Parte seconda

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Nel momento in cui la casa di Giuseppe Baldini precipitava nel fiume, Grenouille si trovava sulla strada di Orléans. Aveva lasciato dietro di sé l’atmosfera della grande città, e a ogni passo che lo allontanava l’aria attorno a lui diventava più limpida, più pura e più pulita. Era come se si diradasse. Non s’incalzavano più metro per metro centinaia, migliaia di odori diversi in un alternarsi frenetico, ma i pochi che c’erano — l’odore della strada sabbiosa, dei prati, della terra, delle piante, dell’acqua — attraversavano la campagna in lunghe traiettorie gonfiandosi lentamente, lentamente dileguando, quasi mai bruscamente interrotti.

Grenouille avvertiva questa semplicità come una liberazione. Gli odori pacati accarezzavano il suo naso. Per la prima volta in vita sua non doveva aspettarsi a ogni respiro di fiutare qualcosa di nuovo, di inatteso, di ostile o di perdere qualcosa di gradevole. Per la prima volta poteva respirare quasi liberamente, senza dover nel contempo annusare stando all’erta. Diciamo «quasi», perché certo nulla passava del tutto liberamente per il naso di Grenouille. Anche quando non c’era la minima ragione, in lui restava sempre vigile un riserbo istintivo nei confronti di tutto ciò che giungeva dall’esterno e doveva essere immesso in lui. Per tutta la vita, anche nei pochi momenti in cui visse echi di qualcosa di simile alla soddisfazione, alla contentezza, e forse persino alla felicità, preferì espirare anziché inspirare: proprio come lui, anche la sua vita non era cominciata con un’inspirazione fiduciosa, bensì con un grido mortale. Ma a prescindere da questa limitazione, che in lui era un limite costituzionale, quanto più si lasciava alle spalle Parigi tanto meglio Grenouille si sentiva, aveva il respiro sempre più leggero, camminava con un passo sempre più veloce e di tanto in tanto il suo corpo assumeva persino una posizione eretta, dimodoché, visto da lontano, aveva quasi l’aspetto di un comune garzone artigiano, cioé di un individuo del tutto normale.

Era la lontananza dagli uomini a dargli la sensazione della massima libertà. A Parigi la gente viveva più accalcata che in qualsiasi altra città del mondo. Sei o settecentomila persone vivevano a Parigi. Le strade e le piazze brulicavano di gente, e le case ne erano stipate, dalla cantina fin sotto i tetti. Non c’era quasi angolo a Parigi che non fosse popolato, non c’era pietra, non c’era pezzetto di terra che non emanasse odore umano.

Che fosse questa densa esalazione umana ad averlo oppresso per diciotto anni come una greve aria di temporale, Grenouille lo capì solo adesso, nel momento in cui cominciava a sottrarsi a essa. Finora aveva sempre creduto che fosse il mondo in generale, da cui doveva fuggire. Ma non era il mondo, erano gli uomini. Con il mondo — gli sembrava — con il mondo deserto si poteva convivere.

Il terzo giorno di viaggio giunse nel campo gravitazionale olfattivo di Orléans. Molto prima ancora che qualche segno visibile indicasse la vicinanza della città, Grenouille percepì l’addensarsi delle esalazioni umane nell’aria, e contrariamente al suo proposito originario decise di evitare Orléans. Non voleva che il soffocante clima umano gli guastasse così presto l’appena acquisita libertà di respirare. Descrisse un ampio arco attorno alla città, nei pressi di Châteauneuf raggiunse la Loira e l’attraversò vicino a Sully. Fin lì la sua salsiccia era bastata. Ne acquistò un’altra e quindi, abbandonando il corso del fiume, si diresse verso l’interno del paese.

Ora non evitava più soltanto le città, evitava anche i villaggi. Era come inebriato dall’aria che si diradava sempre più, sempre più lontana dagli uomini. Si avvicinava a un insediamento o a una fattoria isolata soltanto per rifornirsi di provviste, acquistava del pane e spariva di nuovo nei boschi. Dopo qualche settimana cominciarono a dargli fastidio anche gli incontri con i rari viandanti sui sentieri fuori mano, non sopportò più l’odore, che si manifestava puntualmente, dei contadini che mietevano l’erba novella sui prati. Evitava con cura tutte le greggi di pecore, non a causa delle pecore, bensì per sfuggire all’odore dei pastori. Tagliava attraverso i campi, era disposto a fare deviazioni di miglia, quando l’olfatto gli diceva che uno squadrone di soldati a cavallo distante ancora qualche ora si stava dirigendo verso di lui. Non perché lui, come altri garzoni girovaghi e vagabondi, temesse di essere interrogato, richiesto di esibire i documenti e forse obbligato a prestare il servizio militare — non sapeva neppure che c’era la guerra — ma solo e unicamente perché provava disgusto per l’odore umano dei cavalieri. E così, in modo del tutto spontaneo e senza aver preso nessuna decisione particolare, avvenne che il suo piano di recarsi a Grasse per la via più diretta a poco a poco svanisse; il suo piano si annullò, per così dire, nella libertà, come tutti gli altri piani e propositi. Grenouille non voleva più andare in un luogo, ma soltanto lontano, lontano dagli esseri umani.

Alla fine camminò solo di notte. Durante il giorno si nascondeva nel sottobosco, dormiva tra la sterpaglia, nei luoghi più inaccessibili, appallottolato come un animale, con la coperta da cavallo color terra tirata sul corpo e sulla testa, il naso incuneato nell’incavo del gomito e rivolto verso terra, affinché neanche il minimo odore estraneo turbasse i suoi sogni. Al tramonto si svegliava, fiutava in direzione dei quattro punti cardinali e solo quando il suo olfatto gli aveva assicurato che anche l’ultimo contadino aveva lasciato il campo e anche il viandante più coraggioso aveva trovato un rifugio per l’oscurità imminente, soltanto quando la notte con i suoi supposti pericoli aveva ripulito il paese dagli uomini, Grenouille strisciava fuori dal suo nascondiglio e proseguiva nel suo viaggio. Non aveva bisogno di luce per vedere. Già prima, quando ancora camminava di giorno, spesso aveva tenuto gli occhi chiusi per ore e aveva seguito soltanto il suo naso. L’immagine cruda del paesaggio, l’abbagliamento, la subitaneità e la nitidezza del vedere con gli occhi gli facevano male. Sopportava soltanto la luce della luna. La luce della luna non conosceva colori e si limitava a disegnare debolmente i contorni del paesaggio. Ricopriva la campagna di un grigio sporco, e fermava la vita per una notte. Questo mondo come fuso nel piombo, in cui nulla si muoveva tranne il vento, che talvolta passava come un’ombra sui boschi grigi, e in cui nulla viveva se non gli aromi della nuda terra, era l’unico mondo possibile per lui, poiché era simile al mondo della sua anima…

Così si dirigeva verso sud. All’incirca verso sud, dal momento che non seguiva una bussola magnetica, bensì soltanto la bussola del suo naso, che lo portava ad aggirare qualsiasi città, qualsiasi villaggio, qualsiasi insediamento. Per settimane non incontrò un essere umano. E avrebbe potuto cullarsi nel pensiero tranquillizzante di essere solo in quel mondo oscuro o rischiarato dalla luce fredda della luna, se la sua bussola di precisione non lo avesse fatto ricredere.

Anche di notte c’erano persone. Anche nelle regioni più isolate c’erano persone. Si erano soltanto ritirate nelle loro tane come i ratti, e stavano dormendo. La terra non era monda da loro, poiché anche nel sonno esalavano il loro odore, che attraverso le finestre aperte e attraverso le fessure delle loro abitazioni si insinuava nell’aria e contaminava la natura apparentemente abbandonata a se stessa. Quanto più Grenouille si era abituato all’aria pura, tanto più era diventato sensibile a un tale odore umano, che d’un tratto, del tutto inatteso, gli giungeva fluttuando di notte, atroce come un puzzo di liquame, e tradiva la presenza di un rifugio di pastori o di una capanna di carbonai o di un covo di briganti. E fuggiva sempre più lontano, sempre più sensibile all’odore di uomo che diventava sempre più raro. Così il suo naso lo portò in regioni del paese sempre più isolate, lo allontanò sempre più dagli esseri umani e sempre più lo spinse verso il polo magnetico della solitudine estrema.

24

Questo polo, cioé il punto più lontano dagli uomini di tutto il regno, si trovava nel massiccio centrale dell’Auvergne, circa cinque giorni di cammino a sud di Clermont, sulla cima di un vulcano alto duemila metri chiamato Plomb du Cantal.

La montagna consisteva in un enorme cono di roccia grigio-piombo, ed era circondata da un altopiano immenso, brullo, coperto soltanto di muschio grigio e di sterpaglia grigia, da cui qua e là s’innalzavano cime rocciose simili a denti cariati e pochi alberi carbonizzati da incendi. Anche nei giorni più luminosi questa regione era talmente triste e inospitale, che il pecoraio più povero di questa provincia già di per sé povera non vi avrebbe mai condotto le sue bestie. E la notte poi, alla pallida luce della luna, nel suo desolato squallore sembrava appartenere a un altro mondo. Persino il bandito auvergnate Lebrun, che avevano cercato ovunque, aveva preferito inoltrarsi nelle Cevenne e là farsi prendere e squartare piuttosto che nascondersi nel Plomb du Cantal, dove è certo che nessuno l’avrebbe cercato e trovato, ma è ugualmente certo che sarebbe morto di una morte per lui ancor peggiore, quella della solitudine a vita. Per miglia e miglia attorno alla montagna non vivevano né esseri umani né comuni animali a sangue caldo, soltanto qualche pipistrello, qualche coleottero e qualche serpente. Da decenni nessuno aveva scalato la cima.

Grenouille arrivò alla montagna in una notte di agosto dell’anno 1756. Quando spuntò l’alba, era in vetta. Non sapeva ancora che il suo viaggio era finito. Pensava che fosse soltanto una tappa del percorso verso atmosfere sempre più pure, e si girò tutt’intorno e lasciò che il suo naso visionasse l’imponente panorama del deserto vulcanico: a est, dove si trovavano il vasto altopiano di Saint-Flour e le paludi del fiume Riou; a nord, nella regione da cui era venuto e dove aveva vagato per giorni attraversando le montagne carsiche; a ovest, da dove la lieve brezza del mattino gli portava soltanto odore di pietra e di erbe dure; e infine a sud, dove le propaggini del Plomb si estendevano per miglia e miglia fino alle gole tenebrose della Truyère. Ovunque, al limite di tutti i punti cardinali, regnava la medesima lontananza dagli uomini, e nello stesso tempo qualsiasi passo in quella direzione avrebbe significato un maggior avvicinamento agli uomini. La bussola girava in tondo. Non indicava più nessuna direzione. Grenouille era giunto alla meta. Ma nello stesso tempo era prigioniero.

Quando si levò il sole, si trovava ancora nello stesso punto, con il naso in aria. Si sforzava disperatamente di fiutare la direzione da cui poteva provenire il minaccioso odore umano, e la direzione opposta in cui doveva continuare a fuggire. In ogni direzione temeva di scoprire ancora una traccia nascosta di odore umano. Ma non c’era nulla. C’era soltanto pace, la pace, se così si può dire, dell’olfatto. Tutt’attorno regnava soltanto l’aroma uniforme, che aleggiava come un lieve fruscio, delle pietre morte, dei licheni grigi e delle erbe disseccate, null’altro.

Grenouille impiegò molto tempo per credere a ciò di cui non sentiva l’odore. Non era preparato alla sua fortuna. La sua diffidenza lottò a lungo con la sua convinzione. Quando il sole si levò, chiamò in aiuto persino i suoi occhi e perlustrò l’orizzonte cercando un minimo segno di presenza umana, il tetto di una capanna, il fumo di un fuoco, uno steccato, un ponte, un gregge. Portò le mani alle orecchie e ascoltò, cercando di percepire l’affilatura di una falce o l’abbaiare di un cane o il grido di un bambino. Tutto il giorno restò immobile nell’ardente calura sulla cima del Plomb du Cantal, cercando invano il più piccolo indizio. Soltanto al tramonto del sole la sua diffidenza si mutò a poco a poco in una sensazione d’euforia sempre più forte: era sfuggito al detestato odium! Era davvero totalmente solo! Era l’unico uomo al mondo!

