo incontro, e tu lo sai Michele, io non credo che gli avignonesi vengano qui per trarne alcun risultato positivo. Giovanni ti vuole ad Avignone solo e non garantito. Ma l’incontro avrà almeno una funzione, di farti capire questo. Sarebbe stato peggio se tu fossi andato prima di avere questa esperienza.”
“Così tu ti sei dato da fare, e per molti mesi, per realizzare una cosa che credi inutile,” disse amaramente Michele.
“Mi era stato richiesto, e da te e dall’imperatore,” disse Guglielmo.”E infine, non è mai inutile conoscere meglio i propri nemici.”
A quel punto vennero ad avvertirci che stava entrando entro le mura la seconda delegazione. I minoriti si alzarono e andarono incontro agli uomini del papa.
Uomini che già si conoscevano da tempo, uomini che senza conoscersi avevano udito parlare l’uno dell’altro, si salutavano nella corte con apparente mansuetudine. Al fianco dell’Abate il cardinal Bertrando del Poggetto si muoveva come chi abbia familiarità col potere, quasi che fosse un secondo pontefice egli stesso, e distribuiva a tutti, specie ai minoriti, cordiali sorrisi, auspicando mirabili intese dall’incontro del giorno dopo, e recando esplicitamente i voti di pace e bene (usò intenzionalmente questa espressione cara ai francescani) da parte di Giovanni XXII.
“Bravo, bravo,” disse a me, quando Guglielmo ebbe la bontà di presentarmi come suo scrivano e discepolo. Poi mi chiese se conoscessi Bologna e me ne lodò la bellezza, il buon cibo e la splendida università, invitandomi a visitarla, invece di tornare un giorno, mi disse, tra quelle mie genti tedesche che stavano facendo tanto soffrire il nostro signor papa. Poi mi porse l’anello da baciare mentre già volgeva il suo sorriso verso qualcun altro.
D’altra parte la mia attenzione si rivolse subito al personaggio di cui più avevo udito parlare in quei giorni: Bernardo Gui, come lo chiamavano i francesi, o Bernardo Guidoni o Bernardo Guido come lo chiamavano altrove.
Era un domenicano di circa settant’anni, esile ma diritto nella figura. Mi colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta.
Nello scambio generale dei saluti, non fu come gli altri affettuoso o cordiale, ma sempre e appena appena cortese. Quando vide Ubertino, che già conosceva, fu con lui molto deferente, ma lo fissò in modo tale da indurre in me un brivido di inquietudine. Quando salutò Michele da Cesena ebbe un sorriso difficile da decifrare, e mormorò senza calore: “Lassù vi si attende da molto tempo”, frase in cui non riuscii a cogliere né un cenno d’ansia, né un’ombra di ironia, né un’ingiunzione, né peraltro una sfumatura di interesse. Si incontrò con Guglielmo, e come apprese chi era lo guardò con educata ostilità: ma non perché il volto tradisse i suoi sentimenti segreti, ne ero certo (anche se ero incerto se egli mai nutrisse sentimento alcuno), ma perché certamente voleva che Guglielmo lo sentisse ostile. Guglielmo ricambiò la sua ostilità sorridendogli in modo esageratamente cordiale e dicendogli: “Da tempo desideravo conoscere un uomo la cui fama mi è stata di lezione e di monito per tante importanti decisioni che hanno ispirato la mia vita.” Sentenza senz’altro elogiativa e quasi adulatoria per chi non sapesse, come invece Bernardo sapeva bene, che una delle decisioni più importanti della vita di Guglielmo era stata quella di abbandonare il mestiere dell’inquisitore. Ne trassi l’impressione che, se Guglielmo avrebbe visto volentieri Bernardo in qualche segreta imperiale, Bernardo certamente avrebbe visto con favore Guglielmo colto da morte accidentale e subitanea; e siccome Bernardo aveva al proprio comando in quei giorni uomini d’arme, temetti per la vita del mio buon maestro.
Bernardo doveva già essere stato informato dall’Abate circa i delitti commessi all’abbazia. Infatti, fingendo di non raccogliere il veleno contenuto nella frase di Guglielmo, gli disse: “Pare che in questi giorni, per richiesta dell’Abate, e per assolvere il compito affidatomi ai termini dell’accordo che ci vede qui riuniti, dovrò occuparmi di vicende tristissime in cui si avverte il pestifero odore del demonio. Ve ne parlo perché so che in tempi lontani, in cui mi sareste stato più vicino, anche voi accanto a me — e a quelli come me — vi siete battuto su quel campo che vedeva confrontate a battaglia le schiere del bene contro le schiere del male.”
“Infatti,” disse quietamente Guglielmo,”ma poi io sono passato dall’altra parte.”
Bernardo sostenne bravamente il colpo: “Potete dirmi qualcosa di utile su queste cose delittuose?”
“Sfortunatamente no,” rispose civilmente Guglielmo.”Non ho la vostra esperienza in cose delittuose.”
Da quel momento in poi persi le tracce di ciascuno. Guglielmo, dopo un’altra conversazione con Michele e Ubertino, si ritirò nello scriptorium. Chiese a Malachia di poter esaminare certi libri e non giunsi a sentirne il titolo. Malachia lo guardò in modo strano, ma non poté negarglieli. Caso curioso, non dovette cercarli in biblioteca. Erano già tutti sul tavolo di Venanzio. Il mio maestro si immerse nella lettura e decisi di non disturbarlo.
Scesi in cucina. Lì vidi Bernardo Gui. Forse voleva rendersi conto della disposizione dell’abbazia e girava dappertutto. Lo udii che interrogava i cucinieri e altri servi, parlando bene o male il volgare del luogo (mi ricordai che era stato inquisitore in Italia settentrionale). Mi parve domandasse informazioni sui raccolti, sull’organizzazione del lavoro nel monastero. Ma anche ponendo le questioni più innocenti, guardava il suo interlocutore con occhi penetranti, poi poneva di colpo una nuova domanda, e a questo punto la sua vittima impallidiva e balbettava. Ne conclusi che, in qualche modo singolare, egli stava inquisendo, e si avvaleva di un’arma formidabile che ogni inquisitore nell’esercizio della sua funzione possiede e manovra: la paura dell’altro. Perché ogni inquisito di solito dice all’inquisitore, per il timore di essere sospettato di qualcosa, ciò che può servire a rendere sospetto qualcun altro.
Per tutto il resto del pomeriggio, a mano a mano che mi muovevo, vidi Bernardo procedere così, vuoi presso i mulini, vuoi nel chiostro. Ma quasi mai affrontò dei monaci, sempre dei fratelli laici o dei contadini. Il contrario di quanto aveva fatto sino ad allora Guglielmo.
Più tardi Guglielmo discese dallo scriptorium di buon umore. Mentre attendevamo che si facesse l’ora di cena trovammo nel chiostro Alinardo. Ricordando la sua richiesta, sin dal giorno prima mi ero procurato dei ceci in cucina, e gliene offrii. Mi ringraziò infilandoseli nella bocca sdentata e bavosa.”Hai visto ragazzo,” mi disse, “anche l’altro cadavere giaceva là dove il libro lo annunziava… Attendi ora la quarta tromba!”
Gli chiesi come mai pensava che la chiave per la sequenza dei crimini stesse nel libro della rivelazione. Mi guardò stupito: “Il libro di Giovanni offre la chiave di tutto!” E aggiunse, con una smorfia di rancore: “Io lo sapevo, io lo dicevo da gran tempo… Fui io, sai, a proporre all’Abate… quello di allora, di raccogliere quanti più commenti all’Apocalisse fosse possibile. Io dovevo diventare bibliotecario… Ma poi l’altro riuscì a farsi mandate a Silos, dove trovò i manoscritti più belli, e tornò con un bottino splendido… Oh, lui sapeva dove cercare, parlava anche la lingua degli infedeli… E così egli ricevette la biblioteca in custodia, e non io. Ma Dio lo punì, e lo fece entrare anzitempo nel regno delle tenebre. Ah, ah…” rise in modo cattivo, quel vecchio che sino ad allora mi era parso, immerso nella serenità della sua canizie, simile a un fanciullo innocente.
“Chi era quello di cui parlate?” chiese Guglielmo.
Ci guardò attonito.”Di chi parlavo? Non ricordo… fu tanto tempo fa. Ma Dio punisce, Dio cancella, Dio oscura anche i ricordi. Molti atti di superbia furono commessi nella biblioteca. Specie da quando cadde in mano agli stranieri. Dio punisce ancora…”
Non riuscimmo a trargli altre parole e lo abbandonammo al suo queto e rancoroso delirio. Guglielmo si disse molto interessato da quel colloquio: “Alinardo è un uomo da ascoltare, ogni volta che parla dice qualcosa d’interessante.”
“Cosa ha detto questa volta?”
