Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern

PARTE PRIMAIL CAPOSALDO

Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò le sue settantadue lombarde.

Prima che i russi attaccassero e pochi giorni dopo che si era arrivati si stava bene nel nostro caposaldo.

Il nostro caposaldo era in un villaggio di pescatori in riva al Don nel paese dei cosacchi. Le postazioni e le trincee erano scavate nella scarpata che precipitava sul fiume gelato. Tanto a destra che a sinistra la scarpata declinava sino a diventare un lido coperto di erbe secche e di canneti che spuntavano ispidi tra la neve. Al di là di un lido, a destra, il caposaldo del Morbegno; al di là dell’altro, quello del tenente Cenci. Tra noi e Cenci, in una casa diroccata, la squadra del sergente Garrone con una pesante. Di fronte a noi, a meno di cinquanta metri, sull’altra riva del fiume, il caposaldo dei russi.

Dove eravamo noi doveva essere stato un bel paese.

Ora, invece, delle case rimanevano in piedi soltanto i camini di mattoni. La chiesa era metà; e nell’abside erano il comando di compagnia, un osservatorio e una postazione per la pesante. Scavando i camminamenti negli orti delle case che non c’erano piú, uscivano fuori dalla terra e dalla neve patate, cavoli, carote, zucche. Qualche volta era roba buona e si faceva la minestra.

Le uniche cose vive, animalmente vive, che erano rimaste nel villaggio, erano i gatti. Non piú oche, cani, galline, vacche, ma solo gatti. Gatti grossi e scontrosi che vagavano fra le macerie delle case a caccia di topi. I topi non facevano parte del villaggio ma facevano parte della Russia, della terra, della steppa: erano dappertutto. C’erano topi nel caposaldo del tenente Sarpi scavato nel gesso. Quando si dormiva venivano sotto le coperte al caldo con noi. I topi!

Per Natale volevo mangiarmi un gatto e farmi con la pelle un berretto. Avevo teso anche una trappola, ma erano furbi e non si lasciavano prendere. Avrei potuto ammazzarne qualcuno con un colpo di moschetto, ma ci penso soltanto adesso ed è tardi. Si vede proprio che ero intestardito di volerlo prendere con la trappola, e cosí non ho mangiato polenta e gatto e non mi sono fatto il berretto con il pelo. Quando si tornava dalla vedetta, si macinava la segala: e cosí ci riscaldavamo prima di andare a dormire. La macina era fatta con due corti tronchi di rovere sovrapposti e dove questi combaciavano c’erano dei lunghi chiodi ribaditi. Si faceva colare il grano da un foro che stava sopra nel centro e da un altro foro, in corrispondenza dei chiodi, usciva la farina.

Si girava con una manovella. Alla sera, prima che uscissero le pattuglie, era pronta la polenta calda. Diavolo! Era polenta dura, alla bergamasca, e fumava su un tagliere vero che aveva fatto Moreschi. Era senza dubbio migliore di quella che facevano nelle nostre case. Qualche volta veniva a mangiarla anche il tenente che era marchigiano. Diceva: – Com’è buona questa polenta! – e ne mangiava due fette grosse come mattoni.

E poiché noi avevamo due sacchi di segala e due macine, alla vigilia di Natale mandammo una macina e un sacco al tenente Sarpi con auguri per i mitraglieri del nostro plotone che erano lassú nel suo caposaldo.

Si stava bene nei nostri bunker. Quando chiamavano al telefono e chiedevano: – Chi parla? – Chizzarri, l’attendente del tenente, rispondeva: – Campanelli! – Era questo il nome di convenienza del nostro caposaldo e quello di un alpino di Brescia che era morto in settembre. Dall’altra parte del filo rispondevano: – Qui Valstagna: parla Beppo –. Valstagna è un paese sul fiume Brenta lontano dal mio dieci minuti di volo d’aquila mentre qui indicava il comando di compagnia. Beppo, il nostro capitano nativo di Valstagna. Pareva proprio di essere sulle nostre montagne e sentire i boscaioli chiamarsi fra loro. Specialmente di notte quando quelli del Morbegno, che erano nel caposaldo alla nostra destra, uscivano sulla riva del fiume a piantare reticolati e conducevano i muli davanti alle trincee e urlavano e bestemmiavano e battevano pali con le mazze. Chiamavano persino i russi e gridavano: – Paesani! Paruschi, spacoina noci! – I russi, stupefatti, stavano a sentire.

Ma dopo abbiamo preso anche noi confidenza con le cose.

Una notte di luna sono uscito con Tourn, il piemontese, a cercare qualcosa fra case diroccate piú discoste. Siamo scesi in quei buchi che sono davanti ad ogni isba, dove i russi ripongono le provviste per l’inverno e la birra d’estate. In uno c’erano tre gatti che facevano all’amore, e che, seccati, balzarono fuori mandando scintille dagli occhi facendoci prendere un gran spavento. Quella volta trovai una pentola di ciliege secche e Tourn due sacchi di segala e due sedie, ed io in un altro buco, uno specchio grande e bello. Volevamo portare quella roba nella nostra tana, ma c’era la luna e la vedetta russa che stava al di là del fiume non voleva che portassimo via la sua roba e ci sparò. Forse aveva ragione, ma lui non l’avrebbe potuta adoperare, e le pallottole ci passavano vicine fischiando come a dirci: «Mettete giú». Dietro un camino abbiamo aspettato che una nube coprisse la luna, poi, saltando fra le macerie, abbiamo raggiunto la nostra tana dove i compagni ci aspettavano.

Era proprio bello sedersi su una sedia per scrivere alla ragazza, o radersi guardandoci nello specchio grande, o bere, alla sera, lo sciroppo delle ciliege secche bollite nell’acqua di neve.

Peccato che non riuscivo a prendere il gatto.

Quello che bisognava economizzare era l’olio per i lumini. D’altra parte, un po’ di luce ci voleva sempre nelle tane, per il caso di un allarme, sebbene avessimo armi e munizioni sempre a portata di mano.

Una notte che nevicava ero andato con il tenente oltre i nostri reticolati ove c’era la spiaggia abbandonata fra noi e il Morbegno. Non c’era nessuno là. Soltanto rottami aggrovigliati di chissà quali macchine. Volevamo vedere cosa c’era di buono fra quei rottami. Trovammo un bidone di olio, e pensammo che potesse servire per fare i lumi e per ungere le armi. Cosí un’altra notte che c’era tormenta ed era buio son ritornato lí con Tourn e Bodei.

Mettendo il bidone in una posizione comoda per poterlo vuotare nei recipienti che avevamo con noi, si fece del rumore. La vedetta sparò, ma era buio nero come il fondo esterno del paiolo della polenta; sparò cosí per scaldarsi le mani. Bodei bestemmiava sottovoce per non farsi sentire. Eravamo piú vicini ai russi che ai nostri compagni. Facendo diversi viaggi riuscimmo a portare nella tana un cento litri di olio. Abbiamo dato un po’ d’olio al tenente Cenci per il suo caposaldo, poi al tenente Sarpi, poi anche il capitano ne volle, e la squadra esploratori, e anche il maggiore al comando di battaglione. Infine, stanchi delle richieste, mandammo a dire che non ne avevamo piú. Quando ci diedero l’ordine di ripiegare ne abbiamo lasciato anche per i russi. Nella nostra tana c’erano tre lumi fatti con scatolette di carne vuote. Per gli stoppini si adoperavano stringhe da scarpe tagliate a pezzi.

La notte era per noi come il giorno. Camminavo sempre fuori dai camminamenti e andavo da una vedetta all’altra. Mi divertivo a camminare senza far rumore e giungere cosí alle loro spalle per vederle, confuse, chiedermi la parola d’ordine. Io rispondevo: – Ciavhad de Brexa –. Poi parlavo loro sottovoce in bresciano, raccontavo qualche barzelletta e dicevo parole sconce. Ridevano a sentirmi, veneto come sono, parlare nel loro dialetto. Solo quando andavo da Lombardi stavo zitto.

Lombardi! Non posso ricordare il suo viso senza che si rinnovi in me un fremito. Alto, taciturno, cupo. Quando lo guardavo in viso non mi sentivo di fissarlo a lungo e quando, molto di rado, sorrideva, faceva male al cuore.

Sembrava facesse parte di un altro mondo e sapesse delle cose che a noi non poteva dire. Una notte, mentre mi trovavo da lui, venne una pattuglia russa, e le pallottole dei mitra sfiorarono l’orlo della trincea. Io, allora, abbassai il capo e guardai attraverso la feritoia. Lombardi, invece, stava ritto con tutto il petto fuori e non si muoveva di un filo. Io avevo paura per lui, sentivo di arrossire per vergogna. Una sera, poi, durante l’attacco dei russi, venne il sergente Minelli a dirmi che Lombardi era morto con una pallottola in fronte mentre, fuori della trincea, ritto in piedi, sparava con un mitragliatore imbracciato. Ricordai allora com’era sempre stato taciturno e il senso di soggezione che mi dava la sua presenza.

Pareva che la morte fosse già in lui.


La cosa piú buffa era quando portavamo davanti alla trincea i gabbioni dei reticolati. Ricordo un alpino, piccolo, sempre attivo, con la barba secca e rada, porta-arma tiratore veramente in gamba della squadra di Pintossi. Lo chiamavamo «il Duce». Bestemmiava in un modo tutto suo particolare ed era ridicolo a vedersi perché indossava un camicione bianco piú lungo di lui, cosí che, camminando, questo s’impigliava sempre sotto gli scarponi scatenando una fila di bestemmie che lo sentivano anche i russi. S’impigliava spesso anche fra i gabbioni di filo spinato che portava con il suo compagno e allora neanche tirava il fiato per bestemmiare, e includeva la naia, i reticolati, la posta, gli imboscati, Mussolini, la fidanzata, i russi. Sentirlo era meglio che andare a teatro.


Venne anche il giorno di Natale.

Sapevo che era il giorno di Natale perché il tenente la sera prima era venuto nella tana a dirci: – é Natale domani! – Lo sapevo anche perché dall’Italia avevo ricevuto tante cartoline con alberi e bambini. Una ragazza mi aveva mandato una cartolina in rilievo con il presepio, e la inchiodai sui pali di sostegno del bunker. Sapevamo che era Natale. Quella mattina avevo finito di fare il solito giro delle vedette. Nella notte ero andato per tutti i posti di vedetta del caposaldo e ogni volta che trovavo fatto il cambio dicevo: – Buon Natale!

Anche ai camminamenti dicevo buon Natale, anche alla neve, alla sabbia, al ghiaccio del fiume, anche al fumo che usciva dalle tane, anche ai russi, a Mussolini, a Stalin.