Una gioia immensa proruppe in lui. Come un naufrago, dopo un viaggio di settimane alla deriva, saluta estatico la prima isola abitata da esseri umani, così Grenouille festeggiò il suo arrivo sul monte della solitudine. Emise grida di gioia. Gettò lontano da sé zaino, coperta e bastone e pestò i piedi in terra, levò in alto le braccia, danzò in tondo, urlò il proprio nome ai quattro venti, serrò i pugni e li mostrò con trionfo alla terra che si stendeva vasta sotto di lui e al sole calante, con trionfo, come se lui in persona l’avesse scacciato dal cielo. Si comportò come un insensato fino a notte inoltrata.

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Trascorse i giorni seguenti a organizzarsi sulla montagna, perché era deciso a non abbandonare tanto presto quel luogo benedetto. Per prima cosa fiutò attorno cercando l’acqua, e la trovò in una fessura della cima, dove scorreva in un rivolo sottile lungo la roccia. Non era molta, ma dopo aver leccato con pazienza per un’ora, aveva quietato il suo bisogno di liquidi per un giorno. Trovò anche del nutrimento, e cioé piccole salamandre e bisce d’acqua, che inghiottì con pelle e ossa dopo averne staccato la testa a morsi. Inoltre divorò licheni ed erbe e bacche secche. Questo modo di nutrirsi del tutto impensabile secondo le norme borghesi non gli causò il minimo disturbo. Già nelle ultime settimane e negli ultimi mesi non si era più nutrito di cibo preparato con sistemi umani come pane, salsiccia e formaggio, ma, quando sentiva lo stimolo della fame, aveva divorato tutto quello che gli era capitato davanti di comunque commestibile. Era tutto tranne che un buongustaio. Non gli interessava affatto il piacere, quando il piacere consisteva in qualcosa di diverso dal puro odore immateriale. Non gli interessava neppure la comodità, e non gli sarebbe dispiaciuto prepararsi il giaciglio sulla nuda pietra. Ma trovò qualcosa di meglio.

Accanto al punto dell’acqua scoprì una galleria naturale, che con una quantità di serpentine strette conduceva nell’interno della montagna, per poi, dopo circa trenta metri, terminare in un punto ostruito da un crollo. La fine della galleria era talmente stretta che le spalle di Grenouille urtavano contro la roccia, e talmente bassa che riusciva a stare solo piegato. Ma poteva stare seduto, e se si contorceva, poteva persino mettersi disteso. Era più che sufficiente per le sue necessità di comfort. E poi il luogo offriva vantaggi incalcolabili: in fondo al tunnel persino di giorno regnava l’oscurità più profonda, c’era un silenzio di tomba, e l’aria emanava una frescura umida e salata. L’olfatto di Grenouille avvertì subito che nessun essere vivente era mai penetrato in quella caverna. Fu quasi sopraffatto da un sentimento di timor sacro, quando ne prese possesso. Spiegò a terra con cura la sua coperta da cavallo come se coprisse un altare, e vi si stese sopra. Si sentiva divinamente bene. Si trovava nella montagna più solitaria della Francia, a decine di metri di profondità sotto terra, come nella propria tomba. Non si era mai sentito così al sicuro in vita sua… nel ventre di sua madre no di certo. Che il mondo esterno andasse pure in fiamme, qui non si sarebbe accorto di nulla. Cominciò a piangere in silenzio. Non sapeva chi ringraziare per tanta felicità.

Nel periodo seguente uscì all’aperto soltanto per andare a leccare un po’ d’acqua, per liberarsi in fretta della sua orina e dei suoi escrementi e per cacciare sauri e serpenti. Di notte si potevano prendere facilmente, perché si rifugiavano sotto lastre di pietra o in piccole cavità, dove Grenouille li scopriva col proprio naso.

Durante le prime settimane salì ancora qualche volta fino alla cima per fiutare l’orizzonte. Ma presto divenne più una fastidiosa abitudine che una necessità, perché non una sola volta gli era capitato di annusare un pericolo. Così alla fine sospese le sue escursioni, e, dopo aver portato con sé le cose di prima necessità per la pura sopravvivenza, cercava soltanto di rientrare nella sua tomba il più rapidamente possibile. Perché qui, nella sua tomba, viveva veramente. Vale a dire che stava seduto più di venti ore al giorno sulla sua coperta da cavallo in fondo al corridoio di pietra nell’oscurità, nel silenzio e nell’immobilità totali, la schiena appoggiata contro i detriti, le spalle incassate tra le rocce, e bastava a se stesso.

Si sa di uomini che cercano la solitudine: penitenti, falliti, santi o profeti. Si ritirano di preferenza nel deserto, dove vivono di locuste e di miele selvatico. Molti vivono anche in grotte e in eremi su isole fuori mano, oppure si rannicchiano — spettacolare davvero! — entro gabbie, montate in alto su stanghe e oscillanti nell’aria. Lo fanno per essere più vicini a Dio. Si mortificano con l’isolamento, e se ne servono per far penitenza. Agiscono nella convinzione di condurre una vita gradita a Dio. Oppure aspettano per mesi o anni che nell’isolamento giunga loro un messaggio divino, che poi vogliono diffondere il più rapidamente possibile tra gli uomini.

Nulla di tutto questo valeva per Grenouille. Dio non gli passava neanche per la testa. Non faceva penitenza e non si aspettava illuminazioni dall’alto. Si era isolato dagli uomini soltanto per il proprio particolare piacere, soltanto per essere vicino a se stesso. Era immerso nella propria esistenza, non più distratta da altre cose, e lo trovava splendido. Giaceva nella tomba di roccia come il cadavere di se stesso, respirando appena, quel tanto da far battere il suo cuore… e tuttavia viveva in modo così intenso e sfrenato, come mai un uomo di mondo aveva vissuto nel mondo.

26

Teatro di queste sfrenatezze era — e come avrebbe potuto essere altrimenti! — il suo impero interiore, in cui aveva sepolto i tratti fondamentali di tutti gli odori nei quali si era imbattuto. Al fine di rallegrarsi l’animo, evocò dapprima gli odori più antichi, più remoti: l’esalazione fumosa e ostile della camera da letto di Madame Gaillard; l’odore secco e coriaceo delle sue mani; il fiato dal sentore d’aceto di padre Terrier; il sudore isterico, caldo e materno della balia Bussie; il puzzo di cadaveri del Cimetière des Innocents; l’odore d’assassina di sua madre. E sguazzava nel disgusto e nell’odio, e gli si rizzavano i capelli in testa di piacevole orrore.

Talvolta, quando questo aperitivo di nefandezze non lo aveva animato a sufficienza, si permetteva anche una piccola digressione su Grimal, e gustava il puzzo delle pelli grezze, carnose, e delle conce, oppure immaginava le esalazioni riunite di seicentomila parigini nella calura afosa e opprimente della piena estate.

E poi d’un tratto — questo era il senso dell’esercizio — il suo odio accumulato erompeva con potenza orgiastica. Piombava come un temporale su questi odori che si erano permessi di offendere il suo illustre naso. Li tempestava come fa la grandine su un campo di grano, polverizzava quelle carogne come un uragano e le annegava in un immenso diluvio purificatore di acqua distillata. Così giusta era la sua collera. Così grande la sua vendetta. Ah! Che momento sublime! Grenouille, quel piccolo uomo, tremava dall’eccitazione, il suo corpo si torceva in voluttuoso piacere e s’inarcava verso l’alto, dimodoché per un momento urtava con la testa contro il tetto della galleria, per poi ricadere lentamente indietro e rimanere disteso, rilassato e profondamente soddisfatto. Era davvero troppo piacevole questo gesto eruttivo di estinzione di tutti gli odori sgradevoli, davvero troppo piacevole… Questo numero era quasi il preferito in tutta la successione scenica del suo grande teatro interiore, poiché comunicava quel sentimento meraviglioso del giusto sfinimento che fa seguito soltanto alle imprese davvero importanti, eroiche.

Ora poteva riposarsi per un poco con la coscienza a posto. Si stese, con il suo corpo, per quanto gli era possibile, in quell’angusta stanza di pietra. Ma dentro di sé, sulle praterie ripulite del suo animo, si stese comodamente in tutta la sua lunghezza e si mise a fantasticare, lasciandosi solleticare il naso da profumi raffinati: una brezza aromatica, portata dai prati a primavera; un tiepido vento di maggio, che scorre attraverso le prime foglie verdi dei faggi; una brezza marina, acre come le mandorle salate. Era il tardo pomeriggio, quando si levò… tardo pomeriggio per così dire, perché naturalmente non c’erano né pomeriggio né mattina, né alba né tramonto, non c’era luce e non tenebra, non c’erano neppure prati di primavera, né foglie verdi di faggi… nell’universum interiore di Grenouille non esistevano affatto le cose, bensì soltanto i profumi delle cose. (Quindi parlare di questo universum come di un paesaggio è una façon de parler, sicuramente adeguata e l’unica possibile, perché la nostra lingua è inadatta a descrivere il mondo percepibile con l’olfatto.) Era comunque il tardo pomeriggio, intendo una condizione e un momento dell’animo di Grenouille simili a quelli che si verificano al sud alla fine della siesta, quando la paralisi del mezzogiorno si ritira poco a poco dal paesaggio e la vita trattenuta vuole ricominciare. La furente calura — nemica degli aromi sublimi — si era dileguata, la marmaglia diabolica era stata sgominata. Le contrade interne erano nude e docili nella quiete lasciva del risveglio, e attendevano che la volontà del loro signore si manifestasse.

E Grenouille si levò — come abbiamo detto — e si scosse il sonno dalle membra. Stava in piedi, il grande Grenouille interiore, ritto come un gigante, in tutta la sua magnificenza e grandezza, splendido a vedersi — quasi un peccato che nessuno lo vedesse! — e si guardava attorno, fiero e maestoso.

Sì! Questo era il suo regno! Il regno incomparabile di Grenouille! Creato e dominato da lui, l’incomparabile Grenouille, saccheggiato da lui, a suo piacimento, e poi riedificato, esteso da lui nell’incommensurabile e difeso con la spada fiammeggiante contro qualsiasi intruso. Qui vigeva unicamente la sua volontà, la volontà del grande, meraviglioso, incomparabile Grenouille. E dopo aver annientato i cattivi odori del passato, ora voleva soltanto che il suo regno esalasse profumi. E andò con passo possente per i campi a maggese e seminò profumi delle specie più diverse, qua in abbondanza, là con parsimonia, in piantagioni di enorme vastità e in piccole aiuole intime, spargendo i semi a pugni o interrandoli a uno a uno in luoghi appositamente scelti. Fin nelle regioni più remote del suo regno imperversò il Grande Grenouille, il folle giardiniere, e presto non ci fu più angolo in cui non avesse gettato un granulo di profumo.

E quando vide che ciò era bene e che tutto il paese era invaso dal divino seme di Grenouille, il Grande Grenouille fece scendere una pioggia di alcool etilico, lieve e continua, e tutto ovunque cominciò a germogliare e a spuntare, e la semenza germinò, sicché il cuore ne gioiva. Già le piantagioni erano tutte un rigoglioso ondeggiare, e nei giardini nascosti gli steli erano in succhio. Le gemme dei fiori quasi scoppiavano dal loro involucro.

Allora il Grande Grenouille ordinò alla pioggia di fermarsi. E ciò avvenne. Ed egli inviò alla terra il sole tiepido del suo sorriso, grazie al quale, d’un tratto, sbocciarono milioni di fiori in tutto il loro splendore, da un capo all’altro del regno, in un unico tappeto variopinto tessuto con miriadi di flaconi di prezioso profumo. E il Grande Grenouille vide che ciò era bene, molto, molto bene. E alitò sopra la terra. E i fiori, accarezzati, diffusero profumo e unirono le loro miriadi di profumi in un universale profumo di omaggio, fatto di un alternarsi sempre mutevole e tuttavia costante, a lui, il Grande, l’Unico, il Meraviglioso Grenouille, ed egli, troneggiante su un’odorosa nuvola d’oro, questa volta inspirò con le narici, e l’odore del sacrificio gli era gradito. E si degnò di benedire la sua creazione più volte, ed essa lo ringraziò con giubilo ed esultanza e reiterati getti di sublime profumo. Nel frattempo era calata la sera, e i profumi si diffusero nell’aria e nel blu della notte si unirono in note sempre più fantastiche. Era imminente una vera e propria notte danzante con grandi, giganteschi fuochi d’artificio profumati.