“Adso,” disse Guglielmo,”risolvere un mistero non è la stessa cosa che dedurre da principi primi. E non equivale neppure a raccogliere tanti dati particolari per poi inferirne una legge generale. Significa piuttosto trovarsi di fronte a uno, o due, o tre dati particolari che apparentemente non hanno nulla in comune, e cercare di immaginare se possano essere tanti casi di una legge generale che non conosci ancora, e che forse non è mai stata enunciata. Certo, se sai, come dice il filosofo, che l’uomo, il cavallo e il mulo sono tutti senza fiele e tutti vivono a lungo, puoi tentare di enunciare il principio per cui gli animali senza fiele vivono a lungo. Ma immagina il caso degli animali con le corna. Perché hanno le corna? Improvvisamente ti accorgi che tutti gli animali con le corna non hanno denti nella mandibola superiore. Sarebbe una bella scoperta, se non ti rendessi conto che, ahimè, ci sono animali senza denti nella mandibola superiore e che tuttavia non hanno le corna, come il cammello. Infine ti accorgi che tutti gli animali senza denti nella mandibola superiore hanno due stomaci. Bene, puoi immaginare che chi non ha denti sufficienti mastichi male e dunque abbia bisogno di due stomaci per poter digerire meglio il cibo. Ma le corna? Allora provi a immaginare una causa materiale delle corna, per cui la mancanza di denti provvede l’animale con una eccedenza di materia ossea che deve spuntare da qualche altra parte. Ma è una spiegazione sufficiente? No, perché il cammello non ha denti superiori, ha due stomaci, ma non le corna. E allora devi immaginare anche una causa finale. La materia ossea fuoriesce in corna solo negli animali che non hanno altri mezzi di difesa. Invece il cammello ha una pelle durissima e non ha bisogno delle corna. Allora la legge potrebbe essere…”
“Ma cosa c’entrano le corna?” domandai con impazienza,”e perché vi occupate di animali con le corna?”
“Io non me ne sono mai occupato, ma il vescovo di Lincoln se ne era occupato molto, seguendo una idea di Aristotele. Onestamente, io non so se le ragioni che ha trovato siano quelle buone, né ho mai controllato dove il cammello abbia i denti e quanti stomaci abbia: ma era per dirti che la ricerca delle leggi esplicative, nei fatti naturali, procede in modo tortuoso. Di fronte ad alcuni fatti inspiegabili tu devi provare a immaginare molte leggi generali, di cui non vedi ancora la connessione coi fatti di cui ti occupi: e di colpo, nella connessione improvvisa di un risultato, un caso e una legge, ti si profila un ragionamento che ti pare più convincente degli altri. Provi ad applicarlo a tutti i casi simili, a usarlo per trarne previsioni, e scopri che avevi indovinato. Ma sino alla fine non saprai mai quali predicati introdurre nel tuo ragionamento e quali lasciar cadere. E così faccio ora io. Allineo tanti elementi sconnessi e fingo delle ipotesi. Ma ne devo fingere molte, e numerose sono quelle così assurde che mi vergognerei di dirtele. Vedi, nel caso del cavallo Brunello, quando vidi le tracce, io finsi molte ipotesi complementari e contraddittorie: poteva essere un cavallo in fuga, poteva essere che su quel bel cavallo l’Abate fosse sceso lungo il pendio, poteva essere che un cavallo Brunello avesse lasciato i segni sulla neve e un altro cavallo Favello, il giorno prima, i crini nel cespuglio, e che i rami fossero stati spezzati da degli uomini. Io non sapevo quale fosse l’ipotesi giusta sino a che non vidi il cellario e i servi che cercavano con ansia. Allora capii che l’ipotesi di Brunello era la sola buona, e cercai di provare se fosse vera, apostrofando i monaci come feci. Vinsi, ma avrei anche potuto perdere. Gli altri mi hanno creduto saggio perché ho vinto, ma non conoscevano i molti casi in cui sono stato stolto perché ho perso, e non sapevano che pochi secondi prima di vincere io non ero sicuro che non avessi perduto. Ora, sui casi dell’abbazia, ho molte belle ipotesi, ma non c’è nessun fatto evidente che mi permetta di dire quale sia la migliore. E allora, per non apparire sciocco dopo, rinuncio ad apparire astuto ora. Lasciami ancora pensare, sino a domani, almeno.”
Capii in quel momento quale fosse il modo di ragionare del mio maestro, e mi parve assai difforme da quello del filosofo che ragiona sui principi primi, così che il suo intelletto assume quasi i modi dell’intelletto divino. Capii che, quando non aveva una risposta, Guglielmo se ne proponeva molte e diversissime tra loro. Rimasi perplesso.
“Ma allora,” ardii commentare,”siete ancora lontano dalla soluzione…”
“Ci sono vicinissimo,” disse Guglielmo,”ma non so a quale.”
“Quindi non avete una sola risposta alle vostre domande?”
“Adso, se l’avessi insegnerei teologia a Parigi.”
“A Parigi hanno sempre la risposta vera?”
“Mai,” disse Guglielmo,”ma sono molto sicuri dei loro errori.”
“E voi,” dissi con infantile impertinenza,”non commettete mai errori?”
“Spesso,” rispose. “Ma invece di concepirne uno solo ne immagino molti, così non divento schiavo di nessuno.”
Ebbi l’impressione che Guglielmo non fosse affatto interessato alla verità, che altro non è che l’adeguazione tra la cosa e l’intelletto. Egli invece si divertiva a immaginare quanti più possibili fosse possibile.
In quel momento, lo confesso, disperai del mio maestro e mi sorpresi a pensare: “Meno male che è arrivata l’inquisizione.” Parteggiai per la sete di verità che animava Bernardo Gui.
E con queste colpevoli disposizioni di spirito, più turbato di Giuda la notte del giovedì santo, entrai con Guglielmo nel refettorio a consumare la cena.
La cena per la legazione fu superba. L’Abate doveva conoscere molto bene e le debolezze degli uomini e gli usi della corte papale (che non dispiacquero, debbo dirlo, neppure ai minoriti di fra Michele). I maiali ammazzati da poco, ci doveva essere del sanguinaccio all’uso di Montecassino, ci disse il cuciniere. Ma la sciagurata fine di Venanzio aveva costretto a buttare tutto il sangue dei maiali, sino a che non si fosse proceduto a scannarne d’altri. Inoltre credo che in quei giorni ripugnasse a tutti uccidere creature del Signore. Ma avemmo del salmì di piccioncini, macerato nel vino di quelle terre, e coniglio in porchetta, pagnottini di santa Chiara, riso con le mandorle di quei monti, ovvero il biancomangiare delle vigilie, crostini di borragine, ulive ripiene, formaggio fritto, carne di pecora con salsa cruda di peperoni, fave bianche, e dolciumi squisiti, dolce di san Bernardo, paste di san Niccolò, occhietti di santa Lucia, e vini, e liquori d’erbe che misero di buon umore persino Bernardo Gui, di solito così austero: liquore di citronella, nocino, vino contro la gotta e vino di genziana. Sembrava una riunione di ghiottoni, se ogni sorsata o ogni boccone non fosse stato accompagnato da devote letture.
Alla fine tutti si alzarono molto lieti, alcuni accampando vaghi malori per non scendere a compieta. Ma l’Abate non se ne adontò. Non tutti hanno il privilegio e gli obblighi che conseguono all’essersi consacrati al nostro ordine.
Mentre i monaci si avviavano mi attardai curioso per la cucina, dove stavano apparecchiando per la chiusura notturna. Vidi Salvatore che sgattaiolava verso l’orto con un fagotto in braccio. Incuriosito lo seguii e lo chiamai. Egli cercò di schermirsi, poi alle mie domande rispose che recava nel fagotto (che si muoveva come abitato da cosa viva) un basilisco.
“Cave basilischium! Est lo reys dei serpenti, tant pleno del veleno che ne riluce tuto fuori! Che dicam, il veleno, il puzzo ne vien fuori che te ancide! Ti attosca… Et ha macule bianche sul dosso, et caput come gallo, et metà va dritta sopre la terra et metà va per terra come gli altri serpentes. E lo ancide la bellula…”
“La bellula?”
“Oc! Bestiola parvissima est, più lunga alguna cosa che ’l topo, et odiala ’l topo muchissimo. E assì la serpe et la botta. Et quando loro la mordono, la bellula corre alla fenicula o a la circerbita et ne dentecchia, et redet ad bellum. Et dicunt che ingenera per li oculi, ma li più dicono ch’elli dicono falso.”
Gli chiesi cosa facesse con un basilisco e disse che erano affari suoi. Gli dissi, ormai morso dalla curiosità, che in quei giorni, con tutti quei morti, non c’erano più affari segreti, e che ne avrei parlato a Guglielmo. Allora Salvatore mi pregò ardentemente di tacere, aprì il fagotto e mi mostrò un gatto di pelo nero. Mi tirò vicino a sé e mi disse con un sorriso osceno che non voleva più che il cellario o io, perché eravamo l’uno potente e l’altro giovane e bello, potessimo avere l’amore delle ragazze del villaggio, e lui no perché era brutto e poveretto. Che conosceva una magìa portentosissima per far cadere ogni donna presa d’amore. Bisognava uccidere un gatto nero e cavargli gli occhi, poi metterli dentro due uova di gallina nera, un occhio in un uovo, un occhio nell’altro (e mi mostrò due uova che assicurò aver tratto dalle galline giuste). Poi occorreva mettere le uova a marcire dentro un mucchio di sterco di cavallo (e ne aveva approntato uno proprio in un angolino dell’orto dove non passava mai nessuno), e di lì ne sarebbe nato, per ciascun uovo, un diavoletto, che poi si sarebbe messo al suo servizio procurandogli tutte le delizie di questo mondo. Ma ahimè, mi disse, perché la magìa riuscisse occorreva che la donna, di cui voleva l’amore, sputasse sulle uova prima che fossero seppellite nello sterco, e quel problema lo angustiava, perché bisognava avere accanto, quella notte, la donna in questione, e farle fare l’ufficio suo senza che lei sapesse a cosa serviva.