Era mattina. Me ne stavo nella postazione piú avanzata sopra il ghiaccio del fiume e guardavo il sole che sorgeva dietro il bosco di roveri sopra le postazioni dei russi. Guardavo il fiume ghiacciato da su dove compariva dopo una curva fin giú dove scompariva in un’altra curva. Guardavo la neve e le peste di una lepre sulla neve: andavano dal nostro caposaldo a quello dei russi. «Se potessi prendere la lepre!», pensavo. Guardavo attorno tutte le cose e dicevo: – Buon Natale! – Era troppo freddo star lí fermo e risalendo il camminamento rientrai nella tana della mia squadra. – Buon Natale! – dissi, – buon Natale!

Meschini stava pestando il caffè nell’elmetto con il manico della baionetta.

Bodei faceva bollire i pidocchi.

Giuanin stava appollaiato nella sua nicchia vicino alla stufa.

Moreschi si rammendava le calze.

Quelli che avevano fatto gli ultimi turni di vedetta dormivano. C’era un odore forte lì dentro: odore di caffè, di maglie e mutande sporche che bollivano con i pidocchi, e di tante altre cose. A mezzogiorno Moreschi mandò per i viveri. Ma siccome quel rancio non era da Natale si decise di fare la polenta. Meschini ravvivò il fuoco, Bodei andò a lavare il pentolone in cui aveva bollito i pidocchi.

Tourn e io si voleva sempre stacciare la farina e, chissà dove e come, un giorno Tourn riuscí a trovare uno staccio.

Ma quello che restava nello staccio, tra crusca e grano appena spezzato, era piú di metà e allora si decise a maggioranza di non stacciarla piú. La polenta era dura e buona.

Era il pomeriggio di Natale. Il sole incominciava ad andarsene per i fatti suoi dietro la mugila e noi si stava nella tana attorno alla stufa fumando e chiacchierando.

Venne poi dentro il cappellano del Vestone: – Buon Natale, figlioli, buon Natale! – E si appoggiò con la schiena ad un palo di sostegno. – Sono stanco, – disse, – ho fatto tutti i bunker del battaglione. Quanti ce ne sono ancora dopo il vostro?

– Una squadra sola, – dissi. – Dopo viene il Morbegno.

– Dite il rosario stasera e poi scrivete a casa. State allegri e sereni e scrivete a casa. Ora vado dagli altri. Arrivederci.

– Non ha neanche un pacchetto di Milit da darci, padre?

– Ah, sí! Prendete.

E ci butta due pacchetti di Macedonia e va fuori. Meschini bestemmia. Bodei bestemmia. Giuanin dalla sua nicchia dice: – Zitti, è Natale oggi! – Meschini bestemmia ancora piú fiorito: – Sempre Macedonia, – dice, – e mai trinciato forte o Popolari o Milit. Questa è paglia per signorine.

– Boia faus, – dice Tourn, – Macedonia.

– Porca la mula, – dice Moreschi, – Macedonia.

Poi mandai fuori la prima coppia di vedette perché era buio. Ero lí che mi grattavo la schiena vicino alla stufa quando entrò Chizzarri a chiamarmi: – Sergentmagiú,

– disse, – ti vogliono al telefono. È il capitano –. Mi infilai il pastrano e presi il moschetto domandandomi cosa potessi aver fatto di male. Il telefono era nella tana del tenente. Il tenente era fuori, forse a passeggiare lungo la riva del fiume per sentire gli starnuti delle vedette russe.

Era proprio Beppo, il capitano, che mi voleva su a Valstagna, al comando di compagnia. Aveva qualcosa da dirmi. «Che sarà?» pensavo, mentre andavo su alla chiesa diroccata.

Con la faccia tonda e rossa il capitano mi aspettava nella sua tana che era larga e comoda. Aveva il cappello sulle ventitre con la penna diritta come un coscritto, le mani in tasca. – Buon Natale! – disse. E poi mi tese la mano e poi un bicchiere di latta con dentro cognac. Mi chiese come andava al mio paese e come al caposaldo.

Mi cacciò tra le braccia un fiasco di vino e due pacchi di pasta. Ritornai giú alla mia tana saltando fra la neve come un capretto a primavera. Nella furia scivolai e caddi ma non ruppi il fiasco né mollai la pasta. Bisogna saper cadere. Una volta sono scivolato sul ghiaccio con quattro gavette di vino e non versai una goccia: io ero giú per terra ma le gavette le avevo salde in mano con le braccia tese a livello. Ma era successo in Italia di aver quattro gavette di vino, al corso sciatori.

Quando arrivai al caposaldo le vedette mi diedero l’alt-chi-va-là-parola-d’ordine e gridai, forte che mi sentirono anche i russi: – Pastasciutta e vino!

Un giorno che, sdraiato sulla paglia, guardavo i pali di sostegno e pensavo che parole nuove dovevo scrivere alla ragazza, venne Chizzarri a dirmi che il tenente Cenci aveva telefonato che andassi da lui a fare due chiacchiere.

Infilai il camminamento che portava al suo caposaldo.

Mi pareva di essere al paese come quando si va da una contrada all’altra per trovare un amico e far due chiacchiere all’osteria. Ma dal tenente Cenci era differente. Aveva una tana tutta bianca scavata nel gesso, mentre le nostre erano nere. C’erano dentro un lettino ben rifatto, con le coperte pulite e senza una grinza, un tavolo con sopra una coperta da campo, alcuni libri, e il lume a petrolio che pareva un soprammobile. Vicino all’entrata, in una nicchia, una fila di bombe a mano rosse e nere parevano fiori. Presso il lettino, appoggiato alla parete, il moschetto lucido: accanto a questo l’elmetto sospeso ad un chiodo. Per terra non vi era un filo di paglia o una cicca. Prima di entrare battei e strisciai le scarpe per non portar dentro neve.

Il tenente Cenci, sorridente, mi aspettava in piedi nella sua divisa pulita e con il passamontagna bianco risvoltato intorno al capo come il turbante di un indiano. Mi chiese della ragazza, si parlava di cose belle e gentili, e poi chiamò l’attendente a fare il caffè.

Quando stavo per andarmene mi regalò un pacchetto di Africa e mi diede in prestito un libro che parlava di un aviatore che volava per l’oceano, le Ande, i deserti. Mi accompagnò per le postazioni del suo caposaldo; guardando il campo di tiro dei suoi mitragliatori gli feci osservare che doveva sparare un po’ piú alto e a sinistra perché le pallottole passavano sopra la nostra trincea e noi non potevamo mettere fuori il naso, com’era successo una volta ch’era venuta una pattuglia russa e lui sparava.

Ritornando solo alla mia tana pensavo se avrei trovato posta e che parole nuove dovevo scrivere alla ragazza. Ma le parole nuove erano sempre quelle vecchie: baci, bene, amore, ritornerò. Pensavo che se avessi scritto: gatto per Natale, olio per le armi, turno di vedetta, Beppo, postazioni, tenente Moscioni, caporale Pintossi, reticolati, non avrebbe capito niente.


Tourn, il piemontese, era il piú allegro di tutti anche se aveva un po’ di paura. L’avevano mandato al nostro battaglione per punizione perché era rientrato in ritardo dalla licenza. In principio non si era trovato bene con noi ma poi sí, e molto. Quando rientrava nella tana, dopo il suo turno di vedetta, gridava: – Madamin c’al porta ‘na buta!

Bodei, che era bresciano come tutti gli altri, rispondeva:

– Bianco o negher?

– Basta c’al sia! – riprendeva Tourn e poi cantava nel suo dialetto: – All’ombretta di un cespuglio...

Un giorno gli chiesi: – Tourn, hai ricevuto posta da casa? – Sí, – disse lui, – l’ho già fumata tutta.

Tourn, infatti, raccoglieva tutte le cicche, ne levava il tabacco e con le lettere che riceveva da casa «per via aerea» faceva cartine. Lui cosí fumava sempre e faceva in modo che da casa gli scrivessero sempre «per via aerea» per aver carta sottile.

Giuanin invece, ogni volta che gli capitavo a tiro, mi chiamava in disparte, mi strizzava l’occhio e sottovoce mi chiedeva: – Sergentmagiú, ghe rivarem a baita?

Perché lui era certo che io sapessi come sarebbe andata a finire la guerra, chi sarebbe restato vivo, chi morto e quando. Cosí io rispondevo con sicurezza: – Sí, Giuanin, ghe rivarem a baita –. Secondo lui dovevo anche sapere se avrebbe sposato la sua ragazza. Qualche volta gli dicevo che doveva stare attento agli imboscati.

Si appollaiava nella sua nicchia vicino alla stufa e con gli occhi mi ripeteva: – Sergentmagiú, ghe rivarem a baita? – Pareva che fra noi due vi fosse un segreto.

Un bel tipo era anche Meschini. Era lui che faceva la polenta la sera. Mescolava con energia: le maniche della camicia rimboccate fino al gomito, una goccia di sudore per ogni pelo di barba. Si vedevano i muscoli delle braccia e del viso irrigidirsi, si piantava a gambe larghe.

Cosí mescolava la polenta Meschini. Pareva Vulcano che batteva sull’incudine. Raccontava che quando era in Albania la tormenta faceva bianco il pelo dei muli neri e il fango cambiava in neri i muli bianchi. Quelli che avevano pochi mesi di naia lo stavano ad ascoltare increduli. Era un ex conducente e odorava ancora di mulo: la sua barba era pelo di mulo, la sua forza era di mulo, la guerra la faceva come un mulo, la polenta che mescolava era mangime di mulo. Aveva il colore della terra e noi eravamo come lui.

Anche il tenente Moscioni che comandava il caposaldo era come noi. Riposava lavorando come i muli, scavava camminamenti con noi durante il giorno e veniva con noi di notte a portare reticolati davanti alla trincea, a fare postazioni, a prendere pali tra le macerie delle case e mangiava polenta come mangime di muli.

Ma lui aveva una cosa che noi non avevamo: nello zaino nascondeva pacchetti di sigarette Popolari e Milit che fumava di nascosto nella sua tana; a noi invece passavano Macedonia ed era come fumare foglie di patata.

Moreschi, il caporalmaggiore dei mortai da 45, voleva cambiare Macedonia contro Milit ma il tenente non ci stava nemmeno a due contro una. Però, a dire il vero, Moreschi qualche Milit se la fumava sempre.


La notte di capodanno vi furono i fuochi artificiali.

Diavolo se era freddo! Cassiopea e le Pleiadi brillavano piú che mai sopra le nostre teste, il fiume era gelato completamente e ogni mezz’ora bisognava dare il cambio alle vedette.

Alla sera ero andato con il tenente sino alla postazione del sergente Garrone. Lí si giocavano alle carte i soldi della deca. Fuori la vedetta stava vicino alla mitragliatrice. La pesante sporgeva la canna verso un campo di granone indurito dal gelo: pareva una capra tanto sembrava magra, la pesante, e sotto la pancia aveva un elmetto di brace viva.

