Mentre Grenouille aveva impiegato sette anni per compiere la prima tappa del suo viaggio attraverso la Francia, portò a termine la seconda in meno di sette giorni. Non evitò più le strade animate e le città, non fece più deviazioni. Aveva un odore, aveva denaro, aveva fiducia in sé e aveva fretta.
La sera stessa del giorno in cui aveva lasciato Montpellier raggiunse Le Grau-du-Roi, un piccolo porto a sud-ovest di Aigues-Mortes, dove s’imbarcò per Marsiglia su un veliero da carico. A Marsiglia non lasciò neppure il porto, ma cercò subito una nave, che lo portò lungo la costa verso est. Dopo due giorni era a Tolone, dopo altri tre giorni a Cannes. Il resto del viaggio lo fece a piedi. Seguì un sentiero che portava a nord verso l’interno del paese, su per le colline.
Due ore dopo era in cima, e davanti a lui si stendeva un bacino di parecchie miglia, un paesaggio fatto come un’enorme conca, i cui confini tutt’attorno consistevano in colline dai morbidi pendii e in catene di montagne dirupate, mentre la vasta conca era coperta di campi appena coltivati, di giardini e di boschi di ulivi. Su questa conca c’era un clima del tutto particolare, stranamente intimo. Sebbene il mare fosse così vicino che si riusciva a vederlo dalla cima delle colline, lì non c’era nulla di marittimo, nulla di salato e sabbioso, nulla di aperto, bensì un quieto isolamento, come se la costa fosse distante molti giorni di viaggio. E sebbene verso nord si ergessero le grandi montagne, sulle quali rimaneva e sarebbe rimasta ancora a lungo la neve, lì non si avvertiva niente di rude o di stentato, e non c’erano correnti fredde. La primavera era molto più avanzata che a Montpellier. Una leggera foschia copriva i campi come una campana di vetro. Gli albicocchi e i mandorli erano in fiore, e il profumo dei narcisi si diffondeva nell’aria tiepida.
All’altro limite della grande conca, a forse due miglia di distanza, sulle ripide montagne, era adagiata, o per meglio dire incollata, una città. Vista da lontano non dava un’impressione di particolare grandiosità. Non c’era un duomo possente che svettasse al di sopra delle case, ma soltanto un piccolo cono di campanile, non c’era una rocca dominante né un edificio sfarzoso che colpisse l’attenzione. Le mura apparivano tutt’altro che imponenti, qua e là le case sporgevano fuori della loro cerchia, soprattutto in basso verso la pianura, e conferivano a tutto il circondario un aspetto un po’ logoro. Era come se quel luogo fosse stato già troppe volte conquistato e poi sbloccato dall’assedio, come se fosse stanco di continuare a opporre una vera e propria resistenza nei confronti di intrusi futuri… ma non per debolezza, bensì per indolenza o addirittura per un senso di potenza. Era come se non sentisse la necessità di far sfoggio di sé. Dominava la grande conca profumata ai suoi piedi, e questo sembrava bastargli.
Quel luogo insignificante e nel contempo consapevole di sé era la città di Grasse, da alcuni decenni incontestata metropoli della produzione e del commercio di sostanze odorose, articoli di profumeria, saponi e olii. Giuseppe Baldini aveva sempre pronunciato il suo nome con estasi rapita. Quella città era la Roma dei profumi, la terra promessa dei profumieri, e chi non si era guadagnato i galloni a Grasse non portava a buon diritto il nome di profumiere.
Grenouille guardò la città di Grasse con occhi spassionati. Non cercava la terra promessa della profumeria, non si sentiva allargare il cuore alla vista del nido incollato lassù sui pendii. Era venuto perché sapeva che lì si potevano imparare alcune tecniche per estrarre il profumo meglio che altrove. E di queste voleva impossessarsi, perché gli servivano per i suoi scopi. Prese dalla tasca il flacone con il suo profumo, se lo picchiettò addosso con parsimonia e si mise in cammino. Dopo un’ora e mezzo, verso mezzogiorno, era a Grasse.
Mangiò in un’osteria al limite superiore della città in Place aux Aires. La piazza era attraversata in lunghezza da un ruscello nel quale i conciatori lavavano le loro pelli, e successivamente le stendevano ad asciugare. L’odore era così pungente da rovinare il gusto del cibo a più d’un ospite. Ma non a lui, Grenouille. L’odore gli era familiare, gli dava un senso di sicurezza. In tutte le città, per prima cosa andava sempre a cercare il quartiere dei conciatori. Poi, quando usciva dalla sfera del puzzo, ed esplorava partendo da lì le altre zone del luogo, gli sembrava di non essere più uno straniero.
Girovagò tutto il pomeriggio per la città. Era incredibilmente sporca, nonostante o piuttosto proprio a causa della molta acqua, che sgorgava da una quantità di sorgenti e fontane, scorreva gorgogliando in ruscelli e rigagnoli incontrollati giù per la città e minava i vicoli oppure li inondava di fango. In molti quartieri le case erano così fitte che restava soltanto un cubito di spazio per i passaggi e le scalette, e i passanti che li attraversavano nel fango dovevano stringersi l’uno all’altro. E anche sulle piazze e sulle poche strade più larghe, i carri riuscivano a evitarsi a stento.
Tuttavia, nonostante lo sporco, il sudiciume e la mancanza di spazio, la città ferveva di attività artigianale. Nel suo giro di ricognizione Grenouille constatò che c’erano non meno di sette saponifici, una dozzina di maestri profumieri e guantai, innumerevoli distillerie, pomaterie e spezierie minori e infine circa sette mercanti che trattavano aromi en gros.
Naturalmente si trattava di commercianti che disponevano di vere e proprie ditte all’ingrosso per il commercio delle sostanze aromatiche. Spesso dalle loro case non si sarebbe detto. Le facciate che davano sulla strada avevano un aspetto borghese medio. Ma quello che era accumulato là dietro, nei solai e in enormi cantine, botti di olio, cataste di saponi alla lavanda dei più fini, damigiane di acque di fiori, di vini, di alcool, balle di cuoio profumato, sacchi e cassapanche e casse stipate di spezie — Grenouille lo percepiva al fiuto in tutti i particolari attraverso i muri più spessi — erano ricchezze che neanche i principi possedevano. E quando acuiva l’olfatto, annusando al di là dei prosaici negozi e magazzini che davano sulla strada, scopriva che sul lato posteriore di queste casette borghesi disposte a scacchiera si trovavano dimore della specie più lussuosa. Attorno a giardini piccoli ma deliziosi, in cui crescevano palme e oleandri e mormoravano graziose fontane a zampillo circondate da aiuole, si estendevano, per lo più costruite verso sud a forma di «U», le vere e proprie ali della casa: camere da letto inondate di sole e ricoperte da tappeti di seta al piano superiore, saloni sontuosi rivestiti di legno esotico al piano terra e sale da pranzo, talvolta sporgenti nel vuoto come una terrazza, in cui si pranzava davvero, come aveva raccontato Baldini, in piatti di porcellana con posate d’oro. I signori che abitavano dietro queste quinte discrete avevano odore d’oro e di potere, di solida e consistente ricchezza, e quest’odore in loro era più forte di tutto quello che Grenouille aveva annusato finora al riguardo durante il suo viaggio attraverso la provincia.
Di fronte a uno di questi palazzi camuffati Grenouille si soffermò. La casa si trovava all’inizio di Rue Droite, un’arteria principale che attraversava la città in tutta la sua lunghezza da ovest a est. Non era niente di eccezionale: la facciata era sì un po’ più ampia ed elegante di quelle degli edifici confinanti, ma non particolarmente imponente. Di fronte all’ingresso principale era fermo un carro con barili, che venivano scaricati per mezzo di un piano inclinato. Un secondo carro era in attesa. Un uomo entrò con dei documenti in ufficio, ne uscì assieme a un altro, ed entrambi scomparvero nell’ingresso principale. Grenouille si trovava sul lato di fronte e osservava l’andirivieni. Quello che succedeva lì non lo interessava. Tuttavia restava fermo. Qualcosa lo tratteneva.
Chiuse gli occhi e si concentrò sugli odori che gli arrivavano dall’edificio di fronte. C’erano gli odori dei barili, di aceto e di vino, poi le centinaia di odori grevi del magazzino, poi gli odori della ricchezza, che traspiravano dai muri come leggero sudore dorato, e infine gli odori di un giardino, che probabilmente si trovava dall’altra parte della casa. Non era facile cogliere gli aromi più delicati del giardino, perché passavano sopra il frontone della casa in scie molto esili e poi scendevano sulla strada. Grenouille accertò un profumo di magnolie, di giacinti, di mezereo, di rododendro… ma sembrava che ci fosse qualcos’altro, qualcosa di indicibilmente buono che emanava profumo in quel giardino, un odore così sublime come mai in vita sua — o forse una sola volta — era arrivato al suo naso… Doveva avvicinarsi a questo profumo.
Rifletté se era il caso di introdursi nell’edificio attraverso l’ingresso principale. Ma in quel momento c’era troppa gente occupata a scaricare e a controllare i barili, e avrebbe certo dato nell’occhio. Decise di ritornare sui suoi passi per trovare un vicolo o un passaggio che potessero condurre di fianco alla casa. Pochi metri dopo aveva raggiunto la porta della città all’inizio di Rue Droite. La varcò, si tenne tutto a sinistra e seguì le mura in discesa della città. Poco dopo sentì il profumo del giardino, dapprima debole, ancora mescolato con l’aria dei campi, poi sempre più forte. Infine capì che era vicinissimo. Il giardino confinava con le mura della città. Si trovava proprio accanto a esso. Se indietreggiava di qualche passo, riusciva a vedere i rami più alti degli aranci.
Richiuse gli occhi. I profumi del giardino calarono su di lui, netti e ben distinti, come le bande colorate di un arcobaleno. E tra essi ce n’era uno prezioso, quello che gli interessava. Grenouille si sentì ardere di gioia e gelare di paura. Il sangue gli salì alla testa come a un monello colto sul fatto, poi scivolò nel centro del suo corpo, e risalì di nuovo e di nuovo ridiscese, e lui non riusciva a controllarsi. Troppo improvvisa era stata quest’aggressione olfattiva. Per un attimo, per la durata di un respiro, per l’eternità gli sembrò che il tempo si fosse raddoppiato o fosse scomparso del tutto, poiché non sapeva più se l’adesso fosse adesso e se il qui fosse qui o non piuttosto l’adesso fosse allora e il qui fosse là, e cioé Rue des Marais a Parigi, settembre 1753: il profumo che veniva fluttuando dal giardino era il profumo della fanciulla dai capelli rossi che aveva ucciso allora. L’aver ritrovato questo profumo sulla terra lo faceva piangere di felicità… e il fatto che poteva non esser vero lo spaventava a morte.
Gli vennero le vertigini, barcollò un poco e dovette appoggiarsi al muro, e lì si lasciò scivolare lentamente a terra a gambe piegate. Raccogliendosi e cercando di tenere a freno il suo spirito, cominciò a inalare il fatale profumo con inspirazioni brevi, meno rischiose. E constatò che il profumo dietro al muro era estremamente simile al profumo della fanciulla dai capelli rossi, ma non del tutto uguale. Naturalmente proveniva anch’esso da una fanciulla con capelli rossi, su questo non c’era dubbio. Nella sua immaginazione olfattoria, Grenouille vedeva questa fanciulla davanti a sé come in un quadro: non stava ferma, ma saltava qua e là, si accaldava e poi si riacquietava, evidentemente giocava a un gioco in cui bisognava muoversi rapidamente e poi rapidamente fermarsi… con un’altra persona, dall’odore peraltro assolutamente insignificante. Aveva la pelle di un bianco abbagliante. Aveva occhi verdastri. Aveva lentiggini sul viso, sul collo e sul seno… cioé — Grenouille trattenne il respiro per un attimo, poi annusò a fondo e cercò di richiamare il ricordo olfattivo della fanciulla di Rues des Marais — … cioé, questa fanciulla non aveva ancora seno nel vero senso della parola! Aveva soltanto un accenno di seno. Aveva appena un inizio di curve di seno, infinitamente delicato e dall’aroma esile, picchiettato di lentiggini, che cominciava a gonfiarsi forse soltanto da pochi giorni, forse soltanto da poche ore, in realtà da quel momento. In breve, la fanciulla era ancora una bambina. Ma che bambina!
Grenouille aveva la fronte sudata. Sapeva che i bambini non hanno un odore particolare, proprio come i fiori, che prima di fiorire sono tutti verdi. Ma lei, questo fiore ancora chiuso dietro le mura, che spingeva in fuori le prime punte odorose, che Grenouille, e nessun altro tranne lui, aveva appena avvertito, già ora aveva un profumo così divino da far rizzare i capelli, e quando fosse sbocciata in tutto il suo splendore avrebbe emanato un profumo mai sentito al mondo. Già ora è migliore di quello della fanciulla di Rue des Marais, pensò Grenouille, non così forte, non così intenso, ma più fine, più sfumato e nello stesso tempo più naturale. Fra un anno o due questo profumo sarebbe stato maturo, e avrebbe avuto un potere cui nessun essere umano, uomo o donna, sarebbe riuscito a sottrarsi. E la gente sarebbe stata sopraffatta, disarmata, inerme dinanzi alla magia di questa fanciulla, e non avrebbe saputo perché. E poiché gli uomini sono sciocchi e usano il naso solo per sbuffare, ma credono di capire tutto e tutti con i propri occhi, avrebbero detto che era perché questa fanciulla era dotata di bellezza, di grazia e di avvenenza. Nella loro limitatezza ne avrebbero lodato i tratti regolari, la figura snella, il petto ineccepibile. E i suoi occhi, avrebbero detto, sono come smeraldi e i denti come perle e le sue membra lisce come l’avorio… e avrebbero fatto tutti i possibili paragoni idioti. E l’avrebbero eletta regina dei gelsomini, sarebbe stata dipinta da stupidi ritrattisti, il suo ritratto sarebbe stato guardato a bocca aperta, avrebbero detto che era la più bella donna di Francia. E i giovani avrebbero trascorso la notte sotto la sua finestra uggiolando al suono dei mandolini… Vecchi signori grassi sarebbero caduti in ginocchio davanti a suo padre implorando la mano di lei… e donne di ogni età avrebbero sospirato al vederla, e in sonno avrebbero sognato di essere seducenti come lei soltanto per un giorno. E nessuno di loro avrebbe mai saputo che in verità non era il suo aspetto ad averli resi schiavi, non la sua presunta bellezza senza macchia, ma unicamente il suo incomparabile, stupendo profumo! Soltanto lui l’avrebbe saputo, lui Grenouille, lui solo. Anzi, lo sapeva fin d’ora. Ah! Voleva avere questo profumo! Non in modo inutile e goffo, come una volta aveva avuto il profumo della fanciulla di Rue des Marais. Quel profumo, l’aveva bevuto con avidità e quindi l’aveva distrutto. No, il profumo della fanciulla dietro il muro voleva davvero farlo suo; voleva staccarlo da lei come una pelle e farne il proprio profumo. Come sarebbe accaduto, non sapeva ancora. Ma aveva due anni di tempo per impararlo. In fondo non poteva essere più difficile che carpire il profumo a un fiore raro.
Si alzò. Si allontanò quasi con riverenza, come se lasciasse qualcosa di sacro o una donna addormentata, curvo, pian piano, affinché nessuno lo vedesse, nessuno lo udisse, nessuno si accorgesse della sua preziosa scoperta. Così scivolò lungo il muro fino al limite opposto della città, dove infine il profumo della fanciulla svanì ed egli ritrovò l’accesso alla Porte des Fénéants. All’ombra delle case si fermò. L’esalazione puzzolente dei vicoli gli diede sicurezza e lo aiutò a frenare la passione che l’aveva sopraffatto. Dopo un quarto d’ora aveva riacquistato tutta la sua tranquillità. Per prima cosa, pensò, non sarebbe più andato nei pressi del giardino dietro il muro. Non era necessario. Lo agitava troppo. Il fiore là dietro cresceva senza il suo intervento, e lui sapeva come sarebbe cresciuto. Non doveva inebriarsi del suo profumo anzitempo. Doveva buttarsi nel lavoro. Doveva ampliare le sue cognizioni e perfezionare le sue capacità artigianali, ed essere preparato per l’epoca della raccolta. Aveva ancora due anni di tempo.
Non lontano dalla Porte des Fénéants, in Rue de la Louve, Grenouille trovò un piccolo laboratorio di profumiere e chiese lavoro.
Risultò che il padrone, maître parfumeur Honoré Arnulfi, era morto l’inverno precedente e che la sua vedova, una donna vivace dai capelli neri sui trent’anni circa, dirigeva il negozio soltanto con l’aiuto di un garzone.
Madame Arnulfi, dopo essersi lamentata a lungo dei tempi duri e della sua precaria situazione economica, spiegò che in realtà non avrebbe potuto permettersi un secondo garzone, ma che d’altra parte gliene occorreva uno con urgenza a causa del lavoro che sopravveniva, inoltre che non avrebbe proprio potuto ospitare a casa presso di sé un secondo garzone, tuttavia aveva una piccola capanna nel suo oliveto dietro al chiostro dei francescani — a neanche dieci minuti da lì — nella quale un giovanotto senza pretese all’occorrenza avrebbe potuto pernottare; e che, come padrona coscienziosa, si rendeva conto della sua responsabilità nei confronti della salute fisica dei suoi garzoni, ma d’altronde non era assolutamente in grado di fornire due pasti caldi al giorno… in breve: Madame Arnulfi era — come ovviamente il fiuto di Grenouille aveva già avvertito da tempo — una donna sanamente benestante e con un sano senso degli affari. E poiché a lui non interessava il denaro e si dichiarò soddisfatto di due franchi di salario la settimana e delle altre misere condizioni, si accordarono rapidamente. Fu chiamato il primo garzone, un uomo gigantesco di nome Druot: Grenouille indovinò subito che era abituato a condividere il letto di Madame e che evidentemente quest’ultima non assumeva certe decisioni senza averlo consultato. Egli si presentò davanti a Grenouille — che al cospetto di questo gigante appariva addirittura ridicolo come una foglia al vento — a gambe larghe, diffondendo una nuvola di odore spermatico, lo squadrò, lo considerò attentamente, cercando quasi di individuare qualche proposito sleale o un possibile rivale, infine sogghignò con condiscendenza e diede il proprio assenso con un cenno.
Così tutto fu regolato. Grenouille ricevette una stretta di mano, una cena fredda, una coperta e la chiave della capanna, un bugigattolo privo di finestre che puzzava gradevolmente di sterco vecchio di pecora e di fieno, e nel quale si sistemò come poteva. Il giorno seguente cominciò il suo lavoro da Madame Arnulfî.
Era l’epoca dei narcisi. Madame Arnulfi faceva coltivare i fiori in piccoli appezzamenti di terreno suo, che possedeva fuori città nella grande conca, oppure li acquistava dai contadini, con i quali mercanteggiava accanitamente per ogni quarto di libbra. I fiori venivano consegnati la mattina presto, li rovesciavano in laboratorio a cesti, a diecimila per volta in fragranti mucchi voluminosi, ma leggeri come una piuma. Nel frattempo Druot, in un grande paiolo, faceva fondere sego di porco e sego di bue in una sorta di zuppa cremosa, nella quale, mentre Grenouille doveva mescolare senza tregua con una spatola lunga quanto una scopa, gettava i fiori freschi a palate. Come occhi spaventati a morte, essi giacevano sulla superficie per un secondo e impallidivano nel momento in cui la spatola li spingeva sotto e il grasso caldo li racchiudeva. E quasi nello stesso istante erano anche già afflosciati e appassiti, ed evidentemente la morte sopravveniva così in fretta da non lasciare a essi altra scelta se non quella di insufflare il loro ultimo sospiro odoroso proprio in quell’elemento che li annegava; infatti — Grenouille lo notava con indescrivibile entusiasmo — quanti più fiori spingeva sotto mescolando nel suo paiolo, tanto più il grasso emanava profumo. E in verità non erano i fiori morti a diffondere profumo nel grasso, no, era il grasso stesso che si appropriava del profumo dei fiori.
Talvolta la poltiglia diventava troppo densa, e dovevano colarla rapidamente in grandi setacci, per liberarla dai cadaveri estenuati e prepararla a ricevere fiori freschi. Poi gettavano dentro altre palate di fiori e mescolavano e setacciavano, così per tutto il giorno senza tregua, perché il mestiere non tollerava ritardi, finché verso sera tutto il mucchio di fiori era passato attraverso il paiolo col grasso. I resti — affinché nulla andasse perduto — venivano passati di nuovo in acqua bollente e strizzati in una pressa a vite fino all’ultima goccia, e riuscivano ancora a dare un olio dall’aroma delicato. Ma la parte più consistente del profumo, l’anima di un mare di fiori, era rimasta nel paiolo, racchiusa e conservata nel grasso, di un insignificante bianco-grigio, che si rapprendeva a poco a poco.