Fui preso da subita vampa, al viso, o alle viscere, o in tutto il corpo, e chiesi con un filo di voce se quella notte avrebbe portato nella cinta la ragazza della notte avanti. Lui rise, schernendomi, e disse che ero proprio in preda a una gran foia (io dissi di no, che chiedevo per pura curiosità), e poi mi disse che al villaggio di donne ce n’erano tante, e che ne avrebbe portata su un’altra, più bella ancora di quella che piaceva a me. Io supposi che mi mentisse per allontanarmi da lui. E d’altra parte che avrei potuto fare? Seguirlo per tutta la notte quando Guglielmo mi attendeva per ben altre imprese? E tornare a rivedere colei (se pure di essa si trattava) verso cui i miei appetiti mi spingevano mentre la mia ragione me ne distoglieva — e che non avrei dovuto vedere mai più anche se desideravo sempre vederla ancora? Certo no. E quindi convinsi me stesso che Salvatore diceva il vero, per quanto riguardava la donna. O che forse mentiva su tutto, che la magìa di cui parlava era una fantasia della sua mente ingenua e superstiziosa, e che non ne avrebbe fatto nulla.
Mi irritai con lui, lo trattai rudemente, gli dissi che per quella notte avrebbe fatto meglio ad andare a dormire, perché gli arcieri circolavano nella cinta. Egli rispose che conosceva l’abbazia meglio degli arcieri, e che con quella nebbia nessuno avrebbe visto nessuno. Anzi, mi disse, ora io scappo, e neppure tu mi vedrai più, anche se fossi lì a due passi a sollazzarmi con la ragazza che desideri. Lui si espresse con altre parole, assai più ignobili, ma questo era il senso di quanto diceva. Mi allontanai sdegnato, perché proprio non era da me, nobile e novizio, mettermi in certame con quella canaglia.
Raggiunsi Guglielmo e facemmo quello che si doveva. Cioè ci disponemmo a seguir compieta, indietro nella navata, in modo che quando l’ufficio finì eravamo pronti per intraprendere il nostro secondo viaggio (terzo per me) nelle viscere del labirinto.
La visita in biblioteca ci portò via lunghe ore di lavoro. A parole il controllo che dovevamo fare era facile, ma procedere al lume della lucerna, leggere le scritte, segnare sulla mappa i varchi e le pareti piene, registrate le iniziali, compiere i vari percorsi che il gioco delle aperture e degli sbarramenti ci consentivano, fu cosa assai lunga. E noiosa.
Faceva molto freddo. La notte non era ventosa e non si udivano quei sibili sottili che ci avevano impressionato la prima sera, ma dalle feritoie penetrava un’aria umida e gelida. Avevamo messo dei guanti di lana per poter toccare i volumi senza che le mani si intirizzissero. Ma erano appunto di quelli che si usavano per scrivere d’inverno, con la punta delle dita scoperte, e talora dovevamo avvicinare le mani alla fiamma, o metterle nel petto, o batterle l’una contro l’altra, saltellando intirizziti.
Per questo non compimmo tutta l’opera di seguito. Ci fermavamo a curiosare negli armaria, e ora che Guglielmo — coi suoi nuovi vetri sul naso — poteva attardarsi a leggere i libri, a ogni titolo che scopriva prorompeva in esclamazioni di allegrezza, o perché conosceva l’opera, o perché da tempo la cercava o infine perché non l’aveva mai sentita menzionare ed era oltremodo eccitato e incuriosito. Insomma, ogni libro era per lui come un animale favoloso che egli incontrasse in una terra sconosciuta. E mentre lui sfogliava un manoscritto, mi ingiungeva di cercarne altri.
“Guarda cosa c’è in quell’armadio!”
E io, compitando e spostando volumi: “Historia anglorum di Beda… E sempre di Beda De aedificatione templi, De tabernaculo, De temporibus et computo et chronica et circuli Dyonisi, Ortographia, De ratione metrorum, Vita Sancti Cuthberti, Ars metrica…”
“E’ naturale, tutte le opere del Venerabile… E guarda questi! De rhetorica cognatione, Locorum rhetoricorum distinctio, e qui tanti grammatici, Prisciano, Onorato, Donato, Massimio, Vittorino, Metrorio, Eutiche, Servio, Foca, Asperus… Strano, pensavo a tutta prima che qui ci fossero autori dell’Anglia… Guardiamo più sotto…”
“Hisperica… famina. Cos’è?”
“Un poema ibernico. Ascolta:
Hoc spumans mundanas obvallat Pelagus oras
terrestres amniosis fluctibus cudit margines.
Saxeas undosis molibus irruit avionias.
Infima bomboso vertice miscet glareas
asprifero spergit spumas sulco,
sonoreis frequenter quatitur flabris…”
Io non capivo il senso, ma Guglielmo leggeva facendo rotolare le parole nella bocca in modo tale che pareva di udire il suono delle onde e della spuma marina.
“E questo? E’ Adhelm di Malmesbury, sentite questa pagina: Primitus pantorum procerum poematorum pio potissimum paternoque presertim privilegio panegiricum poemataque passim prosatori sub polo promulgatas… Le parole cominciano tutte con la stessa lettera!”
“Gli uomini delle mie isole sono tutti un poco pazzi,” diceva Guglielmo con orgoglio.”Guardiamo nell’altro armadio.”
“Virgilio.”
“Come mai qui? Virgilio cosa? Le Georgiche?”
“No. Epitomi. Non ne avevo mai sentito parlare.”
“Ma non è il Marone! E’ Virgilio di Tolosa, il retore, sei secoli dopo la nascita di Nostro Signore. Fu reputato un gran saggio…”
“Qui dice che le arti sono poema, rethoria, grama, leporia, dialecta, geometria… Ma che lingua parla?”
“Latino, ma un latino di sua invenzione, che egli reputava assai più bello. Leggi qui: dice che l’astronomia studia i segni dello zodiaco che sono mon, man, tonte, piron, dameth, perfellea, belgalic, margaleth, lutamiron, taminon e raphalut.”
“Era matto?”
“Non lo so, non era delle mie isole. Senti ancora, dice che ci sono dodici modi di designare il fuoco, ignis, coquihabin (quia incocta coquendi habet dictionem), ardo, calax ex calore, fragon ex fragore flammae, rusin de rubore, fumaton, ustrax de urendo, vitius quia pene mortua membra suo vivificat, siluleus, quod de silice siliat, unde et silex non recte dicitur, nisi ex qua scintilla silit. E aeneon, de Aenea deo, qui in eo habitat, sive a quo elementis flatus fertur.”
“Ma non c’è nessuno che parla così!”
“Fortunatamente. Ma erano tempi in cui, per dimenticare un mondo cattivo, i grammatici si dilettavano di astruse questioni. Mi dissero che a quell’epoca per quindici giorni e quindici notti i retori Gabundus e Terentius discussero sul vocativo di ego, e infine vennero alle armi.”
“Ma anche questo, sentite…” avevo afferrato un libro meravigliosamente miniato con labirinti vegetali dai cui viticci si affacciavano scimmie e serpenti. “Sentite che parole: cantamen, collamen, gongelamen, stemiamen, plasmamen, sonerus, alboreus, gaudifluus, glaucicomus…”
“Le mie isole,” disse di nuovo con tenerezza Guglielmo. “Non essere severo con quei monaci della lontana Hibernia, forse, se esiste questa abbazia, e se parliamo ancora di sacro romano impero, lo dobbiamo a loro. A quel tempo il resto dell’Europa era ridotto a un ammasso di rovine, un giorno dichiararono invalidi i battesimi impartiti da alcuni preti nelle Gallie perché vi si battezzava in nomine patris et filiae, e non perché praticassero una nuova eresia e considerassero Gesù una donna, ma perché non sapevano più il latino.”
“Come Salvatore?”
“Più o meno. I pirati dell’estremo nord arrivavano lungo i fiumi a saccheggiare Roma. I templi pagani cadevano in rovina e quelli cristiani non esistevano ancora. E furono solo i monaci dell’Hibernia che nei loro monasteri scrissero e lessero, lessero e scrissero, e miniarono, e poi si gettarono su navicelle fatte di pelle d’animale e navigarono verso queste terre e le evangelizzarono come foste infedeli, capisci? Sei stato a Bobbio, è stato fondato da san Colombano, uno di costoro. E dunque lasciali stare se inventavano un latino nuovo, visto che in Europa non si sapeva più quello vecchio. Furono uomini grandi. San Brandano arrivò sino alle isole Fortunate, e costeggiò le coste dell’inferno dove vide Giuda incatenato su uno scoglio, e un giorno approdò su un’isola e vi scese, ed era un mostro marino. Naturalmente erano pazzi,” ripeté con soddisfazione.
“Le loro immagini sono… da non credere ai miei occhi! E quanti colori!” dissi, beandomi.