La vedetta si grattava; i muli avevano l’erpete e lui la scabbia. Ritornando verso il caposaldo pareva proprio di andare verso casa nostra. Il tenente volle tirare un colpo di pistola per vedere se le vedette stavano all’erta. La pistola fece: clic. Io allora provai a tirare un colpo di moschetto e il moschetto fece: clic. Mi disse infine di gettare una bomba a mano e la bomba a mano non fece nemmeno clic, sparí nella neve senza fare alcun rumore.

Diavolo se era freddo.

Dopo, verso mezzanotte, venne la sagra. D’un tratto pallottole traccianti mandavano a pezzi il cielo, pallottole di mitragliatrice passavano sopra il nostro caposaldo miagolando e davanti le nostre trincee scoppiavano i 152: subito dopo i 75/13 e i mortai da 81 di Baroni laceravano l’aria e i pesci nel fiume. Tremava la terra, e sabbia e neve colavano giú dai camminamenti. Nemmeno nel Bresciano nel giorno della sagra di san Faustino s’udiva un baccano simile. Cassiopea non si vedeva piú e i gatti chissà dov’erano andati. Le pallottole battevano sui reticolati mandando scintille. Improvvisamente tutto ritornò calmo, proprio come dopo la sagra tutto diventa silenzioso e nelle strade deserte rimangono i pezzi di carta che avvolgevano le caramelle e i fiocchi delle trombette. Solo ogni tanto si sentiva qualche fucilata solitaria e qualche breve raffica di mitra come le ultime risate di un ubriaco vagabondo in cerca di osteria. Tornarono a brillare le stelle sopra le nostre teste e i gatti a mettere il muso fuori dalle macerie delle case. Gli alpini rientravano nelle tane. Sul Don, nei buchi delle esplosioni, l’acqua riprendeva a gelare. Ero assieme al tenente e guardavamo le cose nell’oscurità e ascoltavamo il silenzio.

Sentimmo che Chizzarri veniva in cerca di noi. – Signor tenente, vi vogliono al telefono, – disse. Rimasi solo e guardavo i reticolati a metà sepolti nella neve, le erbe secche sulla riva del fiume immobile e duro, e sull’altra riva indovinavo nel buio le postazioni dei russi. Sentii una nostra vedetta tossire e un passo lungo e felpato come quello del lupo: il tenente ritornava. – Cos’era? – dissi. È morto Sarpi, – rispose. Guardai nuovamente il buio e ascoltai di nuovo il silenzio. Il tenente si curvò nella trincea, accese due sigarette e ne passò una a me.

Mi sentivo allo stomaco come un calcio di fucile e la gola chiusa come se avessi da vomitare qualcosa e non potessi. Tenente Sarpi. Attorno a me non c’era nulla, nemmeno le cose, nemmeno Cassiopea, nemmeno il freddo.

Solo quel dolore allo stomaco. – È stata una pattuglia, – disse il tenente; – entrò nel suo caposaldo dalle spalle e penetrò nella trincea. Uscendo di corsa dal suo ricovero alla curva di un camminamento si prese una raffica in petto. Hanno portato via anche un conducente della nostra compagnia che stava spalando la neve dai camminamenti. Andiamo a dormire ora. Buon anno, Rigoni –. Ci stringemmo la mano.

Come tutte le mattine, quando venne l’alba, andai a dormire; come sempre mi sdraiai sulla paglia che una volta era stata il tetto di un’isba, con le scarpe, le giberne, il passamontagna; mi tirai sopra il pastrano con il pelo e guardando i pali del bunker mi addormentai. Come al solito, verso le dieci, Giuanin mi svegliò per spartire il rancio. Era speciale quel giorno: patate in umido, carne, formaggio, vino, e, come sempre, nel percorso dalle cucine al caposaldo s’era gelato. Vedendo il rancio speciale mi ricordai che era capodanno e che nella notte era morto il tenente Sarpi. Uscii fuori dalla tana. Il sole mi fece vedere tutto bianco, poi andando piano per i camminamenti mi portai nella postazione piú avanzata sotto i reticolati. Da lí guardai le peste del battaglione russo che aveva attraversato il fiume a cento metri da noi. Tutto era silenzio. Il sole batteva sulla neve, il tenente Sarpi era morto nella notte con una raffica al petto. Ora maturano gli aranci nel suo giardino, ma lui è morto nel camminamento buio. La sua vecchia riceverà una lettera con gli auguri. Stamattina i suoi alpini lo porteranno giú con la barella verso gli imboscati e lo poseranno nel cimitero, lui siciliano, assieme a bresciani e bergamaschi. Eravate contento, signor tenente, dei mitraglieri; anche se bestemmiavano quando ordinavate di pulire le armi mentre a voi non piaceva sentir bestemmiare. La sera venivate nella nostra tana: prima dicevamo il rosario, poi cantavamo, poi bestemmiavamo. Allora tenente Sarpi ridevate, poi dicevate parolacce in siciliano. Ora a cento metri da qui vi sono sulla neve le tracce della pattuglia.

Parlava sovente del mio paese, mi guardava fisso con quegli occhi piccoli e neri. Giuanin chiedeva al tenente Sarpi: – Quando rivarem a baita sciur tenente? – Nel quarantotto, Giuanin, nel quarantotto –. Giuanin strizzava l’occhio, ritirava mesto la testa fra le spalle e si allontanava borbottando. Il tenente rideva, lo chiamava e gli dava una Popolare. Questa notte il pattuglione russo è passato di là e lui era già morto, con la neve che gli entrava nella bocca e il sangue che gli usciva sempre piú piano finché si gelò sulla neve.

Nella sua nicchia vicino alla stufa Giuanin mangerà il rancio e penserà: «Ghe rivarem a baita?»

Camminavo solo per i camminamenti. Mi fermai accanto a una vedetta e non dissi niente; guardai da una feritoia la neve sul fiume; non si vedevano piú le peste della pattuglia, ma io le avevo e le ho ancora dentro, come piccole ombre sulla neve di luce ghiacciata.

Andai verso la squadra del Baffo sull’estrema destra.

Era il posto piú tranquillo e sicuro del caposaldo dove il villaggio si diradava tra orti e cespugli. Da quella parte, si preparava una postazione per la pesante e il tenente Moscioni e io avevamo passato parecchie ore lavorando di notte a disporre i sacchetti di terra. In una casetta quasi intatta, una sera, trovammo un’ancora, ordigno strano per noi alpini, e quella piccola isba a un unico ambiente divenne per noi l’isba del pescatore.

Camminavo pensando al pescatore dell’isba: ove sarà adesso? Lo immaginavo vecchio, grande, con la barba bianca come lo zio Jeroska dei Cosacchi del Tolstoj. Da quanto tempo avevo letto quel libro? Ero ragazzo al mio paese. E il tenente Sarpi è morto, stanotte. –

Cos’hai sergentmagiú? – Che bel sole oggi, vero? –

Buon anno, sergentmagiú. – Buon anno, Marangoni. –

Da che parte è l’Italia, sergentmagiú? – Laggiú, vedi?

Laggiú laggiú laggiú. La terra è rotonda, Marangoni, e noi siamo fra le stelle. Tutti.

Marangoni mi guardava, capiva tutto e taceva. E ora anche Marangoni è morto, un alpino come tanti. Un ragazzo era, anzi un bambino. Rideva sempre, e quando riceveva posta mi mostrava la lettera agitandola in alto: – é la morosa, – diceva. E ora anche lui è morto.

Una mattina, smontato all’alba, era salito sull’orlo della trincea a prendere la neve per fare il caffè e vi fu un solo colpo di fucile. Piombò giú nella trincea con un foro in una tempia. Morí poco dopo nella sua tana fra i compagni e non mi sentii il cuore di andarlo a vedere.

Tante volte si era usciti all’alba, anch’io parecchie volte, e nessuno sparava. Anche i russi uscivano e noi non sparavamo mai. Perché ci fu quel colpo quella mattina? E perché morí cosí Marangoni? Forse durante la notte, pensavo, i russi avranno avuto il cambio e questi saranno nuovi. – Bisogna stare attenti e uscire con l’elmetto, – dissi per le tane. Avrei avuto voglia di appostarmi con il fucile e aspettare i russi come si aspetta la lepre. Ma non feci nulla.

La tana della squadra del Baffo era la piú in disordine e puzzolente del caposaldo. Appena entrato non distinsi nulla. V’era una nebbia pesante, gravida di mille odori, sentii brusii di parole e le grida di due alpini che litigavano per avere la pentola dove far bollire i pidocchi. –

Buon giorno a tutti e buon anno! gridai dall’uscio. E con me entrò un soffio di aria fredda e bianca. Qualcuno mi rispose, qualcuno mi tese la mano, qualche altro brontolò fra i denti. Un po’ alla volta incominciai a distinguere le figure che si muovevano. Misi d’accordo i due che litigavano per la pentola. Parlando nel loro dialetto raccontai della pattuglia e della morte del tenente Sarpi. Sapevo che il Baffo mi ascoltava anche se fingeva di dormire. Non mi vedeva volentieri nella sua tana.

Parlava male di me ai suoi uomini; alcuni gli credevano, altri no. Mi spiaceva molto che succedesse questo nel nostro caposaldo dove tutti andavamo d’accordo e ci aiutavamo. Non mi sopportava perché lo chiamavo di notte per far dare il cambio alle vedette e perché gli ordinavo di tener pulite le armi e ordinata la tana. Si lamentava quando la posta non arrivava, quando il rancio era poco, quando era freddo, quando c’era fumo, quando c’era la dissenteria, sempre. Se poi gli arrivava la posta non era contento, e se la stufa non faceva fumo non era contento, se il rancio era sufficiente non era contento, se i pidocchi lo lasciavano tranquillo non era contento, se era caldo non era contento, e gli uomini della sua squadra facevano metà lavoro di quelli di Pintossi. Per fare una postazione impiegavano giornate e giornate, e bisognava star loro dietro ad incitarli di continuo e lavorare di piú per dar loro l’esempio. Per fare il collegamento col Morbegno avevano paura di attraversare la zona deserta. Gli uomini di Pintossi, invece, avevano fatto persino il tubo della stufa con scatolette vuote incastrate l’una nell’altra. Il Baffo era cosí perché stanco di naia. Aveva piú di trent’anni e forse otto di servizio militare: era stato in Africa, poi sorteggiato per la Spagna, poi in Albania e infine qui. Era venuto nella nostra compagnia con i complementi dopo il primo settembre.

Ed era stanco di naia, non ne poteva piú.