Il giorno seguente si continuava con la macerazione, così si chiamava questa procedura: di nuovo si accendeva il fuoco sotto il paiolo, si faceva fondere il grasso e si gettavano dentro altri fiori freschi. Così per parecchi giorni, da mattina a sera. Il lavoro era faticoso. Grenouille aveva braccia di piombo, calli alle mani e dolori alla schiena, quando la sera tornava barcollando alla sua capanna. Druot, che era almeno tre volte più robusto di lui, non lo sostituiva neppure una volta nel rimestare, ma si limitava ad aggiungere i fiori quasi privi di peso e a badare al fuoco, e talvolta, a causa del calore, si allontanava per bere un goccio. Tuttavia Grenouille non si ribellava. Rimestava i fiori nel grasso senza lamentarsi, dalla mattina alla sera, e rimestando quasi non avvertiva la fatica, perché ogni volta era affascinato dal processo che si svolgeva sotto i suoi occhi e sotto il suo naso: il rapido appassire dei fiori e l’assorbimento del loro profumo.
Dopo un certo tempo Druot constatava che il grasso era saturo e non poteva più assorbire altro profumo. Spegnevano il fuoco, setacciavano la pesante poltiglia per l’ultima volta e la versavano in recipienti di terraglia, dove essa ben presto si solidificava in una pomata dall’aroma squisito.
Questo era il momento di Madame Arnulfi, che arrivava per esaminare il prezioso prodotto, per apporvi una scritta e per registrare nei suoi libri, con la massima precisione, il ricavato secondo qualità e quantità. Dopo aver chiuso personalmente i recipienti, averli sigillati e portati nei freschi recessi della cantina, indossava il suo abito nero, metteva il suo velo vedovile e iniziava il giro tra i commercianti e le ditte di profumo della città. Con parole toccanti descriveva ai compratori la sua situazione di donna sola, si faceva fare offerte, confrontava i prezzi, sospirava e infine vendeva… o non vendeva. Le pomate profumate, conservate al fresco, si mantenevano a lungo. E se ora i prezzi lasciavano a desiderare, chissà, forse d’inverno o nella prossima primavera sarebbero risaliti. C’era anche da riflettere se non convenisse, anziché vendere a quei bottegai, inviare per nave un carico di pomate a Genova assieme ad altri piccoli produttori, oppure associarsi a un convoglio diretto a Beaucaire per la fiera d’autunno: imprese rischiose, certo, ma estremamente redditizie in caso di successo. Madame Arnulfi soppesava con cura queste diverse possibilità, e talvolta anche le combinava, vendeva una parte dei suoi tesori, un’altra la conservava e con una terza trattava a proprio rischio. Quando comunque le sue informazioni le davano l’impressione che il mercato delle pomate fosse saturo e che il prossimo futuro non lasciasse presagire penurie di prodotto che avrebbero indotto i commercianti a ricorrere alle sue scorte, correva verso casa col velo fluttuante e incaricava Druot di sottoporre tutta la produzione a un lavaggio e di tramutarla in essence absolue.
E allora riprendevano la pomata dalla cantina, la riscaldavano con estrema cautela in recipienti chiusi, vi aggiungevano alcool etilico del più raffinato e, introducendo un agitatore che Grenouille manovrava, la rimescolavano e la sottoponevano a un lavaggio accurato. Una volta riportata in cantina, questa miscela si raffreddava rapidamente, l’alcool si separava dal grasso della pomata che via via si rapprendeva, ed era pronto per essere travasato in una bottiglia. Ora si presentava quasi come un profumo, ma estremamente intenso, mentre la rimanente pomata aveva perso la maggior parte del suo aroma. Così, ancora una volta, il profumo dei fiori si era trasmesso a un altro elemento. Tuttavia l’operazione non era ancora finita. Dopo un filtraggio accurato con garze che trattenevano anche i più piccoli grumi di grasso, Druot versava l’alcool profumato in un piccolo alambicco e lo distillava lentamente a fuoco molto moderato. Ciò che restava nella storta dopo la sublimazione dell’alcool era una quantità minima di liquido dal colore pallido, che a Grenouille era ben noto, ma di una qualità e purezza che il suo olfatto non aveva mai conosciuto né da Baldini né da Runel: l’olio puro dei fiori, il loro aroma netto, concentrato centomila volte in una piccola quantità di essence absolue. Quest’essenza non aveva più un odore gradevole. Aveva un odore quasi dolorosamente intenso, acuto e pungente. E tuttavia già solo una goccia, sciolta in un litro d’alcool, bastava a rianimare, a far risuscitare un intero campo di fiori senza profumo.
Il ricavato era minimo. Il liquido derivato dalla distillazione bastava giusto a riempire tre flaconi. Dell’aroma di centomila fiori non era rimasto altro se non tre piccoli flaconi. Ma valevano una fortuna, già lì a Grasse. E quanto più ancora, quando li spedivano a Parigi o a Lione, a Grenoble, a Genova o a Marsiglia! Alla vista di quei flaconcini Madame Arnulfi assumeva uno sguardo languido, li accarezzava con gli occhi, e quando li prendeva e li tappava con tappi di vetro debitamente smerigliato, tratteneva il respiro, per non disperdere nulla del prezioso contenuto. E affinché anche dopo la chiusura non sfuggisse neppure un atomo di profumo in esalazioni, sigillava i tappi con cera liquida e infilava una vescica di pesce sul collo della bottiglia, che poi legava saldamente con uno spago. Quindi deponeva i flaconi in una cassettina foderata d’ovatta e li metteva sotto chiave in cantina.
In aprile macerarono ginestre e fiori d’arancio, in maggio un mare di rose, il cui aroma immerse la città per un mese intero in una nebbia invisibile dolce come crema. Grenouille lavorava come un mulo. Eseguiva umilmente, con una disponibilità quasi da schiavo, tutti i lavori da subalterno che Druot gli accollava. Ma mentre con apparente ottusità rimestava, spatolava, lavava tinozze, puliva il laboratorio o andava a prendere la legna da ardere, alla sua attenzione non sfuggiva nulla dei processi fondamentali del mestiere, nulla della metamorfosi dei profumi. Con una precisione maggiore di quella che avrebbe potuto avere Druot, e cioé con il suo naso, Grenouille seguiva e sorvegliava la migrazione dei profumi dai petali dei fiori al grasso e all’alcool fino ai preziosi flaconcini. Molto prima che Druot se ne accorgesse, sentiva al fiuto quando il grasso si riscaldava troppo, sentiva quando i fiori erano esauriti, quando la poltiglia era satura di profumo, sentiva quello che succedeva dentro al recipiente di miscelatura e in quale preciso momento si doveva porre fine al processo di distillazione. E all’occasione si faceva capire, naturalmente con molto tatto e senza perdere il suo atteggiamento sottomesso. Aveva la sensazione, diceva, che ora il grasso potesse essersi scaldato troppo; pensava quasi che fra non molto si potesse filtrare; aveva un certo presentimento che ora l’alcool nell’alambicco fosse evaporato… E Druot, che a dire il vero non era proprio di un’intelligenza eccezionale, ma nemmeno del tutto stupido, con il tempo capì che le sue decisioni si dimostravano le più giuste allorché faceva o ordinava di fare appunto quello che Grenouille «pensava quasi» o di cui aveva «un certo presentimento». E poiché Grenouille non esprimeva mai in modo saputo o saccente quello che pensava o presentiva, e poiché mai — e soprattutto mai in presenza di Madame Arnulfi — avrebbe messo in dubbio anche solo con ironia l’autorità di Druot e la sua posizione preminente di primo garzone, Druot non aveva motivo di non seguire i consigli di Grenouille, anzi, con l’andar del tempo, di non affidargli sempre più potere decisionale.
Sempre più spesso Grenouille non soltanto rimestava, ma riforniva di fiori il paiolo, lo faceva scaldare e filtrava, mentre Druot spariva per fare un salto ai Quatre Dauphins a bere un bicchiere di vino o saliva da Madame per vedere se tutto era in ordine. Sapeva di potersi fidare di Grenouille. E a Grenouille, sebbene sbrigasse doppio lavoro, piaceva essere solo, perfezionarsi nella nuova arte e all’occasione eseguire piccoli esperimenti. E con immensa gioia constatò che la pomata preparata da lui era incomparabilmente più fine, che la sua essence absolue era più pura di grado di quelle che produceva assieme a Druot.
Alla fine di luglio cominciò l’epoca dei gelsomini, in agosto quella delle tuberose. Entrambi i fiori avevano un profumo così squisito e fragile a un tempo che non soltanto si dovevano raccogliere prima dell’alba, ma richiedevano una lavorazione particolarissima, estremamente delicata. Il calore riduceva il loro profumo, l’immersione brutale nel grasso caldo della macerazione l’avrebbe totalmente distrutto. Questi fiori tra i più nobili non si lasciavano strappare l’anima così semplicemente, bisognava carpirla con vere e proprie lusinghe. Bisognava spargerli su lastre spalmate di grasso freddo o avvolgerli mollemente in pezze di stoffa imbevute d’olio in un ambiente apposito, e là lasciarli riposare fino alla morte. Soltanto dopo tre o quattro giorni erano appassiti, e avevano ceduto il loro aroma al grasso e all’olio con cui erano stati a contatto. Poi si staccavano con cautela dalle lastre e dalle pezze di stoffa, e su queste si spargevano altri fiori freschi. Il procedimento si ripeteva anche dieci, venti volte, e durava fino a settembre, periodo in cui la pomata si era saturata del tutto e l’olio aromatico si poteva spremere dalle pezze. Il ricavato era notevolmente minore rispetto a quello ottenuto con la macerazione. Ma la qualità di una simile pasta di gelsomino ottenuta con l’enfleurage a freddo o di un huile antique de tubéreuse superava in finezza e fedeltà al profumo originale qualsiasi altro prodotto dell’arte profumiera. Soprattutto nel caso del gelsomino, era come se il profumo dolce e avvincente, erotico del fiore si fosse riflesso sulle lastre spalmate di grasso come in uno specchio, e da esso s’irraggiasse di nuovo tale e quale… cum grano salis, ovviamente. Infatti il naso di Grenouille distingueva ancora perfettamente l’odore dei fiori dal loro aroma conservato; l’odore particolare del grasso — per quanto puro fosse — si stendeva come un velo delicato sull’immagine odorosa dell’originale, la mitigava, ne indeboliva un poco la nota emergente, forse soltanto allora rendeva la sua bellezza sopportabile per la gente comune… Ma comunque l’enfleurage a freddo era il sistema più raffinato e più efficace per catturare i profumi delicati. E anche se il metodo non bastava a convincere del tutto il naso di Grenouille, egli sapeva che era più che sufficiente per ingannare un mondo fatto di nasi ottusi.
In breve tempo aveva già superato il suo maestro Druot sia nella macerazione sia nell’arte della profumazione a freddo, e gliel’aveva fatto capire nel solito modo discreto e sottomesso. Druot gli affidava volentieri il compito di andare al mattatoio ad acquistare i grassi più adatti e quello di pulirli, scioglierli, filtrarli e decidere in quale proporzione combinarli nella miscela: un compito sempre molto difficile e temuto da Druot, perché un grasso impuro, rancido o con un odore troppo forte di maiale, di montone o di bue poteva rovinare la più pregiata delle pomate. Lasciava che decidesse la distanza tra le lastre spalmate di grasso nell’ambiente della profumazione, il momento in cui cambiare i fiori, il grado di saturazione della pomata, e presto gli affidò tutte le decisioni critiche che lui, Druot, come a suo tempo Baldini, riusciva a prendere soltanto con una certa approssimazione secondo regole imparate macchinalmente, ma che Grenouille indovinava con la sapienza del suo naso: cosa che naturalmente Druot non sospettava.
«Ha una mano felice», diceva Druot, «ha un senso sicuro delle cose.» E talvolta pensava anche: «È semplicemente molto più dotato di me, è un profumiere cento volte migliore». E nello stesso tempo lo considerava uno stupido fatto e finito, perché pensava che Grenouille non traesse il minimo profitto dal suo talento; ma lui, Druot, con le sue capacità più modeste, in avvenire ne avrebbe fatto un maestro. E Grenouille lo rafforzava in questa convinzione, si comportava deliberatamente come uno sciocco, non mostrava la minima ambizione, fingeva di non sospettare affatto la propria genialità, ma di agire soltanto secondo le disposizioni del molto più esperto Druot, senza il quale lui sarebbe stato un nonnulla. In tal modo andavano perfettamente d’accordo.
Poi arrivò l’autunno e anche l’inverno. Nel laboratorio ci fu più calma. I profumi di fiori erano chiusi in cantina, nei loro recipienti e flaconi, e quando Madame non voleva lavare questa o quella pomata o non dava ordine di distillare un sacco di spezie secche, non c’era più molto da fare. C’erano ancora le olive, ogni settimana un paio di ceste colme. Spremevano da esse l’olio vergine e gettavano il resto nel frantoio. E il vino, che Grenouille in parte distillava e rettificava in alcool…
Druot si faceva vedere sempre meno. Faceva il suo dovere nel letto di Madame, e quando compariva, puzzando di sudore e di sperma, era soltanto per sparire ben presto alla volta dei Quatre Dauphins. Anche Madame scendeva di rado. Si occupava delle sue questioni patrimoniali e della trasformazione del suo guardaroba per il periodo successivo all’anno di lutto. Spesso Grenouille non vedeva nessuno per giorni tranne la serva, dalla quale a mezzogiorno riceveva una zuppa e alla sera pane e olive. Usciva di rado. Partecipava alla vita corporativa, cioé alle riunioni regolari dei garzoni e ai cortei, giusto quel tanto da non essere notato né per la sua assenza né per la sua presenza. Amicizie e conoscenze più intime non ne aveva, ma stava ben attento a non farsi considerare arrogante o diverso dagli altri. Lasciava che fossero gli altri garzoni a trovare la sua compagnia insulsa e improduttiva. Era un maestro nell’arte di diffondere attorno a sé la noia e di spacciarsi per uno sciocco maldestro… naturalmente non in modo così esagerato che ci si potesse prendere gioco di lui con piacere o farne la vittima di qualche scherzo grossolano, tipico della corporazione. Riuscì a farsi considerare del tutto privo di interesse. Lo lasciarono in pace. E lui non voleva altro.
Passava il suo tempo in laboratorio. A Druot diede a intendere che voleva inventare una ricetta per l’acqua di Colonia. Ma in verità sperimentava aromi del tutto diversi. Il suo profumo, quello miscelato a Montpellier, stava per terminare, sebbene lo usasse con molta parsimonia. Ne creò uno nuovo. Questa volta però non si accontentò più di imitare alla meno peggio l’odore fondamentale degli uomini usando elementi combinati più o meno a caso, ma mise in gioco tutta la sua ambizione per crearsi un profumo personale o piuttosto una serie di profumi personali.
Dapprima si fece un odore non appariscente, un abito profumato grigio-topo per tutti i giorni, in cui l’odore umano di formaggio acido era ancora presente, ma si diffondeva all’esterno quasi soltanto come attraverso uno spesso strato di indumenti di lino e di lana messi sulla pelle secca di un vecchio. Con questo odore poteva mescolarsi tranquillamente agli altri. Il profumo era abbastanza forte da motivare l’esistenza di una persona dal punto di vista olfattivo, e nel contempo abbastanza discreto da non disturbare nessuno. Con esso Grenouille non era del tutto presente in quanto a odore, e tuttavia era pur sempre giustificato, in misura estremamente discreta, nella sua presenza: una condizione ambigua che gli giungeva molto a proposito sia in casa Arnulfi sia nei suoi giri occasionali per la città.
Certo, in qualche occasione quell’aroma discreto era di ostacolo. Quando doveva fare commissioni per incarico di Druot o voleva acquistare per sé da un commerciante un po’ di zibetto o qualche granulo di muschio, poteva accadere che, dal momento che nessuno lo notava, o lo ignorassero del tutto non servendolo, o, se lo vedevano, lo servissero in modo sbagliato o si dimenticassero di lui mentre stavano servendolo. Per simili occasioni si era preparato un profumo un po’ più piccante, con una leggera traccia di sudore, con alcuni angoli e spigoli olfattori, che gli conferiva un aspetto più rude e faceva credere alla gente che andasse di fretta e che lo aspettassero affari urgenti. Anche con un’imitazione dell’aura seminalis di Druot, che seppe fabbricare in modo incredibilmente somigliante ungendo una pezza di lino con una pasta di uova fresche d’anitra e farina di frumento fermentata, ottenne discreti successi, quando si trattava di richiamare una certa attenzione.
Un altro profumo del suo arsenale era un aroma atto a suscitare compassione, che funzionava con donne di età media e avanzata. Sapeva di latte magro e di legno tenero scortecciato. Con esso Grenouille — anche quando si presentava non rasato, con la faccia scura, avvolto nel suo mantello — dava l’impressione di un povero ragazzo pallido, con una giacchetta logora, che bisognava aiutare. Le donne del mercato, quando avvertivano il suo odore, gli davano di nascosto noci e pere secche, perché trovavano che avesse un’aria davvero affamata e indifesa. E dalla moglie del macellaio, una vecchiaccia di per sé severa e inflessibile, Grenouille ebbe il permesso di scegliersi vecchi resti di carne puzzolente e pezzi di osso e di portarli via gratis, perché il suo profumo innocente commuoveva il cuore materno della vecchia. Con questi resti egli poi, facendoli macerare direttamente in alcool, fabbricò la componente principale di un odore che si metteva addosso quando voleva stare tutto solo ed essere evitato. L’odore gli creava attorno un’atmosfera di leggero disgusto, un sentore di marcio, simile all’alito che proviene da vecchie bocche malandate al momento del risveglio. L’effetto era così potente che persino Druot, non certo molto schizzinoso, doveva voltarsi immediatamente e andare all’aperto, senza ben rendersi conto di quello che l’aveva disgustato. E un paio di gocce del repellente, sparse sulla soglia della sua capanna, bastavano a tener lontano ogni possibile intruso, uomo o animale.
Protetto da questi odori diversi, che cambiava come abiti a seconda delle esigenze esterne e che gli servivano per passare inosservato nel mondo degli uomini e per non far conoscere la sua natura, Grenouille si dedicò alla sua vera passione: la raffinata caccia agli aromi. E poiché aveva in vista una meta importante e ancora più di un anno di tempo, nell’affilare le sue armi, nel limare le sue tecniche, nel perfezionare gradualmente i suoi metodi non procedeva con fervido zelo, bensì in modo pianificato e sistematico. Cominciò dal punto in cui aveva smesso quando lavorava da Baldini, cioé cercando di carpire gli aromi di cose inanimate: pietra, metallo, vetro, legno, sale, acqua, aria…
Ciò che allora era miserabilmente fallito tramite il rozzo procedimento della distillazione, ora riusciva grazie al forte potere di assorbimento dei grassi. Per un paio di giorni Grenouille spalmò di sego di bue il pomello d’ottone di una porta, di cui gli piaceva l’odore che lo permeava, di muffa fresca. Ed ecco che, quando raschiò via il sego e lo analizzò, aveva proprio l’odore di quel pomello, in misura minima, ma inequivocabilmente chiaro. E persino dopo un lavaggio in alcool l’odore era ancora presente, estremamente delicato, lontano, offuscato dall’esalazione dell’alcool e percepibile unicamente dal naso affinato di Grenouille… ma pur sempre presente, e cioé disponibile in linea di principio. Se avesse avuto diecimila pomelli e li avesse spalmati di sego per mille giorni, sarebbe riuscito a fabbricare una minuscola goccia di essence absolue dell’aroma del pomello di ottone, così intenso che ognuno avrebbe avuto innegabilmente sotto il proprio naso l’illusione dell’originale.
La stessa cosa gli riuscì con l’aroma poroso di una pietra calcarea che aveva trovato sull’uliveto davanti alla sua capanna. La fece macerare e ottenne una piccola quantità di pomata alla pietra, il cui odore infinitesimale lo rallegrò indescrivibilmente. Lo unì ad altri odori, estratti da tutti i possibili oggetti che si trovavano attorno alla sua capanna, e fabbricò a poco a poco un modello olfattivo in miniatura di quell’uliveto dietro al chiostro dei francescani, che poteva portare con sé chiuso in un piccolo flacone ed espandere quando voleva far rivivere l’odore.
Erano virtuose acrobazie dell’arte profumiera, quelle che eseguiva, splendidi passatempi, che naturalmente nessuno tranne lui poteva apprezzare o anche soltanto riconoscere. Ma quanto a lui, era affascinato dalle perfezioni assurde, e né prima né dopo nella sua vita ci furono momenti di felicità davvero innocente come in quel periodo, in cui con zelo giocoso creò paesaggi, nature morte e immagini di singoli oggetti odorosi. E ben presto passò a esseri viventi.