Ma ora il Grande Grenouille era un po’ stanco, e sbadigliò e parlò: «Ecco, ho compiuto una grande opera e mi piace molto. Ma, come tutto ciò che è finito, comincia ad annoiarmi. Mi ritirerò, e per congedarmi da questo giorno laborioso, mi godrò ancora una piccola gioia nei recessi del mio cuore».

Così parlò il Grande Grenouille, e mentre sotto di lui il semplice popolo dei profumi danzava e faceva festa, volò ad ali spiegate giù dalla nuvola d’oro e, attraverso il paesaggio notturno della sua anima, tornò a casa, nel suo cuore.

27

Ah! com’era piacevole tornare a casa! Il duplice compito di vendicatore e generatore di mondi affaticava non poco, e lasciarsi poi festeggiare per ore dalla propria prole non era certo il riposo migliore. Stanco degli obblighi della creazione e della rappresentazione divina, il Grande Grenouille aveva nostalgia delle gioie domestiche.

Il suo cuore era un castello purpureo. Giaceva in un deserto di pietra, nascosto da dune, circondato da un’oasi di fango e dietro sette mura di pietra. Si poteva raggiungere soltanto in volo. Possedeva mille stanze e mille cantine e mille eleganti salotti, uno dei quali era provvisto di un semplice divano purpureo, sul quale Grenouille, che adesso non era più il Grande Grenouille, bensì il Grenouille del tutto privato o semplicemente il caro Jean-Baptiste, soleva riposare dalle fatiche del giorno.

Ma nelle stanze del castello c’erano scaffali da terra fino al soffitto, e là si trovavano tutti gli odori che Grenouille aveva raccolto nel corso della sua vita, molti milioni. E nelle cantine del castello c’erano botti che contenevano i migliori profumi della sua vita. Quando erano giunti a maturazione, venivano travasati in bottiglie collocate poi in corridoi freschi e umidi lunghi chilometri, ordinate secondo l’annata e la provenienza, e ce n’erano tante, che non bastava una vita per gustarle tutte.

E quando il caro Jean-Baptiste, finalmente rientrato nel suo chez soi, si era steso sul suo semplice divano domestico nel salotto purpureo — aveva infine tolto gli stivali, per così dire — batteva le mani e chiamava i suoi servi, che erano invisibili, impalpabili, impercettibili e inodori, cioé servi del tutto immaginari, e ordinava loro di recarsi nelle stanze e di prendere questo o quel volume dalla grande biblioteca degli odori, e di scendere in cantina per portargli da bere. Si affrettavano, i servi immaginari, e lo stomaco di Grenouille si torceva in tormentosa attesa. D’un tratto si sentiva come un beone davanti al banco di mescita, colto dalla paura che per qualche ragione gli possano rifiutare il bicchierino d’acquavite ordinato. Che cosa sarebbe accaduto se di colpo le cantine e le stanze fossero state vuote, se il vino nelle botti si fosse guastato? Perché lo facevano aspettare? Perché non arrivavano? Aveva bisogno di quella roba subito, ne aveva bisogno con urgenza, la bramava, sarebbe morto all’istante se non l’avesse avuta.

Ma calma, Jean-Baptiste! Calma, mio caro! Verranno, porteranno ciò che desideri. I servi già arrivano in volo. Su un vassoio invisibile portano il libro degli odori, con mani invisibili biancoguantate portano le preziose bottiglie, le depongono con estrema cautela, s’inchinano e scompaiono.

E lasciato di nuovo solo — finalmente! — Jean-Baptiste afferra gli odori desiderati, apre la prima bottiglia, si mesce un bicchiere fino all’orlo, lo porta alle labbra e beve. Beve il bicchiere di odore fresco in un sol colpo, ed è squisito! È così buono, così liberante, che il buon Jean-Baptiste ha gli occhi pieni di lacrime di gioia, e subito si mesce il secondo bicchiere di questo aroma: un aroma dell’anno 1752, colto in primavera prima del tramonto sul Pont Royal, con il naso rivolto a ovest, da dove giungeva una leggera brezza frammista di odore di mare, odore di bosco e lieve odor di catrame delle barche ormeggiate a riva. Era l’aroma di quella prima notte prossima alla fine che aveva trascorso a Parigi vagabondando senza il permesso di Grimal. Era l’odore fresco del giorno che si avvicinava, della prima alba vissuta in libertà. Quell’odore allora gli aveva promesso la libertà. Gli aveva promesso una vita diversa. L’odore di quel mattino per Grenouille era un odore di speranza. Lo serbava con cura. E ogni giorno ne beveva un poco.

Dopo aver vuotato il secondo bicchiere, svanirono tutti i suoi nervosismi, svanirono i dubbi e le incertezze, e una quiete meravigliosa s’impossessò di lui. Premette la schiena contro i soffici cuscini del divano, aprì un libro e cominciò a leggere nei suoi ricordi. Lesse degli odori della sua infanzia, degli odori della scuola, degli odori delle strade e degli angoli della città, degli odori umani. Ed era scosso da brividi piacevoli, perché erano proprio gli odori odiati, quelli che aveva scacciato, a essere evocati. Con interesse e ripugnanza Grenouille leggeva nel libro degli odori disgustosi, e quando l’avversione prevaleva sull’interesse, si limitava a chiudere il libro, lo metteva via e ne prendeva un altro.

Nel frattempo beveva senza tregua nobili aromi. Dopo la bottiglia con l’aroma della speranza, ne stappò una dell’anno 1744, piena del caldo odore del legno che si trovava davanti alla casa di Madame Gaillard. E dopo questa bevve una bottiglia di un aroma di sera estiva, carico di profumi e olezzante di fiori, raccolto al margine di un parco a Saint-Germain-des-Prés, anno 1753.

Adesso era traboccante di profumi. Le sue membra affondavano sempre più nei cuscini. Il suo spirito s’inebriava meravigliosamente. E tuttavia non era ancora giunto alla fine del banchetto. In verità i suoi occhi non riuscivano più a leggere, da tempo il libro gli era scivolato dalle mani: ma non voleva concludere la serata senza aver prima vuotato l’ultima bottiglia, la più squisita: era l’aroma della fanciulla di Rue des Marais…

Lo bevve con raccoglimento, e a tale scopo si mise ritto sul divano, sebbene ciò gli costasse fatica, perché a ogni movimento il salotto purpureo oscillava e girava attorno a lui. In atteggiamento da scolaro — le ginocchia premute l’una contro l’altra, i piedi uniti, la mano sinistra appoggiata sulla coscia sinistra — così il piccolo Grenouille bevve l’aroma più prezioso delle cantine del suo cuore, un bicchiere dopo l’altro, e nel frattempo divenne sempre più triste. Sapeva che stava bevendo troppo. Sapeva che non avrebbe sopportato tanta bontà. E tuttavia bevve fino a vuotare la bottiglia: attraversò il passaggio buio che dalla strada portava al cortile interno. Si diresse verso la luce. La fanciulla era seduta e apriva le mirabelle con il coltello. Da lontano esplodevano i razzi e i petardi dei fuochi d’artificio…

Depose il bicchiere e restò seduto ancora qualche minuto, come impietrito dal sentimentalismo e dall’ubriachezza, fino a che anche l’ultimo residuo di sapore scomparve dalla sua lingua. Guardava con occhi fissi dinanzi a sé. D’un tratto il suo cervello si era svuotato come le bottiglie. Poi si rovesciò di lato sul divano purpureo e piombò da un momento all’altro in un torpido sonno.

Nello stesso momento anche il Grenouille esterno si addormentò sulla sua coperta da cavallo. E il suo sonno fu altrettanto profondo quanto quello del Grenouille interno, perché le imprese erculee e gli eccessi di quest’ultimo avevano sfinito allo stesso modo anche l’altro: dopo tutto entrambi erano sempre la stessa e unica persona.

In ogni modo, quando si svegliò non si svegliò nel salotto purpureo del suo castello purpureo dietro le sette mura, e neppure nelle contrade profumate di primavera della sua anima, bensì soltanto nella segreta di pietra alla fine del tunnel, sulla dura terra e nell’oscurità. E si sentiva malissimo per la fame e per la sete, e infreddolito e miserabile come un beone incallito dopo una notte trascorsa in gozzoviglie. Strisciò fuori della galleria a carponi.

Fuori era un’ora qualsiasi del giorno, forse l’inizio o la fine della notte, ma anche a mezzanotte la chiarità della luce siderale trafiggeva i suoi occhi come una punta di spillo. L’aria gli sembrava polverosa, pungente, gli irritava i polmoni, il paesaggio era duro, Grenouille inciampava contro le pietre. E anche gli odori più delicati sembravano acri e corrosivi al suo naso disabituato al mondo. Grenouille, la zecca, era diventato sensibile come un granchio che ha lasciato il suo guscio e di notte vaga per il mare.

Si diresse verso il punto dell’acqua, leccò l’umidità dalla parete per una, due ore, era una tortura, il tempo non passava mai, quel tempo in cui il mondo reale gli bruciava la pelle. Strappò qualche brandello di muschio dalle pietre, lo inghiottì di furia, si accucciò, cagò mentre mangiava — in fretta, in fretta, tutto doveva accadere in fretta — e, come se fosse stato un piccolo animale dalla carne tenera e in cielo stessero già volando in cerchio i rapaci, tornò di corsa alla sua caverna e s’inoltrò sino alla fine della galleria, dove c’era la sua coperta da cavallo. Qui finalmente era di nuovo al sicuro.

Si appoggiò contro il cumulo di detriti, allungò le gambe e attese. Ora doveva tenere il corpo totalmente immobile, immobile come una botte che per troppo movimento rischia di traboccare. A poco a poco riuscì a dominare il respiro. Il suo cuore agitato prese a battere più lento e l’onda interna di marea si placò lentamente. E d’un tratto la solitudine calò sul suo animo come una nera superficie di specchio. Chiuse gli occhi. La porta oscura del suo io si spalancò, ed egli vi entrò. La successiva rappresentazione del teatro interiore di Grenouille ebbe inizio.

28

Così avvenne giorno per giorno, settimana per settimana, mese per mese. Così avvenne per sette anni interi.

Durante questo periodo nel mondo esterno c’era la guerra, e precisamente una guerra mondiale. Si combatté in Slesia e in Sassonia, ad Hannover e nel Belgio, in Boemia e in Pomerania. Le truppe del re morirono nell’Essen e in Westfalia, nelle Baleari, in India, nel Mississippi e nel Canada, quando non erano già morte di tifo durante il viaggio d’andata. La guerra costò la vita di un milione di uomini, al re di Francia costò il suo impero coloniale, e a tutti gli Stati partecipanti tanto denaro che essi infine col cuore oppresso decisero di porvi termine.

Durante questo periodo una volta, d’inverno, Grenouille stava per morire congelato senza accorgersene. Restò cinque giorni nel salotto purpureo, e quando si svegliò nella galleria non riusciva più a muoversi dal freddo. Richiuse subito gli occhi per dormire fino alla morte. Ma poi ci fu un improvviso aumento della temperatura, che lo sgelò e lo salvò.

Una volta la neve era così alta che non ebbe più la forza di trascinarsi fino ai licheni. Allora si nutrì di pipistrelli congelati.

Un’altra volta un corvo morto giaceva davanti alla grotta. Mangiò anche quello. Furono gli unici avvenimenti del mondo esterno di cui prese conoscenza in sette anni. Per il resto visse soltanto nella sua montagna, soltanto nel regno della sua anima da lui stesso creato. E sarebbe rimasto là fino alla morte (poiché nulla gli mancava), se non si fosse verificata una catastrofe, che l’avrebbe scacciato dalla montagna e risputato nel mondo.

