Prima di arrivare al fosso anticarro raggiunsi la squadra di Pintossi. Camminavano curvi, silenziosi. Ogni tanto qualcuno imprecava ma era uno sfogo per la disperazione che gravava dentro. Dove si andrà ora? Si accorgeranno i russi che abbiamo abbandonato il caposaldo? E ci inseguiranno subito? Resteremo prigionieri?
Mi fermavo ad ascoltare e guardavo indietro. Era tutto nero, era tutto silenzio.
Al fosso anticarro alcuni alpini della centotredici armi d’accompagnamento mettevano le mine. – Presto, – ci dissero, – siete gli ultimi. Dobbiamo distruggere la passerella.
Quando passai la passerella e fui di là mi pareva di essere in un altro mondo. Capivo che non sarei piú ritornato in quel villaggio sul Don; che stavo per staccarmi dalla Russia e dalla terra di «quel villaggio». Ora sarà ricostruito, i girasoli saranno ritornati a fiorire negli orti attorno alle isbe e il vecchio con la barba bianca come lo zio Jeroska, avrà ripreso a pescare nel suo fiume. Noi, scavando i camminamenti, trovavamo tra la neve e la terra patate e verze; ora avranno tutto livellato e vangando a primavera avranno trovato i bossoli vuoti delle armi italiane. I ragazzi giocheranno con quei bossoli, e io vorrei dir loro: «Vedete, anch’io fui qui, dormivo là sotto di giorno e di notte andavo per i vostri orti che non c’erano piú. Avete trovato l’àncora?»
Ad un certo punto dovevo incontrare la compagnia che mi aspettava; la trovai piú avanti; alle cucine. Quando il capitano sentí che arrivavo, venne verso di me imprecando e calpestando con ira la neve. Mi mise l’orologio sotto il naso dicendomi: – Guarda, cretino, abbiamo piú di un’ora di ritardo. Siamo gli ultimi. Non potevi sbrigati prima? – Tentai di dire qualcosa per spiegarmi, ma mi impose di tacere. – Vai col tuo plotone, – disse.
Ritrovai il mio plotone mitraglieri. Eravamo contenti di ritrovarci, ma non c’eravamo tutti. Il tenente Sarpi non era piú con noi; qualche altro, ferito, era all’ospedale. Antonelli mi si avvicinò: – é finita questa volta, – disse, – è finita –. Ci incamminammo per la strada che avevamo percorso quando ai primi di dicembre eravamo venuti a dare il cambio al Valcismon della Julia. Un pezzo da 75/13 sparò qualche colpo. Si andava con la testa bassa, uno dietro l’altro, muti come ombre. Era freddo, molto freddo, ma, sotto il peso dello zaino pieno di munizioni, si sudava. Ogni tanto qualcuno cadeva sulla neve e si rialzava a fatica. Si levò il vento. Dapprima quasi insensibile, poi forte sino a diventare tormenta. Veniva libero, immenso, dalla steppa senza limiti. Nel buio freddo trovava noi, povere piccole cose sperdute nella guerra, ci scuoteva, ci faceva barcollare. Bisognava tenere forte la coperta che ci riparava la testa e le spalle. Ma la neve entrava da sotto e pungeva il viso, il collo, i polsi come aghi di pino. Si camminava uno dietro l’altro con la testa bassa. Sotto la coperta e sotto il camice bianco si sudava ma bastava fermarsi un attimo per tremare dal freddo. Ed era molto freddo. Lo zaino pieno di munizioni a ogni passo aumentava di peso; pareva, da un momento all’altro, di dover schiantare come un abete giovane carico di neve. Ora mi butto sulla neve e non mi alzo piú, è finita. Ancora cento passi e poi butto via le munizioni. Ma non finisce mai questa notte e questa tormenta? Ma si camminava. Un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro. Pareva di dover sprofondare con la faccia dentro la neve e soffocare con due coltelli piantati sotto le ascelle. Ma quando finisce? Alpi, Albania, Russia. Quanti chilometri? Quanta neve? Quanto sonno? Quanta sete? é stato sempre cosí?