Io parlavo nel loro dialetto, forte che mi sentisse anche il Baffo. Chiedevo dei figli a chi li aveva, che strada bisognava prendere per arrivare al loro paese, promettevo che da borghese sarei andato a trovarli. Parlavo delle sbornie che avremmo fatte, delle cantate e del vino nuovo. Dicevo a uno: – Guarda che ti esce una cordata di pidocchi dal collo –. Ridevano allora e un altro diceva a me: – Sergentmagiú, ti esce una pattuglia dalla manica, hanno la falce e il martello sulla schiena, guardali quei sovietici! – Ridevo io, allora, e ridevano tutti. Il Baffo fingeva di dormire. Prima di uscire andando verso di lui lo chiamai e gli tesi la mano. – Buon anno: vedrai che a baita ci arriveremo a fare la sbornia. – Non finisce mai, non finisce mai, – egli mi rispose. Cosí passavamo le giornate: nella tana a scrivere o a pensare guardando i pali di sostegno, oppure a buttar pidocchi sulla piastra arroventata della stufa: diventavano allora tutti bianchi e poi scoppiavano. Di notte si era fuori ad ascoltare il silenzio e a guardare le stelle, a preparar postazioni, a piantare reticolati, a passare da una vedetta all’altra. Molte notti le abbiamo passate a tagliar cespugli e canne davanti alle postazioni di Pintossi. Com’era strano tagliar cespugli e piante con accette e baionette, di là dai reticolati, nelle notti fredde sulla neve! Si capiva che i russi stavano zitti ad ascoltare cosa facevamo. Riunivamo in un gran mucchio davanti a noi tutte le piante tagliate. Ne risultava un bel groviglio che sarebbe stato difficile da attraversare piú dei reticolati. E piú rumoroso.

Quando nevicava, bisognava stare molto attenti e guardinghi per il pericolo dei colpi di mano. Una notte mentre da solo giravo con il camice bianco sopra il pastrano, come un fantasma, mi accorsi di una pattuglia russa che tentava di aggirare il caposaldo. Non vedevo i russi ma sentivo la loro presenza a pochi passi da me.

Stavo zitto e immobile. E loro stavano zitti e immobili.

Sentivo che guardavano nel buio come facevo io, le armi pronte. Avevo paura e quasi tremavo. Se mi avessero preso e portato via? Cercavo di dominarmi ma le vene della gola mi battevano forte. Avevo veramente paura.

Infine mi decisi: gridai, buttai le bombe che avevo in mano, e saltai nel camminamento. Per fortuna una bomba scoppiò. Sentii i russi che correvano e al bagliore vidi che si ritiravano nei cespugli piú vicini. Di là aprirono il fuoco con un’arma automatica. Nel frattempo erano giunti alcuni uomini di Pintossi. Dall’orlo della trincea incominciammo a sparare anche noi. Uno corse a prendere il mitragliatore. Si sparava e poi ci spostavamo di qualche metro. I russi della pattuglia rispondevano al nostro fuoco ma lentamente si allontanavano. Si fermarono poi alquanto lontani e spararono insistentemente con una pesante. Ma alla fine era freddo, loro ritornarono alle loro tane e noi tornammo alle nostre. Se avessero potuto prendere uno di noi forse sarebbero andati in licenza al loro paese. Alla mattina, con il sole, uscii a osservare le tracce che avevano lasciato. In verità erano piú lontane di quanto avessi supposto la notte, e fumando una sigaretta guardavo le loro postazioni al di là del fiume. Ogni tanto vedevo uno di loro che si alzava a prendere la neve dall’orlo della trincea. Faranno il tè, pensavo. Mi venne il desiderio di berne una tazzina. E li guardavo cosí come si guarda da un sentiero un contadino che sparge letame nel campo.

Qualche tempo dopo appresi che per il fatto di quella notte mi avevano proposto per una medaglia. Per che cosa l’avessi meritata non lo so proprio.

Ai primi di gennaio capitarono al nostro caposaldo, assieme alla corvè del rancio, tre soldati di fanteria. Erano meridionali della divisione Vicenza che i comandi superiori, chissà perché, avevano sciolta mandando gli uomini fra le compagnie alpine. Il tenente li assegnò alla squadra del Baffo.

La sera andai a trovarli. Due non volevano uscire di vedetta: non si fidavano, mi dicevano nel loro dialetto, e uno piangeva. Li feci accompagnare al posto di vedetta da due alpini e per convincerli che non c’era pericolo camminai in piedi fuori della trincea e scesi fischiettando fino ai rottami sicuro che i russi non avrebbero sparato. Pensavo di averli convinti, ma non vollero restare soli sicché dovetti appaiarli con un alpino. Il terzo, invece, era in gamba. Da borghese faceva il saltimbanco in un circo equestre, conosceva mille giochetti e nella tana teneva allegri tutti con quello che sapeva fare e con delle uscite che facevano ridere anche il Baffo. Gli alpini gli volevano un bene dell’anima. Battendosi sui denti con due pezzi di legno componeva persino delle tarantelle. Imparò subito a suonare in quella maniera la marcia degli alpini.

Quando raccontai la cosa a Moreschi mi rispose: Poshibel ‘na cavra de het quintai! – Perché Moreschi non credeva mai a niente e quando uno diceva che la sua ragazza era la piú bella di tutte, o che teneva nello zaino un pacchetto di sigarette da cinquanta, o che a casa aveva in serbo una damigiana di vino per quando sarebbe ritornato, usciva fuori improvvisamente a dire: – Possibile una capra di sette quintali? – ogni tanto raccontava la storia di quel tale che alla stazione di Brescia aveva fermato l’Orient-Express. Era in mezzo al binario e giocava alla morra con altri compagni e quando sentí spingere alle spalle, si girò seccato gridando: – Chi è qui che urta? – Ed era l’Orient-Express che veniva da Milano. – Ma, – soggiungeva Moreschi, – era un caporalmaggiore della pesante, con le spalle larghe cosí –. Poi guardava le reclute e ripeteva: –

Poshibel ‘na cavra de het quintai? – Schiudeva quindi le labbra e tra i baffi neri e la folta barba nera mostrava una fila di denti bianchi; i suoi occhi sotto le sopracciglia nere avevano un riso ingenuo e buono. Meschini, guardando anche lui le reclute e smettendo di mestolare la polenta, concludeva: – Non era caporalmaggiore dei mitraglieri, ma dei mortai –. E le reclute ridevano.

Verso il dieci di gennaio incominciarono ad arrivare, assieme al rancio, delle notizie poco buone. Tourn e Bodei, che erano andati alle cucine, ci dissero di aver sentito dai conducenti che eravamo accerchiati da diversi giorni.

Ogni giorno arrivava qualche novità a mezzo radioscarpa; gli alpini incominciavano a diventare nervosi. Mi chiedevano quale era la direzione che bisognava prendere per arrivare in Italia e quanti chilometri c’erano. Giuanin mi domandava sempre piú spesso: – Sergentmagiú ghe rivarem a baita? Anch’io sentivo che qualcosa non andava. I russi al di là del fiume avevano avuto il cambio e di notte lavoravano a tagliare cespugli e piante per aprire il campo di tiro alle loro armi. Quando ero solo, guardavo laggiú, a sud, dove il fiume girava e vedevo dei bagliori come lampi estivi. Ma erano tenui e pareva che venissero di là dalle stelle. Qualche volta, quando tutto taceva e v’erano soltanto le cose, sentivo il rumore lontano come di ruote che rotolassero su un acciottolato coperto d’acqua. Era un rumore che prendeva tutta la notte e la riempiva. Ma non dicevo nulla alle vedette, forse lo avevano già notato anche loro. I russi erano diventati piú attivi, giravo con il moschetto senza sicura sotto il braccio e con una bomba della marca migliore in mano.

La posta arrivava sempre e il rancio anche.

Una sera che ero nella tana del tenente a fumare una sigaretta ed eravamo soli, – Rigoni, – mi disse, – ho avuto disposizioni in caso di ripiegamento –. Non risposi nulla. Capivo che ormai era finita, veramente finita, ma non volevo ammetterlo. Sentivo il mio solito dolore allo stomaco. Capivo che cosa eravamo noi e che cosa volessero i russi. Tornando nella mia tana dissi forte: – Qualunque cosa succeda, ricordatevi, e mettetevelo bene in testa, che dobbiamo restare sempre uniti.


Il tenente voleva che si provassero tutte le armi automatiche e la mia tana era diventata un’officina. Moreschi, che da borghese faceva l’armaiolo in una fabbrica della Valtrompia, puliva, oliava, smontava e persino stemprava e ritemprava i molloni per renderli piú adatti alla temperatura, limava e batteva. Quando un’arma era pronta la si portava in un camminamento verso la squadra del Baffo. Io sparavo e Moreschi e il tenente ascoltavano ed osservavano come funzionasse. Non tutte le volte Moreschi era contento, scrollava la testa e stringeva le labbra.

Riportava allora l’arma nella tana e ricominciava da capo.

Quando erano pronte mi raccomandava di dire ai capisquadra di tenerle bene avvolte in una coperta per il freddo e in un telo da tenda per la sabbia sottile che filtrava nelle tane e penetrava dovunque. Cosí dopo tanto lavorare e raccomandare, i quattro mitragliatori, la pesante e i quattro mortai da 45 erano in perfetta efficienza.

Una di quelle ultime sere, una pattuglia russa di pochi uomini era sfilata sotto i nostri reticolati e, passando inosservata sotto la scarpata, giunse al posto di vedetta dove, per fortuna, si trovava Lombardi. Questi gettò delle bombe a mano e la terza scoppiò, tirò qualche fucilata e i russi, vistisi scoperti, ritornarono indietro. Appena udii la bomba e le fucilate corsi da lui. Come se mi parlasse di vacche disse: é stata qui una pattuglia russa: uno trascinava una specie di carriola e lasciava dietro di sé un filo. Saranno stati qui a due metri –. Io stavo zitto e non volevo crederci e dopo un po’ passai dalle altre vedette. La mattina dopo, quando venne il sole, vidi le tracce sin dove mi aveva indicato Lombardi e mi vergognai di non avergli creduto. Era cosí tranquillo e impassibile!

Qualcosa non andava proprio: si viveva tutti come in un incubo e il tenente riposava poco: era sempre in giro da una postazione all’altra, di giorno e di notte. Quando una sera ci parve di sentire dei rumori sotto la nostra scarpata stette steso sulla neve con due bombe pronte, finché quasi si assiderò. E non c’era nulla: forse una lepre o un gatto.


Un alpino della mia vecchia squadra, A..., non ne poteva piú; era da poco ritornato dall’ospedale, aveva la scabbia e voleva a tutti i costi fare il cuciniere. Un mattino, ero entrato nella tana e mi ero appena sdraiato sulla paglia, egli fece girare lentamente la sicura del mio moschetto, che avevo appeso ad un chiodo su un palo di sostegno e, mentre parlava con i suoi compagni, fece partire il colpo: in direzione della canna teneva il piede. Però aveva calcolato male e si forò soltanto la sporgenza della suola. Non dissi nulla, solo lo guardai e gli feci capire che avevo intuito cosa intendesse fare. Il giorno dopo, mentre era solo e stava uscendo per andare nella postazione a fare il suo turno di vedetta, cosí raccontò, partí un colpo dal suo fucile che gli passò da parte a parte un piede. Il tenente lo fece trasportare all’ospedale, nessuno immaginò la verità. Due giorni dopo, durante l’attacco dei russi, parlai di questo al tenente. – Vedete, – gli dissi, – non poteva piú restare con noi; aveva troppa paura –. Ora quest’alpino vivrà tranquillamente al suo paese e si prenderà la pensione.