29

La catastrofe non fu un terremoto, né un incendio del bosco, né una frana, né un crollo della galleria. Non fu affatto una catastrofe esterna, bensì interna, e quindi tanto più grave, in quanto bloccò la via di scampo privilegiata di Grenouille. Avvenne nel sonno. Per meglio dire in sogno. O piuttosto, nel sogno nel sonno nel cuore nella sua fantasia.

Era disteso sul divano nel salotto purpureo e dormiva. Intorno a lui c’erano le bottiglie vuote. Aveva bevuto enormemente, alla fine addirittura due bottiglie del profumo della fanciulla dai capelli rossi. Probabilmente era stato eccessivo, perché il suo sonno, per quanto di una profondità simile alla morte, questa volta non fu privo di sogni, bensì pervaso da scie di sogni spettrali. Queste scie erano tracce chiaramente riconoscibili di un odore. Dapprima passarono sotto il naso di Grenouille in traiettorie sottili, poi divennero più dense, come nubi. Adesso era come se si trovasse in mezzo a una palude, da cui saliva la nebbia. La nebbia saliva lenta sempre più in alto. Presto Grenouille fu completamente avvolto dalla nebbia, intriso di nebbia, e tra i vapori della nebbia non c’era più un filo d’aria pura. Se non voleva soffocare, doveva respirare questa nebbia. E la nebbia era, come si è detto, un odore. E Grenouille sapeva anche quale odore. La nebbia era il suo odore personale. L’odore personale di lui, di Grenouille, questo era la nebbia.

E ora la cosa più spaventosa era che Grenouille, sebbene sapesse che quest’odore era il suo odore, non riusciva a sentirlo. Totalmente sommerso dal suo sé, per nulla al mondo riusciva a sentire il proprio odore!

Quando lo capì con chiarezza, dette in un grido terribile, come se stesse bruciando vivo. Il grido fece crollare le pareti del salotto purpureo, le mura del castello, gli uscì dal cuore e attraversò fossati e paludi e deserti, imperversò per il paesaggio notturno della sua anima come una tempesta di fuoco, tuonò dalla sua bocca attraverso la tortuosa galleria e risuonò fuori nel mondo, lontano, oltre l’altopiano di Saint-Flour… come se la montagna stessa gridasse. E Grenouille si svegliò al proprio grido. Mentre si svegliava, annaspò furiosamente attorno a sé, come se avesse dovuto scacciare la nebbia invisibile che voleva soffocarlo. Era spaventato a morte, tremava da capo a piedi, di pura angoscia mortale. Se il grido non avesse lacerato la nebbia, sarebbe annegato in se stesso: uria morte atroce. Gli venivano i brividi a ripensarci. E mentre era ancora seduto, tremante, e cercava di radunare i suoi pensieri confusi e angosciati, sapeva già una cosa con certezza assoluta: avrebbe cambiato vita, foss’anche solo per non sognare un sogno così atroce una seconda volta. Non avrebbe retto a una seconda volta.

Si gettò sulle spalle la coperta da cavallo e strisciò fuori all’aperto. Fuori era giusto mattina, una mattina di fine febbraio. Il sole splendeva. La terra sapeva di pietra umida, di muschio e d’acqua. Il vento portava già con sé un lieve profumo di anemoni. Davanti alla caverna si accucciò a terra. La luce del sole lo scaldava. Inspirò l’aria fresca. Rabbrividiva ancora ripensando alla nebbia a cui era sfuggito, ed ebbe un fremito di piacere quando sentì il calore sulla schiena. Era pur bello che questo mondo esterno continuasse a esistere, foss’anche soltanto come punto di fuga. Inconcepibile l’orrore, se all’uscita dalla caverna non avesse più trovato un mondo! Non una luce, non un odore, nulla di nulla: soltanto quell’orribile nebbia, dentro, fuori, ovunque…

A poco a poco lo shock passò. A poco a poco la morsa dell’angoscia si allentò, e Grenouille cominciò a sentirsi più sicuro. Verso mezzogiorno aveva riacquistato il suo sangue freddo. Mise sotto il naso il dito indice e il medio della mano sinistra e respirò attraverso il dorso delle dita. Sentì l’aria di primavera, umida e sapida di anemoni. Dalle proprie dita non sentì provenire odore. Girò la mano e fiutò il suo lato interno. Avvertì il calore della mano, ma non sentì alcun odore. Allora si rimboccò una manica della camicia e affondò il naso nell’incavo del gomito. Sapeva che questo era il punto in cui tutti gli esseri umani hanno odore di sé. Tuttavia non sentì odore alcuno. Non sentì nulla neppure sotto la sua ascella, nulla sui piedi, nulla sul sesso, verso il quale si chinò per quanto poteva. Era grottesco: lui, Grenouille, che riusciva a fiutare qualsiasi altro essere umano a distanza di miglia, non era in grado di sentire l’odore del proprio sesso a distanza di meno di una spanna! Ciò nonostante non si lasciò prendere dal panico, ma, riflettendo con calma, disse a se stesso: «Non è che io non abbia odore, perché tutto ha un odore. Piuttosto non sento l’odore che ho perché da quando sono nato ho sentito il mio odore ogni giorno, e quindi il mio naso è diventato insensibile al mio odore personale. Se potessi separare da me il mio odore, o almeno una parte di esso, e tornare ad annusarlo dopo un certo periodo di disassuefazione, riuscirei a sentirlo — e quindi a sentirmi — perfettamente».

Posò a terra la coperta da cavallo e si tolse i vestiti, o per lo meno ciò che ancora era rimasto dei suoi vestiti, i brandelli, gli stracci. Non se li era tolti di dosso per sette anni. Dovevano essere impregnati del suo odore da cima a fondo. Li ammucchiò l’uno sull’altro davanti all’ingresso della caverna e si allontanò. Poi, per la prima volta dopo sette anni, risalì di nuovo sulla cima della montagna. Là si fermò di nuovo nello stesso punto in cui si era fermato un tempo al suo arrivo, volse il naso a ovest e lasciò fischiare il vento attorno al suo corpo nudo. Era sua intenzione esporsi tutto all’aria, impregnarsi totalmente nel vento dell’ovest — il che significava dell’odore del mare e delle praterie umide — in modo tale che esso prevalesse sull’odore del suo corpo e quindi potesse crearsi un dislivello olfattivo tra lui, Grenouille, e i suoi vestiti, che lui poi avrebbe potuto percepire chiaramente. E affinché al suo naso arrivasse la minima quantità possibile del suo odore, chinò in avanti la parte superiore del corpo, allungò il collo per quanto poteva nella direzione del vento e stese le braccia all’indietro. Aveva l’aspetto di un nuotatore che sta per buttarsi in acqua.

Rimase immobile parecchie ore in questa posizione estremamente ridicola, per cui la sua pelle, disabituata al sole e bianca come quella di un verme, benché il sole fosse debole, si colorò di un rosso-aragosta. Verso sera ridiscese in direzione della caverna. Già da lontanto vide il mucchio dei suoi vestiti. Durante gli ultimi metri si turò il naso e lo stappò di nuovo soltanto dopo averlo abbassato a contatto del mucchio. Provò ad annusare come aveva imparato da Baldini, inspirò l’aria in un colpo e la lasciò uscire a tappe. Per trattenere l’odore, mise entrambe le mani a campana sopra i vestiti, e in essa affondò il naso come fosse un batacchio. Fece tutto il possibile per tirar fuori il proprio odore dai vestiti. Ma lì il suo odore non c’era. Decisamente non c’era. C’erano mille altri odori. Odore di pietra, di sabbia, di muschio, di resina, di sangue di corvo… si percepiva ancora con chiarezza persino l’odore della salsiccia che aveva acquistato anni prima vicino a Sully. I vestiti contenevano un diario olfattorio degli ultimi anni sulla montagna. L’unica cosa che non contenevano era il suo odore personale, l’odore di colui che nel frattempo li aveva portati ininterrottamente.

Allora cominciò a provare una certa ansia. Il sole era tramontato. Stava ritto, nudo, accanto all’ingresso del tunnel, nel cui fondo buio aveva vissuto per sette anni. Il vento soffiava gelido, e aveva freddo, ma non s’accorgeva d’aver freddo, perché in lui c’era il contrario del freddo, cioé la paura. Non era la stessa paura che aveva provato in sogno, quella paura atroce dell’essere-soffocato-da-se-stesso, che bisognava scuotersi di dosso a ogni costo a cui era riuscito a sfuggire. Ciò che provava adesso era la paura di non conoscere bene se stesso. Era l’opposto dell’altra paura. A essa non poteva sfuggire, doveva invece affrontarla. Doveva sapere senza alcun dubbio — anche se questo riconoscimento era terribile — se possedeva un odore oppure no. E doveva saperlo immediatamente. Subito.

S’inoltrò di nuovo nella galleria. Già dopo pochi metri fu circondato dalla totale oscurità, ma si trovò a suo agio, come in piena luce. Aveva percorso la stessa via migliaia di volte, conosceva ogni passo e ogni curva, riconosceva all’odore ogni punta rocciosa pendente e ogni minima sporgenza di pietra. Trovare la via non era difficile. Difficile era lottare contro il ricordo del sogno claustrofobico, che saliva in lui sempre più, come l’onda di una marea, man mano che procedeva. Tuttavia si faceva coraggio. O meglio, con la paura di non sapere combatteva la paura di sapere, e la superava, perché sapeva di non avere scelta. Quando giunse alla fine della galleria, là dove si ergeva il cumulo di detriti, entrambe le paure lo abbandonarono. Si sentiva tranquillo, la sua mente era del tutto lucida e il suo naso aguzzo come uno scalpello. Si accucciò a terra, coprì gli occhi con le mani e annusò. In questo luogo, in questa tomba di pietra lontana dal mondo, aveva vissuto disteso per sette anni. Se un luogo al mondo poteva sapere di lui, doveva essere questo. Respirò lentamente. Verificò con attenzione. Si prese tempo per giudicare. Rimase accucciato per un quarto d’ora. Aveva una memoria infallibile e sapeva con certezza quello che aveva annusato sette anni prima nello stesso punto: odore di pietra e di frescura umida e salata, e così pura che nessun essere vivente, uomo o animale, poteva mai essere arrivato in quel luogo… Esattamente l’odore di adesso.

Rimase accucciato ancora per un poco, molto tranquillo, annuendo soltanto lievemente con il capo. Poi si girò e andò verso l’esterno, dapprima curvo, poi, quando l’altezza della galleria lo permise, in posizione eretta.

Fuori indossò i suoi stracci (le sue scarpe erano marcite già da anni), si mise sulle spalle la coperta da cavallo e quella notte stessa abbandonò il Plomb du Cantal, dirigendosi a sud.

30

Aveva un aspetto orribile. I capelli gli arrivavano fino alle ginocchia, la barba, pur se non folta, fino all’ombelico. Le sue unghie erano come artigli d’uccello, e sulle braccia e le gambe, dove gli stracci non arrivavano a coprire il corpo, la pelle gli cadeva a brandelli.

I primi uomini in cui s’imbatte, contadini in un campo vicino alla città di Pierrefort, corsero via gridando, quando lo videro. Nella città stessa invece fece sensazione. Le persone si radunarono a centinaia per fissarlo a bocca aperta. Più d’uno lo prese per un galeotto fuggito. Molti dissero che non era un vero e proprio essere umano, bensì un misto tra un uomo e un orso, una sorta di creatura dei boschi. Uno, che un tempo era stato per mare, affermò che aveva l’aria di appartenere a una tribù selvaggia di indigeni della Caienna, che si trovava al di là del grande oceano. Lo condussero davanti al maire. Là, con stupore dei presenti, egli esibì il suo diploma di garzone, aprì la bocca, e con parole un po’ gorgoglianti — erano infatti le prime parole che pronunciava dopo una pausa di sette anni — ma ben comprensibili, raccontò che durante il viaggio era stato sorpreso dai briganti, rapito e tenuto prigioniero in una caverna per sette anni. Durante questo periodo non aveva visto né la luce del sole né un essere umano, era stato nutrito mediante un cesto deposto nell’oscurità da una mano invisibile e infine liberato con una scala a pioli, senza sapere perché e senza aver mai visto i suoi rapitori o i suoi salvatori. Aveva escogitato questa storia perché gli sembrava più credibile della verità, e in effetti lo era, dato che simili attacchi briganteschi non erano affatto rari nelle montagne dell’Auvergne, della Languedoc e nelle Cevenne. Comunque il maire la mise prontamente a verbale e riferì l’accaduto al marchese de la Taillade-Espinasse, feudatario della città e membro del Parlamento a Tolosa.