“In una terra che di colori ne ha pochi, un po’ di azzurro e tanto verde. Ma non stiamo a discutere dei monaci hiberni. Quello che voglio sapere è perché sono qui con gli angli e con grammatici di altri paesi. Guarda sulla tua mappa, dove dovremmo essere?”
“Nelle stanze del torrione occidentale. Ho trascritto anche i cartigli. Dunque, uscendo dalla stanza cieca si entra nella sala eptagonale e c’è un solo passaggio a una sola stanza del torrione, la lettera in rosso è H. Poi si passa di stanza in stanza facendo il giro del torrione e si torna alla stanza cieca. La sequenza delle lettere dà… avete ragione! HIBERNI!”
“HIBERNIA, se dalla stanza cieca torni nella eptagonale, che ha come tutte le altre tre la A di Apocalypsis. Perciò vi sono le opere degli autori dell’ultima Thule, e anche i grammatici e i retori, perché gli ordinatori della biblioteca han pensato che un grammatico deve stare coi grammatici hiberni, anche se è di Tolosa. E’ un criterio. Vedi che cominciamo a capire qualcosa?”
“Ma nelle stanze del torrione orientale da cui siamo entrati abbiamo letto FONS… Cosa significa?”
“Leggi bene la tua mappa, continua a leggere le lettere delle sale che seguono per ordine di accesso.”
“FONS ADAEU…”
“No, Fons Adae, la U è la seconda stanza cieca orientale, la ricordo, forse si inserisce in un’altra sequenza. E cosa abbiamo trovato al Fons Adae, e cioè nel paradiso terrestre (ricordati che ivi è la stanza con l’altare che dà verso il levar del sole)?”
“C’erano tante bibbie, e commenti alla bibbia, solo libri di scritture sacre.”
“E dunque vedi, la parola di Dio in corrispondenza al paradiso terrestre, che come tutti dicono è lontano verso oriente. E qui a occidente l’Hibernia.”
“Dunque il tracciato della biblioteca riproduce la mappa dell’universo mondo?”
“E’ probabile. E i libri vi sono collocati secondo i paesi di provenienza, o il luogo dove nacquero i loro autori o, come in questo caso, il luogo dove avrebbero dovuto nascere. I bibliotecari si son detti che Virgilio il grammatico è nato per sbaglio a Tolosa e avrebbe dovuto nascere nelle isole occidentali. Hanno risistemato gli errori della natura.”
Proseguimmo il nostro cammino. Passammo per una sequenza di sale ricche di splendide Apocalissi, e una di queste era la stanza dove avevo avuto le visioni. Anzi, da lontano vedemmo di nuovo il lume, Guglielmo si turò il naso e corse a spegnerlo, sputando sulle ceneri. E ad ogni buon conto traversammo la stanza in fretta, ma ricordavo che vi avevo visto la bellissima Apocalisse multicolore con la mulier amicta sole e il drago. Ricostruimmo la sequenza di queste sale a partire dall’ultima a cui accedemmo e che aveva come iniziale in rosso una Y. La lettura all’indietro diede la parola YSPANIA, ma l’ultima A era la stessa su cui terminava HIBERNIA. Segno, disse Guglielmo, che rimanevano delle stanze in cui si raccoglievano opere di carattere misto.
In ogni caso la zona denominata YSPANIA ci parve popolata di molti codici dell’Apocalisse, tutti di bellissima fattura, che Guglielmo riconobbe come arte ispanica. Rilevammo che la biblioteca aveva forse la più ampia raccolta di copie del libro dell’apostolo che esistesse nella cristianità, e una quantità immensa di commenti su quel testo. Volumi enormi erano dedicati al commentario sull’Apocalisse di Beato di Liébana, e il testo era più o meno sempre lo stesso, ma trovammo una fantastica varietà di variazioni nelle immagini e Guglielmo riconobbe la menzione di alcuni tra coloro che egli riteneva tra i massimi miniatori del regno delle Asturie, Magius, Facundus e altri.
Facendo queste e altre osservazioni pervenimmo al torrione meridionale, nei cui pressi eravamo già passati la sera precedente. La stanza S di YSPANIA — senza finestre — immetteva in una stanza E e via via girando le cinque stanze del torrione arrivammo all’ultima, senza altri varchi, che recava una L in rosso. Rileggemmo al contrario e trovammo LEONES.
“Leones, meridione, nella nostra mappa siamo in Africa, hic sunt leones. E questo spiega perché vi abbiamo trovato tanti testi di autori infedeli.”
“E altri ve ne sono,” dissi frugando negli armadi.”Canone di Avicenna, e questo bellissimo codice in calligrafia che non conosco…”
“A giudicare dalle decorazioni dovrebbe essere un corano, ma purtroppo non conosco l’arabo.”
“Il corano, la bibbia degli infedeli, un libro perverso…”
“Un libro che contiene una saggezza diversa dalla nostra. Ma comprendi perché lo abbiano posto qui, dove stanno i leoni, i mostri. Ecco perché vi abbiamo visto quel libro sulle bestie mostruose dove hai trovato anche l’unicorno. Questa zona detta LEONES contiene quelli che per i costruttori della biblioteca erano i libri della menzogna. Cosa c’è laggiù?”
“Sono in latino, ma dall’arabo. Ayyub al Ruhawi, un trattato sull’idrofobia canina. E questo è un libro dei tesori. E questo il De aspectibus di Alhazen…”
“Vedi, hanno posto tra i mostri e le menzogne anche opere di scienza da cui i cristiani hanno tanto da imparare. Così si pensava ai tempi in cui la biblioteca fu costituita…”
“Ma perché hanno posto tra le falsità anche un libro con l’unicorno?” domandai.
“Evidentemente i fondatori della biblioteca avevano strane idee. Avran ritenuto che questo libro che parla di bestie fantastiche e che vivono in paesi lontani facesse parte del repertorio di menzogne diffuso dagli infedeli…”
“Ma l’unicorno è una menzogna? E’ un animale dolcissimo e altamente simbolico. Figura di Cristo e della castità, esso può essere catturato solo ponendo una vergine nel bosco, in modo che l’animale sentendone l’odore castissimo vada ad adagiarle il capo in grembo, offrendosi preda ai lacciuoli dei cacciatori.”
“Così si dice, Adso. Ma molti inclinano a ritenere che sia una invenzione favolistica dei pagani.”
“Che delusione,” dissi. “Mi sarebbe piaciuto incontrarne uno attraversando un bosco. Altrimenti che piacere c’è ad attraversare un bosco?”
“Non è detto che non esista. Forse è diverso da come lo rappresentano questi libri. Un viaggiatore veneziano andò in terre molto lontane, assai vicine al fons paradisi di cui dicono le mappe, e vide unicorni. Ma li trovò rozzi e sgraziati, e bruttissimi e neri. Credo abbia visto delle bestie vere con un corno sulla fronte. Furono probabilmente le stesse che i maestri della sapienza antica, mai del tutto erronea, che ricevettero da Dio l’opportunità di vedere cose che noi non abbiamo visto, ci tramandarono con una prima descrizione fedele. Poi questa descrizione, viaggiando da auctoritas ad auctoritas, si trasformò per successive composizioni della fantasia, e gli unicorni divennero animali leggiadri e bianchi e mansueti. Per cui se saprai che in un bosco vive un unicorno, non andarci con una vergine, perché l’animale potrebbe essere più simile a quello del testimone veneziano che a quello di questo libro.”
“Ma come avvenne che i maestri della sapienza antica ebbero da Dio la rivelazione sulla vera natura dell’unicorno?”
“Non la rivelazione, ma l’esperienza. Ebbero la ventura di nascere in terre in cui vivevano unicorni o in tempi in cui gli unicorni vivevano in queste stesse terre.”
“Ma allora come possiamo fidarci della sapienza antica, di cui voi ricercate sempre la traccia, se essa ci è trasmessa da libri mendaci che la hanno interpretata con tanta licenza?”
“I libri non sono fatti per crederci, ma per essere sottoposti a indagine. Di fronte a un libro non dobbiamo chiederci cosa dica ma cosa vuole dire, idea che i vecchi commentatori dei libri sacri ebbero chiarissima. L’unicorno così come ne parlano questi libri cela una verità morale, o allegorica, o anagogica, che rimane vera, come rimane vera l’idea che la castità sia una nobile virtù. Ma quanto alla verità letterale che sostiene le altre tre, rimane da vedere da quale dato di esperienza originaria è nata la lettera. La lettera deve essere discussa, anche se il sovrasenso rimane buono. In un libro sta scritto che il diamante si taglia solo col sangue di capro. Il mio grande maestro Ruggiero Bacone disse che non era vero, semplicemente perché lui ci aveva provato, e non c’era riuscito. Ma se il rapporto tra diamante e sangue caprino avesse avuto un senso superiore, questo rimarrebbe intatto.”
“Allora si possono dire verità superiori mentendo quanto alla lettera,” dissi. “E però mi dispiace ancora che l’unicorno così com’è non esista, o non sia esistito, o non possa esistere un giorno.”
“Non ci è lecito porre limiti all’onnipotenza divina, e se Dio volesse potrebbero esistere anche gli unicorni. Ma consolati, essi esistono in questi libri, i quali se non parlano dell’essere reale parlano dell’essere possibile.”