Il caporale Pintossi era forse il migliore di tutti noi: che bravo cacciatore! E che passione! Sembrava piccolo perché era largo di spalle e aveva un po’ di pancia. Sorrideva sempre ed aveva due occhi piccoli ed acuti. Trasandato nel vestire, portava il fucile con la disinvoltura e la familiarità del cacciatore. Calmo e flemmatico, non lo vidi mai irritato e non lo sentii mai bestemmiare. Ed era sempre presente, pacifico con il suo inseparabile fucile, nel momento del bisogno. E che bravo tiratore! Non dava quasi mai ordini ai suoi uomini ma faceva, e gli alpini della sua squadra facevano nel suo esempio. Con lui mi trovavo sovente a parlare di caccia. – Ai contorni, – diceva, – è il piú bel tiro e la piú bella caccia. Quando ritorneremo in Italia ci andremo assieme. A casa ho un bracco che è un fenomeno –. Faceva schioccare le dita: –

Dik si chiama. Che bella bestia –. Ecco, allora diventava triste, quando parlava del suo cane.

L’altro caporale della squadra era Gennaro. Chissà di che paese era. Meridionale certamente. Maestro o ragioniere o qualcosa di simile, frequentò un corso ufficiali.

Ma non lo avevano fatto idoneo e cosí faceva il caporale.

Parlava poco, era timido con gli alpini, e questi, se qualche volta lo canzonavano, provavano per lui rispetto ed affetto. Non aveva certamente un cuor di leone ma la sua personalità, senza farsi notare, si comunicava a chiunque gli vivesse vicino. Nel suo gruppo non succedevano mai storie, per la spartizione del rancio o per il turno di vedetta o per quello di lavoro. Il suo mitragliatore funzionava sempre. Quando c’erano allarmi o pattuglie russe che molestavano, era tra i primi che uscivano dalla tana per correre nel posto minacciato. Eppure, ne sono certo, dentro di sé tremava come una foglia di betulla.


Venne infine una mattina che i russi, prima dell’alba, incominciarono a sparare con i mortai e l’artiglieria sul caposaldo di Sarpi, poi spararono a Cenci, allungarono il tiro verso le cucine e poi su al comando di compagnia dietro il nostro caposaldo. Pensavo che addosso a noi non potevano sparare perché eravamo troppo vicini a loro. Gli alpini, nella tana, si guardavano muti, seduti attorno alle stufe, l’elmetto calcato sulle orecchie, il fucile tra le ginocchia, le tasche e la cacciatora piene di bombe a mano sotto il camice bianco. Tentavo di scherzare ma il sorriso si spegneva presto tra le barbe lunghe e sporche. Nessuno pensava: «se muoio»; ma tutti sentivano un’angoscia che opprimeva e tutti pensavamo: «quanti chilometri ci saranno per arrivare a casa?»

Le nostre artiglierie incominciarono a rispondere al fuoco dei russi e non ci sentivamo piú soli. I proiettili passavano sopra le nostre teste e pareva che alzando una mano si potessero toccare. Andavano a scoppiare sul fiume davanti a noi, sulle postazioni dei russi e nel bosco di roveri. Nei nostri ricoveri filtrava giú la sabbia fra i pali e dall’orlo delle trincee franava la neve. Un paio di colpi arrivarono corti sui nostri reticolati e vicino alle nostre tane. Lasciai fuori soltanto due vedette nelle postazioni coperte e il tenente mandò ad avvisare di allungare il tiro. Appena giorno l’artiglieria smise di sparare e i primi scaglioni di russi incominciarono a passare il fiume. Mi aspettavo un attacco davanti a noi, invece forzarono a sinistra, piú in giú del caposaldo di Cenci. Forse, penetrati di là, avrebbero voluto entrare nella valletta che ci divideva, e inoltrarsi poi verso le cucine e i comandi.

Laggiú, ove attraversavano, il fiume era piú largo; nel mezzo c’era un’isoletta coperta di vegetazione e la riva dalla nostra parte era paludosa, tutta a insenature, e coperta da alte erbe secche e da cespugli. Non vi era nessuna traccia di lavoro umano. I russi uscirono improvvisamente dal bosco di querce e trovandosi in mezzo a quel biancore si saranno stupiti battendo le palpebre. Non gridarono, spararono delle brevi raffiche correndo curvi verso l’isolotto nel mezzo del fiume. Qualcuno tirava una slitta. Era una mattina limpida alla luce nuova del sole e guardavo i russi che correvano curvi sul fiume gelato. I mitragliatori di Cenci e le pesanti, in postazione da quelle parti, incominciarono a sparare. Qualcuno nel mezzo del fiume cadeva sulla neve. Raggiunsero l’isolotto, si fermarono un poco a prendere fiato e ripresero a correre verso la nostra riva. Dei feriti ritornavano lentamente verso il bosco da dove erano usciti. Gli altri raggiunsero la nostra riva e si buttarono fra i cespugli e le insenature. Si defilarono cosí dal tiro dei mitragliatori di Cenci che avevano sparato fino allora ma non dalle nostre armi. Stavo con il tenente ad osservare i gruppetti immobili tra i cespugli. Il tenente mandò a prendere la pesante che era dalle parti del Baffo. Postammo l’arma sotto i reticolati. – Saranno ottocento metri, – disse il tenente. Puntai e sparai qualche caricatore. Ma il tiro non era efficace perché l’arma sulla neve era instabile; ogni tanto s’inceppava e in quel budello stretto non era agevole lavorarci attorno. Pure le pallottole laggiú arrivarono perché vedemmo i russi nascondersi tra i cespugli. Il tenente era serio, quasi triste.

Passava il tempo e i russi non riprendevano l’azione, ogni tanto qualcuno usciva e correva per pochi metri e tornava poi a nascondersi. Improvvisamente incominciarono a cadere laggiú delle bombe di mortaio. Scoppiavano cosí precise che parevano messe lí con le mani. Erano i mortai da 81 di Baroni, e Baroni non sciupava né bombe né vino. Cosí finí il primo attacco russo. Non fu un vero e proprio attacco; forse i russi credevano che fossimo molto piú giú di morale e pensavano che, sapendoci accerchiati, avremmo abbandonato i caposaldi al primo accenno di attacco. Quel senso di apprensione e di tensione che era in noi non ci aveva ancora lasciato. Era come se un gran peso ci gravasse sulle spalle. Lo leggevo anche negli occhi degli alpini e vedevo la loro incertezza e il dubbio di essere abbandonati nella steppa: non sentivamo piú i comandi, i collegamenti, i magazzini, le retrovie, ma soltanto l’immensa distanza che ci separava da casa, e la sola realtà, in quel deserto di neve, erano i russi che stavano lí davanti a noi, pronti ad attaccarci.

«Sergentmagiú ghe rivarem a baita?» Quelle parole erano dentro di me, facevano parte della mia responsabilità e cercavo di rincorarmi parlando di ragazze e di sbornie. Tra noi v’erano ancora di quelli che scrivevano a casa: «Sto bene, non preoccupatevi per me, sono il vostro...» ma mi guardavano con occhi mesti e indicando l’ovest mi chiedevano: – Da che parte dovremmo andare in caso di...? Che cosa prenderemmo con noi? – Pure nessuno aveva detto loro come stessero le cose, e nessuno immaginava, ne sono sicuro, quello che ci avrebbe aspettato. Ma sentivamo quello che sente un animale quando fiuta l’agguato.

Alla sera il tenente mi chiamò. – Abbiamo avuto l’ordine di ripiegare –. Cosí mi disse, ripiegare. – Siamo circondati: i carri armati russi sono arrivati al comando di corpo d’armata –. Il tenente mi porse la borsa del tabacco, ma non ero capace di arrotolarmi una sigaretta e me la fece lui.

Verso sera arrivò il rancio e il pane; come sempre era tutto gelato.

I russi ripresero a sparare con l’artiglieria e i mortai.

Incominciava ad essere buio e tra poco sarebbe sorta la luna. Nelle nostre case, in quel momento, erano attorno alla tavola.

Rimanevo poco ora nella tana; ero sempre nelle trincee sulla scarpata del fiume con le bombe e il moschetto.

Pensavo a tante cose, rivivevo infinite cose e mi è caro il ricordo di quelle ore. C’era la guerra, proprio la guerra piú vera dove ero io, ma io non vivevo la guerra, vivevo intensamente cose che sognavo, che ricordavo e che erano piú vere della guerra. Il fiume era gelato, le stelle erano fredde, la neve era vetro che si rompeva sotto le scarpe, la morte fredda e verde aspettava sul fiume, ma io avevo dentro di me un calore che scioglieva tutte queste cose.

Con il tenente notai davanti a noi rumori e movimenti insoliti. Facemmo postar fuori il mitragliatore e portar la pesante fra le macerie di una casa un po’ arretrata, per aver maggior campo di tiro. Gli alpini, silenziosi, stavano nella trincea. Ora avrebbero attaccato proprio noi.

Avrebbero funzionato le armi con quel freddo? Di là si sentiva rumore di motori. Poi ci fu un silenzio strano, quel silenzio che precede qualcosa di grave. Solo le cose e l’ansia del momento c’erano.

Si sentí la voce di uno che incitava e uscirono all’assalto. Salivano sulla scarpata del fiume, si sedevano sulla neve e poi scivolavano sulla riva. Le nostre armi aprirono il fuoco. Tirai un sospiro di sollievo: funzionavano. I mortai da 45 di Moreschi sparavano davanti ai nostri reticolati e le bombette scoppiavano con rumore strano e ridicolo. Quando sentii passare sopra le nostre teste le bombe dei mortai da 81 del sergente Baroni tirai un altro sospiro di sollievo. Sentivo che Baroni guardava giú verso di noi dando i dati di tiro con calma ai suoi uomini e mi pareva che dicesse: «Sta’ tranquillo, sono qui anch’io». E Baroni non sciupava nemmeno parole.