Fin dai quarant’anni, il marchese aveva girato le spalle alla vita di corte di Versailles, si era ritirato nei suoi possedimenti e là aveva vissuto per le scienze. Dalla sua penna era uscita un’importante opera sull’economia nazionale dinamica, nella quale proponeva l’abolizione di tutte le imposte sulla proprietà terriera e sui prodotti agricoli, come pure l’introduzione di un’imposta sul reddito progressiva al contrario, che colpisse più duramente i più poveri, costringendoli in tal modo a sviluppare maggiormente le loro attività economiche. Incoraggiato dal successo del libretto, redasse un trattato sull’educazione di giovanetti e giovanette in età tra i cinque e i dieci anni, quindi si rivolse all’agricoltura sperimentale e tentò di coltivare un prodotto ibrido animal-vegetale per ottenere il latte, una specie di fiore-mammella, trasferendo sperma di toro su diverse specie d’erba. Dopo alcuni successi iniziali, che lo misero in grado persino di produrre un formaggio fatto di latte erbaceo, il quale fu definito dall’Accademia Scientifica di Lione «di gusto caprino, anche se leggermente più amaro», dovette sospendere i suoi tentativi a causa dei costi enormi dello sperma di toro sparso a ettolitri sui campi. Comunque, l’occuparsi di problemi biologico-agrari aveva destato il suo interesse non soltanto per la cosiddetta zolla di terra, bensì per la terra in generale e per il suo rapporto con la biosfera.

Aveva appena terminato i lavori pratici sul fiore che produceva latte, che si buttò tutto con indomito slancio da scienziato in un grosso saggio sui nessi tra la vicinanza alla terra e l’energia vitale. Sosteneva la tesi che la vita potesse svilupparsi soltanto a una certa distanza dalla terra, poiché la terra stessa emanava di continuo un gas di putrefazione, un cosiddetto «fluidum letale», che paralizzava le energie vitali e prima o poi portava definitivamente alla morte. Per questo tutte le cose vive tendevano ad allontanarsi dalla terra con la crescita, cioé crescevano di là da essa e non dentro di essa; per questo protendevano verso il cielo le loro parti più preziose: il grano la spiga, il fiore i suoi petali, l’uomo la testa; e sempre per questo, quando l’età li incurvava e li piegava di nuovo verso terra, dovevano necessariamente soggiacere al gas letale, nel quale infine dopo la morte si trasformavano anch’essi mediante il processo di decomposizione.

Quando all’orecchio del marchese de la Taillade-Espinasse giunse la notizia che a Pierrefort avevano trovato un individuo che aveva dimorato per sette anni in una caverna — quindi totalmente circondato dalla terra, elemento di putrefazione — egli non stette più nella pelle dall’entusiasmo, e ordinò subito che portassero Grenouille nel suo laboratorio, dove lo sottopose a un’analisi minuziosa. Trovò la sua teoria confermata con la massima evidenza: il «fluidum letale» aveva già colpito Grenouille al punto che il suo corpo di ventincinquenne manifestava chiaramente fenomeni di decadenza senile. Soltanto la circostanza — spiegò Taillade-Espinasse — che a Grenouille durante la sua prigionia avessero somministrato cibo proveniente da piante lontane dalla terra, probabilmente pane e frutta, gli aveva impedito di morire. Ora il precedente stato di salute si poteva ripristinare soltanto espellendo radicalmente il «fluidum» mediante un apparecchio di ventilazione ad aria vitale escogitato da lui, Taillade-Espinasse. Un simile apparecchio si trovava nel sottotetto del suo palazzo di città a Montpellier, e se Grenouille era pronto a mettersi a disposizione quale oggetto di dimostrazione scientifica, lui non soltanto l’avrebbe liberato dalla sua immediata infezione da gas naturale, ma gli avrebbe anche regalato una bella somma di denaro…

Due ore dopo erano seduti in carrozza. Sebbene le strade si trovassero in condizioni miserabili, percorsero le sessantaquattro miglia per arrivare a Montpellier in due giorni giusti, perché il marchese, nonostante l’età avanzata, non poté esimersi dal frustare di persona cocchiere e cavalli e dal dare una mano anche lui in molti casi di rottura di stanghe e molle: tanto era entusiasta della sua scoperta, tanto era desideroso di presentarla al più presto a un dotto pubblico. Grenouille invece non ebbe il permesso di lasciare la carrozza neppure una volta. Dovette restar seduto con i suoi stracci indosso, completamente avvolto in una coperta intrisa di terra umida e di argilla. Durante il viaggio ricevette per cibo radici crude. In tal modo il marchese sperava di conservare nella condizione ideale ancora per qualche tempo l’infezione da «fluidum» terrestre.

Giunto a Montpellier, fece subito trasportare Grenouille nella cantina del suo palazzo, spedì inviti a tutti i membri della facoltà di medicina, del circolo dei botanici, della scuola agraria, della federazione dei chemio-fisici, della loggia massonica e delle restanti associazioni di eruditi, che in città erano non meno di una dozzina. E qualche giorno dopo — esattamente una settimana dopo aver lasciato la solitudine della montagna — Grenouille si trovò su un podio nell’aula magna dell’Università di Montpellier, presentato a una moltitudine di centinaia di persone come l’avvenimento scientifico dell’anno.

Nella sua conferenza Taillade-Espinasse lo definì la prova vivente della giustezza della sua teoria sul «fluidum letale» proveniente dalla terra. Mentre a poco a poco gli strappava gli stracci dal corpo, illustrò l’effetto devastante esercitato dal gas di putrefazione sul corpo di Grenouille: qui si vedevano pustole e cicatrici, provocate dalla corrosione del gas; là sul petto un enorme carcinoma da gas di un rosso acceso; ovunque una disgregazione della pelle; e persino una chiara deformazione fluidale dello scheletro, che si manifestava visibilmente sotto forma di un piede varo e della gobba. Anche gli organi interni come milza, fegato, polmone, cistifellea e tratto digerente erano seriamente danneggiati, come aveva dimostrato senz’ombra di dubbio l’analisi di un campione delle feci, che ora si trovava in una ciotola ai piedi del dimostrante, accessibile a ognuno. Riassumendo, dunque, si poteva affermare che la paralisi delle energie vitali in base a un’infezione di sette anni provocata dal «fluidum letale Taillade» era già progredita al punto che il dimostrante — il cui aspetto esteriore del resto rivelava già notevoli tratti da talpa — si poteva definire un essere più votato alla morte che alla vita. Tuttavia il relatore s’impegnava a rimettere in sesto ntro otto giorni quell’individuo di per sé votato alla morte mediante una terapia di ventilazione combinata con una dieta essenziale, al punto che i sintomi di una guarigione totale sarebbero risultati evidenti a tutti, e invitava i presenti a convincersi entro una settimana del successo di questa prognosi, che quindi si doveva considerare senz’altro come una prova valida della giustezza della sua teoria sul «fluidum letale» proveniente dalla terra.

La conferenza ebbe un enorme successo. Il dotto pubblico applaudì con passione il relatore e quindi sfilò sul podio sul quale si trovava Grenouille. Con la trascuratezza che aveva conservato e con le sue vecchie cicatrici e deformazioni, in effetti Grenouille aveva un’aria così impressionante e terribile che ognuno lo ritenne semiputrefatto e irrimediabilmente perduto, sebbene lui stesso si sentisse del tutto sano e in forze. Alcuni dei signori lo picchiettarono con le dita alla maniera degli specialisti, gli presero le misure, gli guardarono in bocca e negli occhi. Altri gli rivolsero la parola, s’informarono della sua vita nella caverna e della sua condizione attuale. Ma lui si attenne rigidamente a una disposizione impartitagli in precedenza dal marchese e rispose a simili domande soltanto con un rantolo forzato, facendo nel contempo con tutte e due le mani gesti d’impotenza in direzione della propria laringe, per far capire in tal modo che anche quella era stata rosa dal «fluidum letale Taillade».

Alla fine della manifestazione Taillade-Espinasse lo infagottò di nuovo e lo trasportò a casa nel sottotetto del suo palazzo. Là, in presenza di alcuni dottori selezionati della facoltà di medicina, lo chiuse nell’apparecchio di ventilazione ad aria vitale, una gabbia costruita con tavole d’abete rosso a tenuta stagna, la quale, per mezzo di un camino posto in alto, molto distante dal tetto, veniva inondata d’aria d’alta quota, priva del gas letale, e quest’aria poteva poi fuoriuscire tramite una valvola a farfalla di cuoio applicata sul pavimento. L’impianto era tenuto in funzione da una squadra di domestici, che giorno e notte sorvegliavano i ventilatori del camino affinché non si fermassero. E mentre Grenouille in tal modo era circondato da una corrente d’aria purificante continua, dalla porticina di una camera di compensazione costruita a fianco con doppie pareti gli somministravano cibi dietetici di provenienza distante dalla terra: brodo di piccioni, pasticcio di allodole, ragù di anitre catturate in volo, frutta in conserva proveniente da alberi, pane fatto con tipi di grano dalla crescita particolarmente alta, vino dei Pirenei, latte di camoscio e crema di spuma d’uovo di polli allevati nella soffitta del palazzo.

Questa cura combinata di disinfezione rivitalizzazione durò cinque giorni. Poi il marchese ordinò di fermare i ventilatori e portò Grenouille in un lavatoio, dove lo immersero per parecchie ore in bagni d’acqua piovana tiepida e infine lo lavarono da capo a piedi con sapone d’olio di noci proveniente dalla città di Potosí, sulle Ande. Gli tagliarono le unghie delle mani e dei piedi, gli pulirono i denti con calcare delle Dolomiti ridotto in polvere, lo rasarono, gli tagliarono i capelli, li pettinarono, li misero in piega e li incipriarono. Furono chiamati un sarto e un calzolaio, e Grenouille ricevette una camicia di seta con jabot bianco e ruches bianche ai polsini, calze di seta, giacca, pantaloni, panciotto di velluto blu e scarpe eleganti con fibbia di cuoio nero, la destra delle quali nascondeva abilmente la deformità del piede. Unicamente con le proprie mani, il marchese cosparse con bianchetto di talco il viso pieno di cicatrici di Grenouille, gli applicò il carminio sulle labbra e sulle guance e diede alle sue sopracciglia una curva veramente nobile con l’aiuto di una matita morbida di carbone di tiglio. Poi lo spruzzò col suo profumo personale, un aroma alla violetta molto semplice, fece qualche passo indietro e per lungo tempo non riuscì a esprimere la propria gioia in parole.

«Monsieur», cominciò a dire infine, «sono entusiasta di me stesso. Sono sconvolto dalla mia genialità. In verità non ho mai dubitato della giustezza della mia teoria fluidale, naturalmente, ma il trovarla così brillantemente confermata nella terapia pratica mi sconvolge. Lei era un animale, e io ne ho fatto un uomo. Un’impresa addirittura divina. Permetta che io sia commosso! Si avvicini a questo specchio, e si guardi! Per la prima volta in vita sua riconoscerà di essere un uomo; non un uomo particolarmente straordinario o comunque eccezionale, ma pur sempre un uomo più che discreto. Vada, Monsieur! Si guardi; e ammiri il miracolo che ho compiuto in lei!»

Era la prima volta che qualcuno chiamava Grenouille «Monsieur».

Si diresse verso lo specchio e vi guardò dentro. Fino allora non aveva mai guardato in uno specchio. Davanti a sé vide un signore in elegante abito blu, con camicia bianca e calze di seta, e si inchinò in modo del tutto istintivo, come sempre si era inchinato di fronte a simili signori eleganti. Ma anche il signore elegante s’inchinò, e mentre Grenouille si rialzava, il signore elegante fece la stessa cosa, e poi entrambi rimasero immobili a fissarsi.