“Ma bisogna dunque leggere i libri senza far ricorso alla fede, che è virtù teologale?”
“Rimangono altre due virtù teologali. La speranza che il possibile sia. E la carità, verso chi ha creduto in buona fede che il possibile fosse.”
“Ma cosa serve a voi l’unicorno se il vostro intelletto non vi crede?”
“Serve come mi è servita la traccia dei piedi di Venanzio sulla neve, trascinato al tino dei maiali. L’unicorno dei libri è come una impronta. Se vi è l’impronta deve esserci stato qualcosa di cui è impronta.”
“Ma diverso dall’impronta, mi dite.”
“Certo. Non sempre un’impronta ha la stessa forma del corpo che l’ha impressa e non sempre nasce dalla pressione di un corpo. Talora riproduce l’impressione che un corpo ha lasciato nella nostra mente, è impronta di una idea. L’idea è segno delle cose, e l’immagine è segno dell’idea, segno di un segno. Ma dall’immagine ricostruisco, se non il corpo, l’idea che altri ne aveva.”
“E questo vi basta?”
“No, perché la vera scienza non deve accontentarsi delle idee, che sono appunto segni, ma deve ritrovare le cose nella loro verità singolare. E dunque mi piacerebbe risalire da questa impronta di una impronta all’unicorno individuo che sta all’inizio della catena. Così come mi piacerebbe risalire dai segni vaghi lasciati dall’assassino di Venanzio (segni che potrebbero rimandare a molti) a un individuo unico, l’assassino stesso. Ma non sempre è possibile in breve tempo, e senza la mediazione di altri segni.”
“Ma allora posso sempre e solo parlare di qualcosa che mi parla di qualcosa d’altro e via di seguito, ma il qualcosa finale, quello vero, non c’è mai?”
“Forse c’è, è l’unicorno individuo. E non preoccuparti, un giorno o l’altro lo incontrerai, per nero e brutto che sia.”
“Unicorni, leoni, autori arabi e mori in genere,” dissi a quel punto,”senza dubbio questa è l’Africa di cui parlavano i monaci.”
“Senza dubbio è questa. E se è questa dovremmo trovare i poeti africani a cui accennava Pacifico da Tivoli.”
E infatti, rifacendo il cammino a ritroso e tornando nella stanza L, trovai in un armadio una raccolta di libri di Floro, Frontone, Apuleio, Marziano Capella e Fulgenzio.
“Quindi è qui che Berengario diceva che avrebbe dovuto esserci la spiegazione di un certo segreto,” dissi.
“Quasi qui. Egli usò l’espressione «finis Africae», ed è a questa espressione che Malachia si adontò tanto. Il finis potrebbe essere quest’ultima stanza, oppure…” ebbe una esclamazione: “ Per le sette chiese di Clonmacnois! Non hai notato nulla?”
“Cosa?”
“Torniamo indietro, alla stanza S da cui siamo partiti!”
Tornammo alla prima stanza cieca dove il versetto diceva: Super thronos viginti quatuor. Essa aveva quattro aperture. Una dava sulla stanza Y, con finestra sull’ottagono. L’altra dava sulla stanza P che continuava, lungo la facciata esterna, la sequenza YSPANIA. Quella verso il torrione immetteva nella stanza E che avevamo appena percorso. Poi c’era una parete piena e infine un’apertura che immetteva in una seconda stanza cieca con l’iniziale U. La stanza S era quella dello specchio, e fortuna che esso si trovava sulla parete immediatamente alla mia destra, altrimenti di nuovo sarei stato preso da paura.
Guardando bene la mappa mi resi conto della singolarità di quella stanza. Come tutte le altre stanze cieche degli altri tre torrioni avrebbe dovuto immettere alla stanza eptagonale centrale. Se non lo faceva, l’ingresso all’eptagono avrebbe dovuto aprirsi nella stanza cieca adiacente, la U. Invece questa, che immetteva per un’apertura a una stanza T con finestra sull’ottagono interno, e per l’altra si collegava alla stanza S, aveva le altre tre pareti piene e occupate da armadi. Guardandoci intorno rilevammo quello che ormai era evidente anche dalla mappa: per ragioni di logica oltre che di rigorosa simmetria, quel torrione doveva avere la sua stanza eptagonale, ma essa non c’era.
“Non c’è,” dissi.
“Non è che non ci sia. Se non ci fosse, le altre stanze sarebbero più grandi, mentre sono più o meno del formato di quelle degli altri lati. C’è, ma non ci si arriva.”
“E’ murata?”
“Probabilmente. Ed ecco il finis Africae, ecco il luogo intorno a cui si aggiravano quei curiosi che sono morti. E’ murata, ma non è detto che non vi sia un passaggio. Anzi, sicuramente c’è, e Venanzio lo aveva trovato, o ne aveva avuto la descrizione da Adelmo, e questi da Berengario. Rileggiamo i suoi appunti.”
Trasse dal saio la carta di Venanzio e rilesse: “La mano sopra l’idolo opera sul primo e sul settimo dei quattro.” Si guardò intorno: “Ma certo! L’idolum è l’immagine dello specchio! Venanzio pensava in greco e in quella lingua, più ancora che nella nostra, eidolon è sia immagine che spettro, e lo specchio ci rinvia la nostra immagine deformata che noi stessi, l’altra notte, abbiamo scambiato con uno spettro! Ma cosa saranno allora i quattro supra speculum? Qualcosa sopra la superficie riflettente? Ma allora dovremmo porci da un certo punto di vista in modo da poter scorgere qualcosa che si riflette nello specchio e che corrisponde alla descrizione data da Venanzio…”
Ci muovemmo in tutte le direzioni, ma senza risultato. Al di là delle nostre immagini, lo specchio rinviava confusi contorni del resto della sala, a mala pena illuminata dalla lampada.
“Allora,” meditava Guglielmo,”per supra speculum potrebbe voler intendere al di là dello specchio… Il che imporrebbe che prima andassimo al di là, perché certamente questo specchio è una porta…”
Lo specchio era alto più di un uomo normale, incassato nel muro da una robusta cornice di quercia. Lo toccammo in tutte le guise, cercammo di insinuare le nostre dita, le nostre unghie tra la cornice e il muro, ma lo specchio stava saldo come se del muro fosse parte, pietra nella pietra.
“E se non è al di là, potrebbe essere super speculum,” mormorava Guglielmo, e intanto alzava il braccio e si levava in punta di piedi, e faceva scorrere la mano sul bordo superiore della cornice, senza trovar altro che polvere.
“D’altra parte,” rifletteva melanconicamente Guglielmo,”se pure lì dietro ci fosse una stanza, il libro che cerchiamo e che altri cercarono, in quella stanza non c’è più, perché lo hanno portato via, prima Venanzio e poi, chissà dove, Berengario.”
“Ma forse Berengario lo ha riportato qui.”
“No, quella sera noi eravamo in biblioteca, e tutto ci fa credere che egli sia morto non molto tempo dopo il furto, quella notte stessa nei balnea. Altrimenti lo avremmo rivisto il mattino successivo. Non importa… Per ora abbiamo appurato dove stia il finis Africae e abbiamo quasi tutti gli elementi per perfezionare meglio la mappa della biblioteca. Devi ammettere che molti dei misteri del labirinto si sono ormai chiariti. Tutti, direi, meno uno. Credo che trarrò più partito da una rilettura attenta del manoscritto di Venanzio che da altre ispezioni. Hai visto che il mistero del labirinto lo abbiamo scoperto meglio da fuori che da dentro. Questa sera, di fronte alle nostre immagini distorte, non verremo a capo del problema. E infine, il lume sta indebolendosi. Vieni, mettiamo a punto le altre indicazioni che ci servono per definire la mappa.”
Percorremmo altre sale, sempre registrando le nostre scoperte sulla mia mappa. Incontrammo stanze dedicate soltanto a scritti di matematica e astronomia, altre con opere in caratteri aramaici che nessuno di noi due conosceva, altre in caratteri più ignoti ancora, forse testi dell’India. Ci muovevamo entro due sequenze imbricate che dicevano IUDAEA e AEGYPTUS. Insomma, per non attediare il lettore con la cronaca della nostra decifrazione, quando più tardi mettemmo definitivamente a punto la mappa, ci convincemmo che la biblioteca era davvero costituita e distribuita secondo l’immagine dell’orbe terraqueo. A settentrione trovammo ANGLIA e GERMANI, che lungo la parete occidentale si legavano a GALLIA, per poi generare all’estremo occidente HIBERNIA e verso la parete meridionale ROMA (paradiso di classici latini!) e YSPANIA. Venivano poi a meridione i LEONES, l’AEGYPTUS che verso oriente diventavano IUDAEA e FONS ADAE. Tra oriente e settentrione, lungo la parete, ACAIA, una buona sineddoche, come si espresse Guglielmo, per indicare la Grecia, e infatti in quelle quattro stanze vi era gran dovizia di poeti e filosofi dell’antichità pagana.