Diede la caccia a mosche invernali, larve, ratti, gattini appena nati e li annegò nel grasso caldo. Di notte s’insinuava nelle stalle, e per un paio d’ore avvolgeva vacche, capre e maialini in panni spalmati di grasso, o li fasciava con bende oleose. Oppure s’introduceva furtivo in un recinto di pecore per tosare in segreto un agnello e lavare poi la sua lana odorosa in alcool etilico. Dapprima i risultati non furono del tutto soddisfacenti. Infatti, diversamente dal pomello e dalla pietra, gli animali erano molto riluttanti a lasciarsi carpire il loro aroma. I maiali si strappavano le bende sfregandosi contro gli stipiti dei loro porcili. Le pecore belavano, quando lui di notte si avvicinava con il coltello. Le mucche si ostinavano a scuotersi dalle mammelle i panni spalmati di grasso. Alcuni coleotteri che trovò, mentre stava per trattarli, produssero secrezioni puzzolenti, e i ratti, sicuramente per paura, cagarono sulle sue pomate, estremamente sensibili dal punto di vista olfattivo. Diversamente dai fiori, gli animali che tentava di macerare non cedevano il loro aroma senza un lamento oppure soltanto con un muto sospiro, ma rifiutavano disperatamente di morire, non volevano a nessun costo essere spinti sotto con la spatola, si dimenavano e lottavano, producendo in tal modo quantità eccessive di sudore di paura e di morte, che con la loro iperacidità rovinavano il grasso caldo. Naturalmente così non si poteva fare un buon lavoro. I soggetti dovevano essere immobilizzati, e così all’improvviso da non arrivare neppure ad aver paura o a opporre resistenza. Doveva ucciderli.
Per prima cosa provò con un cagnolino. Davanti al mattatoio, lo distolse dalla madre e lo attirò con un pezzo di carne fino al laboratorio, e mentre l’animale, ansimando con gioiosa eccitazione, cercava di addentare la carne alla sinistra di Grenouille, quest’ultimo lo colpì seccamente alla nuca con un pezzo di legno che teneva nella mano destra. La morte sorprese il cagnolino così repentina, che esso mantenne a lungo un’espressione di felicità attorno alla bocca e negli occhi, anche quando Grenouille lo depose su una griglia tra due lastre spalmate di grasso nell’ambiente di profumazione, dove poi cominciò a diffondere il suo profumo di cane, puro, non contaminato dal sudore della paura. Naturalmente bisognava stare attenti! I cadaveri, così come i fiori recisi, si guastavano in fretta. E così Grenouille montò la guardia accanto alla sua vittima, per dodici ore circa, finché si accorse che il corpo del cane emanava le prime esalazioni di decomposizione, in verità gradevoli, ma adulteranti. Subito interruppe l’enfleurage, tolse il cadavere e mise al sicuro il grasso lievemente profumato in un paiolo, dove lo lavò con cura. Distillò l’alcool fino a ridurlo alla quantità di un ditale, e con questo ricavato riempì una minuscola cannula di vetro. Il profumo sapeva chiaramente dell’aroma umido, fresco e grasso della pelle del cane, e continuò a mantenere quest’aroma sorprendentemente forte. E quando Grenouille lo fece fiutare alla vecchia cagna del mattatoio, essa proruppe in ululati di gioia e guaì e non voleva più staccare le narici dalla cannula. Ma Grenouille la tappò con cura, la prese e la portò con sé ancora a lungo a ricordo di quel giorno di trionfo in cui era riuscito per la prima volta a carpire l’anima odorosa a un essere vivente.
Poi, molto gradualmente e con estrema cautela, si accostò agli esseri umani. Dapprima andò a caccia da una distanza di sicurezza con una rete a maglia larga, perché gl’importava non tanto fare grossi bottini, quanto piuttosto sperimentare il suo metodo di caccia.
Camuffato con il suo profumo leggero che non dava nell’occhio, una sera si mescolò agli ospiti della locanda Quatre Dauphins, e attaccò piccoli brandelli di stoffa imbevuti di olio e di grasso sotto i banchi e i tavoli e in nicchie nascoste. Qualche giorno dopo li raccolse e li esaminò. In effetti, oltre a tutte le possibili esalazioni di cucina, odori di fumo, di tabacco e di vino, avevano assorbito anche un lieve odore umano. Ma esso restava molto vago e velato, era più il sentore di un’esalazione generica che non un odore personale. Una simile aura di massa, ma più pura e intensificata nel sublime-sudaticcio, si poteva trovare nella cattedrale, dove Grenouille il 24 dicembre attaccò sotto i banchi i suoi straccetti di prova, e li riprese il 26, dopo che non meno di sette messe vi si erano depositate sopra: un orribile conglomerato di odori di sudore anale, sangue mestruale, popliti umidicci e mani contratte, frammisto al respiro emesso da mille gole che avevano cantato in coro e snocciolato avemarie, e alle esalazioni opprimenti dell’incenso e della mirra, si era condensato sugli straccetti impregnati, orribile nel suo addensamento nebuloso, privo di contorni, nauseante, e tuttavia già inconfondibilmente umano.
Il primo odore individuale Grenouille se lo procurò all’ospizio della Charité. Riuscì a trafugare il lenzuolo, destinato a essere bruciato, di un garzone valigiaio appena morto di tisi, nel quale costui era stato avvolto per due mesi. Il lenzuolo era talmente impregnato dell’unto del valigiaio, che aveva assorbito le sue esalazioni come una pasta da enfleurage, e si poté sottoporre direttamente al lavaggio. Il risultato dette qualcosa di simile a uno spettro: dal punto di vista olfattivo, sotto il naso di Grenouille il valigiaio risuscitò dalla soluzione di alcool etilico, e fluttuò per la stanza, anche se spettralmente alterato dal singolare metodo della riproduzione e dai numerosi miasmi della sua malattia, ma tuttavia discretamente riconoscibile come immagine olfattiva individuale: un uomo piccolo di trent’anni, biondo, col naso tozzo, gli arti corti, i piedi piatti simili a cera, il membro enfiato, il temperamento bilioso e l’alito insipido: non certo un bell’uomo dal punta di vista olfattivo, questo valigiaio, non degno di essere conservato oltre come quel piccolo cane. E tuttavia Grenouille lo lasciò fluttuare come spirito odoroso per una notte intera nella sua capanna, e continuò a fiutarlo, felice e profondamente soddisfatto per il potere che aveva acquisito sull’aura di un altro uomo. Il giorno seguente lo gettò via.
In quei giorni d’inverno fece un’altra prova. A una mendicante muta, di passaggio in città, diede un franco affinché portasse per un giorno sulla pelle nuda straccetti trattati con diverse misture di grasso e d’olio. Risultò che una combinazione di grasso di reni di agnello e di sego di porco e di vacca depurati più volte in proporzione due/cinque/tre, con l’aggiunta di piccole dosi di olio vergine, era la più adatta ad assorbire l’odore umano.
Con ciò Grenouille si ritenne appagato. Rinunciò a impossessarsi di un essere umano vivo nella sua totalità e a utilizzarlo per carpirgli il profumo. Una cosa simile sarebbe sempre stata rischiosa e non avrebbe procurato cognizioni nuove. Ora sapeva di possedere le tecniche per carpire l’odore di un uomo, e non era necessario provarlo ancora a se stesso.
Inoltre, l’odore umano di per sé gli era indifferente. Con surrogati poteva imitare discretamente l’odore dell’uomo. Quello che voleva, era l’odore di certi esseri umani: e cioé le creature estremamente rare che ispirano l’amore. Queste erano le sue vittime.
In gennaio la vedova Arnulfi sposò il suo primo garzone Dominique Druot, che in tal modo fu promosso Maître gantier e parfumeur. Ci fu un gran pranzo per i maestri della corporazione e uno più modesto per i garzoni; Madame acquistò un materasso nuovo per il suo letto, che ora condivideva ufficialmente con Druot, e tirò fuori dall’armadio il suo guardaroba colorato. Per il resto tutto rimase come prima. Mantenne il buon vecchio nome di Arnulfi, mantenne il patrimonio indiviso, la conduzione finanziaria della ditta e le chiavi della cantina; Druot adempiva quotidianamente i suoi doveri sessuali e poi si rinfrescava col vino; e Grenouille, sebbene ora fosse primo e unico garzone, sbrigava il grosso del lavoro che sopravveniva con lo stesso salario esiguo, lo stesso vitto modesto e lo stesso misero alloggio.
L’anno cominciò con la marea gialla delle cassie, con i giacinti, con la fioritura delle violette e con i narcotici narcisi. Una domenica di marzo — era trascorso forse un anno dal suo arrivo a Grasse — Grenouille si mise in cammino per andare a controllare lo stato delle cose nel giardino dietro il muro all’altro limite della città. Questa volta era preparato al profumo, sapeva molto bene quello che l’aspettava… e tuttavia, quando lo fiutò, già alla Porte Neuve, appena a mezza strada da quel punto accanto al muro, il cuore gli batté più forte, e sentì che il sangue gli guizzava nelle vene dalla felicità: c’era ancora, la pianta incomparabilmente bella, aveva superato indenne l’inverno, era in succhio, cresceva, si espandeva, buttava splendide infiorescenze! Il suo profumo, come si era aspettato, era diventato più intenso senza perdere in finezza. Ciò che ancora un anno prima si era diffuso con delicatezza a spruzzi e a gocce, adesso si era quasi composto in un fiume d’aroma lievemente pastoso, che s’iridava di mille colori e tuttavia fissava ogni tonalità e non la lasciava più sfuggire. E questo fiume, constatò raggiante Grenouille, si alimentava da una fonte sempre più rigogliosa. Un anno ancora, soltanto un anno, soltanto dodici mesi ancora, e questa fonte sarebbe traboccata, e lui sarebbe tornato a catturare il getto impetuoso del suo profumo.
Corse lungo il muro fino al punto conosciuto dietro a cui si trovava il giardino. Sebbene la fanciulla non fosse evidentemente in giardino, bensì in casa, in una stanza dietro a finestre chiuse, il suo aroma spirava verso il basso come una lieve brezza ininterrotta. Grenouille stava completamente immobile. Non era inebriato o stordito come la prima volta che l’aveva sentito. Era colmo del sentimento di felicità dell’amante che spia o contempla la sua adorata da lontano e sa che verrà a prenderla tra un anno per portarla con sé. Invero Grenouille, la zecca solitaria, il bruto, il mostro Grenouille, che mai aveva provato amore e mai avrebbe potuto ispirare amore, quel giorno di marzo stava accanto alle mura della città di Grasse e amava, e il suo amore lo rendeva profondamente felice.
Non amava certo un essere umano, non certo la fanciulla della casa dietro il muro. Amava il profumo. Solo quello e nient’altro, e quello soltanto perché sarebbe stato il suo. Sarebbe tornato a prenderlo fra un anno, lo giurò sulla sua vita. E dopo aver fatto questo strano voto, o promessa di fidanzamento, dopo questa promessa di fedeltà a se stesso e al suo futuro profumo, lasciò il luogo con animo lieto e rientrò in città attraverso la Porte du Cours.
La notte, steso nella sua capanna, ancora una volta richiamò il profumo dalla memoria — non poté resistere alla tentazione — e s’immerse in esso, lo accarezzò e se ne lasciò accarezzare, così intimo, così favolosamente vicino, come se già lo possedesse realmente, il suo profumo, il suo profumo personale, e lo amò in sé e amò se stesso in lui in un prezioso momento d’ebbrezza. Voleva portarsi nel sonno questo sentimento, questo innamoramento di sé. Ma proprio nel momento in cui chiuse gli occhi e già al prossimo respiro si sarebbe assopito, esso lo abbandonò, d’un tratto era scomparso e in sua vece nella stanza c’era l’odore acre e freddo della stalla delle capre.
Grenouille sussultò. «Che cosa avverrà», pensò, «se questo profumo, che sarà mio… che cosa avverrà, quando finirà? Non è come nella memoria, dove tutti i profumi sono immortali. Quello reale si consuma nel mondo. È fugace, e quando si sarà esaurito, la fonte da cui l’ho preso non esisterà più. E io sarò nudo come prima, e dovrò arrangiarmi con i miei surrogati. No, sarà peggio di prima! Poiché nel frattempo l’avrò conosciuto e posseduto, il mio splendido profumo personale, e non riuscirò a dimenticarlo, perché non dimentico mai un profumo. E dunque vivrò tutta la vita del ricordo che ne ho; come già adesso, per un momento, ho vissuto del ricordo anticipato di lui, che sarà mio… A che cosa mi serve, dunque?»
Questo pensiero fu estremamente spiacevole per Grenouille. Lo spaventava moltissimo l’idea di dover inevitabilmente perdere il profumo, che ancora non possedeva, quando l’avesse posseduto. Per quanto tempo sarebbe durato? Qualche giorno? Qualche settimana? Un mese forse, se l’avesse usato con estrema parsimonia? E poi? Si vedeva già versare l’ultima goccia dalla bottiglia, sciacquare il flacone con alcool etilico, affinché neanche un minimo residuo andasse perduto, e poi vedeva, sentiva che il suo amato profumo si dileguava irrimediabilmente e per sempre. Sarebbe stato come un lento morire, come una sorta di asfissia alla rovescia, uno straziante graduale evaporare del suo sé nell’orribile mondo.
Rabbrividì. Fu sopraffatto dal desiderio di uscire nella notte e di andarsene. Sui monti innevati voleva andare, senza fermarsi, a cento miglia di distanza, nell’Auvergne, e là strisciare nella sua vecchia caverna e dormire fino alla morte. Ma non lo fece. Rimase dov’era e non cedette al desiderio, sebbene fosse forte. Non gli cedette perché era un suo vecchio desiderio andarsene e rinchiudersi in una caverna. Lo conosceva già. Quello che non conosceva era il possesso di un profumo umano, un profumo stupendo come quello della fanciulla dietro il muro. E anche se sapeva che avrebbe dovuto pagare un prezzo terribilmente alto per il possesso di questo profumo e la sua perdita, tuttavia il possesso e la perdita gli sembravano più degni d’esser desiderati che non la secca rinuncia a entrambi. Poiché sempre aveva rinunciato a qualcosa. Ma mai aveva posseduto e perso qualcosa.
A poco a poco i dubbi svanirono e con essi anche i brividi di freddo. Sentì che il sangue caldo lo rianimava, e la volontà di fare ciò che si era proposto riprendeva possesso di lui. Ed era una volontà ancora più forte di prima, poiché adesso non derivava più da un puro desiderio, bensì anche da una decisione ponderata. La zecca Grenouille, messa di fronte alla scelta se disseccarsi o lasciarsi cadere, si decise per la seconda ipotesi, ben sapendo che questa caduta sarebbe stata l’ultima. Si stese di nuovo sul giaciglio, piacevolmente nella paglia, piacevolmente sotto la coperta, e si sentì molto eroico.
Ma Grenouille non sarebbe stato Grenouille se si fosse accontentato a lungo di un sentimento di eroico fatalismo. Era dotato di una volontà d’autoaffermazione troppo tenace, di una natura troppo scaltra e di uno spirito troppo raffinato per farlo. Bene: aveva deciso di possedere quel profumo della fanciulla dietro il muro. E se l’avesse perso dopo qualche settimana e fosse morto per la perdita, bene anche così. Ma sarebbe stato meglio non morire e tuttavia possedere il profumo, o comunque differire la sua perdita per quanto possibile. Bisognava conservarlo. Bisognava eliminare la sua fugacità senza privarlo del suo carattere: un problema da profumiere.
Esistono profumi che durano decenni. Un armadio strofinato con muschio, un pezzo di cuoio imbevuto d’olio di cannella, uno gnocco d’ambra, una cassettina di legno di cedro mantengono l’odore quasi in eterno. Altri invece — olio di limoncello, bergamotto, estratti di narciso e di tuberosa — si dileguano già dopo qualche ora, se sono esposti all’aria puri e liberi. Il profumiere affronta questa fatale circostanza quando vincola i profumi troppo volatili con quelli duraturi, cioé impone a essi per così dire delle catene che ne regolino l’impulso di libertà, e in tal caso l’arte consiste nell’allentare le catene quel tanto che basta perché il profumo vincolato mantenga in apparenza la sua libertà, e nello stringerle quel tanto che basta perché il profumo non possa svanire. Una volta Grenouille era riuscito a eseguire alla perfezione questo pezzo di bravura con l’olio di tuberosa, incatenando il suo profumo effimero con l’aggiunta di piccole quantità di zibetto, di vaniglia, di laudano e di cipresso, e solo in tal modo era riuscito a renderlo veramente efficace. Perché non doveva essere possibile qualcosa di simile anche con il profumo della fanciulla? Perché avrebbe dovuto usare e sprecare questo profumo, il più prezioso e delicato di tutti, allo stato puro? Che sistema grossolano! Straordinariamente rozzo! I diamanti si lasciavano forse grezzi? L’oro si portava forse a pezzi attorno al collo? E lui, Grenouille, era forse un primitivo rapinatore di sostanze aromatiche come Druot e come gli altri maceratori, distillatori e torchiatori di fiori? O non era invece il più grande profumiere del mondo?
Si batté in testa inorridito per non esserci arrivato prima: naturalmente questo profumo unico non si doveva usare allo stato grezzo. L’avrebbe incastonato, come la più preziosa delle gemme. Avrebbe forgiato un diadema profumato, in cui il suo profumo, più in alto di tutti, vincolato da altri profumi e nel contempo su essi dominante, avrebbe diffuso il suo splendore. Avrebbe creato un profumo secondo tutte le regole dell’arte, e il profumo della fanciulla dietro il muro ne avrebbe rappresentato il cuore.
Naturalmente come coadiuvanti, come nota di base, di centro e di testa, come aroma di punta e come fissatore non erano adatti né il muschio né lo zibetto, né l’olio di rose né quello di neroli. Per un profumo simile, per un profumo umano, gli occorrevano altri ingredienti.
Nel maggio dello stesso anno, in un roseto a mezza strada tra Grasse e il borgo di Opio a est, fu rinvenuto il cadavere nudo di una fanciulla quindicenne. Era stata uccisa con una randellata alla nuca. Il contadino che l’aveva trovata era così turbato dall’atroce scoperta da rendersi quasi sospetto, mentre riferiva con voce tremante al tenente di polizia che non aveva mai visto una simile bellezza… quando in realtà avrebbe voluto dire che non aveva mai visto un simile orrore.
In effetti la fanciulla era di una bellezza squisita. Apparteneva a quel tipo di donne malinconiche che sembrano fatte di miele scuro, liscio e dolce e incredibilmente appiccicoso, che con un gesto vischioso, una scossa di capelli, una sola lenta sferzata del loro sguardo dominano l’ambiente, e tuttavia restano imperturbabili come al centro di un uragano, apparentemente inconsapevoli della propria forza gravitazionale, con cui attraggono irresistibilmente a sé i desideri e l’anima sia degli uomini sia delle donne. Ed era giovane, giovanissima, il fascino tipico della sua specie non era ancora trascorso in mollezza. Le sue membra robuste erano ancora compatte e sode, i suoi seni simili a uova sode appena sbucciate, e il suo volto liscio, incorniciato da capelli neri e forti, aveva ancora contorni estremamente delicati e zone di mistero. Ma i capelli non c’erano più. L’assassino li aveva tagliati e portati via, come aveva portato via i vestiti.
I sospetti caddero sugli zingari. Gli zingari erano capaci di tutto. Era noto che gli zingari tessevano tappeti con abiti vecchi e imbottivano i loro cuscini di capelli umani e fabbricavano piccole bambole con la pelle e con i denti degli impiccati. Un delitto così perverso poteva solo essere opera degli zingari. Tuttavia in quel periodo non c’erano zingari, da nessuna parte, gli zingari erano passati di lì per l’ultima volta in dicembre.
In mancanza di zingari passarono a sospettare i lavoratori stagionali italiani. Ma non c’erano neppure italiani, per loro era troppo presto, sarebbero arrivati in paese soltanto a giugno, per la raccolta dei gelsomini, dunque non potevano essere stati loro. Infine furono sospettati i fabbricanti di parrucche, presso i quali cercarono i capelli della fanciulla assassinata. Inutilmente. Allora si pensò che fossero stati gli ebrei, poi i monaci, presunti lussuriosi, del convento dei benedettini — che naturalmente erano tutti già oltre i sessanta — poi i cistercensi, poi i massoni, poi i malati di mente della Charité, poi i carbonai, poi i mendicanti, e buon’ultima la nobiltà dissoluta, in particolare il marchese di Cabris: infatti, si era sposato già per la terza volta, allestiva, dicevano, messe orgiastiche nelle sue cantine e in tali occasioni beveva sangue di vergine per aumentare la propria potenza sessuale. Ovviamente non si riuscì a provare nulla in concreto. Nessuno aveva assistito al delitto, abiti e capelli della morta non furono trovati. Dopo qualche settimana il tenente di polizia sospese le indagini.
A metà giugno arrivarono gli italiani, molti con le loro famiglie, per andare a servizio come raccoglitori. I contadini li assunsero, ma, memori del delitto, proibirono alle mogli e alle figlie di frequentarli. La prudenza non era mai troppa. Infatti, sebbene in realtà i lavoratori stagionali non fossero responsabili del delitto accaduto, in linea di principio avrebbero ben potuto esserlo, e quindi era meglio guardarsi da loro.