Quello che sconcertò più di tutto Grenouille fu il fatto di avere un aspetto così incredibilmente normale. Il marchese aveva ragione; non era niente di speciale, non bello, ma neanche particolarmente brutto. Era un po’ piccolo di statura, il suo atteggiamento era un po’ goffo, il viso era poco espressivo: in breve, era come mille altri uomini. Se ora fosse sceso per strada, nessuno si sarebbe voltato a guardarlo. E neppure lui sarebbe stato colpito da qualcuno simile al suo attuale lui, se l’avesse incontrato. A meno che non si fosse accorto che questo qualcuno, a parte il profumo di violetta, non aveva odore, proprio come il signore dello specchio e lui stesso, che gli stava dinanzi.

E tuttavia, dieci giorni prima, i contadini erano ancora scappati via gridando alla sua vista. Allora non si era sentito diverso da adesso, e adesso, se chiudeva gli occhi, non si sentiva minimamente diverso da allora. Inspirò l’aria che saliva attorno al suo corpo e annusò il profumo scadente e il velluto e il cuoio incollato di fresco delle sue scarpe; annusò il tessuto di seta, la cipria, il belletto, l’aroma tenue del sapone di Potosí. E d’un tratto seppe che non erano stati il brodo di piccione e i miracoli della ventilazione a fare di lui un uomo normale, bensì soltanto un paio di vestiti, il taglio dei capelli e la piccola mascherata con i cosmetici.

Aprì gli occhi ammiccando e vide che Monsieur, nello specchio, gli ammiccava di rimando, e che sulle sue labbra rosso-carminio aleggiava un lieve sorriso, proprio come se avesse voluto segnalargli che non lo trovava del tutto antipatico. E anche Grenouille trovò che Monsieur nello specchio, quella figura inodore, mascherata e travestita da uomo, non era poi così male, per lo meno gli sembrò che essa potesse — se solo avessero perfezionato la sua maschera — fare al mondo esterno un effetto quale lui, Grenouille, non avrebbe mai pensato di poter fare. Fece un cenno alla figura, e mentre essa a sua volta rispondeva con un cenno, vide che di soppiatto dilatava le narici…

31

Il giorno seguente, mentre il marchese stava insegnandogli le pose, i gesti e i passi di danza indispensabili per l’imminente ingresso in società, Grenouille finse un capogiro e si lasciò cadere su un divano, apparentemente privo di forze e come se fosse minacciato da un soffocamento.

Il marchese era fuori di sé. Gridò per chiamare i servi, gridò che portassero ventagli e ventilatori mobili, e mentre i servi accorrevano, s’inginocchiò a fianco di Grenouille e gli fece vento col suo fazzoletto profumato alla violetta e lo scongiurò, lo implorò e lo supplicò in ogni modo di rimettersi in piedi, di non esalare l’anima in quel momento, ma, se era possibile, di aspettare a farlo ancora due giorni, perché altrimenti la sopravvivenza della teoria del «fluidum letale» sarebbe stata estremamente compromessa.

Grenouille si torse e contorse, ansimò, gemette, agitò le braccia in direzione del fazzoletto, infine si lasciò cadere dal divano in modo molto teatrale e si rintanò nell’angolo più isolato della stanza. «Non questo profumo!» gridò, come allo stremo delle forze, «non questo profumo! Mi uccide!» E soltanto quando Taillade-Espinasse gettò il fazzoletto dalla finestra e la sua giacca anch’essa profumata alla violetta nella stanza accanto, l’attacco di Grenouille si placò ed egli raccontò, con voce più pacata, che come profumiere era dotato di un naso sensibile, dovuto alla professione, e che già da sempre, ma in particolare ora, nel momento della guarigione, reagiva con molta violenza a certi profumi. Che proprio il profumo alla violetta, un fiore delizioso di per sé, lo infastidisse a tal punto, poteva spiegarselo con il fatto che il profumo del marchese conteneva un’elevata percentuale di estratto di radice di viola, il quale, per via della sua origine sotterranea, esercitava un effetto rovinoso su una persona contagiata dal «fluidum letale» qual era lui, Grenouille. Già il giorno precedente, alla prima applicazione del profumo, si era sentito mancare, e oggi, quando aveva percepito di nuovo l’odore della radice, era stato proprio come se lo stessero ricacciando di nuovo in quell’orribile buca soffocante in cui aveva vegetato per sette anni. La sua natura si era ribellata a questa sensazione, altro non poteva dire, giacché, dopo che l’arte del signor marchese gli aveva ridonato una vita da uomo in un’aria pura, avrebbe preferito morire subito piuttosto che esporsi ancora una volta all’odiato «fluidum». Ancora adesso tutto si torceva in lui, se solo pensava al profumo della radice. Tuttavia credeva fermamente di potersi ristabilire sull’istante se il marchese gli permetteva di progettare un proprio profumo che annientasse totalmente l’aroma della violetta. Per l’occasione pensava a un tono particolarmente leggero, arioso, composto per lo più da ingredienti lontani dalla terra, come acqua di mandorle e di fiori d’arancio, eucalipto, olio di aghi di pino e olio di cipresso. Un solo spruzzo di un simile aroma sui suoi vestiti, un paio di gocce soltanto sul collo e sulle guance, e sarebbe stato premunito una volta per tutte contro il ripetersi dello sgradevole attacco che l’aveva appena sopraffatto.

Ciò che noi qui, per amor di comprensione, riferiamo come un ordinato discorso indiretto, in realtà fu uno scoppio di parole gorgoglianti durato mezz’ora, interrotto da molti colpi di tosse e da respiri mozzati e affannosi, che Grenouille accompagnò con tremiti e gesticolii e gran rotear d’occhi. Il marchese fu seriamente impressionato. Più ancora della sintomatologia del male, lo convinse la fine argomentazione del suo protetto, che rispondeva perfettamente alla teoria del «fluidum letale». Naturalmente! Era il profumo della violetta! Un prodotto ripugnante che cresceva vicino alla terra, anzi addirittura sotterraneo! Probabilmente anche lui, che lo usava da anni, ne era infetto. Non aveva sospettato che con questo profumo si stava approssimando alla morte giorno per giorno. La gotta, la rigidezza della sua nuca, l’afflosciarsi del suo membro, le emorroidi, l’oppressione alle orecchie, il dente cariato: tutto ciò si doveva senza dubbio al puzzo della radice di viola contaminata dal «fluidum». E quello sciocco ometto, quel mucchietto miserabile rintanato nell’angolo della stanza, gliel’aveva suggerito. Era commosso. Avrebbe voluto avvicinarsi a lui, risollevarlo e stringerlo al suo cuore illuminato dalla rivelazione. Ma temeva di avere ancora addosso l’aroma della violetta, e quindi chiamò ripetutamente i servi e ordinò di allontanare dalla casa tutto il profumo alla violetta, di arieggiare tutto il palazzo, di disinfettare i suoi vestiti nel ventilatore ad aria vitale e di portare subito Grenouille dal miglior profumiere della città con la sua portantina. Ma proprio questo era lo scopo che Grenouille si era prefisso col suo attacco.

L’arte del profumo aveva una vecchia tradizione a Montpellier, e sebbene negli ultimi tempi fosse un po’ decaduta rispetto a Grasse, città concorrente, c’erano validi maestri profumieri e guantai in città. Il più stimato tra loro, un certo Runel, considerando le relazioni commerciali con la casa del marchese de la Taillade-Espinasse, al quale forniva saponi, olii e sostanze aromatiche, si dichiarò pronto alla concessione straordinaria di cedere per un’ora il suo laboratorio al singolare garzone profumiere parigino arrivato in portantina. Costui non si fece spiegare nulla, non volle sapere nulla su dove e come trovare le cose, se ne intendeva, disse, si sarebbe arrangiato: si chiuse in laboratorio e vi rimase per un’ora buona, mentre Runel con il maggiordomo del marchese si recò in un’osteria a bere un paio di bicchieri di vino, e là dovette apprendere il motivo per cui non era più possibile annusare il profumo della sua acqua di viole.

Il laboratorio e il negozio di Runel non erano certo riforniti con la dovizia di mezzi che caratterizzava a suo tempo il negozio di sostanze odorose di Baldini a Parigi. Con il poco che c’era di olii di fiori, di acque e di spezie, un profumiere medio non avrebbe potuto fare grandi cose. Tuttavia Grenouille, al primo fiuto, capì che le sostanze presenti erano più che sufficienti per i suoi scopi. Non voleva creare un grande profumo; non voleva miscelare un’acquetta di prestigio, come aveva fatto un tempo per Baldini, qualcosa che emergesse dal mare della mediocrità e ammansisse la gente. E neppure un semplice profumino di fiori d’arancio, come aveva promesso al marchese, era il suo vero scopo. Le comuni essenze di neroli, eucalipto e foglie di cipresso dovevano soltanto nascondere il vero profumo che si era proposto di creare: ed era il profumo dell’umano. Anche se per il momento sarebbe stato soltanto un cattivo surrogato, voleva appropriarsi dell’odore degli uomini, che lui stesso non possedeva. Certo non esisteva l’odore degli uomini, così come non esisteva il volto umano. Ogni uomo aveva un odore diverso, nessuno lo sapeva meglio di Grenouille, che conosceva migliaia e migliaia di odori individuali e distingueva al fiuto gli esseri umani già dalla nascita. E tuttavia esisteva una nota fondamentale dell’odore umano, del resto abbastanza semplice: una nota fondamentale di sudore grasso, di formaggio acidulo, nell’insieme assolutamente disgustosa, ugualmente propria a tutti gli uomini, e al disopra della quale, più raffinate e più isolate, aleggiavano le nuvolette di un’aura individuale.

Ma quest’aura, la sigla estremamente complessa, inconfondibile dell’odore personale, era comunque impercettibile per la maggior parte degli uomini. I più non sapevano di possederla, oppure facevano di tutto per nasconderla sotto i vestiti o sotto odori artificiali alla moda. Conoscevano bene soltanto quell’aroma di fondo, quell’esalazione primitiva d’umano, in essa soltanto vivevano e si sentivano protetti, e chiunque emanasse quel nauseante effluvio comune era da essi considerato come un loro pari.

Fu uno strano profumo quello che Grenouille creò quel giorno. Fino allora non ce n’era stato mai uno più strano. Non aveva l’odore di un profumo, bensì di un uomo che ha un profumo. Se qualcuno avesse sentito questo profumo in una stanza buia, avrebbe creduto che nella stanza ci fosse un altro. E se un uomo con l’odore di un uomo l’avesse usato, all’olfatto avrebbe dato l’impressione di due uomini o, peggio ancora, di una mostruosa duplice creatura, come una figura che non si riesce più a fissare in modo netto, perché, sfocandosi, si presenta come un’immagine sulla superficie di un lago, su cui tremolano le onde.

Per imitare questo profumo umano — del tutto insufficiente, come ben sapeva, ma riuscito quel tanto da ingannare gli altri — Grenouille raccolse qua e là nel laboratorio di Runel gli ingredienti più stravaganti.

Dietro la soglia della porta che conduceva in cortile c’era un cumuletto di merda di gatto, ancora abbastanza fresca. Ne prese un mezzo cucchiaino e lo mise nella bottiglia per la miscela assieme ad alcune gocce d’aceto e a sale pestato. Sotto il tavolo da lavoro trovò un pezzetto di formaggio grande quanto l’unghia di un pollice, resto evidente di un pasto di Runel. Era già abbastanza vecchio, cominciava a decomporsi ed emanava un odore acre e pungente. Dal coperchio del barile delle sardine, che si trovava nel retrobottega, grattò via un qualche cosa che sapeva di pesce rancido, lo mescolò con uovo marcio e castoreo, ammoniaca, noce moscata, limatura di corno e cotenna di maiale ridotta in briciole minute. Vi aggiunse inoltre una porzione piuttosto consistente di zibetto, mescolò questi orridi ingredienti con alcool, fece macerare il tutto e lo filtrò in una seconda bottiglia. Il liquido emanava un odore spaventoso. Puzzava di cloaca, di putrescenza, e rimescolando la sua esalazione con una sventagliata d’aria pura, si aveva l’impressione di trovarsi in un caldo giorno d’estate in Rue aux Fers a Parigi, all’angolo con Rue de la Lingerie, dove s’incrociavano gli odori dei capannoni del mercato, del Cimetière des Innocents e delle case sovraffollate.