Il modo di lettura era bizzarro, talora si procedeva in un’unica direzione, talora si andava a ritroso, talora in circolo, spesso come ho detto una lettera serviva a comporre due parole diverse (e in quei casi la stanza aveva un armadio dedicato a un argomento e uno a un altro). Ma non c’era evidentemente da cercare una regola aurea in quella disposizione. Si trattava di mero artifizio mnemonico per permettere al bibliotecario di ritrovare un’opera. Dire di un libro che si trovava in quarta Acaiae significava che era nella quarta stanza a contare da quella in cui appariva la A iniziale, e quanto al modo di individuarla, si supponeva che il bibliotecario sapesse a memoria il percorso, o retto o circolare, da fare. Per esempio ACAIA era distribuito su quattro stanze disposte a quadrato, il che vuol dire che la prima A era anche l’ultima, cosa che peraltro anche noi avevamo appreso in poco tempo. Così come avevamo subito appreso il gioco degli sbarramenti. Per esempio, venendo da oriente, nessuna delle stanze di ACAIA immetteva nelle stanze seguenti: il labirinto a quel punto terminava e per raggiungere il torrione settentrionale occorreva passare dagli altri tre. Ma naturalmente i bibliotecari, entrando dal FONS, sapevano bene che per andare, poniamo, in ANGLIA, dovevano attraversare AEGYPTUS, YSPANIA, GALLIA e GERMANI.
Con queste e altre belle scoperte terminò la nostra fruttuosa esplorazione alla biblioteca. Ma prima di dire che, soddisfatti, ci accingemmo a uscirne (per diventar partecipi di altri eventi di cui tra poco racconterò), devo fare una confessione al mio lettore. Ho detto che la nostra esplorazione fu condotta da un lato cercando la chiave del misterioso luogo e dall’altro intrattenendoci via via, nelle sale che individuavamo quanto a collocazione e argomento, a sfogliate libri di vario genere, come se esplorassimo un continente misterioso o una terra incognita. E di solito questa esplorazione avvenne di comune accordo, io e Guglielmo intrattenendoci sugli stessi libri, io indicandogli i più curiosi, lui spiegandomi molte cose che non riuscivo a capire.
Ma a un certo punto, e proprio mentre ci aggiravamo per le sale del torrione meridionale, dette Leones, accadde che il mio maestro si soffermasse in una stanza ricca di opere arabe con curiosi disegni di ottica; e poiché quella sera disponevamo non di uno ma di due lumi, io mi spostai per curiosità nella stanza accanto, avvedendomi che la sagacia e la prudenza dei legislatori della biblioteca avevano radunato lungo una delle sue pareti libri che certo non potevano essere dati in lettura a chiunque, perché in modi diversi trattavano di svariate malattie del corpo e dello spirito, quasi sempre a opera di sapienti infedeli. E mi cadde l’occhio su di un libro non grande, adorno di miniature molto difformi (per fortuna!) dal tema, fiori, viticci, animali a coppia, qualche erba medicinale: il titolo era Speculum amoris, di fra Massimo da Bologna, e riportava citazioni di molte altre opere, tutte sulla malattia d’amore. Come il lettore capirà non ci voleva di più a risvegliate la mia curiosità malata. Anzi, proprio quel titolo bastò a riaccendere la mia mente, che dal mattino si era sopita, eccitandola di nuovo con l’immagine della fanciulla.
Poiché per tutto il giorno avevo ricacciato da me i pensieri mattinali, dicendomi che non erano da novizio sano ed equilibrato, e poiché d’altra parte gli eventi della giornata erano stati abbastanza ricchi e intensi da distrarmi, i miei appetiti si erano sopiti, sì che ormai credevo di essermi liberato da ciò che altro non era stata che una inquietudine passeggera. Invece bastò la vista di quel libro a farmi dire “de te fabula narratur” e a scoprirmi più malato d’amore di quanto non credessi. Imparai dopo che, a leggere libri di medicina, ci si convince sempre di provare i dolori di cui essi parlano. Fu così che proprio la lettura di quelle pagine, sbirciate in fretta per timore che Guglielmo entrasse nella stanza e mi chiedesse su che cosa mi stavo dottamente intrattenendo, mi convinse che io soffrivo proprio di quella malattia, i cui sintomi erano così splendidamente descritti che, se da un lato mi preoccupavo nel trovarmi malato (e sulla scorta infallibile di tante auctoritates), dall’altro mi rallegravo nel veder dipinta con tanta vivacità la mia situazione; convincendomi che, se pur ero malato, la mia malattia era per così dire normale, dato che tanti altri ne avevano sofferto nello stesso modo, e gli autori citati sembravano aver preso proprio me a modello delle loro descrizioni.
Mi commossi così sulle pagine di Ibn Hazm, che definisce l’amore come una malattia ribelle, che ha la sua cura in se stessa, in cui chi è malato non vuole guarirne e chi ne è infermo non desidera riaversi (e Dio sa se non fosse vero!). Mi resi conto perché al mattino fossi così eccitato da tutto quel che vedevo, perché pare che l’amore entri attraverso gli occhi come dice anche Basilio d’Ancira, e — sintomo inconfondibile — chi è preso da tale male manifesta una eccessiva gaiezza, mentre desidera al contempo starsene in disparte e predilige la solitudine (come io avevo fatto quel mattino), mentre altri fenomeni che lo accompagnano sono l’inquietudine violenta e lo sbalordimento che toglie le parole… Mi spaventai leggendo che al sincero amante, cui sia sottratta la vista dell’oggetto amato, non può che sopravvenire uno stato di consunzione che spesso arriva sino a fargli prendere il letto, e talora il male sopraffà il cervello, si perde il senno e si vaneggia (evidentemente non ero ancor giunto in quello stato, perché avevo lavorato assai bene nell’esplorare la biblioteca). Ma lessi con apprensione che se il male peggiora, può sopravvenirne la morte e mi chiesi se la gioia che la fanciulla mi dava a pensarla valesse questo sacrificio supremo del corpo, a parte ogni retta considerazione sulla salute dell’anima.
Anche perché trovai un’altra citazione di Basilio secondo il quale “qui animam corpori per vitia conturbationesque commiscent, utrinque quod habet utile ad vitam necessarium demoliuntur, animamque lucidam ac nitidam carnalium voluptatum limo perturbant, et corporis munditiam atque nitorem hac ratione miscentes, inutile hoc ad vitae officia ostendunt”. Situazione estrema in cui proprio non volevo trovarmi.
Appresi altresì da una frase di santa Hildegarda che quell’umor melanconico che in giornata avevo provato, e che attribuivo a dolce sentimento di pena per l’assenza della fanciulla, pericolosamente assomiglia al sentimento che prova chi devia dallo stato armonico e perfetto che l’uomo prova in paradiso, e che questa melanconia “nigra et amara” è prodotta dal soffio del serpente e dalla suggestione del diavolo. Idea condivisa anche da infedeli di pari saggezza, perché mi caddero sotto gli occhi le linee attribuite a Abu Bakr-Muhammad Ibn Zaka-riyya ar-Razi, che in un Liber continens identifica la melanconia amorosa con la licantropia, che spinge chi ne è colpito a comportarsi come un lupo. La sua descrizione mi serrò la gola: dapprima gli amanti appaiono mutati nel loro aspetto esteriore, la loro vista si indebolisce, gli occhi diventano cavi e senza lacrime, la lingua lentamente si essicca e su di essa appaiono delle pustole, tutto il corpo è secco e soffrono continuamente la sete; a questo punto trascorrono la loro giornata sdraiati a faccia in giù, sul viso e sulle tibie appaiono segni simili a morsi di cane, e infine di notte vagano per i cimiteri come lupi.