Poco dopo l’inizio della raccolta dei gelsomini ci furono altri due delitti. Di nuovo le vittime erano fanciulle bellissime, di nuovo appartenevano a quel tipo malinconico dai capelli neri, di nuovo furono trovate in campi di fiori nude e coi capelli tagliati, con una ferita da botta alla nuca. Di nuovo non c’era traccia del colpevole. La notizia si diffuse con la rapidità di un incendio, e quando si seppe che entrambe le vittime erano italiane, figlie di un bracciante genovese, ci fu il rischio che scoppiassero ostilità contro gli immigrati.
Ora la paura gravava sul paese. La gente non sapeva più su chi dirigere la sua rabbia impotente. C’era sì ancora qualcuno che sospettava i pazzi o l’ambiguo marchese, ma nessuno ci credeva fino in fondo, perché i pazzi erano sorvegliati giorno e notte, e il marchese era partito da tempo per Parigi. Quindi gli uomini si appressarono l’uno all’altro. I contadini aprirono i loro granai agli immigrati, che fino allora si erano accampati all’aperto. I cittadini allestirono in ogni quartiere un servizio di pattuglie notturne. Il tenente di polizia rafforzò le guardie alle porte della città. Ma tutti i provvedimenti non servirono a nulla. Pochi giorni dopo il duplice omicidio, si trovò ancora il cadavere di una fanciulla, conciato come i precedenti. Questa volta si trattava di una lavandaia sarda del palazzo vescovile, che era stata uccisa vicino al grande bacino d’acqua alla Fontaine de la Foux, dunque proprio davanti alle porte della città. E sebbene le autorità, spinte dalla cittadinanza eccitata, avessero intrapreso nuove misure — controlli più rigidi alle porte della città, rinforzo della guardia notturna, divieto di uscire per tutte le persone di sesso femminile dopo il calar delle tenebre — quell’estate non passò più settimana senza che si trovasse il cadavere di una giovanetta. E sempre si trattava di adolescenti che avevano appena cominciato a farsi donne, e sempre delle più belle e per lo più di quel tipo scuro e vischioso. Per quanto l’assassino ben presto non disdegnasse più neppure il tipo femminile predominante nella popolazione locale, molle, di pelle bianca e lievemente corpulenta. Da ultimo erano diventate sue vittime persino le castane, adolescenti dai capelli biondo-scuro… sempreché non fossero troppo magre. Le braccava ovunque, non più soltanto nei dintorni di Grasse, ma nel cuore della città, addirittura nelle case. La figlia di un falegname fu trovata morta nella sua stanza al quinto piano, e nessuno in casa aveva sentito il minimo rumore, e non uno dei cani, che in genere fiutavano qualsiasi sconosciuto e lo segnalavano con latrati, aveva abbaiato. Sembrava che l’assassino fosse inafferrabile, immateriale, come uno spirito.
La gente s’indignò e se la prese con l’autorità. La minima diceria provocava assembramenti. Un mercante girovago, che vendeva polverine d’amore e ciarlatanerie varie, fu quasi massacrato, perché si disse che i suoi rimedi contenevano capelli triturati di giovanette. Al palazzo di Cabris e all’ospizio della Charité tentarono di appiccare incendi. Il mercante di tessuti Alexandre Misnard sparò al proprio domestico uccidendolo mentre costui tornava a casa di notte, poiché l’aveva scambiato per il famigerato assassino delle fanciulle.
Chi poteva permetterselo, mandò le figlie adolescenti da parenti lontani o in pensionati a Nizza, Aix o Marsiglia. Il tenente di polizia fu destituito dalla sua carica in seguito alle pressioni del consiglio municipale. Il suo successore fece esaminare i cadaveri di quelle bellezze private dei capelli da un collegio di medici, per accertare la loro condizione verginale. Risultò che erano tutte intatte.
Stranamente questo annuncio aumentò l’orrore, anziché diminuirlo, perché in cuor suo ognuno aveva pensato che le fanciulle fossero state violentate. In tal modo potevano almeno conoscere il movente dell’assassino. Ora non sapevano più nulla, erano totalmente confusi. E chi credeva in Dio si rifugiava nella preghiera, perché almeno la sua casa fosse risparmiata dalla visita del demonio.
Il consiglio municipale — un organo composto da trenta fra i cittadini e i nobili più ricchi e più stimati di Grasse, per lo più gente illuminata e anticlericale, che finora non aveva tenuto in gran conto il vescovo e per lo più aveva trasformato conventi e abbazie in magazzini e fabbriche — i fieri, potenti signori del consiglio municipale, nel momento del bisogno, acconsentirono a pregare monsignore il vescovo, con una petizione redatta in tono sottomesso, affinché maledicesse e colpisse con la scomunica il mostro che assassinava le fanciulle e su cui le forze terrene non riuscivano a prevalere, così come aveva fatto il suo illustre predecessore nel 1708 con le terribili cavallette che a quel tempo minacciavano il paese. E in effetti l’assassino delle fanciulle di Grasse, che fino allora aveva strappato a tutti i ceti della popolazione non meno di ventiquattro tra le vergini più belle, fu scomunicato e maledetto solennemente dal vescovo in persona, sia per iscritto con un affisso sia a voce da tutti i pulpiti della città, tra i quali anche il pulpito di Notre-Dame-du-Puy.
Il successo fu travolgente. I delitti cessarono da un giorno all’altro. Ottobre e novembre trascorsero senza cadaveri. All’inizio di dicembre da Grenoble giunsero rapporti su un assassino di fanciulle che di recente circolava nel luogo, strangolava le sue vittime e strappava loro gli abiti a brandelli dal corpo e i capelli a mazzi dalla testa. E sebbene questi rozzi crimini non avessero niente a che vedere con i delitti di Grasse, eseguiti in modo ineccepibile, tutti erano convinti che si trattasse di un solo e unico autore. Gli abitanti di Grasse si fecero tre volte il segno della croce dal sollievo che la bestia imperversasse non più tra di loro, bensì a Grenoble, distante sette giorni di viaggio. Organizzarono una fiaccolata in onore del vescovo e il 24 dicembre celebrarono una grande messa di ringraziamento. Il 1° gennaio 1766 le accresciute misure di sicurezza furono ridotte, e il divieto di uscite notturne per le donne fu abolito. La normalità tornò nella vita pubblica e privata con una sveltezza incredibile. La paura era sparita come per incanto, nessuno parlava più del terrore che soli pochi mesi prima aveva dominato la città e i dintorni. Non se ne parlava neppure nelle famiglie colpite. Era come se la maledizione del vescovo avesse bandito non soltanto l’assassino, ma anche qualsiasi ricordo di lui. E alla gente andava bene così.
Soltanto chi aveva una figlia che si stava giusto avvicinando a quell’età particolare non era del tutto tranquillo a lasciarla incustodita, veniva colto dall’ansia all’ora del tramonto ed era felice la mattina quando la ritrovava viva e vegeta… naturalmente senza volersene confessare il motivo.
Ma c’era un uomo a Grasse che non credeva a quell’atmosfera di pace. Si chiamava Antoine Richis, rivestiva la carica di secondo console della città e abitava in un edificio imponente all’inizio della Rue Droite.
Richis era vedovo e aveva una figlia di nome Laure. Sebbene non avesse ancora quarant’anni e possedesse un’indomita vitalità, pensava di rimandare un secondo matrimonio ancora per quanche tempo. Prima voleva far sposare sua figlia. E non certo col primo arrivato, bensì con un uomo di rango. C’era un tal barone di Bouyon, con un figlio e un feudo a Vence, con una buona reputazione e una cattiva situazione finanziaria, con il quale Richis aveva già preso accordi per un futuro matrimonio dei rispettivi figli. Quando poi Laure fosse stata maritata, lui stesso avrebbe allungato le sue antenne di uomo libero in direzione di tre casati molto ragguardevoli, i Drée, i Maubert o i Fontmichel — non perché fosse vanesio e dovesse a ogni costo dividere il letto con una consorte nobile, ma perché voleva fondare una dinastia e indirizzare i suoi discendenti verso una via che portasse alla massima considerazione sociale e alla massima influenza politica. Per questo gli occorrevano ancora almeno due figli, uno dei quali si sarebbe occupato dei suoi affari, mentre l’altro, con una carriera giuridica e tramite il Parlamento di Aix, si sarebbe introdotto nella nobiltà. Tuttavia, come uomo del suo ceto, poteva nutrire simili ambizioni con prospettive di successo soltanto legando intimamente la sua persona e la sua famiglia alla nobiltà provenzale.
Ciò che comunque giustificava in lui progetti così ambiziosi era la sua favolosa ricchezza. Antoine Richis era di gran lunga il cittadino più facoltoso e aveva proprietà un po’ ovunque. Possedeva latifondi non soltanto nella zona di Grasse, dove faceva coltivare aranci, ulivi, frumento e canapa, ma anche nei pressi di Vence e verso Antibes, dove li aveva appaltati. Possedeva case ad Aix, case in campagna, partecipazioni in flottiglie che facevano rotta per l’India, un ufficio stabile a Genova e la più grossa ditta di Francia di sostanze odorose, spezie, olii e pelli.
Ma la cosa più preziosa che Richis possedeva era sua figlia. Era la sua unica figlia, di sedici anni giusti, con capelli rosso-scuro e occhi verdi. Aveva un viso così incantevole che i visitatori di qualsiasi età e sesso restavano a guardarla impietriti e non riuscivano più a staccare gli occhi da lei, pareva che addirittura leccassero il suo viso con gli occhi come se stessero leccando il gelato con la lingua, e, così facendo, assumevano l’espressione tipica della stupida devozione che tale attività leccatoria comporta. Persino Richis, quando guardava la propria figlia, si sorprendeva al punto che per qualche tempo, per un quarto d’ora, anche per una mezz’ora, dimenticava il mondo e con esso i suoi affari — cosa che altrimenti non gli succedeva neppure nel sonno — si scioglieva tutto nella contemplazione della splendida fanciulla e in seguito non sapeva più dire che cosa avesse fatto. E di recente — lo avvertiva con malessere — la sera quando l’accompagnava a letto o talvolta la mattina, quando andava a svegliarla, e lei stava ancora dormendo, come adagiata là da mani divine, e attraverso la sua sottile camicia da notte si manifestavano le forme dei suoi fianchi e del suo seno, e il suo respiro si levava calmo e tranquillo dal quadrato del petto, della curva dell’ascella, del gomito e dell’avambraccio liscio, su cui aveva appoggiato il viso… in quel momento, gli si torceva sgradevolmente lo stomaco, si sentiva stringere la gola e inghiottiva, e Dio sa se si malediceva per essere il padre di questa donna e non uno sconosciuto, dinanzi al quale lei giacesse come ora dinanzi a lui, che senza scrupoli avrebbe potuto stendersi accanto a lei, su di lei, entrare in lei con tutto il suo desiderio. E il sudore gli usciva a fiotti, e le sue membra tremavano, mentre soffocava in sé quel desiderio mostruoso e si chinava su di lei per svegliarla con un casto bacio paterno.
L’anno precedente, al tempo dei delitti, non aveva ancora subito simili tentazioni funeste. Il fascino che a quell’epoca sua figlia aveva esercitato su di lui era stato — così almeno gli sembrava — un fascino ancora infantile. E anche per questo non aveva mai seriamente temuto che Laure potesse diventare vittima di quell’assassino che, com’era noto, non aggrediva né donne né bambine, ma esclusivamente adolescenti in età virginale. In verità aveva intensificato la sorveglianza della sua casa, aveva fatto mettere nuove inferriate alle finestre del piano terreno e incaricato la cameriera di dividere la stanza da letto con Laure. Ma era restio a mandarla via, come facevano i suoi parigrado con le loro figlie, anzi persino con tutta la loro famiglia. Trovava questo comportamento spregevole e indegno di un membro del Consiglio e secondo console che, pensava, per i suoi concittadini avrebbe dovuto essere un modello di pacatezza, di coraggio e d’inflessibilità. Inoltre era un uomo che non si lasciava dettare decisioni da altri, non da una folla in preda al panico e meno che mai da un solo cialtrone anonimo d’un assassino. E così per tutto quel terribile periodo era stato uno dei pochi in città a restare immune dalla febbre della paura e a serbare la mente fredda. Ma ora, stranamente, tutto cambiò. Cioè, mentre gli altri là fuori, come se avessero già impiccato l’assassino, festeggiavano la fine delle sue imprese e presto dimenticarono del tutto i tempi infausti, nel cuore di Antoine Richis si annidò la paura, come un orribile veleno. Per molto tempo non volle ammettere che era la paura che lo portava a differire viaggi a lunga scadenza, a lasciare la casa malvolentieri, ad abbreviare le visite e le sedute per poter rientrare presto. Si giustificava di fronte a se stesso adducendo un’indisposizione o un eccesso di lavoro, ammetteva anche di essere un po’ preoccupato, proprio come qualsiasi padre che ha una figlia in età da marito, una preoccupazione del tutto normale… La fama della bellezza di Laure non era forse di pubblico dominio? Non si allungavano già forse i colli, quando la domenica qualcuno l’accompagnava in chiesa? E certi membri del Consiglio non facevano già delle avance, a nome proprio o dei loro figli?…
Poi, un giorno di marzo, Richis era seduto in salotto e osservava Laure passeggiare fuori in giardino: la ragazza indossava un abito blu su cui ricadevano i suoi capelli rossi, fiammeggianti alla luce del sole; Richis non l’aveva ancora mai vista così bella. La scorse sparire dietro una siepe. E poi attese un po’ più a lungo di quanto si era aspettato, forse soltanto il tempo di due battiti del cuore in più, prima che lei ricomparisse… e si spaventò a morte, perché in quei due istanti aveva pensato di averla persa per sempre.
Quella notte stessa si destò da un sogno terribile, del quale non riuscì più a ricordare il contenuto, ma sapeva che aveva a che fare con Laure, e si precipitò nella sua stanza, convinto che fosse morta, che giacesse nel letto assassinata, violentata, coi capelli tagliati… e la trovò incolume.
Tornò nella sua camera, bagnato di sudore e tremante di eccitazione, no, non d’eccitazione, bensì di paura, ora finalmente confessò a se stesso che era stato soltanto un attacco di paura e, mentre se lo confessava, la sua mente divenne lucida e tranquilla. Se doveva essere onesto, fin dall’inizio non aveva creduto alla scomunica del vescovo; né aveva creduto che l’assassino si fosse poi spostato a Grenoble; e neppure che avesse lasciato definitivamente la città. No, viveva sempre lì, tra i cittadini di Grasse, e un giorno o l’altro avrebbe colpito ancora. In agosto e in settembre Richis aveva visto alcune delle fanciulle assassinate. Quella vista l’aveva orripilato e affascinato a un tempo, doveva ammetterlo, perché tutte, e ognuna in modo molto particolare, erano di una notevole bellezza. Mai avrebbe pensato che a Grasse esistesse tanta bellezza nascosta. L’assassino gli aveva aperto gli occhi. L’assassino aveva un gusto squisito. E aveva un sistema. Non soltanto perché tutti i delitti erano eseguiti con la stessa tecnica metodica, ma anche la scelta delle vittime rivelava un proposito, per così dire, di pianificazione economica. In verità Richis non sapeva che cosa realmente volesse l’assassino dalle sue vittime, infatti non poteva certo averle depredate della loro cosa migliore, la bellezza e il fascino della loro giovinezza… oppure sì? Comunque gli pareva che l’assassino, per quanto assurdo potesse sembrare, non fosse uno spirito distruttivo, bensì un meticoloso collezionista. Vale a dire: immaginando — rifletteva Richis — tutte le vittime non più come singole creature, bensì come elementi di un principio superiore, e pensando in modo idealistico alle loro diverse qualità come fuse in un tutto unitario, ne derivava che l’immagine composta da simili pezzi di mosaico doveva essere l’immagine della bellezza per antonomasia, e il fascino che emanava da essa non era più di specie umana, bensì divina. (Come si vede, Richis era un uomo dalla mente illuminata, che non indietreggiava neppure di fronte a conclusioni blasfeme, e pur se pensava per categorie non olfattive, bensì ottiche, giungeva molto vicino alla verità.)
Ora, posto il caso — continuava a riflettere Richis — che l’assassino fosse un simile collezionista di bellezza e agisce per creare l’immagine della perfezione, foss’anche soltanto nella fantasia del suo cervello malato; posto inoltre che fosse un uomo di gusto sublime e con un metodo perfetto, come in effetti sembrava essere, non si poteva supporre che rinunciasse all’elemento più prezioso che esisteva sulla terra per completare quell’immagine, alla bellezza di Laure. Tutto il suo lavoro omicida fino a oggi non avrebbe avuto senso senza di lei. Lei era l’elemento conclusivo della sua costruzione.
Mentre formulava quest’orrendo pensiero, Richis era seduto sul suo letto in camicia da notte e si stupiva della propria calma. Non rabbrividiva e non tremava più. La paura indeterminata, che lo aveva tormentato per settimane, era scomparsa per dar luogo alla consapevolezza di un pericolo concreto: le intenzioni e le mire dell’assassino erano dirette con estrema chiarezza verso Laure, fin dall’inizio. E tutti gli altri assassinii erano stati accessori di quest’ultimo delitto, quello culminante. In verità lo scopo materiale dei delitti e comunque l’esistenza di un tale scopo restavano oscuri. Ma l’essenziale, cioé il metodo sistematico dell’assassino e il suo movente ideale, Richis l’aveva intuito. E quanto più vi rifletteva, tanto più gli piacevano entrambe le cose e tanto più cresceva la sua considerazione per l’assassino: una considerazione, certo, che subito riverberava come da un nitido specchio anche su di lui, perché comunque era stato lui, Richis, con la sua mente sottile e analitica, a scoprire i trucchi dell’avversario.
Se anche lui, Richis, fosse stato un assassino e fosse stato ossessionato dalle stesse idee passionali dell’assassino, non avrebbe potuto agire altrimenti, e come l’assassino avrebbe arrischiato tutto per coronare l’opera della sua follia con la splendida, incomparabile Laure.
Quest’ultimo pensiero in particolare lo affascinava. Infatti, che lui fosse in grado di trasferirsi col pensiero nella condizione del futuro assassino di sua figlia lo rendeva di gran lunga superiore all’assassino stesso. Questi infatti, senza alcun dubbio, con tutta la sua intelligenza non era in grado di mettersi nelle condizioni di Richis… foss’anche soltanto perché certo non poteva sospettare che da tempo Richis si era messo nella condizione di lui, dell’assassino. In fondo era così anche nel mondo degli affari… mutatis mutandis, si capisce. Uno era superiore a un concorrente di cui aveva indovinato le intenzioni; non si lasciava più mettere a terra da lui; non quando si chiamava Antoine Richis, che ne sapeva una più del diavolo ed era dotato di una natura combattiva. Alla fin fine il più grande commercio di Francia di sostanze aromatiche, la sua ricchezza e la carica di secondo console non gli erano piovuti dal cielo come una grazia, ma li aveva ottenuti lottando, con l’ostinazione, con l’inganno, poiché aveva subodorato i rischi a tempo debito, indovinato con astuzia i piani dei concorrenti e scavalcato gli avversari. E avrebbe raggiunto anche le sue mete future, il potere e la nobiltà dei suoi discendenti. E non altrimenti avrebbe sventato i progetti di quell’assassino, del suo concorrente per il possesso di Laure… non foss’altro perché Laure rappresentava l’elemento conclusivo anche nella costruzione dei piani personali suoi, di Richis. L’amava, certo, ma ne aveva anche bisogno. E ciò che gli serviva per realizzare le sue più alte ambizioni non se lo lasciava togliere da nessuno, lo teneva ben stretto con unghie e con denti.
Ora stava meglio. Dopo essere riuscito a portare le sue riflessioni notturne circa la lotta con il demone sul campo più ristretto di una disputa commerciale, si sentì pieno di coraggio, addirittura di baldanza. Era svanito l’ultimo residuo di paura, scomparso lo scoramento e scomparsa l’ansia struggente, che lo avevano tormentato come se fosse stato un vecchio tremebondo, dileguata la nebbia dei foschi presentimenti, in cui brancolava da settimane. Si trovava su un terreno familiare, e si sentiva all’altezza di qualsiasi sfida.
Sollevato, quasi divertito, saltò fuori del letto, tirò il nastro del campanello e ordinò al suo domestico assonnato di preparare abiti e provviste, perché sul far del giorno pensava di partire per Grenoble in compagnia della figlia. Poi si vestì e cacciò fuori dei letti il resto del personale.