Sarà sempre cosí? Chiudevo gli occhi ma camminavo. Un passo. Ancora un passo. Il capitano in testa alla compagnia perse il collegamento con gli altri reparti. Eravamo fuori dalla strada giusta. Ogni tanto accendeva la pila sotto la coperta e consultava la bussola. Qualche alpino si staccava lentamente dalla squadra, si sedeva sulla neve e alleggeriva lo zaino. Non potevo dire nulla, tranne che: – Nascondetele sotto la neve, tenetevi le bombe a mano –. Antonelli portava l’arma della pesante, non bestemmiava piú, non perché non volesse ma perché non poteva. Nel buio posai casualmente i piedi su cose oscure e solide: cassette portabombe per mortaio da 45. Erano della squadra di Moreschi, lo cercai e gli dissi: – Con la tua squadra devi aiutare le altre del plotone a portare le pesanti e le munizioni per le pesanti. Abbandona anche i mortai, – aggiunsi piú piano, – e le altre casse; cerca di fare in modo che non s’accorga il capitano –. In testa si fermarono, ci fermammo tutti.
Nessuno parlava, sembravamo una colonna di ombre.
Mi buttai sulla neve con la coperta sulla testa; aprii lo zaino e seppellii nella neve due pacchi di cartucce per mitragliatore. Si riprese a camminare, dopo un po’ mi feci dare da Antonelli la pesante e passai a lui le due canne di ricambio che avevo portato fino allora. Antonelli aprí la bocca, sospirò forte e bestemmiò tutto quello che poteva bestemmiare. Sembrava, tanto era divenuto leggero, che il vento lo dovesse portar via. E a me di sprofondare. – Sotto, – dissi, – dobbiamo restare uniti –.
Dove abbiamo camminato quella notte? Su una cometa o sull’oceano? Niente finiva piú.
Abbandonato sulla neve, a ridosso d’una scarpata al lato della pista, stava un portaordini del comando di compagnia. Si era lasciato andare sulla neve e ci guardava passare. Non ci disse nulla. Era desolato, e noi come lui. Molto tempo dopo, in Italia (e c’era il sole, il lago, alberi verdi, vino, ragazze che passeggiavano), venne il padre di questo alpino a chiedere notizie di suo figlio a noi pochi che eravamo rimasti. Nessuno sapeva dire niente o non voleva dire niente. Ci guardava duramente:
– Ditemi qualche cosa, anche se è morto, tutto quello che potete ricordarvi, qualsiasi cosa –. Parlava a scatti, gesticolando, e per essere il padre di un alpino era vestito bene. – È dura la verità, – dissi io allora, – ma giacchè lo volete vi dirò quello che so.
Mi ascoltò senza parlare, senza chiedermi nulla. – Ecco, – finii, – è cosí –. Mi prese sotto il braccio e mi portò in un’osteria. – Un litro e due bicchieri. Un altro litro.
Guardò il ritratto di Mussolini appeso alla parete e strinse i denti e i pugni. Non parlò e non pianse... Poi mi tese la mano e ritornò al suo paese.
Non finiva mai quella notte. Dovevamo arrivare in un paese delle retrovie dove c’erano magazzini e comandi.
Ma noi non sapevamo nessun nome di paese delle retrovie. I telefonisti, gli scritturali e gli altri imboscati sapevano tutti i nomi. Noi non sapevamo nemmeno il nome del paese dove era il nostro caposaldo; ed è per questo che qui trovate soltanto nomi di alpini e di cose. Sapevamo solo che il fiume davanti al nostro caposaldo era il Don e che per arrivare a casa c’erano tanti e tanti chilometri e potevano essere mille o diecimila. E, quando era sereno, dove l’est e dove l’ovest. Di piú niente.
Dovevamo arrivare in uno di questi paesi dove, ci dicevano gli ufficiali, avremmo potuto riposare e mangiare. Ma dove era? In un altro mondo? Finalmente lontano, si vide una luce tenue; s’ingrandiva sempre piú fino a diventare rossigna ed illuminare il cielo. Ma questa luce rossa era nel cielo o sulla terra? Poi avvicinandosi si poté distinguere che era un villaggio che bruciava. Ma la tormenta non smetteva e c’erano sempre i coltelli piantati sotto le ascelle e si era schiacciati dal peso dello zaino e delle armi. E altre luci rosse si videro in quel buio.