Su questa base atroce, che in sé aveva un odore più simile a quello di un cadavere che non di un uomo, Grenouille applicò uno strato di aromi oleosi freschi: menta, lavanda, trementina, limone acido, eucalipto, che moderò e mitigò gradevolmente con un bouquet di olii di fiori raffinati come geranio, rosa e fior d’arancio. Dopo un’ulteriore rarefazione con alcool e un po’ d’aceto, la base che costituiva tutta la miscela non aveva più un odore disgustoso. Con l’aggiunta di ingredienti freschi, il puzzo latente si era dileguato ed era divenuto impercettibile, la nota disgustosa era stata mitigata dall’aroma dei fiori, anzi era diventata quasi interessante, e, stranamente, non si percepiva più nulla della putrefazione, neppure la minima traccia. Al contrario, sembrava che il profumo emanasse un forte aroma pieno di slancio vitale.

Grenouille ne riempì due flaconi, che tappò e mise in tasca. Poi lavò accuratamente con acqua bottiglie, mortaio, imbuto e cucchiaio, li sfregò con olio di mandorle amare, per cancellare qualsiasi traccia di odore, e prese un’altra bottiglia. In essa miscelò rapidamente un altro profumo, una specie di copia del primo, anch’esso composto di elementi freschi e di parti di fiori, ma la cui base non conteneva più nulla del decotto stregonesco, bensì ingredienti convenzionali come muschio, ambra, un pizzico di zibetto e olio di legno di cedro. Preso a sé, aveva un odore totalmente diverso dal primo — più piatto, più integro, meno virulento perché gli mancavano le componenti dell’odore imitato da quello dell’uomo. Ma quando un uomo comune lo usava ed esso si univa al suo odore personale, non era più possibile distinguerlo da quello che Grenouille aveva creato esclusivamente per sé.

Dopo aver versato anche il secondo profumo in flaconi, Grenouille si spogliò e cosparse i propri abiti con il primo profumo. Poi se lo picchiettò sotto le ascelle, tra le dita, sul sesso, sul petto, sul collo, sulle orecchie e sui capelli, si rivestì e lasciò il laboratorio.

32

Quando uscì per strada, fu colto da un’improvvisa paura, perché sapeva di emanare un odore umano per la prima volta in vita sua. A lui però sembrava di puzzare, di puzzare in modo assolutamente ripugnante. E non riusciva a figurarsi che altri non trovassero ugualmente ripugnante il suo odore, e non osò dirigersi subito verso l’osteria, dove Runel e il maggiordomo del marchese lo stavano aspettando. Gli sembrava meno rischioso sperimentare prima la nuova aura in un ambiente anonimo.

Scivolò per i vicoli più stretti e più bui giù verso il fiume, dove i conciatori e i tintori avevano i loro laboratori ed esercitavano il loro mestiere puzzolente. Quando incontrava qualcuno o quando passava accanto all’ingresso di una casa, dove stavano giocando bambini o erano sedute vecchie donne, si costringeva a rallentare il passo e a portarsi attorno in tal modo il proprio odore in una grande nuvola compatta.

Fin dall’infanzia era abituato al fatto che le persone che gli passavano accanto non lo notavano in alcun modo, non per disprezzo — come aveva creduto un tempo — ma perché proprio non si accorgevano della sua esistenza. Non c’era stato spazio attorno a lui, non onda che lui, come altre persone, mandasse nell’atmosfera, non c’era stata ombra, per così dire, che avesse potuto gettare sul volto degli altri. Soltanto quando si era scontrato direttamente con qualcuno, nella folla o d’improvviso a un angolo di strada, c’era stato un breve istante di percezione; e in genere chi era stato urtato si ritraeva con orrore, fissava lui, Grenouille, per pochi secondi, come se avesse visto un essere che in realtà non sarebbe dovuto esistere — un essere che, sebbene fosse innegabilmente lì, in qualche modo non era presente — e subito prendeva il largo e dopo un attimo si era già dimenticato di lui…

Ma ora, nei vicoli di Montpellier, Grenouille avvertì e constatò con chiarezza — e ogni volta che lo constatava era pervaso da un forte sentimento d’orgoglio — che esercitava un effetto sulle persone. Quando passò accanto a una donna china sul bordo di una fontana, notò che essa alzava un attimo il capo per vedere chi fosse e poi, evidentemente tranquillizzata, si volgeva di nuovo verso la propria secchia. Un uomo, che gli dava le spalle, si girò e lo seguì con lo sguardo a lungo, con curiosità. I bambini che incontrava si facevano indietro, non per paura, ma per fargli posto; e anche quando uscivano di corsa dall’ingresso laterale di una casa e urtavano bruscamente contro di lui, non si spaventavano, ma sgusciavano via con naturalezza, come se avessero avuto il presentimento della sua persona che si avvicinava.

Dopo molti di tali incontri imparò a valutare con maggior precisione il potere e l’effetto della sua nuova aura, e divenne più sicuro di sé e più audace. Camminava più in fretta verso le persone, passava vicinissimo a loro, spingeva persino il braccio leggermente in fuori e sfiorava come per caso il braccio di un passante. Una volta, apparentemente per distrazione, dette uno spintone a un uomo che voleva sorpassare. Si fermò, si scusò, e l’uomo, che solo il giorno prima sarebbe stato colpito dall’apparizione improvvisa di Grenouille come dal fulmine, si comportò come se nulla fosse accaduto, accettò le scuse, fece persino un breve sorriso e gli dette un colpetto sulla spalla.

Grenouille abbandonò i vicoli e arrivò sulla piazza, davanti al duomo di Saint-Pierre. Le campane suonavano. La gente si affollava a entrambi i lati del portale. Stava giusto finendo una cerimonia di matrimonio. Volevano vedere la sposa. Grenouille accorse e si mescolò alla folla. Diede spintoni, s’insinuò, voleva andare dove le persone erano più fitte, a contatto di pelle voleva averle, voleva sfregare il proprio profumo direttamente contro i loro nasi. E in quello spazio angusto e stipato allargò braccia e gambe e si slacciò di scatto il colletto, affiché il profumo potesse fuoriuscire liberamente dal suo corpo… e immensa fu la sua gioia quando si accorse che gli altri non s’accorgevano di nulla, assolutamente di nulla, che tutti quegli uomini e donne e bambini pigiati attorno a lui si potevano ingannare così facilmente, che inalavano il suo puzzo raffazzonato di merda di gatto, formaggio e aceto come l’odore di un loro simile e che accettavano lui, Grenouille, la prole del diavolo, in mezzo a loro, come uomo tra uomini.

Sentì vicino alle sue ginocchia una bimba, una bambina piccola che si era infilata tra gli adulti. La sollevò con finta premura e la prese in braccio perché potesse vedere meglio. Non soltanto la madre lo tollerò, ma lo ringraziò, e la piccola dette grida di gioia.

Così Grenouille restò per un buon quarto d’ora in seno alla moltitudine, tenendo una bimba estranea contro il suo petto ipocrita. E mentre sfilavano i partecipanti alle nozze, accompagnati dal suono rimbombante delle campane e dal giubilo della folla, sopra la quale scrosciava una pioggia di monete, in Grenouille eruppe un altro giubilo, un giubilo funesto, un malvagio senso di trionfo che lo fece tremare e lo inebriò come un attacco di lussuria, e fece fatica a non farlo schizzare su tutta quella gente come bile e veleno e a non gridare in faccia a tutti, esultando, che non aveva paura di loro, anzi neppure quasi li odiava, ma che li disprezzava con tutto il suo ardore, perché erano stupidi puzzoni; perché si lasciavano raggirare e ingannare da lui, perché essi non erano nulla ed egli era tutto! E in segno di scherno strinse più forte la bimba contro di sé, si fece largo e gridò in coro con gli altri: «Viva la sposa! Salute alla sposa! Salute alla splendida coppia!»

Quando i partecipanti alle nozze si allontanarono e la folla cominciò a diradarsi, restituì la bimba alla madre e si recò in chiesa, per riprendersi dalla sua eccitazione e per riposarsi. All’interno del duomo l’aria era satura d’incenso, che fuoriusciva in freddi vapori da due turiboli ai lati dell’altare e si stendeva come una coltre soffocante sugli odori più delicati delle persone che erano appena state sedute in quel luogo. Grenouille sedette su un banco sotto il coro.

D’un tratto lo sopraffece una grande contentezza. Non ebbra, come quella che aveva provato un tempo in seno alla montagna durante le sue orge solitarie, bensì una contentezza molto fredda e sobria, qual è quella prodotta dalla consapevolezza del proprio potere. Adesso sapeva di che cosa era capace. Con mezzi estremamente scarsi, grazie al proprio genio, aveva ricreato il profumo dell’uomo, e l’aveva centrato così bene al primo tentativo, che anche un bambino si era fatto ingannare da lui. Adesso sapeva che poteva fare ancora di più. Sapeva che poteva migliorare questo profumo. Avrebbe potuto creare un profumo non soltanto umano, bensì sovrumano, un profumo angelico, così indescrivibilmente buono e vitale che chi l’avesse annusato ne sarebbe stato affascinato e avrebbe dovuto amare con tutto il suo cuore lui, Grenouille, il portatore di quel profumo.

Sì, amarlo dovevano, quando erano soggiogati dal suo profumo, non soltanto accettarlo come un loro pari, amarlo fino alla follia, all’abnegazione, tremare d’estasi dovevano, gridare, piangere di gioia senza sapere perché, in ginocchio dovevano cadere, come sotto il freddo incenso di Dio, non appena sentivano l’odore di lui, di Grenouille! Voleva essere il dio onnipotente del profumo, così come lo era stato nella sua fantasia, ma ora nel mondo reale e regnando su uomini reali. E sapeva che ciò era in suo potere. Poiché gli uomini potevano chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all’orrore, davanti alla bellezza, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non potevano sottrarsi al profumo. Poiché il profumo era fratello del respiro. Con esso penetrava negli uomini, a esso non potevano resistere, se volevano vivere. E il profumo scendeva in loro, direttamente al cuore, e là distingueva categoricamente la simpatia dal disprezzo, il disgusto dal piacere, l’amore dall’odio. Colui che dominava gli odori, dominava i cuori degli uomini.

Del tutto calmo, Grenouille stava seduto sulla panca del duomo di Saint-Pierre e sorrideva. Non era in uno stato d’animo euforico, quando aveva concepito il progetto di dominare gli uomini. Non vi era alcun guizzo di follia nei suoi occhi, e non una smorfia insensata deformava il suo viso. Non era fuori di sé. Era così limpido e sereno di spirito che si chiese perché poi voleva farlo. E si disse che lo voleva perché era malvagio fino alle midolla. E questo lo fece sorridere, ed era molto contento. Aveva un’aria del tutto innocente, come una persona qualsiasi che è felice.

Rimase seduto così ancora un poco, in reverente silenzio, e inspirò a pieni polmoni l’aria satura d’incenso. E di nuovo sul suo volto passò un lieto sorriso di compiacimento: che odore scadente aveva questo Dio! Com’era ridicolmente malcombinato il profumo che questo Dio emanava da sé. Non era nemmeno vero profumo d’incenso, quello che esalava dai turiboli. Era un cattivo surrogato, adulterato con legno di tiglio e polvere di cannella e salnitro. Dio puzzava. Dio era un povero puzzoncello. Veniva ingannato, questo Dio, oppure lui stesso era un impostore, non diversamente da Grenouille… soltanto molto peggiore!

33

Il marchese de la Taillade-Espinasse era entusiasta del nuovo profumo. Anche per lui, disse, scopritore del «fluidum letale», era sorprendente constatare l’enorme influenza che esercitava sulle condizioni generali di un individuo una cosa insignificante e fugace come un profumo, a seconda che la sua provenienza fosse legata alla terra o lontana da essa. Grenouille, che soltanto poche ore prima era pallido ed era stato prossimo a uno svenimento, aveva un aspetto fresco e fiorente come qualsiasi altro uomo sano della sua età, anzi, si potrebbe dire che — con tutti i limiti accettabili per un uomo del suo ceto e della sua scarsa cultura — aveva acquisito qualcosa di simile a una personalità. In ogni caso lui, Taillade-Espinasse, nel capitolo riguardante la dietetica vitale del suo trattato di prossima pubblicazione sulla teoria del «fluidum letale», avrebbe dato comunicazione dell’avvenimento. Ma ora, per prima cosa, voleva profumarsi con il nuovo aroma.