Nel cuore della notte la casa di Rue Droite si ridestò a una vita operosa. In cucina si accesero i fuochi, le serve correvano agitate per i corridoi, il domestico si affrettava su e giù per le scale, nelle volte delle cantine risuonava il clangore delle chiavi del magazziniere, in cortile ardevano le fiaccole, alcuni servi correvano a prendere i cavalli e altri tiravano fuori i muli dalle stalle, era tutto un imbrigliare, un sellare, un correre e un caricare: si sarebbe potuto credere che stessero avanzando le orde austrosarde, saccheggiando e bruciando tutto come nell’anno 1746, e che il padrone di casa, in preda al panico, si preparasse a una rapida fuga. Ma niente di tutto questo! Il padrone di casa era seduto sovranamente, come un Maresciallo di Francia, allo scrittoio del suo ufficio, beveva caffellatte e dava istruzioni ai domestici che irrompevano uno dopo l’altro. Nel frattempo scriveva lettere al maire e al primo console, al suo notaio, al suo avvocato, al suo banchiere di Marsiglia, al barone di Bouyon e a diversi soci d’affari.
Verso le sei aveva sbrigato la corrispondenza e completato tutte le disposizioni necessarie per realizzare i suoi piani. Prese con sé due piccole pistole da viaggio, si affibbiò la cintura con il denaro e chiuse a chiave lo scrittoio. Poi andò a svegliare sua figlia.
Alle otto la piccola carovana si mise in moto. Richis cavalcava in testa, splendido a vedersi con una veste rosso-vino gallonata d’oro, redingote nera e cappello nero dal baldanzoso pennacchio. Lo seguiva sua figlia, vestita più discretamente, ma di una bellezza così radiosa che la gente per strada e alle finestre aveva occhi soltanto per lei, tra la folla giravano solenni «ah» e «oh» e gli uomini si toglievano il cappello: in apparenza davanti al secondo console, ma in realtà davanti a lei, la donna regale. Poi, quasi inosservata, veniva la cameriera, quindi il domestico di Richis con due cavalli da soma — lo stato notoriamente cattivo della strada per Grenoble non consentiva l’uso di una carrozza — e a chiusura del corteo c’erano una dozzina di muli caricati con tutte le possibili mercanzie, sorvegliati da due servi. Alla Porte du Cours le guardie presentarono le armi e le riabbassarono soltanto dopo il passaggio dell’ultimo mulo. Qualche bambino corse dietro al corteo ancora per un certo tempo, poi salutò a lungo con cenni il seguito che si allontanava lentamente salendo per il sentiero ripido e tortuoso verso i monti.
Alla gente la partenza di Antoine Richis con sua figlia fece una strana, profonda impressione. Era come se avessero assistito a un sacrificio arcaico. Si era diffusa la voce che Richis fosse diretto a Grenoble, cioé nella città in cui ultimamente dimorava il mostro che assassinava le fanciulle. La gente non sapeva che cosa pensare. Quella di Richis era un’imperdonabile leggerezza o un’azione coraggiosa degna di ammirazione? Voleva sfidare o placare gli dèi? C’era il vago e confuso presentimento di avere appena visto la bella fanciulla dai capelli rossi per l’ultima volta. Il presentimento che Laure Richis fosse perduta.
Questa sensazione si sarebbe rivelata giusta, sebbene si fondasse su presupposti totalmente sbagliati. Perché Richis non era diretto a Grenoble. La pomposa partenza non era stata altro che una finta. Fece fermare il corteo a un miglio e mezzo di distanza da Grasse in direzione nord-ovest, nei pressi del villaggio di Saint-Vallier. Consegnò al suo cameriere le procure e una lettera di accompagnamento, e gli ordinò di condurre a Grenoble soltanto il convoglio con i muli e i servi.
Quanto a lui, si avviò con Laure e la domestica verso Cabris, dove si concesse una pausa per il mezzogiorno, poi, attraverso i monti del Tanneron, cavalcò in direzione obliqua verso sud. Il percorso era estremamente disagevole, ma permetteva di aggirare Grasse e la conca di Grasse descrivendo un ampio arco a ovest e di raggiungere la costa entro sera in incognito… Il giorno seguente — tale era il piano di Richis — avrebbe preso il traghetto con Laure per le isole Lérins, nella più piccola delle quali si trovava il convento fortificato di Saint-Honorat. Esso era amministrato da pochi monaci, vecchi ma ancora pieni d’energia, che Richis conosceva bene, perché acquistava e rivendeva già da anni tutta la produzione del convento di liquore d’eucalipto, pinoli e olio di cipresso. E per prima cosa pensava di sistemare sua figlia proprio lì, nel convento di Saint-Honorat, che assieme al penitenziario di Château d’If e al carcere statale dell’isola di Sainte-Marguerite era senz’altro il luogo più sicuro della Provenza. Lui poi sarebbe tornato senza indugio in terraferma, questa volta avrebbe aggirato Grasse via Antibes e Cagnes, e la sera del giorno stesso sarebbe arrivato a Vence. Là aveva già convocato il suo notaio per stipulare un accordo definitivo con il barone de Bouyon circa le nozze dei loro figli Laure e Alphonse. A Bouyon intendeva fare un’offerta che questi non avrebbe potuto rifiutare: assunzione dei suoi debiti nella misura di 40.000 lire, dote consistente in una somma della stessa entità, come pure diverse grosse proprietà terriere e un frantoio presso Maganosc, nonché una rendita annua di 3000 lire per la giovane coppia. L’unica condizione di Richis era che il matrimonio avvenisse entro dieci giorni e fosse consumato il giorno stesso delle nozze, e che successivamente la coppia si stabilisse a Vence.
Richis sapeva che con un procedimento così affrettato avrebbe alzato il prezzo per l’unione della sua casa con quella dei de Bouyon in misura del tutto sproporzionata. Se avesse potuto aspettare, l’avrebbe ottenuta a minor prezzo. Il barone avrebbe mendicato in ginocchio di poter elevare il rango della figlia di un grande commerciante borghese tramite il matrimonio con suo figlio, perché la fama della bellezza di Laure era senz’altro destinata ad accrescersi, esattamente come la ricchezza di Richis e la miseria di Bouyon! Ma fosse pure! In questa transazione commerciale il suo avversario non era il barone, bensì l’assassino sconosciuto. L’importante per lui era rovinargli l’affare. Una donna sposata, defiorata e se possibile già ingravidata, non era più adatta alla galleria esclusiva dell’assassino. L’ultimo pezzo del mosaico sarebbe stato falso, Laure avrebbe perso qualsiasi valore per l’assassino, la cui opera sarebbe fallita. E doveva sentire tutto il peso di questa sconfitta! Richis voleva celebrare le nozze a Grasse, con gran pompa e davanti a tutti. E anche se non conosceva e non avrebbe mai conosciuto il suo avversario, sarebbe pur stato un piacere per Richis sapere che quello assisteva all’avvenimento ed era costretto a vedere con i propri occhi che la sua preda più ambita gli veniva portata via sotto il naso. Il piano era ben escogitato. E di nuovo dobbiamo ammirare il fiuto di Richis, che l’aveva portato così vicino alla verità. Poiché in effetti il matrimonio di Laure Richis con il figlio del barone de Bouyon avrebbe significato una sconfitta totale per l’assassino delle fanciulle di Grasse. Ma il piano non era ancora stato realizzato. Richis non aveva ancora messo in salvo sua figlia con il matrimonio. Non l’aveva ancora portata fino al convento sicuro di Saint-Honorat. I tre cavalieri stavano ancora attraversando le montagne inospitali del Tanneron. I sentieri erano così difficoltosi che talvolta bisognava scendere da cavallo. Tutto procedeva molto lentamente. Speravano di raggiungere il mare presso La Napoule, una piccola località a ovest di Cannes, verso sera.
Nel momento in cui Laure Richis lasciava Grasse con suo padre, Grenouille si trovava dall’altra parte della città nel laboratorio di Madame Arnulfi, e macerava giunchiglie. Era solo, ed era di buon umore. Il suo periodo di Grasse si avviava alla fine. Il giorno del trionfo era imminente. Nella capanna là fuori, in una cassettina foderata d’ovatta, c’erano ventiquattro minuscoli flaconi con l’aura condensata in gocce di ventiquattro vergini: le essenze più preziose che Grenouille aveva ottenuto l’anno prima mediante l’enfleurage a freddo dei corpi, la macerazione dei capelli e dei vestiti, il lavaggio e la distillazione. E quel giorno Grenouille si sarebbe impossessato della venticinquesima, la più preziosa e la più importante. Per quest’ultimo colpo aveva già preparato un piccolo recipiente con grasso depurato più volte, una pezza di lino finissimo e un pallone di alcool ad alta gradazione. Il terreno era stato sondato con estrema precisione. Era il periodo della luna nuova.
Sapeva che un tentativo di irruzione improvvisa nell’edificio ben custodito di Rue Droite era assurdo. Per questo voleva insinuarsi e nascondersi in qualche angolo della casa già all’inizio del tramonto, prima ancora che chiudessero le porte della città, protetto dalla propria mancanza di odore, che, come una cappa magica, lo sottraeva alla percezione di uomini e animali. Più tardi, mentre tutti dormivano, sarebbe salito fino alla stanza del suo tesoro, guidato nell’oscurità dalla bussola del suo naso. Avrebbe eseguito il lavoro sul luogo con la pezza imbevuta di grasso. Avrebbe portato via, come d’abitudine, soltanto capelli e vestiti, dal momento che queste parti si potevano trattare direttamente in alcool etilico, un’operazione che era più comodo portare a termine in laboratorio. Per l’elaborazione finale della pomata e la sua distillazione in concentrato aveva calcolato una seconda notte. E se tutto andava bene — e non aveva motivo di dubitare che tutto sarebbe andato bene — due giorni dopo sarebbe stato in possesso di tutte le essenze atte a comporre il miglior profumo del mondo, e avrebbe lasciato Grasse come l’uomo dall’odore migliore del mondo.
Verso mezzogiorno finì il suo lavoro con le giunchiglie. Spense il fuoco, mise il coperchio al paiolo con il grasso e uscì dal laboratorio per rinfrescarsi. Il vento arrivava da ovest.
Già alla prima inspirazione s’accorse che qualcosa non andava. L’atmosfera non era la solita. Nella cappa odorosa della città, questo velo intessuto di migliaia di fili, mancava il filo d’oro. Durante le ultime settimane questo filo odoroso era diventato così intenso che Grenouille l’aveva percepito con chiarezza persino oltre la città, nella sua capanna. Ora se n’era andato, sparito, non si avvertiva più nemmeno fiutando con la massima energia. Grenouille era come paralizzato dallo spavento.
È morta, pensò. Poi, ancora più orribile: un altro è arrivato prima di me. Un altro ha strappato il mio fiore e si è impadronito del suo profumo! Non si mise a gridare, era troppo sconvolto per farlo, ma arrivò alle lacrime, che salirono agli angoli dei suoi occhi e subito scivolarono giù ai lati del naso.
In quel momento Druot, di ritorno dai Quatre Dauphins, tornava a casa per il pranzo, e en passant raccontò che la mattina di buon’ora il secondo console era partito per Grenoble con sua figlia e dodici muli. Grenouille ricacciò le lacrime e si allontanò di corsa, attraversando la città fino alla Porte du Cours. Sulla piazza antistante la porta si fermò e fiutò. E in effetti, nel vento puro dell’ovest, incontaminato dagli odori della città, ritrovò il suo filo d’oro, sia pure esile e fievole, ma tuttavia inconfondibile. Comunque l’amato aroma non proveniva da nord-ovest, dove c’era la strada per Grenoble, bensì dalla direzione di Cabris, se non addirittura da sud-ovest.
Grenouille chiese alla guardia che strada avesse imboccato il secondo console. La sentinella indicò il nord. Non la strada per Cabris? O l’altra, che portava a sud verso Auribeau e La Napoule? No di certo, disse la sentinella, l’aveva visto con i suoi occhi.
Grenouille tornò indietro di corsa per la città fino alla sua capanna, mise nella sua sacca da viaggio la pezza di lino, il recipiente con la pomata, la spatola, le forbici e una piccola clava liscia di legno d’ulivo e si mise subito in cammino: non sulla strada per Grenoble, bensì sulla via che gli indicava il suo naso: verso sud.
Questa strada, la via diretta per La Napoule, passava lungo le propaggini del Tanneron attraverso gli avvallamenti fluviali di Frayère e Siagne. Era un percorso comodo. Grenouille procedette rapidamente. Quando alla sua destra emerse Auribeau, aggrappata in alto, sulle cime tondeggianti, il suo olfatto gli disse che aveva quasi raggiunto i fuggitivi. Poco dopo si trovò più o meno alla loro altezza. Ora sentiva l’odore di ognuno di loro, sentiva persino l’esalazione dei loro cavalli. Potevano essere non più di mezzo miglio a ovest, da qualche parte nelle foreste del Tanneron. Si dirigevano a sud, verso il mare. Esattamente come lui.
Verso le cinque del pomeriggio Grenouille raggiunse La Napoule. Entrò nella locanda, mangiò e chiese una sistemazione economica per la notte. Era un garzone conciatore di Nizza, disse, diretto a Marsiglia. Poteva pernottare nella stalla, risposero. Là si stese in un angolo e si mise a riposare. Il suo olfatto gli disse che i tre cavalieri erano in arrivo. Ormai si trattava soltanto di aspettare.
Due ore dopo — era già il tardo crepuscolo — i tre arrivarono. Per proteggere il loro incognito si erano cambiati i vestiti. Ora le due donne indossavano abiti scuri e un velo, e Richis una giacca nera. Diede a intendere d’essere un gentiluomo proveniente da Castellane, l’indomani voleva recarsi alle isole Lérins, il locandiere doveva trovare una barca che stesse pronta all’alba. Oltre a lui e ai suoi c’erano forse altri ospiti alla locanda? No, disse il locandiere, soltanto un garzone conciatore di Nizza, che pernottava nella stalla.
Richis mandò le donne nelle camere. Quanto a lui, andò nella stalla a prendere qualcosa dalle bisacce, così disse. Dapprima non riuscì a vedere il garzone conciatore, dovette farsi dare una lanterna dallo stalliere. Poi lo scorse disteso in un angolo, su una vecchia coperta sopra la paglia, la testa appoggiata contro la sua sacca da viaggio, profondamente addormentato. Aveva un aspetto così totalmente insignificante, che Richis per un attimo ebbe l’impressione che non esistesse affatto, ma fosse soltanto un’immagine illusoria creata dalle ombre oscillanti della lanterna. Comunque Richis stabilì subito che quell’essere innocuo in modo persino commovente non poteva rappresentare il minimo pericolo, si allontanò pian piano per non disturbarne il sonno e rientrò nella locanda.
Cenò assieme alla figlia in camera. Non le aveva spiegato lo scopo e la meta dello strano viaggio, e non lo fece neanche ora, sebbene lei glielo chiedesse con insistenza. L’indomani gliel’avrebbe rivelato, disse, e poteva star certa che tutto ciò che lui progettava e faceva sarebbe stata la cosa migliore per lei e per la sua felicità futura.
Dopo cena giocarono alcune partite a «L’hombre», che lui perse tutte, perché anziché guardare le proprie carte guardava di continuo il volto della figlia, per godere della sua bellezza. Verso le nove la condusse nella sua stanza, che si trovava di fronte alla propria, le diede il bacio della buonanotte e chiuse a chiave la porta dall’esterno. Poi andò a coricarsi anche lui.
D’un tratto si sentì molto stanco per le fatiche del giorno e della notte precedente, e nello stesso tempo molto contento di sé e di come andavano le cose. Senza la minima preoccupazione, senza quei foschi presentimenti che l’avevano tormentato e tenuto sveglio fino al giorno prima ogni volta che spegneva la lampada, si addormentò subito, e dormì un sonno senza sogni, senza lamenti, senza sussulti spasmodici e senza girarsi e rigirarsi nervosamente nel letto. Per la prima volta dopo molto tempo Richis ebbe un sonno profondo, tranquillo, ristoratore.
Nello stesso momento Grenouille si alzò dal suo giaciglio nella stalla. Anche lui era contento di sé e di come andavano le cose e si sentiva estremamente riposato, sebbene non avesse dormito un istante. Quando Richis era venuto a cercarlo nella stalla, aveva soltanto finto di dormire, per rendere ancora più manifesta quell’impressione di innocenza che già dava soltanto grazie al suo odore insignificante. D’altronde, diversamente da Richis nei suoi confronti, egli aveva decifrato Richis con estrema precisione, naturalmente dal punto di vista olfattivo, e non gli era affatto sfuggito il sollievo di Richis alla sua vista.
E così entrambi, durante il loro breve incontro, si erano reciprocamente convinti della rispettiva innocenza, a torto e a ragione, ed era giusto così, pensò Grenouille, perché la sua innocenza apparente e quella reale di Richis alleggerivano il lavoro a lui, a Grenouille: un modo di vedere le cose, del resto, che nel caso opposto Richis avrebbe pienamente condiviso.
Con cautela professionale Grenouille si mise all’opera. Aprì la sacca da viaggio, ne tolse la pezza di lino, la pomata e la spatola, allargò la pezza sulla coperta su cui si era steso, e cominciò a spalmarla con la pasta grassa. Era un lavoro che richiedeva tempo, perché era importante applicare il grasso in uno strato ora più spesso, ora più sottile, a secondo dei punti del corpo con cui le rispettive parti della pezza dovevano venire a contatto. Bocca e ascella, petto, sesso e piedi davano quantità di profumo maggiori che non ad esempio tibie, schiena e gomiti; i palmi ne davano più dei dorsi della mano; le sopracciglia più delle palpebre, ecc… e di conseguenza per queste parti bisognava usare più grasso. Quindi Grenouille modellò quasi un diagramma odoroso del corpo da trattare sulla pezza di lino, e in realtà questa era per lui la parte più soddisfacente del lavoro, perché si trattava di una tecnica artistica che occupava in eguai misura sensi, fantasia e mani, e inoltre anticipava idealmente il piacere del risultato finale che ci si aspettava.
Dopo aver usato tutto il recipiente della pomata, picchiettò ancora la pezza qua e là, tolse il grasso in un punto, lo aggiunse in un altro, diede qualche ritocco, esaminò ancora una volta il paesaggio di grasso che aveva modellato… con il naso peraltro, non con gli occhi, perché tutto il lavoro si svolgeva nella totale oscurità, il che forse contribuiva a rasserenare ulteriormente l’animo di Grenouille. In quella notte di luna piena nulla lo distraeva. Il mondo non era altro che odore e un lieve brusio proveniente dal mare. Grenouille era nel suo elemento. Poi ripiegò la pezza come un tappeto, in modo che le superfici spalmate di grasso si trovassero l’una sull’altra. Questa era un’operazione dolorosa per lui, perché sapeva bene che così facendo, pur con tutta la cautela possibile, parte dei rilievi cui aveva dato forma si sarebbero appiattiti e spostati. Ma non c’era altro modo di trasportare la pezza. Dopo averla piegata quel tanto da poterla portare senza troppa difficoltà stesa sull’avambraccio, prese con sé la spatola, le forbici e la piccola clava di legno d’ulivo e scivolò fuori della stalla.
Il cielo era coperto. Nella casa non c’era più un lume acceso. L’unica scintilla di luce in quella notte nera come la pece guizzava a est sul faro del fortino nell’isola di Sainte-Marguerite a un miglio di distanza, una minuscola, lucente punta di spillo sulla pezza nera. Dalla baia giungeva una brezza leggera dal sentore di pesce. I cani dormivano.
Grenouille si diresse verso il finestrino del granaio, su cui era appoggiata una scala a pioli. Sollevò la scala e, tenendola dritta in equilibrio, con tre pioli incastrati sotto il braccio destro libero e la parte superiore che premeva sulla spalla destra, attraverò il cortile finché arrivò sotto la finestra di Laure. La finestra era semiaperta. Mentre saliva sulla scala a pioli, comodamente come su una scala normale, si rallegrò della circostanza di poter cogliere l’aroma della fanciulla a La Napoule. A Grasse, con le finestre munite di inferriate e la casa rigidamente sorvegliata, sarebbe stato tutto molto più difficile. Lì dormiva persino sola. Non occorreva neppure eliminare la cameriera.
Aprì le imposte con una spinta, scivolò nella camera e depose la pezza. Poi si girò verso il letto. Il profumo dei capelli di Laure era predominante, perché era distesa sul ventre, e il suo viso, incorniciato dal braccio piegato, era affondato nel cuscino, dimodoché la sua nuca si presentava in modo addirittura ideale per ricevere il colpo di clava.
Il rumore del colpo fu sordo e stridente. Grenouille lo odiò. Lo odiò soltanto perché era un rumore, un rumore nel corso del suo lavoro che altrimenti era silenzioso. Riuscì a sopportare quel rumore disgustoso soltanto a denti stretti, e quando esso cessò, restò fermo ancora un poco, rigido e teso con la mano contratta attorno alla clava quasi temendo che il rumore potesse tornare indietro da qualche punto come un’eco risonante. Ma non tornò indietro, tornò invece il silenzio nella stanza, un silenzio persino accresciuto, poiché adesso non c’era più nemmeno il lieve fruscio del respiro della fanciulla. E subito la tensione di Grenouille (che forse si sarebbe potuta interpretare anche come un atteggiamento di profondo rispetto o come un autoimposto minuto di silenzio) si sciolse, e il suo corpo si rilassò e si ammorbidi.