I russi correvano, si gettavano a terra, si rialzavano e riprendevano a correre verso di noi. Molti non si alzavano piú; i feriti chiamavano ed urlavano. Gli altri gridavano: Urrà! Urrà! e venivano avanti. Ma non riuscivano ad arrivare sotto i nostri reticolati. Mi sentii sicuro, allora; avrei potuto ancora vivere nella mia tana al caldo e leggere lettere azzurre. Non pensavo ai carri armati che già erano arrivati al comando di corpo d’armata, né quanti chilometri c’erano per arrivare a casa. Mi sentivo tranquillo e sparavo con il moschetto dall’orlo della trincea mirando calmo a quelli che si avvicinavano di piú. E allora incominciai a cantare in piemontese «All’ombretta di un cespuglio – bella pastora che dormiva». Chizzarri, l’attendente del tenente che mi stava a fianco, mi guardò sorpreso smettendo di sparare; poi ricominciò e s’uní a cantare con me. Al chiarore della luna indovinai i visi degli alpini che si spianavano e sorridevano. Vedevo che sparavano calmi, e l’alpino dalla barba secca e rada cambiava, bestemmiando, la canna arroventata del fucile mitragliatore e riprendeva con foga a sparare. I russi si convinsero subito che da noi era impossibile passare e si spostarono piú a sinistra riuscendo ad infiltrarsi nella valletta tra noi e Cenci. Si nascondevano tra i cespugli e le ombre, era difficile scorgerli. Lí vi doveva essere un campo minato ma nessuna mina scoppiò. Baroni spostò il tiro. Qualche alpino ritornò nella tana a prendere cartucce e bombe a mano. Ma avevamo ormai esaurite le munizioni. Durante l’attacco, quando i russi erano giunti sotto i nostri reticolati, avevo gettato quasi una cassa di bombe a mano. Ma poche scoppiavano; sprofondavano nella neve senza rumore. Allora pensai che forse sarebbero scoppiate levando tutte e due le sicurezze prima di lanciarle e feci cosí sebbene fosse pericoloso.

Ritornò il silenzio. Tra noi e Cenci si sentiva qualche breve raffica di mitra.

Sul fiume gelato vi erano dei feriti che si trascinavano gemendo. Sentivamo uno che rantolava e chiamava: –

Mama! Mama!

Dalla voce sembrava un ragazzo. Si moveva un poco sulla neve e piangeva. – Proprio come uno di noi, – disse un alpino: – chiama mamma.

La luna correva fra le nubi; non c’erano piú le cose, non c’erano piú gli uomini, ma solo il lamento degli uomini. – Mama! Mama! – chiamava il ragazzo sul fiume e si trascinava lentamente, sempre piú lentamente, sulla neve.

Ma i russi ricominciano a uscire dal bosco di roveri.

Salgono sulla scarpata e ridiscendono giú sul fiume. Son piú guardinghi di prima; non gridano, sembrano timidi.

Riprendiamo a sparare. Solo che questa volta non vengono per ammazzarci: vogliono solo raccogliere i feriti rimasti sul fiume. Non sparo piú, allora. Grido: – Non sparate! Raccolgono i feriti; non sparate!

Si stupirono i russi a non sentire piú le pallottole che li cercavano: si fermarono increduli, si alzarono in piedi, si guardarono attorno. Gridai: – Non sparate! – Raccolsero in fretta i loro compagni e li caricarono sulle slitte.

Correvano curvi, ogni tanto si alzavano e guardavano verso di noi. Li portarono sino alla scarpata e li trascinarono su nelle loro trincee. Sul fiume gelato la neve era tutta calpestata. Portarono via anche i morti, tranne quelli ch’erano sotto i nostri reticolati.

Ora tutto era finalmente finito. Finito? Chizzarri venne di corsa verso di me. – Vieni, vieni presto dal mio tenente, – diceva. – Sta male, ti vuole, vieni –. Correva nella trincea davanti a me e lo sentivo singhiozzare. –

Cos’è? Ferito? – gridavo. – No, corri, – diceva Chizzarri. Entrammo nella tana della squadra di Pintossi e il tenente Moscioni stava disteso su un pagliericcio. Al chiarore del lume ad olio lo vedevo pallido e rigido; stringeva i denti. Indossava il camice bianco sopra la divisa. Mi inginocchiai al suo fianco, gli presi una mano e strinsi forte. Aprí gli occhi: – Sto male, Rigoni, – disse.

Parlava piano, in un soffio. Gli feci bere un po’ di cognac che aveva Chizzarri. Nella tana tre alpini silenziosi guardavano stringendo tra le mani la canna del fucile. –

Non sono capace di rimettermi in piedi, – riprese. –

Prendi il comando del caposaldo, sta’ attento che quando la luna va sotto le nubi i russi passano il fiume. Non farmi portar via, lasciami qui. Ho ancora la pistola? – e cercava la fondina. Ero chino sopra di lui e non ero capace di parlare.

– Sta’ attento: sei tu, Rigoni? I russi passano il fiume.

In caso di ripiegamento lasciami qui. Ho ancora la pistola. Avrai ordini dal capitano; non andartene prima –. Era rigido e continuavo a stringergli la mano senza parlare.

Ma poi riuscii a dirgli qualcosa. Mi alzai in piedi. – Prendete la barella e portatelo via, – dissi rivolgendomi agli alpini. Non voleva il tenente e faceva cenno di no con la testa. – Ho ancora la pistola, – diceva piano. Gli alpini non sapevano a chi obbedire. – Comando io, ora, qui: andate per piacere –. E poi a Chizzarri: – Dàgli tutto il cognac che c’è, accompagnalo e lasciagli le cose piú necessarie, e ritornate subito –. Piú nessuno parlò. Le ombre si allungarono sulle pareti della tana. Chizzarri, in un angolo, frugava in uno zaino e singhiozzava. Il lume ad olio rendeva la tana piú raccolta; sui pali di sostegno erano inchiodate cartoline con fidanzati, fiori e paesi fra le montagne.

Dietro una vecchia busta che avevo in tasca scrissi dell’accaduto al capitano e mandai un alpino al comando di compagnia: – Digli anche che abbiamo bisogno urgente di munizioni. – Vai, Rigoni, – mi sussurrò il tenente, – i russi passano il fiume.

Ritornai fuori. Appoggiata alla trincea c’era la barella ancora macchiata del sangue di Marangoni.

Si sparse la voce per il caposaldo che il tenente era andato via. Venivano da me i capisquadra a chiedere: –

Che facciamo ora? – Quello che avete fatto sino adesso,

– rispondevo. – State tranquilli, verrà qualche altro ufficiale –. Non mi passò nemmeno per la testa di dire:

«Non s’allontani nessuno», tanto ero sicuro che nessuno se ne sarebbe andato senza un ordine. Minelli mi disse che Lombardi era morto di schianto nella trincea con una pallottola nella fronte mentre sparava in piedi con il mitragliatore imbracciato. Ordinai di farlo portare fino alle cucine, poi avrebbe pensato il cappellano. Moreschi mi fece presente che non aveva piú munizioni per i mortai. Il Baffo era tranquillo, da laggiú non vedevano nemmeno i russi venire all’attacco; non spararono nemmeno un colpo. Feci portare il suo mitragliatore nel settore della squadra di Pintossi che era il punto piú esposto e che doveva essere perciò il piú munito. La pesante non funzionava tanto bene e il Rosso, capoarma, si era preso un calcio dal tenente perché non la curava. Ordinai di smontarla, pulirla, sparare qualche raffica ogni tanto e tenerle sotto un elmetto di brace. Ma anche la pesante era ormai senza munizioni.

– Che cosa aveva il tenente? – mi chiedevano i capisquadra. – È stato preso dal freddo, – rispondevo, – dal sonno e dalla fatica –. Da tanti giorni dormiva poco e non riposava, era impossibile che potesse resistere a lungo. – Vada a dormire, – gli dicevo. – Riposi; vede? è tutto tranquillo ora –. Ma non voleva. Ora le armi, ora le postazioni, ora gli uomini, ora la pattuglia russa. Non voleva. È caduto sfinito come un mulo. – Era come essere di ghiaccio, – mi disse poi in Italia, – non sentivo piú le gambe, le braccia, il corpo, non sentivo piú niente. Mi pareva di essere solo testa e poco anche di questa. Era terribile.


Il capitano mi mandò giú un biglietto. Scriveva che sarebbe venuto un altro ufficiale a prendere il comando del caposaldo e che mi avrebbe mandato le munizioni.

Ricominciammo a sparare. I russi volevano passare il fiume a tutti i costi. Spararono addosso a noi anche con i mortai e me ne accorsi quando sentii sopra il mio capo uno schianto, qualcosa battermi sull’elmetto e sabbia e neve e fumo entrarmi negli occhi. Subito non mi resi conto che cosa fosse accaduto ma poi sentii chiamare aiuto vicino a me. Un alpino della squadra di Pintossi aveva il braccio spezzato e la parte inferiore penzolava giú come se non facesse piú parte del suo corpo. Con uno spago che avevo in tasca legai stretto sopra la ferita per arrestare il sangue che usciva a fiotto. – Il mio braccio! Il mio braccio! – diceva e urlando si teneva con la mano sana il braccio penzolante. – Sei fortunato, gli dicevo mentre legavo, – è una cosa da poco e tra quindici giorni sarai a casa. – Sí? – chiedeva lui, – andrò a casa? –

Sí, potevamo restare morti tutti e due. Ora vai giú alle cucine, non posso farti accompagnare; vai giú solo, c’è bisogno di gente qui. Fa’ presto; dammi le tue cartucce,

– e gli vuotai le giberne. Si allontanò lagnandosi per il camminamento: – Il mio braccio! il mio braccio! – e cercava di correre nel buio.

Allora mi resi conto che una bomba era scoppiata tra noi due sopra le nostre teste. Il fucile dell’alpino era rotto lí a terra. Avevo le mani rosse di sangue e il camiciotto sporco di terra e sangue.

Dopo un poco ritornò il silenzio. Ma non ero tranquillo perché un certo numero di russi erano riusciti ad infiltrarsi tra noi e Cenci. Ed erano pericolosi; potevano aggirarci e penetrare nel caposaldo dalle spalle. Con un mitragliatore e qualche uomo mi portai piú indietro e a sinistra verso Cenci. E provai paura e apprensione quando vidi che, da quella parte, i reticolati avevano dei varchi. Ma invece di venire da noi i russi cercavano di penetrare in profondità e sentimmo che sparavano verso il fosso anticarro all’imboccatura della valletta che portava alle retrovie. Questa volta, pensavo, vanno a svegliare gli imboscati. Ma gli imboscati rimasero tranquilli ancora un altro giorno perché la squadra esploratori della nostra compagnia, al comando del tenente Buogo, andò incontro ai russi.

Erano in gamba gli esploratori, tutti dello stesso paese, Collio Valtrompia, e tutti parenti fra di loro, o per lo meno uno faceva all’amore con la sorella dell’altro. Avevano una parlata tutta particolare e gridavano sempre. A quel modo scesero incontro ai russi. E allora, nella notte fredda, dopo una raffica di mitra russo sentimmo Buogo che chiamava: – Cenci! Cenci! Tenente Cenci! – E Cenci, dal suo caposaldo, gridare: – Buogo! Di’, Buogo! come si chiama la tua fidanzata? – E ripeteva: – Come si chiama la tua fidanzata?

Buogo disse un nome. Mi misi a ridere assieme agli alpini che erano con me. Il nome di una donna, di una fidanzata, il nome italiano di una ragazza gridato cosí nella notte mentre sparavano i mitra russi e i moschetti italiani! – Di’, Buogo, come si chiama la tua fidanzata? Buogo! Buogo! come si chiama? – E gli alpini ridevano.