Grenouille gli porse i due flaconi con il profumo di fiori convenzionale, e il marchese se lo spruzzò addosso. Si mostrò molto soddisfatto dell’effetto. Dopo essere stato oppresso per anni da quel terribile aroma alla violetta come da piombo — confessò — si sentiva quasi come se gli spuntassero ali di fiori; e se non sbagliava, l’atroce dolore al ginocchio come pure il rombo alle orecchie erano diminuiti; nell’insieme si sentiva pieno di slancio, tonificato e ringiovanito di qualche anno. Si avvicinò a Grenouille, lo abbracciò e lo chiamò «mio fratello fluidale», aggiungendo che non si trattava affatto di un titolo mondano, bensì puramente spirituale, «in conspectu universalitatis fluidi letalis», di fronte alla quale — di fronte alla quale soltanto! — tutti gli uomini erano uguali; progettava anche — e disse questo staccandosi da Grenouille, in verità molto amichevolmente, con nessuna ripugnanza, quasi come staccandosi da un suo pari — di fondare al più presto una loggia internazionale sovraccorporativa, il cui scopo doveva essere quello di sgominare totalmente il «fluidum letale» e di sostituirlo in brevissimo tempo con «fluidum vitale» puro, e già fin d’ora prometteva di acquisire Grenouille come primo proselito. Poi si fece scrivere su un foglio la ricetta per il profumo di fiori, la intascò e regalò a Grenouille cinquanta luigi d’oro.

Esattamente una settimana dopo la sua prima conferenza, il marchese de la Taillade-Espinasse ripresentò il suo protetto nell’aula dell’università. L’affollamento era enorme. Tutta Montpellier era venuta, non soltanto quella scientifica, ma anche e soprattutto la Montpellier mondana, e vi erano molte signore che volevano vedere il favoloso uomo della caverna. E sebbene gli avversari di Taillade, principalmente rappresentanti del Circolo di Amici dei Giardini Botanici dell’Università e membri della Società per la Promozione Agricola, avessero mobilitato tutti i loro sostenitori, la manifestazione fu un successo fulminante. Per ricordare al pubblico lo stato di Grenouille della settimana precedente, dapprima Taillade-Espinasse fece circolare disegni che mostravano l’uomo della caverna in tutta la sua bruttezza e degradazione. Poi fece introdurre il nuovo Grenouille, con la sua bella giacca di velluto blu e camicia di seta, imbellettato, incipriato e pettinato; e già il modo in cui camminava, cioé ritto e con passi aggraziati ed elegante movimento d’anca, il modo con cui raggiungeva il podio senza nessun aiuto da parte altrui, s’inchinava profondamente, facendo cenno ora qui ora là con un sorriso, fece ammutolire tutti i dubbiosi e i critici. Anche gli Amici dei Giardini Botanici dell’Università tacquero sconfitti. Troppo clamorosa era la trasformazione, troppo sconvolgente il miracolo che qui si era palesemente verificato: dove la settimana prima si era accucciato un animale spelacchiato, imbarbarito, adesso stava ritto un uomo davvero civilizzato, con un bel personale. Nella sala si diffuse un’atmosfera quasi solenne, e quando Taillade-Espinasse dette inizio alla conferenza, regnava un silenzio totale. Egli sviluppò ancora una volta la sua teoria, sufficientemente nota, del «fluidum letale» proveniente dalla terra, spiegò poi con quali mezzi meccanici e dietetici l’avesse scacciato dal corpo del dimostrante e sostituito con «fluidum vitale», e infine esortò tutti i presenti, amici e nemici, a deporre la resistenza contro la nuova dottrina di fronte a una simile schiacciante evidenza e a combattere il fluido malefico unitamente a lui, Taillade-Espinasse, aprendosi al buon «fluidum vitale». A questo punto allargò le braccia e levò gli occhi al cielo, e molti degli studiosi lo imitarono e le donne piansero.

Grenouille era ritto sul podio e non ascoltava. Osservava con la massima attenzione l’effetto di un «fluidum» totalmente diverso, molto più reale: il proprio. Relativamente alle esigenze spaziali dell’aula, aveva messo una grossa quantità di profumo, e non appena era salito sul podio, l’aura del suo aroma si era irraggiata potentemente da lui. La vide — in effetti la vide proprio con i suoi occhi! — cogliere gli spettatori che sedevano in prima fila, diffondersi poi all’indietro e raggiungere infine le ultime file e la galleria. E chi ne era toccato — a Grenouille balzò il cuore in petto dalla gioia — si trasformava visibilmente. In balia del suo profumo, ma senza esserne consapevoli, gli uomini mutavano l’espressione del volto, l’atteggiamento, i sentimenti. Chi prima si era limitato a guardarlo a bocca aperta con grande stupore, ora lo guardava con occhi più miti; chi era stato immobile, appoggiato alla spalliera della sua sedia, con la fronte corrugata in atteggiamento critico e gli angoli della bocca significativamente all’ingiù, ora si sporgeva più liberamente in avanti con un’espressione rilassata da bambino; e persino nei volti degli ansiosi, degli spaventati, dei più sensibili, che avevano sopportato il suo precedente aspetto solo con orrore e sopportavano il suo aspetto attuale ancora con il dovuto scetticismo, apparivano tracce di cordialità, anzi di simpatia, quando il suo profumo li raggiungeva.

Alla fine della conferenza tutta l’assemblea si alzò e proruppe in frenetico giubilo. «Viva il ’fluidum vitale’! Viva Taillade-Espinasse! Viva la teoria fluidale! Abbasso la medicina ortodossa!» così gridavano i dotti di Montpellier, la città universitaria più importante del meridione francese, e il marchese de la Taillade-Espinasse visse l’ora più celebre della sua vita.

Ma Grenouille, quando scese dal podio e si mescolò tra la folla, sapeva che in realtà le ovazioni erano dirette a lui, soltanto a lui, Jean-Baptiste Grenouille, anche se nessuno di coloro che esultavano in sala lo sospettava.

34

Rimase ancora qualche settimana a Montpellier. Aveva raggiunto una certa fama ed era invitato nei salotti, dove lo interrogavano sulla sua vita nella caverna e sulla sua guarigione operata dal marchese. Doveva sempre raccontare la storia dei briganti che l’avevano rapito, e del cesto che gli veniva calato, e della scala. E ogni volta l’arricchiva splendidamente e aggiungeva nuovi dettagli. In tal modo riacquistò una certa abitudine al linguaggio — ovviamente molto limitata, perché con la lingua ebbe problemi per tutta la vita — e, cosa più importante, acquisì un’esperta pratica della menzogna.

In fondo, constatò, poteva raccontare alla gente ciò che voleva. Una volta che avevano preso confidenza con lui — e prendevano confidenza al primo respiro, perché inalavano il suo odore artificiale — credevano a qualsiasi cosa. Acquisì inoltre una certa sicurezza nei rapporti sociali, che non aveva mai posseduto. Si esprimeva persino nel suo fisico. Era come se fosse aumentato di statura. La sua gobba sembrava diminuita. Camminava quasi completamente dritto. E quando veniva apostrofato, non trasaliva più, ma restava dritto e fronteggiava gli sguardi rivolti a lui. Certo, in questo periodo non divenne un uomo di mondo, un idolo dei salotti o un brillantone in società. Ma in lui diminuì notevolmente quel tanto di compresso e di maldestro che aveva per dar luogo a un atteggiamento che fu interpretato come naturale modestia o tutt’al più come una lieve timidezza innata che suscitava commozione in molti signori e in più d’una signora: a quei tempi nei circoli mondani avevano un debole per la naturalezza e per una sorta di rozzo charme.

All’inizio di marzo prese le sue cose e se ne andò di nascosto, una mattina di buon’ora, non appena aprirono le porte della città, con indosso una modesta giacca marrone acquistata il giorno prima al mercato degli abiti usati e un cappello logoro, che gli nascondeva metà del viso. Nessuno lo riconobbe, nessuno lo vide o lo notò, perché quel giorno aveva rinunciato di proposito a mettersi il suo profumo. E quando il marchese verso mezzogiorno intraprese ricerche, le guardie giurarono e spergiurarono che in verità avevano visto gente di qualsiasi specie lasciare la città, ma non quel famoso uomo della caverna, che sicuramente avrebbe richiamato la loro attenzione. Di conseguenza il marchese fece sapere che Grenouille aveva lasciato Montpellier col suo consenso e si era recato a Parigi per questioni familiari. Ma in cuor suo si irritò terribilmente, perché si era proposto di intraprendere una tournée con Grenouille per tutto il regno, al fine di reclutare proseliti per la sua teoria fluidale.

Dopo qualche tempo si tranquillizzò di nuovo, perché la sua fama si diffuse anche senza tournée, quasi senza il suo intervento. Comparvero lunghi articoli sul «fluidum letale Taillade» nel Journal des Savans e persino nel Courier de l’Europe, e da lontano arrivarono pazienti mortalmente infetti per farsi guarire da lui. Nell’estate del 1764 fondò la prima Loggia del Fluidum Vitale, che a Montpellier contava centoventi membri, e fondò succursali a Marsiglia e a Lione. Poi decise di arrischiare il gran salto a Parigi, per poter conquistare da là tutto il mondo civilizzato alla sua dottrina, ma prima, per sostenere la sua campagna con la propaganda, volle compiere un’altra grande impresa fluidale, che mettesse in ombra la guarigione dell’uomo della caverna come pure tutti gli altri esperimenti, e all’inizio di dicembre si fece accompagnare da un gruppo di intrepidi adepti al Pic du Canigou, che si trovava sullo stesso meridiano di Parigi ed era considerato il monte più alto dei Pirenei. Quell’uomo sulla soglia dell’età senile voleva farsi portare sulla cima alta 2800 metri e là restare esposto tre settimane alla più pura, più fresca aria vitale, per poi, annunciò, ridiscendere la vigilia di Natale come un giovane arzillo di vent’anni.

Gli adepti rinunciarono già poco prima di Vernet, l’ultimo insediamento umano ai piedi della terribile montagna. Ma il marchese non si lasciò intimorire. Liberandosi dei vestiti nel freddo gelido ed emettendo alte grida di giubilo, cominciò la salita da solo. L’ultima cosa che videro di lui fu la sua silhouette che scompariva cantando nella tempesta di neve con le braccia estaticamente levate al cielo.

La vigilia di Natale i discepoli attesero invano il ritorno del marchese de la Taillade-Espinasse. Non tornò né vecchio né giovane. Anche all’inizio dell’estate dell’anno seguente, quando i più temerari si misero alla sua ricerca e scalarono la cima del Pic du Canigou ancora innevata, non si trovò più nulla di lui, non un capo di vestiario, non una parte del corpo, non un ossicino.

Tutto questo naturalmente non danneggiò affatto la sua dottrina. Al contrario. Presto si diffuse la leggenda che si fosse unito in matrimonio sulla cima della montagna con il fluido vitale eterno, che si fosse dissolto in esso ed esso in lui, e che da allora in poi aleggiasse invisibile, ma in eterna giovinezza, sulla cima dei Pirenei: chi saliva fino a lui diventava parte di lui e per un anno era risparmiato dalla malattia e dal processo dell’invecchiamento. Fino al tardo diciannovesimo secolo la teoria fluidale di Taillade fu propugnata da parecchie cattedre di medicina e applicata come terapia in molte associazioni occulte. E ancora oggi ai due versanti dei Pirenei, cioé a Perpignan e a Figueras, esistono logge segrete di seguaci di Taillade, che s’incontrano una volta all’anno per scalare il Pic du Canigou.

Là accendono un grande fuoco: dicono in occasione del solstizio e in onore di san Giovanni, ma in realtà lo fanno per rendere omaggio al loro maestro Taillade-Espinasse e al suo grande «fluidum», e per ottenere la vita eterna.

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