Grenouille mise da parte la clava e si dedicò con solerzia al suo lavoro. Per prima cosa spiegò la pezza da profumare, la stese mollemente dal rovescio sul tavolo e sulle sedie e fece ben attenzione a non toccare la parte grassa. Poi alzò la coperta del letto. L’aroma meraviglioso della fanciulla, che sgorgò all’improvviso caldo e concentrato, non lo colpì in modo particolare. Lo conosceva già, e soltanto dopo, quando fosse diventato veramente suo, l’avrebbe goduto, goduto fino a ubriacarsene. Ora si trattava di prenderne il più possibile e di lasciarne sfuggire il meno possibile, era il momento in cui occorrevano concentrazione e velocità.
Con rapidi colpi di forbici tagliò la camicia da notte di Laure, gliela tolse, afferrò la pezza spalmata di grasso e la gettò sul suo corpo nudo. Poi sollevò il corpo e lo fece passare sotto la parte pendente della pezza, che arrotolò come fa un panettiere con lo strudel; piegò le parti terminali della pezza e avvolse tutto il corpo, dalle dita dei piedi fino alla fronte. Soltanto i capelli spuntavano da quella fasciatura da mummia. Li tagliò rasente alla pelle della testa e li avvolse nella camicia da notte, che annodò come un fagotto. Da ultimo coprì il cranio rasato con un pezzo di tela che aveva tenuto da parte, lisciò con le mani il bordo sovrapposto alla testa e picchiettò per farlo aderire con leggeri colpetti delle dita. Esaminò l’involucro da cima a fondo. Non c’era più una fessura, non un forellino, non una minima piega da cui potesse sfuggire l’aroma della fanciulla. Era imballata alla perfezione. Non restava altro che aspettare, sei ore, fino alle prime luci dell’alba.
Prese la poltroncina su cui erano stesi i vestiti di Laure, la portò vicino al letto e si sedette. Nell’ampia veste nera aleggiava ancora l’effluvio delicato del profumo della ragazza misto all’odore dei pasticcini all’anice che aveva messo in tasca come provvista per il viaggio. Appoggiò i piedi sul bordo del letto, accanto ai piedi di Laure, si coprì con la veste nera di lei e mangiò i pasticcini all’anice. Era stanco. Ma non voleva dormire, perché non era decoroso dormire durante il lavoro, anche se il lavoro consisteva soltanto nell’attendere. Ricordò le notti passate a distillare nel laboratorio di Baldini: l’alambicco annerito dalla fuliggine, la fiamma tremolante, il lieve rumore come di sputo con cui il distillato colava a gocce dal tubo di raffreddamento nella bottiglia fiorentina. Di tanto in tanto era stato necessario sorvegliare il fuoco, aggiungere altra acqua per distillare, cambiare la bottiglia fiorentina, sostituire il prodotto da distillare ormai esaurito. E tuttavia gli era sempre sembrato che si dovesse vegliare non soltanto per sbrigare le operazioni che di volta in volta si rendevano necessarie, ma che la veglia fosse importante di per sé. Anche lì in quella stanza — dove il procedimento dell’enfleurage si compiva in modo totalmente autonomo, anzi, dove esaminare, rivoltare e toccare il pacco odoroso avrebbe potuto addirittura nuocere al processo — anche lì Grenouille aveva l’impressione che la sua presenza vigile fosse importante. Il sonno avrebbe potuto mettere in pericolo il buon esito dell’operazione.
Del resto non faceva fatica a vegliare e ad aspettare, nonostante la sua stanchezza. Questa attesa gli piaceva. Gli era piaciuta anche con le altre ventiquattro fanciulle, perché non era un’attesa passiva e ottusa, né un’attesa cocente e febbrile, bensì un’attesa partecipante, ricca di significato, in un certo modo attiva. Si realizzava qualcosa durante quest’attesa. Si realizzava l’essenziale. E anche se non era lui ad agire, esso si realizzava per suo tramite. Aveva dato il meglio di sé. Aveva impiegato tutta la sua abilità. Non un particolare gli era sfuggito. L’opera era unica nel suo genere. Sarebbe stata coronata dal successo… doveva attendere ancora qualche ora. Lo appagava profondamente, quest’attesa. In vita sua non si era mai sentito così bene, così tranquillo, così equilibrato, così tutt’uno con se stesso — neppure quand’era stato sulla sua montagna — come in queste ore di pausa del lavoro, quando a notte fonda sedeva accanto alle sue vittime e aspettava vegliando. Erano gli unici momenti in cui il suo cervello malinconico formulava pensieri quasi lieti.
Stranamente questi pensieri non erano rivolti al futuro. Non pensava al profumo che avrebbe raccolto fra qualche ora, non al profumo fatto dell’aura di venticinque fanciulle, non a progetti futuri, alla felicità e al successo. No, pensava al suo passato. Ricordava le tappe della sua vita, dalla casa di Madame Gaillard con davanti la catasta di legna calda e umida fino al suo viaggio di quel giorno nel piccolo villaggio di La Napoule, odoroso di pesce. Ripensò al conciatore Grimal, a Giuseppe Baldini, al marchese de la Taillade-Espinasse. Ripensò alla città di Parigi, alle sue esalazioni cattive fatte di mille odori, ripensò alla fanciulla dai capelli rossi in Rue des Marais, alla campagna aperta, alla brezza leggera, ai boschi. Ripensò anche alla montagna dell’Auvergne — non volle evitare questo pensiero — alla sua caverna, all’aria priva di odore umano. Ripensò anche ai suoi sogni. E ripensò a tutte queste cose col massimo piacere. Sì, ricordando il passato gli sembrava di essere un uomo particolarmente favorito dalla fortuna, e che il suo destino l’avesse guidato per vie molto tortuose, ma alla fin fine giuste… come sarebbe stato possibile altrimenti che lui fosse arrivato fin lì, in quella stanza buia, alla meta dei suoi desideri? Se ci rifletteva fino in fondo, era davvero un individuo toccato dalla grazia.
Si sentì sopraffatto da commozione, umiltà e gratitudine. «Ti ringrazio», disse a bassa voce, «ti ringrazio, Jean Baptiste Grenouille, di essere come sei!» A tal punto era preso da se stesso.
Quindi abbassò le palpebre, non per dormire, ma per dedicarsi tutto alla pace di quella Notte Sacra. La pace gli riempiva il cuore. Ma gli sembrava che regnasse anche tutt’attorno. Annusò il sonno pacifico della cameriera nella stanza accanto, il sonno profondamente soddisfatto di Antoine Richis dall’altra parte del corridoio, annusò il sonno quieto e leggero del locandiere e dei servi, dei cani, delle bestie nella stalla, di tutto il luogo e del mare. Il vento era calato. Ovunque c’era silenzio. Nulla turbava la pace.
Una volta piegò il piede di lato e toccò appena il piede di Laure. Non proprio il suo piede, bensì la pezza che lo avvolgeva, con lo strato sottile di grasso dall’altra parte che si stava impregnando del profumo di lei, quel profumo squisito, il profumo di Grenouille.
Quando gli uccelli cominciarono a cantare — cioé ancora molto prima dell’inizio dell’alba — si alzò e terminò il suo lavoro. Fece srotolare la pezza e la tirò via come un cerotto dal corpo della morta. Il grasso si staccava bene dalla pelle. Soltanto sui rilievi rimase attaccato qualche residuo che dovette togliere con la spatola. Gli altri resti di pomata li tolse con la maglietta di Laure, con cui alla fine sfregò ancora tutto il corpo da capo a piedi, così a fondo che persino il grasso dei pori si staccò dalla pelle in piccoli grumi, portando con sé gli ultimi filamenti e frammenti di profumo. Soltanto ora per lui Laure era davvero morta, avvizzita, scialba e flaccida come gli scarti dei fiori.
Gettò la maglietta di Laure dentro la grande pezza per l’enfleurage, nella quale soltanto avrebbe continuato a vivere, vi aggiunse la camicia da notte con i capelli e avvolse il tutto strettamente formando un pacchettino compatto, che mise sotto il braccio. Non si dette neppure la pena di ricoprire il cadavere sul letto. E, sebbene il nero della notte si fosse già trasformato nel grigio-blu dell’alba e gli oggetti della stanza cominciassero a prendere forma, non diede neppure un’occhiata al letto, per vedere la ragazza, almeno una volta in vita sua, con gli occhi. La sua persona non lo interessava. Per lui Laure non esisteva più come corpo, bensì soltanto come profumo privo di corpo. Ed era questo che teneva sotto il braccio e che portò con sé.
Si issò pian piano sul davanzale della finestra e scese dalla scala a pioli. Fuori si era levato il vento, e il cielo si schiariva e riversava sulla campagna una luce fredda color azzurro scuro.
Mezz’ora dopo la serva accese il fuoco in cucina: quando uscì di casa per prendere la legna, vide la scala appoggiata alla finestra, ma era ancora troppo assonnata per riuscire a spiegarselo. Poco dopo le sei si levò il sole. Si levò dal mare, enorme e rosso-oro tra le due isole Lérins. In cielo non c’era una nuvola. Era l’alba di uno splendido giorno di primavera.
Richis, che aveva la stanza rivolta a ovest, si svegliò alle sette. Per la prima volta da mesi aveva dormito in modo davvero splendido, e contrariamente al suo solito rimase a letto ancora un quarto d’ora, si stiracchiò e sospirò di piacere e ascoltò il gradevole rumore che saliva dalla cucina. Poi, quando si alzò e spalancò la finestra e vide il bel tempo fuori e inspirò l’aria fresca e frizzante del mattino e udì il rumore della risacca, il suo buon umore non ebbe più limiti: sporse in fuori le labbra e fischiò un’allegra melodia.
Mentre si vestiva continuò a fischiare, e fischiava ancora quando lasciò la stanza e attraversò il corridoio con passo leggero fino alla porta della camera di sua figlia. Bussò. Bussò di nuovo, molto piano, per non svegliarla di soprassalto. Non giunse risposta. Sorrise. Era comprensibile che dormisse ancora.
Girò la chiave con cautela nella serratura e fece ruotare il chiavistello, adagio, molto adagio, cercando di non svegliarla, quasi bramoso di sorprenderla ancora nel sonno, dal quale voleva svegliarla con un bacio, ancora una volta, l’ultima prima di doverla dare a un altro uomo.
La porta si aprì di scatto, egli entrò, e la luce del sole gli piovve in pieno viso. Era come se la camera fosse piena d’argento lucente, tutto risplendeva, e per un momento l’impatto gli fece chiudere gli occhi.
Quando li riaprì, vide Laure che giaceva sul letto, nuda e morta, con i capelli rasati e il corpo d’un bianco accecante. Era come nell’incubo che aveva avuto due notti prima a Grasse e poi dimenticato, e il cui contenuto ora passò come un lampo per la sua memoria. D’un tratto tutto era estremamente preciso, come in quel sogno, soltanto molto più chiaro.
La notizia dell’assassinio di Laure Richis si diffuse rapidamente nel territorio di Grasse, come se fosse stata una voce del tipo «Il re è morto!» o «C’è la guerra!» oppure «I pirati sono sbarcati sulla costa!» e scatenò paure analoghe, anche peggiori. D’un tratto la paura che si erano sforzati di dimenticare era ancora là, virulenta come nell’autunno precedente, con tutti i fenomeni a essa collegati: panico, ribellione, ira, sospetti isterici, disperazione. Di notte gli uomini restavano in casa, rinchiudevano le loro figlie, si barricavano, diffidavano l’uno dell’altro e non dormivano più. Ognuno pensava che adesso sarebbe stato come prima, ogni settimana un assassinio. Sembrava che il tempo fosse tornato indietro di sei mesi.
La paura era ancor più paralizzante che non sei mesi prima, perché il ritorno del pericolo che si credeva superato da tempo diffuse un senso d’impotenza tra gli uomini. Se aveva fallito perfino la maledizione del vescovo! Se Antoine Richis, il grande Richis, il più ricco dei cittadini, il secondo console, un uomo potente, avveduto, con tutti i mezzi possibili a sua disposizione, non era riuscito a proteggere la propria figlia! Se la mano dell’assassino non era indietreggiata neppure davanti alla sacra bellezza di Laure! (Poiché in effetti Laure appariva come una santa a tutti coloro che l’avevano conosciuta, soprattutto adesso, a posteriori, dopo la sua morte.) Che speranza c’era ormai di sfuggire all’assassino? Era più crudele della peste, perché alla peste ci si poteva sottrarre, ma a quest’assassino no, come dimostrava l’esempio di Richis. Evidentemente possedeva doti soprannaturali. Si era certo alleato con il diavolo, posto che il diavolo non fosse lui stesso. E così molti, soprattutto gli animi più semplici, non seppero far altro che andare in chiesa a pregare. Ogni categoria professionale pregò il proprio patrono, i fabbri sant’Aloisio, i tessitori san Crispino, gli ortolani sant’Antonio, i profumieri san Giuseppe. E condussero con sé le loro mogli e figlie, pregarono insieme, mangiarono e dormirono in chiesa, non la lasciarono più neppure di giorno, convinti di trovare, in seno alla comunità disperata e al cospetto della Madonna, l’unica sicurezza possibile di fronte al mostro, se pure una sicurezza c’era ancora.
Altri, più smaliziati, dal momento che la chiesa aveva già fallito una volta, si riunirono in associazioni occultistiche, ingaggiarono per una grossa somma di denaro una strega abilitata di Gourdon, si rifugiarono in una delle tante grotte di calcare del sottosuolo di Grasse e allestirono messe nere al fine di propiziarsi il Maligno. Altri ancora, principalmente membri dell’alta borghesia e della nobiltà colta, puntarono sui metodi scientifici più moderni, magnetizzarono le loro case, ipnotizzarono le loro figlie nei salotti, tennero sedute fluidali in cerchio e, in silenzio, con emissioni di pensiero prodotte in comune, tentarono di bandire telepaticamente lo spirito dell’assassino. Le corporazioni organizzarono una processione di penitenza da Grasse a La Napoule e ritorno. I monaci dei cinque conventi della città istituirono una messa supplicatoria permanente con canti continui, dimodoché ora in uno, ora in un altro punto della città si sentiva risuonare un lamento incessante, giorno e notte. Quasi più nessuno lavorava.
Così il popolo di Grasse aspettava in ozio febbrile, quasi con impazienza, il prossimo attentato omicida. Che fosse imminente, nessuno ne dubitava. E in segreto ognuno desiderava che arrivasse la spaventosa notizia, con l’unica speranza che non riguardasse lui, bensì un altro.
Comunque le autorità della città, della zona e della provincia questa volta non si lasciarono contagiare dall’isteria della popolazione. Per la prima volta da quando era comparso l’assassino delle fanciulle, si arrivò a una collaborazione pianificata e vantaggiosa tra i baliati di Grasse, Draguignon e Tolone, e tra magistrati, polizia, intendente, Parlamento e Marina.
Il motivo di quest’azione solidale da parte dei potenti fu da un lato il timore di una rivolta popolare generale, dall’altro il fatto che soltanto dopo l’assassinio di Laure Richis si scoprirono indizi che resero possibile un perseguimento sistematico dell’assassino. L’assassino era stato visto. Evidentemente si trattava di quell’infausto garzone conciatore che aveva trascorso la notte del delitto nella stalla della locanda di La Napoule, e la mattina seguente era scomparso senza lasciar traccia. Secondo le indicazioni concordi del locandiere, dello stalliere e di Richis, era un uomo insignificante di bassa statura, con una giacca sul marrone e una sacca da viaggio di tela grezza. Sebbene per il resto la dichiarazione dei tre testimoni restasse stranamente vaga — ad esempio non avrebbero saputo descrivere il viso, il colore dei capelli o il modo di parlare dell’uomo — il locandiere seppe ancora dire che, se non sbagliava, aveva notato nell’atteggiamento e nel modo di camminare dello sconosciuto qualcosa di maldestro, come se zoppicasse a causa di una lesione alla gamba o di un piede deforme.
Muniti di questi indizi, già nella tarda mattinata del giorno del delitto due reparti di cavalleria della maréchaussée si misero all’inseguimento dell’assassino in direzione di Marsiglia, uno lungo la costa, l’altro per la via dell’interno. Il rastrellamento dei dintorni immediati di La Napoule fu affidato a volontari. Due commissari del tribunale di Grasse partirono per Nizza, per eseguire indagini in loco sul garzone conciatore. Nei porti di Fréjus, Cannes e Antibes furono controllate tutte le navi in partenza, ai confini con la Savoia furono bloccate tutte le strade, i viaggiatori furono costretti a provare la propria identità. Un mandato di cattura con descrizione del ricercato apparve, per quelli che sapevano leggere, su tutte le porte delle città di Grasse, Vence, Gourdon e sui portali delle chiese dei villaggi. Tre volte al giorno ne veniva data pubblica lettura. Naturalmente la storia del presunto piede varo rafforzò l’opinione che il colpevole fosse il demonio in persona, e quindi fomentò il panico tra la popolazione, anziché procurare indicazioni utili.
Soltanto quando il presidente della corte di Grasse, per incarico di Richis, offrì una ricompensa di non meno di duecento lire per la cattura del colpevole, ci furono delazioni che portarono all’arresto di alcuni garzoni conciatori a Grasse, Opio e Gourdon, uno dei quali in effetti aveva la sfortuna di zoppicare. Quest’ultimo, nonostante il suo alibi confermato da più testimoni, era già destinato alla tortura, quando, il decimo giorno dopo il delitto, una delle guardie cittadine si presentò alla magistratura e rilasciò ai giudici la seguente deposizione: alle dodici di mattina del giorno in questione, lui, Gabriele Tagliasco, capitano della guardia in servizio come di consueto alla Porte du Cours, era stato interpellato da un individuo al quale, come ora sapeva, si adattava notevolmente la descrizione del mandato di cattura, e dal medesimo era stato richiesto più volte e con insistenza sulla via presa dal secondo console e dal suo seguito la mattina, quando avevano lasciato la città. Né allora né in seguito aveva attribuito importanza alcuna all’avvenimento, e anche di quell’individuo, per quanto lo riguardava, certo non si sarebbe più ricordato — era così totalmente insignificante — se il giorno innanzi non l’avesse rivisto per caso, e proprio lì a Grasse, in Rue de la Louve, davanti al laboratorio di Maître Druot e di Madame Arnulfi, e in quella circostanza l’aveva colpito il fatto che l’uomo, il quale stava ritornando in bottega, zoppicava visibilmente.
Un’ora dopo Grenouille fu arrestato. Il locandiere e lo stalliere di La Napoule, che si trovavano a Grasse per l’identificazione degli altri sospetti, lo riconobbero subito come il garzone conciatore che aveva pernottato presso di loro: era lui e nessun altro, lui doveva essere l’assassino che si cercava.
Perquisirono il laboratorio, perquisirono la capanna nell’uliveto dietro al convento dei francescani. In un angolo, neppure ben nascosti, trovarono la veste tagliuzzata, la maglietta e i capelli rossi di Laure Richis. E quando scavarono nel terreno, a poco a poco vennero alla luce i vestiti e i capelli delle altre ventiquattro fanciulle. Trovarono la clava di legno con cui erano state uccise le vittime e la sacca da viaggio di tela. Le prove erano schiaccianti. Il presidente della corte rese noto con un bando e con manifesti che il famigerato assassino delle fanciulle, ricercato da quasi un anno, era stato finalmente catturato ed era ben custodito.
Dapprima la gente non credette all’annuncio. Pensarono tutti che fosse una finta, con cui le autorità volevano nascondere la loro incapacità e placare lo stato d’animo pericolosamente eccitato della popolazione. Era ancora troppo recente il ricordo del periodo in cui si diceva che l’assassino si fosse spostato a Grenoble. Questa volta la paura si era radicata troppo a fondo nell’animo della gente.
Soltanto il giorno seguente, quando sul sagrato davanti alla Prévôté furono esposti al pubblico gli argomenti di prova — era un’immagine orrenda vedere allineati sul fronte della piazza i venticinque abiti con le venticinque ciocche di capelli, messi sui pali come spaventapasseri — l’opinione pubblica mutò.
Molte centinaia di persone sfilarono davanti alla macabra esposizione. Parenti delle vittime, che riconobbero i vestiti, si misero a urlare e subirono un tracollo. Il resto della folla, in parte per avidità di sensazioni, in parte per convincersi del tutto, pretese di vedere l’assassino. Presto le grida si fecero così violente e l’agitazione sulla piccola piazza ondeggiante di gente divenne così minacciosa, che il presidente decise di far uscire Grenouille dalla sua cella e di esibirlo a una finestra della Prévôté.