Non ebbi infine più dubbi sulla gravità del mio stato quando lessi citazioni dal grandissimo Avicenna, dove l’amore viene definito come un pensiero assiduo di natura melanconica, che nasce a causa del pensare e ripensare le fattezze, i gesti o i costumi di una persona di sesso opposto (come Avicenna aveva rappresentato con fedele vivacità il caso mio!): esso non nasce come malattia ma malattia diviene quando non essendo soddisfatto diventa pensiero ossessivo (e perché mai mi sentivo ossessionato io che pure, Dio mi perdoni, mi ero ben soddisfatto? o forse ciò che era avvenuto la notte precedente non era soddisfazione d’amore? ma come si soddisfa allora questo male?), e come conseguenza si ha un moto continuo delle palpebre, un respiro irregolare, ora si ride e ora si piange, e il polso batte (e invero il mio batteva, e il respiro si spezzava mentre leggevo quelle righe!). Avicenna consigliava un metodo infallibile già proposto da Galeno per scoprire di chi qualcuno sia innamorato: tenere il polso del dolente e pronunciare molti nomi di persone d’altro sesso, sino a che si avverta a quale nome il ritmo del polso si accelera: e io temevo che di colpo entrasse il mio maestro e mi afferrasse il braccio e spiasse nella pulsazione delle mie vene il mio segreto, del che molto mi sarei vergognato… Ahimè, Avicenna suggeriva, come rimedio, di unire i due amanti in matrimonio, e il male sarebbe guarito. Proprio vero che era un infedele, se pure avveduto, perché non teneva conto della condizione di un novizio benedettino, condannato dunque a non guarire mai — o meglio consacratosi, per sua scelta, o per oculata scelta dei suoi parenti, a mai ammalarsi. Per fortuna Avicenna, sia pure non pensando all’ordine cluniacense, considerava il caso di amanti non ricongiungibili, e consigliava come cura radicale i bagni caldi (che Berengario volesse guarire del suo mal d’amore per lo scomparso Adelmo? ma si poteva soffrire mal d’amore per un essere del proprio sesso, o quella non era che bestiale lussuria? e forse non era bestiale la lussuria della mia notte passata? no certo, mi dicevo subito, era dolcissima — e subito dopo: sbagli Adso, quella fu illusione del diavolo, bestialissima era, e se hai peccato a essere bestia pecchi ancora più ora a non volertene rendere conto!). Ma poi lessi anche che, sempre secondo Avicenna, vi erano pure altri mezzi: per esempio, ricorrere all’assistenza di donne vecchie ed esperte che passino il tempo a denigrare l’amata — e pare che le donne vecchie siano più esperte degli uomini in questa bisogna. Forse questa era la soluzione, ma donne vecchie all’abbazia non ne potevo trovare (né giovani, invero) e dunque avrei dovuto chiedere a qualche monaco di parlarmi male della ragazza, ma a chi? E poi, poteva un monaco conoscere bene le donne come le conosceva una donna vecchia e pettegola? L’ultima soluzione suggerita dal saraceno era addirittura invereconda perché postulava che si facesse congiungere l’amante infelice con molte schiave, cosa assai inconveniente per un monaco. Infine, mi dicevo, come può guarire di mal d’amore un giovane monaco, non c’è proprio salvezza per lui? Forse dovevo ricorrere a Severino e alle sue erbe? Infatti trovai un brano di Arnaldo da Villanova, autore che già avevo sentito citare con molta considerazione da Guglielmo, il quale faceva nascere il mal d’amore da una abbondanza di umori e di pneuma, quando cioè l’organismo umano si trova in eccesso di umidità e calore, dato che il sangue (che produce il seme generativo) crescendo per eccesso provoca eccesso di seme, una “complexio venerea”, e un desiderio intenso di unione tra uomo e donna. C’è una virtù estimativa situata nella parte dorsale del ventricolo medio dell’encefalo (cos’è, mi chiesi?) il cui scopo è percepire le intentiones non sensibili che sono negli oggetti sensibili captati dai sensi, e quando il desiderio per l’oggetto percepito dai sensi si fa troppo forte ecco che la facoltà estimativa ne è sconvolta, e si pasce solo del fantasma della persona amata; allora si verifica una infiammazione di tutta l’anima e il corpo, con la tristezza alternata alla gioia, perché il calore (che nei momenti di disperazione scende nelle parti più profonde del corpo e raggela la cute) nei momenti di gioia sale alla superficie infiammando il volto. La cura suggerita da Arnaldo consisteva nel cercare di perdere la confidenza e la speranza di raggiungere l’oggetto amato, in modo che il pensiero se ne allontanasse.
Ma allora sono guarito, o in via di guarigione, mi dissi, perché ho poca o nessuna speranza di rivedere l’oggetto dei miei pensieri, e se lo vedessi di raggiungerlo, e se lo raggiungessi di possederlo di nuovo, e se lo ripossedessi di trattenerlo presso di me, sia a cagione del mio stato monacale che dei doveri che mi sono imposti dal rango della mia famiglia… Sono salvo, mi dissi, chiusi il fascicolo e mi ricomposi, proprio mentre Guglielmo entrava nella stanza. Ripresi con lui il viaggio attraverso il labirinto ormai svelato (come ho già raccontato) e per il momento scordai la mia ossessione.
Come si vedrà l’avrei ritrovata entro breve tempo, ma in circostanze (ahimè!) ben diverse.
Stavamo infatti ridiscendendo nel refettorio quando udimmo dei clamori, e delle luci fievoli balenarono dalla parte della cucina. Guglielmo spense di colpo il lume. Seguendo i muri ci avvicinammo alla porta che dava sulla cucina, e sentimmo che il rumore proveniva dall’esterno, salvo che la porta era aperta. Poi le voci e le luci si allontanarono, e qualcuno chiuse con violenza la porta. Era un tumulto grande che preludeva a qualcosa di sgradevole. Velocemente ripassammo per l’ossario, riapparimmo nella chiesa, deserta, uscimmo dal portale meridionale, e scorgemmo un baluginare di fiaccole nel chiostro.
Ci appressammo, e nella confusione pareva che fossimo accorsi anche noi insieme ai molti che già erano sul luogo, usciti vuoi dal dormitorio vuoi dalla casa dei pellegrini. Vedemmo che gli arcieri stavano tenendo saldamente Salvatore, bianco come il bianco dei suoi occhi, e una donna che piangeva. Provai una stretta al cuore: era lei, la ragazza dei miei pensieri. Come mi vide mi riconobbe e mi lanciò uno sguardo implorante e disperato. Ebbi l’impulso di lanciarmi a liberarla, ma Guglielmo mi trattenne sussurrandomi alcuni improperi per nulla affettuosi. I monaci e gli ospiti ora accorrevano da ogni parte.
Arrivò l’Abate, arrivò Bernardo Gui, a cui il capitano degli arcieri fece un breve rapporto. Ecco cos’era accaduto.
Per ordine dell’inquisitore essi pattugliavano nottetempo l’intera spianata, con particolare attenzione per il viale che andava dal portale d’ingresso alla chiesa, la zona degli orti, e la facciata dell’Edificio (perché? mi chiesi, e capii: evidentemente perché Bernardo aveva raccolto dai famigli o dai cucinieri voci su alcuni traffici notturni, magari senza sapere chi esattamente ne fossero i responsabili, che avvenivano tra l’esterno della cinta e le cucine, e chissà che lo stolido Salvatore, come aveva detto a me dei suoi propositi, non ne avesse già parlato in cucina o nelle stalle a qualche sciagurato che, intimorito dall’interrogatorio del pomeriggio, aveva gettato in pasto a Bernardo questa mormorazione). Nel girare circospetti e al buio tra la nebbia, gli arcieri avevano finalmente sorpreso Salvatore, in compagnia della donna, mentre armeggiava davanti alla porta della cucina.
“Una donna in questo luogo santo! E con un monaco!” disse severamente Bernardo rivolgendosi all’Abate. “Signore magnificentissimo,” proseguì, “se si trattasse solo della violazione del voto di castità, la punizione di quest’uomo sarebbe cosa di vostra giurisdizione. Ma poiché non sappiamo ancora se i maneggi di questi due sciagurati abbiano qualcosa a che vedere con la salute di tutti gli ospiti, dobbiamo prima far luce su questo mistero. Orsù, dico a te, miserabile,” e strappava dal petto di Salvatore l’evidente involto che quello credeva di celare,”cos’hai lì dentro?”
Io già lo sapevo: un coltello, un gatto nero che, aperto che fu l’involto, fuggì miagolando infuriato, e due uova, ormai rotte e viscide, che a tutti parvero sangue, o bile gialla, o altra sostanza immonda. Salvatore stava per entrare in cucina, ammazzare il gatto e cavargli gli occhi, e chissà con quali promesse aveva indotto la ragazza a seguirlo. Con quali promesse, lo seppi subito. Gli arcieri frugarono la ragazza, tra risate maliziose e mezze parole lascive, e le trovarono addosso un galletto morto, ancora da spennare. Sfortuna volle che nella notte, in cui tutti i gatti sono grigi, il gallo apparisse nero anch’esso come il gatto. Io pensai, invece, che non ci voleva di più per attrarla, la povera affamata che già la notte scorsa aveva abbandonato (e per amor mio!) il suo prezioso cuore di bue…
“Ah ah!” esclamò Bernardo con tono di gran preoccupazione,”gatto e gallo nero… Ma io li conosco questi parafernali…” Scorse Guglielmo tra gli astanti: “Non li conoscete anche voi, frate Guglielmo? Non foste inquisitore a Kilkenny, tre anni fa, dove quella ragazza aveva commercio con un demone che le appariva sotto le specie di un gatto nero?”
Mi parve che il mio maestro tacesse per viltà. Gli afferrai la manica, lo scossi, gli sussurrai disperato: “Ma ditegli che era per mangiare…”
Egli si liberò dalla mia presa e si rivolse educatamente a Bernardo: “Non credo voi abbiate bisogno delle mie antiche esperienze per arrivare alle vostre conclusioni,” disse.
“Oh no, ci sono testimonianze ben più autorevoli,” sorrise Bernardo.”Stefano di Borbone racconta nel suo trattato sui sette doni dello spirito santo come san Domenico, dopo aver predicato a Fanjeaux contro gli eretici, annunciò a certe donne che esse avrebbero visto chi avevano servito sino ad allora. E di colpo balzò in mezzo a loro un gatto spaventoso dalle dimensioni di un grosso cane, con gli occhi grandi e infocati, la lingua sanguinolenta che arrivava sino all’ombelico, la coda corta e ritta in aria in modo che comunque l’animale si girasse mostrava la turpitudine del suo di dietro, fetido quanti altri mai, come si conviene a quell’ano che molti devoti di Satana, non ultimi i cavalieri templari, hanno sempre usato baciare nel corso delle loro riunioni. E dopo aver girato intorno alle donne per un’ora, il gatto balzò sulla corda della campana e vi si arrampicò, lasciando indietro i suoi resti puteolenti. E non è il gatto l’animale amato dai catari, che secondo Alano delle Isole si chiamano così proprio da catus, perché di questa bestia baciano le terga ritenendole incarnazione di Lucifero? E non conferma questa disgustosa pratica anche Guglielmo d’Alvernia nel De legibus? E non dice Alberto Magno che i gatti sono demoni in potenza? E non riporta il mio venerabile confratello Jacques Fournier che sul letto di morte dell’inquisitore Gaufrido da Carcassonne apparvero due gatti neri, che altro non erano che demoni che volevano dileggiare quelle spoglie?”