Diavolo! Chissà che bella ragazza era, e morbida, ed elegante. Altro non poteva essere la fidanzata di un tenente, e cosí pareva anche dal nome. Immaginavo i due tenenti a farsi le confidenze nella tana guardando le fotografie. Ma un nome gridato cosí nella notte! Avevo capito perché Cenci voleva sapere il nome della ragazza.

E tutti quelli che avevano sentito ridevano. Anche i russi di certo dovevano averlo capito. Diavolo! Piantiamo qui tutto, ci sono tante belle ragazze e vino buono, no, Baroni? Loro hanno le Katiusce e le Maruske e la vodka e campi di girasole; e noi le Marie e le Terese, vino e boschi d’abeti. Ridevo, ma gli angoli della bocca mi facevano male e impugnavo il mitragliatore.

Sparavano laggiú tra i cespugli e sentivo chiaramente le voci degli esploratori gridare che il tenente Buogo era stato ferito ad una gamba e che lo portavano via.

Gridavano nel loro gergo: – Sono qui! Venite! Ci sono anche donne –. Parevano una compagnia di cento ed erano forse tredici. Gettavano bombe a mano e poi urlavano: – Li abbiamo presi, vi sono due donne, venite! –

Bestemmiavano e battevano i cespugli fra noi e Cenci.

D’un tratto mi accorsi che incominciava l’alba. Una lepre mi passò davanti correndo e andò a nascondersi tra l’erbe secche della riva. Un portaordini venne ad avvisarmi che il plotone arditi del Morbegno sarebbe venuto in nostro aiuto per eliminare quei russi che ancora erano rimasti fra noi e Cenci. Mi raccontò che i nostri esploratori avevano preso poco prima due donne russe che erano venute all’assalto in pantaloni e mitra. Poco dopo sentii gli arditi del battaglione Morbegno. Che lingere questi contrabbandieri comaschi! Si chiamavano tra loro, facevano chiasso, sparavano, bestemmiavano.

Quasi come i nostri esploratori. – L’è qua! l’è qua! – gridavano e gettavano bombe a mano. Incominciò a venir su il sole dietro il bosco di roveri. Tante mattine l’avevo visto sorgere e allora le nostre tane e le loro fumavano tranquille come i camini di un villaggio tra le alpi o tra la steppa; e tutto era tranquillo e la neve sul fiume intatta, senza macchie di sangue o tracce di uomini.

Sentivo gli occhi che non volevano stare aperti. Da qualche giorno non mi lavavo e avevo una crosta sul viso. Le mani, sporche di sangue e terra, odoravano di fumo e desideravo una mattina come le altre per poter lavarmi il viso e andare a dormire nella tana. Erano due notti e due giorni che non dormivo: e ora non c’erano munizioni, gli alpini erano stanchi, la posta non arrivava, il tenente non c’era. Avevo sonno, fame, e restavano tante cose da fare. Ma avevo sigarette.

Mandai un portaordini dal capitano a dire che avevo bisogno assoluto di munizioni per tutte le armi, e bombe a mano, tante. Feci raccogliere le cartucce inesplose che saltavano via dai mitragliatori quando s’inceppavano per spararle con i fucili.

Gli alpini stanchi, si buttavano sulla paglia delle tane e russavano con il fucile in mano e le bombe nelle tasche; dormendo qualcuno saltava in piedi gridando e subito ripiombava giú a russare. Lasciai fuori solo tre vedette, ma non potevo dormire. Arrivarono le munizioni.

Le portarono a spalla i conducenti e appena messe giú le casse si allontanarono in fretta.

Stavo con una vedetta a guardare i cadaveri dei russi che erano rimasti sul fiume e osservando cosí, nel sole del mattino, mi accorsi di due russi che stavano nascosti poco lontano da noi dietro un rialzo del terreno sulla riva del fiume. Dopo un po’ che li osservavo si mossero; uno sorse in piedi e di corsa tentò di passare di là. Mirai.

Mi pareva di vederlo davanti alla canna del moschetto e tirai. Lo vidi cadere di schianto sulla neve. L’altro suo compagno, che si era alzato in piedi per seguirlo, tornò a nascondersi. Osservavo con un binocolo il russo caduto sul fiume.

Lo vedevo immobile. Ma perché non aveva aspettato la notte per passare di là? Anche la vedetta osservava.

D’un tratto esclamò: – Si muove! – E lo vidi scattare come un babau e correre verso l’altra riva – Me l’ha fatta, – dissi forte, e risi. Ma la vedetta prese il mitragliatore della postazione e mezzo ritto sulla trincea sparò. Vidi il russo cadere nuovamente, ma non come prima. Si contorceva e si trascinò per qualche metro, infine si fermò con un braccio teso verso la sponda ormai vicina. L’altro suo compagno che era rimasto dalla nostra parte ritentò il passaggio ma una raffica di mitragliatore lo costrinse a nascondersi nuovamente. Pensavo: «Aspetterà la notte, ora; gli converrebbe». Avrei voluto gridarglielo.

Vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio. Buio come una notte di tempesta su un oceano di pece. Allora sentii un gran boato e tremare la terra sotto i piedi. La neve franava dalla trincea, aratri di fuoco solcavano il cielo sopra di noi e una colonna alta di fumo saliva dall’altra riva e oscurava il sole: vicino alla terra era gialla e piú su nera.

Negli occhi della vedetta vidi il mio terrore, mi agitavo nello spazio di pochi metri dentro la trincea. Ma la mia paura non sapeva dove andare né cosa fare. Mi guardavo attorno e non ero capace di ragionare. La vedetta era il mio specchio. Poi sentii e vidi gli scoppi levarsi dietro il caposaldo di Cenci; tanti, uno vicino all’altro e nel medesimo istante. Questa, riuscii a pensare, è la Katiuscia a settantadue colpi. Diavolo che accidente d’ordigno!

Sparò altre due volte e ogni volta trattenevo il fiato. Finalmente la nostra artiglieria incominciò a rispondere.

Poi ritornò il silenzio.

Aspettavo il nuovo ufficiale che sarebbe venuto a prendere il comando del caposaldo. Avrei voluto dormire un po’, almeno un’ora. Intanto passava il tempo. Potevano essere le nove, mezzogiorno, le due, non sapevo; il quindici o il sedici o il diciassette di gennaio.

Udii la voce di uno che incitava parlando forte in russo.

Capii qualche parola: patria, Russia, Stalin, lavoratori.

Mandai subito una vedetta per le tane a far uscire gli uomini con tutte le armi. Uscivano in fretta imprecando; con gli occhi pieni di sonno, socchiusi alla luce del sole. Odoravano di fumo. Dissi: – Non sparate se prima non vi do l’ordine; tenetevi pronti –. Era ritornato il silenzio; di là la voce s’era taciuta; di qua tutti erano pronti con le armi puntate. Erano cessati i brontolii, le bestemmie, i passi affrettati, i rumori degli otturatori. I russi sorsero in piedi sull’orlo del bosco, vennero sulla scarpata e tutto era ancora tranquillo. Non un colpo di fucile, non un grido. Erano stupiti di quel silenzio. Forse ci credevano già partiti? Si sedettero sulla neve e scivolarono sulla riva del fiume. Ma quando i primi furono ai piedi della scarpata: – Spara! – gridai all’alpino che vicino a me imbracciava il mitragliatore. Una breve raffica, poi improvvisamente tutte le armi spararono: i quattro mitragliatori, la pesante, i trenta fucili, i quattro mortai di Moreschi, i due di Baroni. Tutte le pallottole battevano dove la scarpata si raccordava al fiume e appena i russi mettevano i piedi sulla riva, dopo la scivolata con i1 sedere, vi rimanevano cuciti contro. Quelli che erano rimasti sull’orlo del bosco e in piedi sulla scarpata rimanevano indecisi e infine ritornavano al riparo nelle loro trincee. Le armi smisero di sparare, ma sulla riva del Don i gemiti e le implorazioni d’aiuto continuavano. I piú tenaci tentavano risalire la riva per ritornare al sicuro e qualcuno vi riusciva. Si sentì nuovamente la voce di prima.

Che diceva? Forse di vendicare i compagni caduti sulla neve o forse dei villaggi distrutti. Riapparvero con piú decisione. Ricominciammo a sparare. Non si fermarono questa volta, né ritornarono indietro. Molti ne caddero sotto la scarpata, molti. Gli altri venivano avanti gridando: –

Urrà! Urrà! – ma pochi riuscivano ad avvicinarsi ai nostri reticolati. Sparavo con il moschetto a quelli che mi sembravano piú impetuosi e che correvano davanti a tutti. Vi erano di quelli che fingevano di essere morti: restavano immobili sul fiume e poi quando non erano piú osservati sorgevano in piedi e riprendevano a correre verso di noi.

Uno si serví di questa astuzia per tre o quattro volte finché, giunto sotto la nostra trincea, fu veramente colpito.

Cadde con la testa e le spalle sprofondate nella neve. Una gamba in aria continuava a fare il movimento dell’arrotino sempre piú lentamente sino a fermarsi.

Doveva essere terribile passare il fiume, camminare cosí sulla neve alla luce del sole, senza il minimo riparo tra pallottole e bombe come tempesta. Solamente i russi potevano osare questo; ma non era possibile arrivare sino a noi. Smisero e ritornò la quiete. Sul fiume la neve era piú rossa e calpestata di prima e piú numerosi erano quelli rimasti sulla neve con le scarpe al sole. Ritornai nella tana. Stavo attorno alla stufa e guardavo il fuoco tenendo il moschetto fra le ginocchia. Gli alpini parlavano dell’attacco che avevano appena finito di respingere.

– Che hai lí, sergentmagiú? – mi chiese Pintossi. E indicò sul mio moschetto il punto dove era attaccata la baionetta ripieghevole. Vidi incastrata una pallottola di mitragliatrice. – L’hai scampata bella, – mi disse Pintossi.

Ricordai allora che durante l’attacco avevo sentito un colpo secco mentre, inginocchiato sulla trincea, osservavo e tenevo il moschetto davanti alla fronte. Gli alpini attorno al fuoco si passavano il moschetto ed osservavano:

– L’hai scampata bella, quando sarai a casa dovrai mettere un quadretto alla Madonna. – Anche due ne puoi mettere. – Se non è la tua ora non parti. – Già è destino...

Levai la pallottola e me la misi nel taschino della giubba dicendo: – Quando sarò a casa ne farò un anello per la morosa.