Quando Grenouille si accostò alla finestra, le grida cessarono. D’un tratto ci fu un silenzio pari a quello di un torrido mezzogiorno estivo, quando tutti sono fuori sui campi o si rintanano all’ombra delle case. Non si udiva più un passo, non uno schiarirsi di voce, non un respiro. Per qualche minuto la folla fu soltanto una massa d’occhi e di bocche aperte. Nessuno riusciva a immaginare che quel piccolo uomo insicuro e ingobbito lassù alla finestra, quel poveraccio, quel miserabile mucchietto d’ossa, quel nonnulla, potesse aver commesso più di ventiquattro delitti. Semplicemente non assomigliava a un assassino. In verità nessuno avrebbe potuto affermare come in realtà si era immaginato l’assassino, quel demonio, ma tutti erano d’accordo su una cosa: non in quel modo! E tuttavia — benché l’assassino così com’era non corrispondesse affatto alle idee della gente, e quindi sia lecito pensare che la sua esibizione non fosse troppo convincente — paradossalmente soltanto per il fatto di aver visto quella persona in carne e ossa alla finestra e perché soltanto lui e non un altro era stato presentato come l’assassino, l’effetto fu convincente. Tutti pensavano: non può essere vero! e nello stesso momento sapevano che doveva essere vero.
Certo, soltanto quando le guardie riportarono quel piccolo uomo nella parte in ombra della stanza — dunque soltanto quando non fu più presente e visibile, bensì esistette unicamente ancora, sia pur per brevissimo tempo, come ricordo, si potrebbe quasi dire come concetto nelle menti degli uomini — soltanto allora lo stupore abbandonò la folla per dar luogo a una reazione adeguata: le bocche, aperte per lo sbalordimento, si chiusero, i mille occhi si rianimarono. E in quel momento risuonò un unico grido d’ira e di vendetta: «Lo vogliamo!» E tutti si accinsero a invadere la Prévôté per strangolarlo, dilaniarlo e squartarlo con le loro mani. Le guardie fecero molta fatica a barricare il portone e a respingere la plebaglia. Grenouille fu condotto al più presto nella sua segreta. Il presidente si affacciò alla finestra e promise un procedimento esemplare, rapido e severo. Ciò nonostante ci vollero ancora giorni prima che in città ritornasse una certa calma.
In effetti il processo contro Grenouille si svolse in modo estremamente rapido, perché non soltanto le prove erano schiaccianti, ma l’accusato stesso durante gli interrogatori confessò senza ambagi i delitti imputatigli.
Solo alla domanda sulle ragioni per cui l’aveva fatto non seppe dare una risposta soddisfacente. Si limitò a ripetere di continuo che le fanciulle gli erano servite, e per questo le aveva uccise. A che scopo gli erano servite e che cosa significasse «gli erano servite»… su questo non disse una parola. Di conseguenza lo misero alla tortura, lo tennero ore appeso per i piedi, gli pomparono in corpo sette pinte d’acqua, gli applicarono le morse ai piedi… senza il minimo risultato. Quell’essere sembrava insensibile al dolore fisico, non emise un grido, e quando gli chiesero ancora perché l’avesse fatto, non disse altro se non: «Mi servivano». I giudici lo ritennero malato di mente. Smisero di torturarlo e decisero di por fine al processo senza ulteriori interrogatori.
L’unico rinvio che si verificò ancora fu dovuto a una diatriba giuridica con la magistratura di Draguignan, nel cui baliato si trovava La Napoule, e con il Parlamento di Aix, poiché entrambi volevano condurre il processo. Ma í giudici di Grasse non se lo lasciarono strappare di mano. Erano stati loro a catturare il colpevole, la maggior parte dei delitti era stata commessa nella zona di loro competenza, e se avessero affidato l’assassino a un altro tribunale, l’ira popolare accumulata si sarebbe riversata su di loro. Il suo sangue doveva scorrere a Grasse.
Il 15 aprile 1766 fu pronunciato il verdetto, e ne fu data lettura all’accusato nella sua cella: «Il garzone profumiere Jean-Baptiste Grenouille», così suonava il giudizio, «sarà condotto al Cours davanti alle porte della città, dove, con il viso rivolto al cielo, sarà legato a una croce di legno, riceverà da vivo dodici colpi con una spranga di ferro, che gli spaccherà le articolazioni delle braccia, delle gambe, delle anche e delle spalle, quindi sarà issato sulla croce, finché morte non sopravvenga». La prassi di grazia consueta, cioé lo strangolamento del delinquente con un laccio dopo la rottura delle articolazioni, fu espressamente vietata al carnefice, anche nel caso in cui la lotta con la morte si fosse trascinata per giorni. Il cadavere doveva essere seppellito di notte allo scorticatoio, il luogo doveva restare anonimo.
Grenouille accettò la sentenza con impassibilità. L’usciere giudiziario gli chiese se avesse un ultimo desiderio. «Nulla», disse Grenouille; aveva tutto ciò che gli serviva.
Un sacerdote si recò nella cella per raccogliere la sua confessione, ma ne riuscì dopo un quarto d’ora con un nulla di fatto. Alla menzione del nome di Dio, il condannato l’aveva guardato con un’incomprensione così totale che pareva avesse udito quel nome per la prima volta, quindi si era steso sul suo tavolaccio ed era subito piombato in un sonno molto profondo. Qualsiasi ulteriore discorso era stato privo di effetto.
Nei due giorni seguenti vennero molte persone per vedere da vicino il famoso assassino. I guardiani permisero loro di dare un’occhiata attraverso lo spioncino a ribalta della porta della cella, e chiesero sei soldi per ogni occhiata. Un incisore di stampe, che voleva eseguire uno schizzo, dovette pagare due franchi. Ma il soggetto fu piuttosto deludente. Il prigioniero, incatenato ai polsi e alle caviglie, era sempre disteso sul tavolaccio e dormiva. Teneva il viso rivolto verso la parete, e non reagiva né quando bussavano né quando lo chiamavano. Ai visitatori era severamente vietato l’accesso alla cella, e nonostante le offerte allettanti, i guardiani non osavano infrangere questo divieto. Si temeva che il prigioniero potesse essere assassinato anzitempo da qualche parente delle sue vittime. Per lo stesso motivo era vietato introdurre nella sua cella qualsiasi cibo. Avrebbe potuto essere avvelenato. Durante tutta la sua prigionia Grenouille ricevette il cibo dalla cucina della servitù del palazzo vescovile, e il sovrintendente del carcere doveva assaggiarlo prima. Naturalmente gli ultimi due giorni Grenouille non mangiò nulla. Stava disteso sul tavolaccio e dormiva. Di tanto in tanto le sue catene tintinnavano, e quando il guardiano accorreva allo spioncino della porta, lo vedeva prendere un sorso d’acqua dalla bottiglia, ributtarsi sul giaciglio e continuare a dormire. Sembrava che quell’uomo fosse così stanco della sua vita, da non voler condividere con essa neppure le ultime ore in stato di veglia.
Nel frattempo il Cours fu preparato per l’esecuzione. I falegnami costruirono un patibolo di tre metri per tre, alto due metri, munito di parapetto e di una solida scala: Grasse non ne aveva mai avuto uno così lussuoso. Costruirono inoltre una tribuna di legno per i notabili e un recinto per contenere la gente comune, che doveva restare a una certa distanza. I posti alle finestre nelle case a destra e a sinistra della Porte du Cours e nell’edificio del corpo di guardia erano stati affittati da tempo a prezzi esorbitanti. Perfino alla Charité, che si trovava un po’ più di lato, l’aiutante del carnefice aveva ottenuto contrattando le camere dei malati, e le aveva riaffittate ai curiosi traendone un lauto guadagno. I venditori di limonata miscelavano a bricchi succo di liquirizia di scorta, l’incisore stampò in molte centinaia di esemplari lo schizzo dell’assassino che aveva fatto in prigione e che la sua fantasia aveva raffigurato un po’ più scattante di quanto non fosse, i venditori ambulanti affluirono in città a dozzine, i panettieri fecero cuocere al forno pasticcini commemorativi.
Il carnefice, Monsieur Papon, che da anni non aveva più avuto delinquenti cui spezzare le ossa, si fece forgiare dal fabbro una pesante spranga di ferro a sezione quadrata e con questa si recò al macello per esercitarsi su carcasse di animali. Gli erano concessi soltanto dodici colpi, con i quali doveva spaccare le dodici articolazioni senza danneggiare le parti più importanti del corpo, come ad esempio il petto o il capo: un compito difficile, che richiedeva la massima sensibilità nella punta delle dita.
I cittadini si prepararono all’avvenimento come a un giorno di gran festa. Era ovvio che nessuno avrebbe lavorato. Le donne stirarono il loro abito festivo, gli uomini spolverarono le giacche e si fecero lucidare gli stivali fino a renderli splendenti. Chi possedeva un grado militare o una carica, chi era capo di una corporazione, avvocato, notaio, direttore di una confraternita o comunque una persona importante, preparò l’uniforme e il costume ufficiale con decorazioni, sciarpe, catene e la parrucca incipriata col bianchetto. I credenti decisero di riunirsi post festum per la messa, i seguaci di Satana per una piccante messa luciferina di ringraziamento, la noblesse colta per una seduta spiritico-magnetica nei palazzi dei Cabris, dei Villeneuve e dei Fontmichel. Nelle cucine già si cuoceva e si arrostiva, dalle cantine si portava su il vino, al mercato si acquistavano fiori da decorazione, nella cattedrale l’organista e il coro della chiesa facevano le prove.
A casa Richis, in Rue Droite, c’era quiete. Richis non tollerava nessun preparativo per il «giorno della liberazione», come il popolo chiamava il giorno dell’esecuzione dell’assassino. Tutto lo nauseava. La paura degli uomini risorta d’un tratto l’aveva nauseato, la loro attesa gioiosa e febbrile lo nauseava. Loro stessi, gli uomini, tutti quanti, lo nauseavano. Non aveva presenziato all’esposizione del colpevole e delle sue vittime sulla piazza davanti alla cattedrale, né al processo, né alla ripugnante sfilata degli avidi di sensazioni davanti alla cella del condannato. Per identificare gli abiti e i capelli di sua figlia aveva convocato la corte a casa sua, aveva fatto la propria deposizione brevemente e con calma e aveva pregato la corte di affidargli gli oggetti della figlia come reliquie, cosa che aveva ottenuto. Li portò nella stanza di Laure, depose sul suo letto la camicia da notte tagliuzzata e la maglietta, sparse sul cuscino i suoi capelli rossi e si sedette di fronte al letto, senza più lasciare la stanza né di giorno né di notte, come se, con quella guardia insensata, avesse voluto ricuperare ciò che aveva perso nella notte trascorsa a La Napoule. Era così colmo di nausea, nausea per il mondo e per se stesso, che non riusciva a piangere.
Anche per l’assassino provava nausea. Non voleva più vederlo come uomo, bensì soltanto come vittima, quando l’avessero massacrato. Soltanto durante l’esecuzione voleva vederlo, quando fosse stato sulla croce e i dodici colpi l’avessero schiantato: allora voleva vederlo, allora voleva vederlo molto da vicino, si era fatto riservare un posto in prima fila. E quando la gente si fosse dispersa, dopo un paio d’ore, sarebbe salito sul patibolo, si sarebbe seduto accanto a lui e avrebbe montato la guardia, per notti, per giorni, se fosse stato necessario, e intanto l’avrebbe guardato negli occhi, l’assassino di sua figlia, e gli avrebbe versato negli occhi a goccia a goccia tutta la nausea che provava, avrebbe rovesciato tutta la sua nausea nell’agonia di quel mostro come un acido ardente, a lungo, finché fosse crepato…
E poi? Che cosa avrebbe fatto poi? Non lo sapeva. Forse avrebbe ripreso la sua solita vita, forse si sarebbe sposato, forse avrebbe generato un figlio, forse non avrebbe fatto nulla, forse sarebbe morto. Gli era del tutto indifferente. Pensarci gli sembrava assurdo come pensare a quello che avrebbe fatto dopo la propria morte: naturalmente nulla. Nulla che già fin d’ora potesse sapere.
L’esecuzione era fissata per le cinque del pomeriggio. Già la mattina giunsero i primi curiosi, e si assicurarono i posti. Portarono sedie e panchette, cuscini per sedersi, cibo, vino e anche i propri figli. Verso mezzogiorno, quando la popolazione rurale affluì in massa da tutte le direzioni possibili, il Cours era già talmente stipato che i nuovi arrivati dovettero accamparsi in alto, nei giardini e nei campi a terrazza al di là della piazza e sulla strada per Grenoble. I mercanti facevano già buoni affari, si mangiava, si beveva, c’erano un ronzio e un’animazione come alla fiera annuale. Presto si radunarono circa diecimila persone, più che per la festa della reginetta dei gelsomini e per la processione più importante, più di quante ce ne fossero mai state a Grasse. Affollavano anche i pendii più alti. Erano salite sugli alberi, erano sedute sui muri e sui tetti, si accalcavano a dieci, a dodici per finestra. Soltanto al centro del Cours, protetta da un recinto, nella massa della folla spiccava una zona libera per la tribuna e per il patibolo, che d’un tratto appariva molto piccolo, come un giocattolo o come la scena di un teatro di marionette. Ed era stata tenuta libera una via che dal luogo dell’esecuzione conduceva alla Porte du Cours e in Rue Droite.
Poco dopo le tre comparvero Monsieur Papon e i suoi aiutanti. Li accolse uno scroscio di applausi. Portarono sul patibolo la croce di sant’Andrea, fatta di travi di legno, e la sistemarono all’altezza giusta per lavorare, appoggiandola su quattro pesanti cavalietti. Un garzone di falegname la inchiodò. Ogni manovra degli aiutanti del boia e del falegname era accolta dalla folla con applausi. Quando poi Papon girò attorno alla croce con la spranga di ferro, contò i passi e fece il gesto di tirare colpi ora da un lato ora dall’altro, scoppiarono vere e proprie grida di giubilo.
Verso le quattro la tribuna cominciò a riempirsi. C’era molta gente elegante da ammirare, ricchi signori con lacché e buone maniere, belle signore, grandi cappelli, abiti luccicanti. Tutta la nobiltà cittadina e campagnola era presente. I signori del Consiglio comparvero in un tiro chiuso, guidato dai due consoli. Richis indossava abiti neri, calze nere, cappello nero. Dietro al Consiglio marciava la magistratura, guidata dal presidente della corte. Da ultimo veniva il vescovo sulla portantina aperta, in veste viola splendente e mitra verde. Chi ancora era a capo coperto, in quel momento si tolse il berretto. Il clima si fece solenne.
Poi per circa dieci minuti non accadde nulla. I signori avevano preso posto, il popolo attendeva immobile, nessuno più mangiava, tutti aspettavano. Papon e i suoi aiutanti erano come inchiodati alla piattaforma del patibolo. Grande e giallo, il sole era sospeso sull’Esterel. Dalla conca di Grasse veniva una tiepida brezza, e portava con sé il profumo dei fiori d’arancio. Faceva molto caldo, e c’era un silenzio addirittura inverosimile.
Infine, quando già sembrava che la tensione non potesse durare oltre senza erompere in un grido generale, in un tumulto, in una rivolta o in qualche altra manifestazione di massa, si udirono nel silenzio un calpestio di cavalli e uno stridore di ruote.
Da Rue Droite scendeva una carrozza chiusa a due cavalli, la carrozza del tenente di polizia. Attraversò la porta della città e apparve, ormai visibile a tutti, nel vicolo che portava al luogo dell’esecuzione. Il tenente di polizia aveva insistito per procedere in questo modo, perché altrimenti non avrebbe potuto garantire la sicurezza del delinquente. La procedura non era affatto usuale. La prigione era distante cinque minuti appena dal luogo dell’esecuzione, e se un condannato, per qualsivoglia ragione, non percorreva più a piedi questo breve tratto, un carretto scoperto tirato da un asino sarebbe stato più che sufficiente. Che uno arrivasse in carrozza per la propria esecuzione, con cocchiere, servi in livrea e seguito a cavallo, finora non s’era mai visto.
Ciò nonostante la folla non manifestò inquietudine o malumore, tutt’altro. Si rallegrò che avvenisse comunque qualcosa, considerò il particolare della carrozza un’idea riuscita, proprio come a teatro, quando si apprezza che un pezzo noto sia presentato in modo sorprendentemente nuovo. Molti trovarono persino che quell’entrata in scena fosse proprio adeguata. Un delinquente così straordinariamente ripugnante meritava un trattamento fuori del comune. Non si poteva trascinarlo incatenato in piazza e ammazzarlo come un comune brigante. In questo non ci sarebbe stato niente di sensazionale. Ma farlo uscire da un’elegante carrozza imbottita per metterlo sulla croce di sant’Andrea… era di una crudeltà incomparabilmente ingegnosa.
La carrozza si arrestò tra il patibolo e la tribuna. I lacché saltarono a terra, aprirono la portiera e fecero ribaltare la scaletta fino a terra. Scese il tenente di polizia, dopo di lui un ufficiale della guardia e infine Grenouille. Indossava una giacca blu, una camicia bianca, calze di seta bianche e scarpe nere con fibbia. Non era incatenato. Nessuno lo teneva per il braccio. Scese dalla carrozza come un uomo libero.
E poi accadde un miracolo. O qualcosa di simile a un miracolo, cioé qualcosa di talmente incomprensibile, inaudito e incredibile, che in seguito tutti i testimoni l’avrebbero definito un miracolo, se mai comunque fossero ancora riusciti a parlare, il che non avvenne, dal momento che poi tutti si vergognarono già soltanto per aver preso parte all’avvenimento.
Accadde cioé che le diecimila persone presenti sul Cours e sui pendii circostanti da un momento all’altro si sentirono invadere dall’assoluta certezza che il piccolo uomo in giacca blu appena sceso dalla carrozza non poteva essere un assassino. Non che dubitassero della sua identità! Era lo stesso uomo che, dalla piazza della chiesa, avevano visto pochi giorni prima alla finestra della Prévôté, e che allora avrebbero linciato con odio feroce, se l’avessero avuto tra le mani. Lo stesso che due giorni prima era stato condannato legalmente in base a prove schiaccianti e alla propria confessione. Lo stesso che solo un minuto prima avevano desiderato ardentemente di vedere ucciso dal carnefice. Era lui, senz’alcun dubbio!
E tuttavia… nello stesso tempo non era lui, non poteva esserlo, non poteva essere un assassino. L’uomo che si trovava sul luogo dell’esecuzione era l’innocenza in persona. In quel momento lo sentirono tutti, dal vescovo al venditore di limonata, dalla marchesa alla piccola lavandaia, dal presidente della corte al ragazzo di strada.
Anche Papon lo sentì. E le sue mani, avvinghiate alla mazza di ferro, tremarono. D’un tratto le sue braccia forti erano diventate deboli, le ginocchia molli, il cuore pieno d’ansia come se fosse stato un bambino. Non avrebbe potuto sollevare la mazza, per nulla al mondo avrebbe trovato la forza di sollevarla contro quel piccolo uomo innocente, ahimè, temeva il momento in cui sarebbe stato condotto fino a lui, tremava, era costretto ad appoggiarsi alla sua mazza omicida per non cadere in ginocchio dalla debolezza, il grande, il forte Papon!
Non diversamente avvenne ai diecimila uomini e donne e bambini e vecchi raccolti sul luogo: si sentirono deboli come giovanette che subiscono il fascino del loro innamorato. Furono sopraffatti da un sentimento possente di affetto, di tenerezza, di folle innamoramento infantile, sì, incredibile, d’amore per quel piccolo assassino, e non potevano, non volevano opporvisi. Era come un pianto al quale non si può resistere, come un pianto a lungo trattenuto che sale dallo stomaco e annulla come per miracolo qualsiasi resistenza, scioglie e dilava ogni cosa. Liquido puro erano ormai tutti, sciolti dentro nello spirito e nell’anima, un unico amorfo fluire, soltanto il loro cuore si muoveva all’interno come un debole grumo, e ognuno di essi, ognuna di esse, lo depose tra le mani del piccolo uomo in giacca blu, nella buona e nella cattiva sorte: lo amavano.
Già da parecchi minuti Grenouille stava accanto alla portiera della carrozza senza muoversi. Il lacché accanto a lui era caduto in ginocchio, e continuò ad abbassarsi sino ad assumere quell’atteggiamento di prosternazione totale che si usa in Oriente davanti al sultano e davanti ad Allah. E persino in questo atteggiamento continuava a tremare e a vacillare, e tentava di abbassarsi ancor più, fino a stendersi contro la superficie della terra, fino a entrarvi, fino a sotterrarvisi. La sua devozione l’avrebbe fatto sprofondare fino all’altro capo del mondo. L’ufficiale della guardia e il tenente di polizia, entrambi uomini imponenti, che ora avrebbero dovuto condurre il condannato sul patibolo e affidarlo al boia, non riuscivano più a coordinare i loro gesti. Piangevano e si toglievano il cappello, se lo rimettevano, si buttavano a terra, si gettavano l’uno tra le braccia dell’altro, si staccavano, agitavano le braccia in aria come insensati, si torcevano le mani, sussultavano e facevano smorfie come se fossero stati colti dal ballo di san Vito.