Un mormorio di orrore percorse il gruppo dei monaci, molti dei quali si fecero il segno della santa croce.
“Signor Abate, signor Abate,” diceva frattanto Bernardo con aria virtuosa,”forse la magnificenza vostra non sa cosa sono usi fare i peccatori con questi strumenti! Ma lo so ben io, Dio non volesse! Ho visto donne scelleratissime, nelle ore più buie della notte, insieme con altre della loro risma, usare di gatti neri per ottenere prodigi che non poterono mai negare: così da andare a cavalcioni di certi animali, e percorrere col favore notturno spazi immensi, trascinando i loro schiavi, trasformati in incubi vogliosissimi… E il diavolo stesso si mostra loro, o almeno loro lo credono fortemente, sotto forma di gallo, o di altro animale nerissimo, e con quello persino, non domandatemi come, congiacciono. E so di certo che con negromanzie del genere, non è molto, proprio in Avignone, si prepararono filtri e unguenti per attentare alla vita dello stesso signor papa, avvelenandogli i cibi. Il papa poté difendersene e individuare il tossico solo perché era munito di prodigiosi gioielli in forma di lingua di serpente, fortificati da mirabili smeraldi e rubini che per virtù divina servivano a rivelare la presenza di veleno nei cibi! Undici gliene aveva regalate il re di Francia, di queste lingue preziosissime, grazie al cielo, e solo così il nostro signor papa poté scampare alla morte! E’ vero che i nemici del pontefice fecero anche di più, e tutti sanno cosa si scoprì dell’eretico Bernard Délicieux arrestato dieci anni fa: gli furono trovati in casa libri di magìa nera annotati proprio alle pagine più scellerate, con tutte le istruzioni per costruire figure di cera onde recar danno ai suoi nemici. E ci credereste, in casa gli furono pure trovate figure che riproducevano, con arte certo ammirevole, l’immagine stessa del papa, con circoletti rossi sulle parti vitali del corpo: e tutti sanno che tali figure, tenute appese per una corda, le si pone davanti a uno specchio e poi si colpiscono i circoli vitali con degli spilli e… Oh, ma perché mi attardo in queste miserie disgustose? Il papa stesso ne ha parlato e le ha descritte, condannandole, proprio l’anno scorso, nella sua costituzione Super illius specula! E spero proprio che ne abbiate copia in questa vostra ricca biblioteca, per meditarvi come si deve…”
“L’abbiamo, l’abbiamo,” confermò fervidamente l’Abate, turbatissimo.
“Va bene,” concluse Bernardo.”Ormai il fatto mi pare chiaro. Un monaco sedotto, una strega, e qualche rito che per fortuna non ha avuto luogo. A quali fini? E’ quel che sapremo, e voglio sottrarre alcune ore al sonno per saperlo. La vostra magnificenza voglia mettermi a disposizione un luogo dove quest’uomo possa essere custodito…”
“Abbiamo delle celle nel sottosuolo del laboratorio dei fabbri,” disse l’Abate,”che per fortuna si usano assai poco e sono vuote da anni…”
“Per fortuna o per sfortuna,” osservò Bernardo. E ordinò agli arcieri di farsi mostrare la strada e condurre in due celle diverse i due catturati; e di legare bene l’uomo a qualche anello infisso nel muro, in modo che egli potesse fra breve scendere a interrogarlo guardandolo bene in viso. Quanto alla ragazza, aggiunse, chi fosse era chiaro, e non valeva la pena di interrogarla quella notte. Altre prove l’avrebbero attesa prima di bruciarla come strega. E se strega era, non avrebbe facilmente parlato. Ma il monaco forse, si poteva ancora pentire (e fissava Salvatore tremante, come a fargli intendere che gli offriva ancora una possibilità), raccontando la verità e, aggiunse, denunciando i suoi complici.
I due vennero trascinati via, l’uno silenzioso e disfatto, quasi febbricitante, l’altra che piangeva, e scalciava, e gridava come un animale al macello. Ma né Bernardo, né gli arcieri, né io stesso, intendevamo cosa dicesse nella sua lingua di contadina. Per quanto parlasse, era come muta. Ci sono delle parole che danno potere, altre che rendono più derelitti ancora, e di questa sorta sono le parole volgari dei semplici, a cui il Signore non ha concesso di sapersi esprimere nella lingua universale della sapienza e della potenza.
Ancora una volta fui tentato di seguirla, ancora una volta Guglielmo, scurissimo in volto, mi trattenne.”Stai fermo, sciocco,” disse, “la ragazza è perduta, è carne bruciata.”
Mentre osservavo atterrito la scena, in un turbine di pensieri contraddittori, fissando la fanciulla, mi sentii toccare sulla spalla. Non so perché, ma prima ancora di voltarmi, riconobbi al tocco Ubertino.
“Tu guardi la strega, vero?” mi chiese. E sapevo che non poteva sapere della mia vicenda, e quindi parlava così solo perché aveva colto, con la sua terribile penetrazione per le passioni umane, l’intensità del mio sguardo.
“No…” mi schermii,”non la guardo… cioè, forse la guardo, ma non è una strega… non lo sappiamo, forse è innocente…”
“Tu la guardi perché è bella. E’ bella, vero?” mi domandò con straordinario calore, stringendomi il braccio.”Se la guardi perché è bella, e ne sei turbato (ma so che sei turbato, perché il peccato di cui la si sospetta te la rende ancora più affascinante), se la guardi e provi desiderio, perciostesso essa è una strega. Sta in guardia, figlio mio… La bellezza del corpo si limita alla pelle. Se gli uomini vedessero quello che è sotto la pelle, così come accade con la lince di Beozia, rabbrividirebbero alla visione della donna. Tutta quella grazia consiste di mucosità e di sangue, di umori e di bile. Se si pensa a ciò che si nasconde nelle narici, nella gola e nel ventre, non si troverà che lordume. E se ti ripugna toccare il muco o lo sterco con la punta del dito, come mai potremmo desiderare di abbracciare il sacco stesso che contiene lo sterco?”
Mi colse un conato di vomito. Non volevo più ascoltare quelle parole. Mi venne in soccorso il mio maestro, che aveva udito. Si avvicinò bruscamente a Ubertino, gli afferrò il braccio e lo staccò dal mio.
“Basta così, Ubertino,” disse.”Quella ragazza presto sarà sotto tortura, quindi sul rogo. Diventerà esattamente come dici tu, muco, sangue, umori e bile. Ma saranno i nostri simili a cavare di sotto alla sua pelle ciò che il Signore ha voluto che fosse protetto e adornato da quella pelle. E dal punto di vista della materia prima, tu non sei migliore di lei. Lascia stare il ragazzo.”
Ubertino si turbò: “Forse ho peccato,” mormorò.”Senz’altro ho peccato. Che altro può fare un peccatore?”
Tutti ormai stavano rientrando, commentando l’accaduto. Guglielmo si intrattenne un poco con Michele e con gli altri minoriti, che gli chiedevano le sue impressioni.
“Bernardo ha ora in mano un argomento, sia pure equivoco. Nell’abbazia si aggirano negromanti, che fan le stesse cose che furono fatte contro il papa ad Avignone. Non è certo una prova, e in prima istanza non può essere usata per disturbare l’incontro di domani. Questa notte cercherà di strappare a quel disgraziato qualche altra indicazione, di cui, ne sono sicuro, non farà uso subito domani mattina. La terrà in riserbo, gli servirà più avanti, per disturbare l’andamento delle discussioni se mai prendessero una via che gli è sgradita.”
“Potrebbe fargli dire qualcosa da usare contro di noi?” domandò Michele da Cesena.
Guglielmo rimase dubbioso: “Speriamo di no,” disse. Mi resi conto che, se Salvatore diceva a Bernardo quello che aveva detto a noi, sul passato suo e del cellario, e se accennava qualcosa al rapporto di entrambi con Ubertino, per fugace che fosse stato, si sarebbe creata una situazione assai imbarazzante.
“In ogni caso attendiamo gli eventi,” disse Guglielmo con serenità. “D’altra parte Michele, tutto è già stato deciso prima. Ma tu vuoi provare.”
“Lo voglio,” disse Michele, “e il Signore mi aiuterà. Che san Francesco interceda per tutti noi.”
“Amen,” risposero tutti.
“Ma non è detto,” fu l’irriverente commento di Guglielmo. “San Francesco potrebbe essere da qualche parte in attesa del giudizio, senza vedere il Signore faccia a faccia.”
“Maledetto sia l’eretico Giovanni!” sentii brontolare messer Girolamo mentre ciascuno tornava a dormire.”Se adesso ci toglie anche l’assistenza dei santi, dove finiremo noi, poveri peccatori?”