Finalmente venne il tenente Cenci. Fui contento di vederlo e come si avvicinò gli chiesi: – Come si chiama la tua fidanzata? – Rise e poi guardandomi e vedendomi sporco di sangue disse: – Ma Rigoni, sei ferito? – No, – dissi, – non è mio –. Poi riprese: – Poteva anche essere un russo che mi chiamava stanotte e per questo chiesi a Buogo come si chiamasse la sua fidanzata. Un russo non poteva sapere il nome della ragazza di Buogo. È stato ferito a una gamba da una pallottola che gli ha spezzato l’osso. Hai sigarette, Rigoni? – E me ne porse una. Girammo un po’ per le trincee ma poi entrammo nella tana della squadra di Pintossi. – Non è rimasto nessun russo di qua, Rigoni, – disse Cenci (ma io sapevo che ce n’era ancora uno), – ed abbiamo preso anche due donne. Erano sui quarant’anni e portavano i pantaloni e il parabellum. I conducenti, pur brontolando, le hanno caricate sulle slitte e hanno offerto loro sigarette. Andate a cucinare, borbottavano, e non alla guerra. Al mio caposaldo è venuto il tenente Pendoli. Cerca di riposare e di dormire ora: ne hai bisogno.

Mi buttai sul tavolato: ma non ero capace di addormentarmi. Le bombe nella cacciatora mi premevano sulle reni, le giberne piene di caricatori mi pesavano sullo stomaco. Ma nemmeno in un letto di piuma sarei riuscito a dormire. In una tasca interna della giubba, entro una borsa fatta con un pezzo di tela, tenevo le mie cose piú care; erano lettere e sentivo quelle parole entro di me. Ove sarà ora? Forse in un’aula a leggere poesie in latino o nella sua stanza, e guardando tra vecchi libri e cose morte avrà trovato una stella alpina. Ma sono sciocco a pensare queste cose. Perché non viene il sonno?

Perché non dormo? Cenci mi guardava sorridendo. –

Perché non dormi? – disse. – Come si chiama la tua fidanzata? – Per fortuna venne Tourn a dirmi che era arrivato il rancio e mi recai nella tana di Moreschi a prendere la mia razione. Lí vi era una confusione insolita: coperte in disordine, sporco per terra, la paglia sparsa assieme a calze e fazzoletti e mutande. Parlavano sottovoce. Giuanin non mi disse niente. Mi guardò e nei suoi occhi cíerano tutte le cose che voleva chiedermi. Tourn non rideva piú e i suoi baffi neri sempre ben curati erano sporchi di muco. Meschini era indaffarato intorno allo zaino. Tutti gli altri facevano qualcosa. Due erano fuori nelle postazioni dei mortai. Solo Giuanin non faceva nulla, stava nella nicchia vicino alla stufa fredda. –

Meschini, – domandai, – perché non fai la polenta? Ho fame; è meglio farla ancora una volta.

Mangiai la mia razione di rancio, ma senza alcun gusto. Arrivò qualche colpo di mortaio attorno alla nostra tana e uno sopra. Ma il nostro bunker era solido e ben fatto: filtrò soltanto un po’ di terra e si ruppero i vetri.

Il rumore del cucchiaio nelle gavette era piú strano dei colpi di mortaio.

Prima di uscir fuori dissi: – Ricordatevi che dobbiamo restare sempre uniti.

Ritornai dal tenente Cenci e assieme ci avviammo verso una postazione. Eravamo soli. – Stasera dobbiamo ripiegare –. Cosí disse. – Sono venuto qui apposta per dirtelo.

Stasera dobbiamo ripiegare. Prendi, fuma. Io ritornerò al mio caposaldo; forse verrà qui il tenente Pendoli, forse dovrai arrangiarti da solo. Le squadre lasceranno il caposaldo una alla volta. La prima si fermerà a metà strada con le armi pronte fra te e me, e aspetterà la seconda per ripartire. Cosí di seguito fino all’ultimo uomo. L’appuntamento è alle cucine per le ore... – e disse un numero che non ricordo. – Ci sarà tutta la compagnia che ti aspetterà. Pensa tu a stabilire il turno per le squadre –. Non risposi nulla e solo quando fu terminata la sigaretta dissi: – Va bene.

Ritornai nella mia tana a preparare lo zaino; mi cambiai con biancheria pulita e lasciai sulla paglia quella sporca e impidocchiata. Cercai di mettermi addosso quanta piú roba potevo senza averne i movimenti impacciati. Mi rimasero due paia di calze e una maglia che cacciai nello zaino assieme al pacchetto di medicazione, ai viveri di riserva, a una scatola di grasso anticongelante e a una coperta da campo. Completai lo zaino con munizioni, in maggior parte bombe a mano. Aiutato da Tourn provai a mettermelo sulla schiena, ma forse era ancora troppo pesante. Bruciai, poi, tutte le lettere e le cartoline che avevo, tranne un piccolo fascio. I libri li lasciai nella tana. «Saranno curiosi i russi di sapere che cosa c’è scritto», pensavo. Ma che male nel compiere queste cose. Dissi forte: – Vestitevi piú che potete ma senza restar stretti. Mettete nello zaino le cose che credete piú necessarie e piú munizioni che potete.

Bombe a mano tante e del tipo piú buono: le O.T.O. o le Breda. Le S.R.C.M. buttatele sotto la neve. Nessuno pensi di andarsene per conto proprio. Dobbiamo restare sempre uniti. Ricordatevi questo, sempre uniti.

– Quando dobbiamo muoverci? – mi chiedevano. –

Stasera, forse –. E chiamai Moreschi da parte e gli dissi:

– Non preoccuparti molto dei mortai, prendili con te, ma non con tante munizioni. Bombe a mano e cartucce.

Tutto andrà bene.

– Allora sergentmagiú, – disse forte Meschini, – è meglio fare la polenta ancora una volta. – È meglio farla ancora una volta, – risposi.

Uscii fuori a ripetere nelle altre tane quello che avevo detto nella mia. Gli alpini chiedevano mille cose e gli occhi domandavano piú che le parole. Attorno a me era un gran punto interrogativo.

Prima di sera il tenente Cenci se ne tornò al suo caposaldo. – Credo non verrà nessuno, – mi disse. – Vecio, sta’ in gamba, non farti sorprendere e buona fortuna.

Arrivederci.

Sentivo tutta la responsabilità che mi gravava addosso. Se un rumore o una cosa qualsiasi avesse fatto notare che noi stavamo per abbandonare il caposaldo, chi sarebbe ritornato a baita? Gli alpini mi guardavano con gli occhi stanchi e pieni di sonno aspettando una mia parola. Cercavo di star sereno e pensavo a quello che avrei dovuto fare nel caso che fosse andata male. Quando venne la notte mandai a chiamare tutti i capisquadra: Minelli, Moreschi, il Baffo, il Rosso della pesante e Pintossi. Chiesi: – Come va? Avete tutto pronto? – Novità N.N., – risposero, – tutto pronto. – La prima a partire, – ordinai, – sarà la squadra di Moreschi. Oltre alle munizioni individuali dovete portare le munizioni per le armi della squadra. Fate caricare gli uomini il piú possibile; le munizioni che rimarranno nascondetele nella neve. Bisogna caricarsi come muli; non sappiamo quello che ci aspetterà. In caso le lasceremo poi lungo la strada quando non ne potremo piú. Appena Moreschi raggiungerà la casa diroccata che c’è fra noi e Cenci, aspetterà con le armi pronte che sia giunta la seconda squadra. Allora ripartirà. La seconda aspetterà la terza e cosí via. Nell’attesa dovete stare con le armi pronte e in silenzio. La seconda a partire sarà quella del Baffo; poi la pesante; poi Minelli; per ultima quella di Pintossi. Io verrò con quella di Pintossi –. Feci ripetere a tutti quello che avrebbero dovuto fare. E ripresi: – Se sentite sparare non preoccupatevi; la squadra che è in movimento raggiunga le cucine; lí ci sarà tutta la compagnia ad aspettare. Il caposquadra dovrà essere l’ultimo a partire. Tenetevi sempre gli uomini vicini e assicuratevi del funzionamento delle armi. Non lasciate i cucchiai nelle gavette, fanno rumore e bisognerà fare tutto nel massimo silenzio. Tutto andrà bene, tenetevi pronti, vi manderò io ad avvisare quando dovrete andarvene. Andate e arrivederci.

Per fortuna la notte era buia. La piú nera di tutte. La luna stava dietro le nubi ed era molto freddo. Il silenzio era pesante come la notte. Lontano, al di là delle nubi, dietro di noi, si vedevano i bagliori della battaglia e ne veniva un rumore come di ruote sull’acciottolato.

Stavo fuori della trincea con un mitragliatore imbracciato e scrutavo il buio verso le postazioni dei russi. Anche da loro era silenzio: pareva non esistessero piú. «Se attaccassero adesso?» pensavo. E fremevo.

Un alpino che avevo messo allíimbocco del camminamento che portava alla valletta venne a dirmi: – é passata la squadra di Moreschi, tutto bene. – Vai ad avvisare il Baffo, – dissi. Scrutavo il buio stringendo il mitragliatore e tremavo. – Sergentmagiú, è passato il Baffo, tutto bene. – Vai ad avvisare la pesante. – È passata la pesante, tutto bene. – Parla piano, vai ad avvisare Minelli –.

Era silenzio. Sentii Minelli che partiva, i passi che si allontanavano nei camminamenti, qualche bestemmia sottovoce. – Sergentmagiú, è passato anche Minelli –.

Guardavo davanti il fiume nero. Non tremavo piú. –

Preparatevi anche voi –. Sentivo il rumore degli uomini di Pintossi che si preparavano: parole mormorate sottovoce in un soffio, rumore di zaini che venivano caricati in spalla. – Sergentmagiú, possiamo andare? –Vai, Pintossi, vai e non far baccano. – E tu non vieni? – Vai, Pintossi, io verrò –. Mi si avvicinò l’alpino dalla barba secca e rada. – Non vieni? – disse. – Vai –. Ero solo.

Dalla trincea sentivo i passi degli alpini che si allontanavano. Erano vuote le tane. Sulla paglia che una volta era il tetto di un’isba giacevano calze sporche, pacchetti vuoti di sigarette, cucchiai, lettere gualcite: sui pali di sostegno erano inchiodate cartoline con fiori, fidanzati, paesi di montagna e bambini. Ed erano vuote le tane, vuote, vuote di tutto e io ero come le tane. Ero solo sulla trincea e guardavo nella notte buia. Non pensavo a nulla. Stringevo forte il mitragliatore. Premetti il grilletto, sparai tutto un caricatore; ne sparai un altro e piangevo mentre sparavo. Saltai nella trincea, entrai nella tana di Pintossi a prendere lo zaino. Vi erano delle bombe a mano e le gettai nella stufa. Levai ad altre bombe le due sicurezze e le posai piano sul fondo della trincea.

Mi incamminai verso la valletta. Incominciava a nevicare. Piangevo senza sapere che piangevo e nella notte nera sentivo solo i miei passi nel camminamento buio.

Nella mia tana, inchiodato ad un palo, rimaneva il presepio in rilievo che mi aveva mandato la ragazza per il giorno di Natale.

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