I notabili che si trovavano un poco più distanti si abbandonavano alla loro emozione in modo non molto più discreto. Ognuno lasciava via libera all’impulso del proprio cuore. C’erano signore che alla vista di Grenouille si premevano i pugni contro il ventre e sospiravano di piacere; e altre, che, colte da struggente desiderio per lo splendido giovane — poiché tale appariva a esse — cadevano silenziosamente in deliquio. C’erano signori che d’un tratto schizzavano via dai loro sedili e poi si lasciavano ricadere giù e saltavano su di nuovo, ansimando violentemente e serrando i pugni sull’elsa della spada, come se volessero sguainarla e, mentre già la stavano sguainando, la ricacciavano nel fodero, cosicché c’era soltanto un gran strepitare e stridere; e altri, che muti volgevano gli occhi al cielo e torcevano le mani in preghiera; e monsignore, il vescovo, che come se si sentisse male, si rovesciava in avanti con la parte superiore del corpo e batteva la testa sulle ginocchia, finché la sua mitra verde rotolò giù dalla testa; e non stava affatto male, bensì per la prima volta in vita sua si beava di un’estasi religiosa, poiché un miracolo era avvenuto dinanzi agli occhi di tutti, il Signore Iddio in persona aveva fermato il braccio del carnefice, mostrando colui che per il mondo era un assassino sotto forma di un angelo: oh, che cose simili accadessero ancora nel diciottesimo secolo! Com’era grande il Signore! E com’era piccolo e vano lui stesso, che aveva pronunciato una scomunica senza credervi, soltanto per placare la popolazione! Oh, quale presunzione, quale pusillanimità! E ora il Signore operava un miracolo! Quale splendida umiliazione, quale dolce mortificazione, quale grazia per un vescovo essere castigato in tal modo da Dio!
Nel frattempo il popolo, al di là della barricata, si abbandonava all’ebbrezza sempre più folle e sfrenata che Grenouille aveva scatenato con la sua apparizione. Chi da principio alla sua vista aveva provato soltanto pietà e commozione adesso era traboccante di nuda concupiscenza, chi dapprima aveva provato soltanto ammirazione e desiderio ora si sentiva in preda all’estasi. Tutti pensavano che l’uomo in giacca blu fosse l’essere più bello, più attraente e perfetto che si potesse immaginare: alle monache appariva come il Salvatore in persona, ai seguaci di Satana come il Signore splendente delle tenebre, agli uomini colti come l’Essere Sublime, alle fanciulle come un principe da fiaba, agli uomini come il ritratto ideale di loro stessi. E tutti si sentirono riconosciuti e toccati da lui nel loro punto più sensibile, colpiti nel centro del loro eros. Era come se quell’uomo possedesse diecimila mani invisibili e le avesse posate sul sesso di ciascuna delle diecimila persone che lo circondavano, accarezzandolo proprio in quel modo che ognuno, uomo o donna, bramava ardentemente nelle sue più segrete fantasie.
La conseguenza fu che la prevista esecuzione di uno dei delinquenti più esecrabili del suo tempo degenerò nel più gran baccanale che fosse stato dato di vedere dal secondo secolo avanti Cristo in poi: donne morigerate si strapparono la blusa, si denudarono i seni tra urla isteriche, si gettarono a terra con le gonne sollevate, uomini incespicarono con sguardi folli in quel mare di carne lasciva stesa dinanzi a loro, estrassero di furia dai pantaloni con dita frementi il loro membro, come irrigidito da un gelo invisibile, si lasciarono cadere ansimanti nel punto in cui si trovavano e copularono in posizioni e accoppiamenti impossibili, il vecchio con la vergine, il bracciante con la moglie dell’avvocato, l’apprendista con la monaca, il gesuita con la moglie del framassone, tutti alla rinfusa, come capitava. L’aria era greve del sudore dolciastro del piacere e colma delle grida, dei grugniti e dei gemiti delle diecimila belve umane. Era infernale.
Grenouille stava a guardare e sorrideva. A coloro che lo vedevano, il suo sorriso sembrava il più innocente, il più affascinante e il più seducente del mondo. Ma in verità sulle sue labbra non c’era un sorriso, bensì un sogghigno orrendo, cinico, che rifletteva tutto il suo trionfo e tutto il suo disprezzo. Lui, Jean-Baptiste Grenouille, nato senza odore nel luogo più puzzolente del mondo, che proveniva dai rifiuti, dagli escrementi e dalla putrefazione, cresciuto senza amore, che viveva senza una calda anima umana, unicamente per ostinazione e con la forza del disgusto, piccolo, gobbo, zoppo, brutto, evitato da tutti, un mostro sia di dentro sia di fuori, era riuscito a farsi benvolere dal mondo. Ma che benvoluto! Amato! Adorato! Idolatrato! Aveva compiuto l’impresa di Prometeo. Con infinita raffinatezza era riuscito a produrre la scintilla divina che altre persone ricevono fin dalla culla senza colpo ferire, e di cui lui solo era stato privato. Più ancora! Se l’era creata da sé lottando, nell’interno del suo sé. Era ancora più grande di Prometeo. Si era creato un’aura più splendida e potente di quella di qualsiasi altro uomo prima di lui. E non la doveva a nessuno — non a un padre, non a una madre, e meno che mai a un Dio benevolo — ma unicamente a se stesso. In realtà era il Dio di se stesso, ed era un Dio ben più grande di quel dio puzzolente d’incenso che dimorava in chiesa. Di fronte a lui c’era un vescovo in ginocchio che guaiva di piacere. Ricchi e potenti, fieri signori e signore si consumavano dall’ammirazione, mentre tutt’intorno il popolo, tra cui c’erano padri, madri, fratelli e sorelle delle sue vittime, celebrava orge in suo onore e in suo nome. Un suo cenno, e tutti avrebbero rinnegato il loro Dio e adorato lui, il Grande Grenouille.
Sì, era il Grande Grenouille! Adesso era evidente. Lo era, come un tempo nelle sue fantasie d’innamoramento di sé, così ora nella realtà. In questo momento viveva il più grande trionfo della sua vita. E sentì che era orribile.
Era orribile, perché non riusciva a goderne neppure per un secondo. Nel momento in cui era sceso dalla carrozza sulla piazza illuminata dal sole, con indosso il profumo che induce gli uomini ad amare chi lo porta, con il profumo cui aveva lavorato per due anni, il profumo che aveva sognato di possedere tutta la vita… nel momento in cui vide e percepì con l’olfatto come esso agiva in modo irresistibile e come, diffondendosi con la rapidità del vento, catturava le persone che gli stavano attorno… in quel momento tutto il disgusto per l’umanità si ridestò in lui e avvelenò il suo trionfo così profondamente che non solo non provò gioia alcuna, ma neppure il minimo senso di compiacimento. Ciò che aveva sempre agognato, e cioé che gli uomini lo amassero, nel momento del suo successo gli era intollerabile, perché lui stesso non li amava, li odiava. E d’un tratto seppe che non avrebbe mai tratto soddisfazione dall’amore, bensì sempre e soltanto dall’odio, dall’odiare e dall’essere odiato.
Ma l’odio che provava per gli uomini non trovava eco in loro. Quanto più in quell’istante li odiava, tanto più essi lo idolatravano, perché di lui non percepivano altro se non la sua aura usurpata, la maschera del suo odore, il suo profumo rubato, che in realtà era divinamente buono.
Ora avrebbe voluto estirparli tutti dalla terra, quegli uomini stupidi, puzzolenti, erotizzati, proprio come un tempo, nelle contrade della sua anima nera, aveva estirpato gli odori estranei. E si augurava che essi sapessero quanto li odiava, e che per questo, per questo suo unico sentimento vero mai provato, ricambiassero il suo odio e lo estirpassero a loro volta, come già si erano proposti di fare all’inizio. Voleva liberarsi per una volta nella vita. Per una volta nella vita voleva essere uguale agli altri e liberarsi di ciò che aveva dentro: come essi si liberavano del loro amore e della loro stupida adorazione, così lui del suo odio. Voleva essere conosciuto per una volta, una sola volta, nella sua vera esistenza, e ricevere una risposta da un altro uomo sul suo unico sentimento vero, l’odio.
Ma non avvenne nulla. Non poteva avvenire nulla. E quel giorno meno che mai. Poiché si era mascherato con il miglior profumo del mondo, e sotto questa maschera non aveva un volto, non aveva nulla se non la sua totale assenza di odore. D’un tratto cominciò a star male, poiché sentì che le nebbie salivano di nuovo attorno a lui.
Come allora, nella caverna in sogno nel sonno nella sua fantasia, salirono d’un tratto le nebbie, le nebbie spaventose del suo odore che non riusciva a sentire, poiché ne era privo. E come allora provò un’immensa paura e angoscia, e credette di soffocare. Ma diversamente da allora questo non era un sogno né un sonno, bensì la cruda realtà. E diversamente da allora non si trovava solo in una caverna, bensì su una piazza, davanti a diecimila persone. E diversamente da allora non poteva aiutarlo un grido, che l’avrebbe svegliato e liberato, né poteva fuggire tornando nel buon mondo caldo, che l’avrebbe salvato. Poiché questo, qui e ora, era il mondo, e questo, qui e ora, era il suo sogno divenuto realtà. E lui stesso aveva voluto così.
Le orribili nebbie soffocanti salivano di nuovo dalla palude della sua anima, mentre attorno a lui il popolo gemeva in estasi orgiastiche e orgasmiche. Un uomo si mise a correre verso di lui. Si era alzato di scatto dalla prima fila dei notabili, con tale impeto che il cappello nero gli era caduto dalla testa, e ora si precipitava verso il luogo dell’esecuzione con la giacca nera svolazzante, come un corvo o come un angelo vendicatore. Era Richis.
Mi ucciderà, pensò Grenouille. È l’unico uomo che non si lascia ingannare dalla mia maschera. Non può lasciarsi ingannare. Ho addosso il profumo di sua figlia, chiaro e rivelatore come il sangue. Deve riconoscermi e uccidermi. Deve farlo.
E allargò le braccia per accogliere l’angelo che volava verso di lui. Già pensava di sentire contro il petto l’urto del pugnale o della spada come un colpo stupendamente eccitante, e la lama che penetrava attraverso la sua corazza di profumo e la nebbia soffocante fino al centro del suo cuore freddo… finalmente, finalmente qualcosa nel suo cuore, qualcosa che non fosse lui stesso! Già si sentiva redento.
Ma poi d’un tratto Richis gli si buttò al petto, non un angelo vendicatore, ma un Richis sconvolto, che singhiozzava da far pietà, e lo abbracciò, si avvinghiò a lui con tutte le sue forze, come se non avesse trovato altro appiglio in un mare di beatitudine. Non una pugnalata liberatrice, non una stoccata al cuore, neppure una maledizione o anche soltanto un grido d’odio. C’era invece la guancia umida di lacrime di Richis contro la sua e una bocca tremante, che gli sussurrava piangendo: «Perdonami, figlio mio, mio figliolo caro, perdonami!»
In quel momento sentì dall’interno che tutto dileguava davanti ai suoi occhi, e il mondo circostante si oscurò totalmente. Le nebbie dentro di lui si trasformarono in un flusso impetuoso, simile a latte bollente, schiumeggiante. Lo inondarono, premettero con forza spaventosa contro la pelle del suo corpo senza trovare una via d’uscita. Tentò di fuggire, di fuggire per l’amor di Dio, ma dove… Voleva scoppiare, esplodere voleva, per non essere soffocato dal suo sé. Infine cadde a terra e perse i sensi.
Quando tornò in sé, si trovava nel letto di Laure Richis. Le reliquie di Laure, abiti e capelli, erano state portate via. Sul comodino ardeva una candela. Attraverso le imposte socchiuse udiva in lontananza il giubilo della città in festa. Antoine Richis era seduto su uno sgabello accanto al letto e vegliava. Teneva una mano di Grenouille tra le proprie e l’accarezzava.
Ancora prima di aprire gli occhi, Grenouille saggiò l’atmosfera. In lui tutto era tranquillo. Più nulla ribolliva e premeva. Nella sua anima regnava la consueta notte fredda, che gli serviva per rendere la sua coscienza lucida e indifferente, e per dirigerla verso l’esterno: là annusò il suo profumo. Era cambiato. Le punte si erano lievemente smussate, cosicché soltanto la nota fondamentale dell’odore di Laure risultava evidente, una fiamma soave, intensa, sfavillante. Si sentì sicuro. Sapeva che sarebbe rimasto inattaccabile ancora per ore, e aprì gli occhi.
Lo sguardo di Richis era fisso su di lui. C’era una benevolenza infinita in quello sguardo, c’erano tenerezza, commozione e la profondità vuota e sciocca di chi ama.
Sorrise, strinse più forte la mano di Grenouille e disse: «Ora andrà tutto bene. La magistratura ha annullato la sentenza a tuo riguardo. Tutti i testimoni hanno ritrattato la loro deposizione. Sei libero. Puoi fare ciò che vuoi. Ma io voglio che tu resti con me. Ho perso una figlia, voglio avere in te un figlio. Tu le somigli. Sei bello come lei, i tuoi capelli, la tua bocca, le tue mani… ho stretto la tua mano per tutto questo tempo, la tua mano è come quella di Laure. E quando ti guardo negli occhi è come se mi guardasse lei. Tu sei suo fratello, e voglio che tu diventi mio figlio, la mia gioia, il mio orgoglio, il mio erede. Vivono ancora i tuoi genitori?»
Grenouille scosse il capo, e il viso di Richis divenne purpureo dalla felicità. «Allora vuoi essere mio figlio?» balbettò, e balzò in piedi dallo sgabello per sedersi sul bordo del letto, stringendo anche l’altra mano di Grenouille. «Vuoi esserlo? Vuoi? Vuoi accettarmi come padre? Non dire nulla! Non parlare! Sei ancora troppo debole per parlare. Fa’ soltanto un cenno!»
Grenouille fece un cenno. Allora la felicità di Richis eruppe da tutti i pori, ed egli, rosso e sudato in volto, si chinò su Grenouille e lo baciò sulla bocca.
«Dormi, ora, mio caro figliolo!» disse rialzandosi. «Io veglierò accanto a te finché ti addormenterai.» E dopo averlo contemplato a lungo con muta beatitudine, aggiunse: «Tu mi rendi molto, molto felice».
Grenouille piegò lievemente gli angoli della bocca, come aveva imparato a fare osservando la gente che sorride. Poi chiuse gli occhi. Attese un momento per rendere il suo respiro più regolare e più profondo, come quello di chi dorme. Sentiva lo sguardo amorevole di Richis sul proprio viso. A un tratto sentì che Richis si chinava ancora una volta su di lui per baciarlo, e poi si tratteneva per timore di svegliarlo. Infine la candela fu spenta con un soffio, e Richis scivolò in punta di piedi fuori della stanza.
Grenouille rimase a letto finché non udì più alcun rumore né in casa né in città. Quando si alzò, era già l’alba. Si rivestì e si allontanò senza far rumore per il vestibolo, scese piano piano la scala e attraverso il salotto uscì sulla terrazza.
Da lì c’era una vista fin oltre le mura della città, oltre la conca del territorio di Grasse, e quando era limpido anche fino al mare. In quel momento una nebbia rada, quasi una foschia, era sospesa sui campi, e i profumi che arrivavano da quella parte, d’erba, di ginestre e di rose, erano come lavati, puri, elementari, semplici e confortanti.
Risalendo il Cours dovette farsi strada ancora una volta tra le esalazioni umane, prima di raggiungere l’aperta campagna. Tutta la piazza e i pendii circostanti sembravano un immenso accampamento militare devastato. Tutt’attorno erano stese a terra migliaia di persone ubriache, sfinite dagli eccessi della festa notturna, molte nude, molte seminude e semicoperte da vestiti, sotto i quali erano scivolate come sotto una coltre. C’era un puzzo di vino acido, di acquavite, di sudore e di orina, di escrementi di bambini e di carne alla brace. Qua e là fumavano ancora i resti dei fuochi sui quali avevano cucinato a attorno ai quali avevano bevuto e ballato. Di tanto in tanto, tra il russare continuo e generale, si sentiva gorgogliare un balbettio o uno scoppio di risa. Forse qualcuno era ancora sveglio, e si beveva il cervello con gli ultimi brandelli di coscienza. Ma nessuno vide Grenouille, che passava al di sopra dei corpi sparpagliati, cauto e veloce a un tempo, come attraverso una palude. Non emanava più odore. Il miracolo aveva avuto fine.
Giunto alla fine del Cours, non imboccò la strada di Grenoble né quella di Cabris, ma si diresse a ovest attraverso i campi, senza guardare indietro neppure una volta. Quando si levò il sole, grande e giallo e infuocato, Grenouille era sparito da tempo.
Gli abitanti di Grasse si svegliarono con un terribile mal di testa. Anche coloro che non avevano bevuto avevano la testa pesante come piombo e stavano malissimo di stomaco e di spirito. Sul Cours, in piena luce solare, onesti contadini cercavano gli abiti che avevano gettato lontano da sé negli eccessi dell’orgia, donne morigerate cercavano i loro mariti e figli, persone del tutto estranee fra loro si staccavano orripilate da abbracci più che intimi, conoscenti, vicini, coniugi d’un tratto si trovavano l’uno di fronte all’altro in una nudità estremamente penosa, davanti agli occhi di tutti.
Per molti quest’esperienza fu così atroce, così totalmente inspiegabile e inconciliabile con le loro vere concezioni morali, che nello stesso istante in cui ebbe luogo la cancellazione dalla memoria, e di conseguenza anche in seguito, non riuscirono davvero più a ricordarla. Altri, che non dominavano così sovranamente il loro apparato percettivo, tentavano di non guardare, di non ascoltare e di non pensare… cosa non del tutto semplice, perché la vergogna era stata troppo evidente e troppo generale. Chi aveva trovato i suoi averi e i suoi congiunti si allontanò il più rapidamente possibile senza dar nell’occhio. Verso mezzogiorno la piazza era vuota come se avessero spazzato via tutto.
In città la gente uscì di casa, se uscì, solo verso sera, per sbrigare le commissioni più urgenti. Tutti si salutavano appena, incontrandosi, parlavano soltanto di cose senza importanza. Non una sola parola fu detta sugli avvenimenti del giorno e della notte precedenti. Tanto erano apparsi disinibiti e vivaci il giorno prima, altrettato timidi erano adesso. E tutti erano così, perché tutti erano colpevoli. Mai ci fu accordo tra i cittadini di Grasse come in quel momento. Si viveva come nell’ovatta.
Naturalmente alcuni, a causa del proprio lavoro, dovettero occuparsi più direttamente di ciò che era accaduto. La continuità della vita pubblica, l’irremovibilità della giustizia e dell’ordine richiedevano rapide misure. Quel pomeriggio stesso si riunì il Consiglio municipale. I membri, tra i quali anche il secondo console, si abbracciarono in silenzio, come se con quel gesto da congiurati fosse possibile ricostituire il Consiglio. Quindi, una anima, senza neppure far menzione degli avvenimenti e meno che mai del nome di Grenouille, decisero di «far sgombrare senza indugio la tribuna e il patibolo dal Cours, e di far riportare all’ordine precedente la piazza e i campi circostanti devastati». A tale scopo furono stanziate centosessanta lire.
Contemporaneamente la corte si riunì nella Prévôté. Senza alcun dibattito, la magistratura convenne di considerare risolto il «caso G.», di chiudere la pratica e di archiviarla senza registrarla, aprendo un nuovo procedimento contro l’assassino, ancora sconosciuto, di venticinque vergini nel distretto di Grasse. Al tenente di polizia fu impartito l’ordine di riprendere subito le indagini.
L’assassino fu trovato già il giorno dopo. In base a indizi inequivocabili, arrestarono Dominique Druot, maître parfumeur in Rue de la Louve, nella cui capanna dopo tutto erano stati rinvenuti gli abiti e i capelli di tutte le vittime. I giudici non si lasciarono sviare dai suoi dinieghi iniziali. Dopo quattordici ore di tortura, Druot confessò tutto, e implorò addirittura di essere giustiziato il più presto possibile, cosa che gli fu accordata già il giorno seguente. Lo impicciarono alle prime luci dell’alba, senza scalpore, senza patibolo né tribune, unicamente alla presenza del boia, di alcuni membri della magistratura, di un medico e di un sacerdote. Quando subentrò la morte, dopo averla constatata e messa regolarmente a verbale, seppellirono subito il cadavere. Con ciò il caso fu risolto.
Comunque la città l’aveva già dimenticato, e così totalmente che i viaggiatori che giunsero nei giorni seguenti e s’informarono casualmente del famigerato assassino delle fanciulle di Grasse non trovarono una sola persona ragionevole che fosse in grado di dar loro informazioni. Solo alcuni ospiti della Charité, ben noti malati mentali, balbettarono ancora qualcosa a proposito di una grande festa sulla Place du Cours, a causa della quale erano stati costretti a sgombrare le camere.
E ben presto la vita si normalizzò del tutto. La gente lavorava con impegno e dormiva tranquilla e badava ai propri affari e si comportava bene. L’acqua traboccava come sempre dalle varie sorgenti e fontane e trascinava il fango per i vicoli. La città si ergeva sempre, logora e fiera, sulle alture al di sopra della fertile conca. Il sole splendeva caldo. Presto giunse maggio. Ci fu la raccolta delle rose.