La neve pungeva gli occhi ma si camminava. Arrivammo in un paese, intravvedemmo le isbe scure nella tormenta e sentimmo abbaiare i cani; si sentiva che sotto la neve c’era una strada. Ma non potevamo fermarci, bisognava camminare ancora. Altra gente camminava lí attorno.
Forse russi. Ma è meglio morire. Uno mi si avvicina, mi tira per la coperta, mi guarda fisso: – Che reparto siete?
– mi chiede. – 55 del Vestone, 6¡ Alpini, – rispondo –
Conosci il sergente maggiore Rigoni Mario? – dice l’ombra. – Sí, – rispondo. – È vivo? – chiede – Sí, – dico, – è vivo. Ma chi sei? – Sono un suo cugino, – dice. – Ma dov’è? – Sono io Rigoni, – dico, – ma tu chi sei? –
Adriano –. E mi prende per le spalle e mi chiama per nome e mi scuote. – Come va parente? – dice Adriano.
Ma io non riesco a dirgli niente. Adriano avvicina i suoi occhi al mio viso e ripete: – Come va parente? – Male, – dico, – va male. Ho sonno, ho fame, non ne posso piú.
Ho tutto quello che si può avere di peggio –. Adriano, me lo raccontò poi al paese, si stupí quella notte a sentirmi parlare cosí. – Io, – diceva al paese, – quando lo incontravo lo vedevo sempre sereno e allegro. Ma quella notte. Quella notte!
Adriano levò dallo zaino una scatola di marmellata e un pezzo di parmigiano di un paio di chili. – L’ho presa in un magazzino questa roba, – disse, – mangia –. Con la baionetta cercai di rompere il formaggio per staccarne un pezzo e restituirgli l’altro. Ma dopo essermi levato i guanti sentii un dolore impensabile straziarmi le mani e non fui capace di tagliarlo. Le mani non seguivano il cervello e le guardavo come cose non mie e mi venne da piangere per queste povere mani che non volevano piú essere mie. Mi misi a sbatterle forte una contro l’altra, sulle ginocchia, sulla neve; e non sentivo la carne e non le ossa; erano come pezzi di corteccia d’un albero, come suole di scarpe; finché me le sentii come se tanti aghi le perforassero, e me le sentii a poco a poco tornare mie queste mani che adesso scrivono. Quante cose può ricordarmi il mio corpo.
Riprendemmo a camminare nella notte. – E i paesani, Adriano? – chiesi. – Sono tutti sani, – rispose. – Ma io ora devo ritornare al mio reparto, ci rivedremo ancora. Stai in gamba parente. – Arrivederci, – dico, – in gamba sempre.
Sotto, sotto, dobbiamo restare uniti. Non ho il coraggio di parlare ai miei compagni di case di vino di primavera. A che gioverebbe? A buttarsi sulla neve e dormire e sognare queste cose e poi svanire nel nulla, nel niente, e sperdersi, sciogliersi con la neve a primavera nell’umore della terra. Era tutto buio ed in lontananza, nel cielo, riflessi rossi dei villaggi che bruciavano. Ancora un passo, ancora un altro; la neve passava la coperta e pungeva il viso, il collo, i polsi. Il vento ci toglieva il respiro e voleva strapparci la coperta. Mangiai un po’ del formaggio che mi aveva dato Adriano. Era duro a spezzarsi con i denti, a masticarlo era come sabbia, e sentivo che assieme al boccone mandavo giú sangue che mi usciva dalle gengive e dalle labbra. Il fiato mi si gelava sulla barba e sui baffi e con la neve portata dal vento vi formava dei ghiaccioli. Con la lingua mi tiravo quei ghiaccioli in bocca e succhiavo. E venne líalba. E la tormenta aumentò.
E il freddo aumentò. Ma ora mi domando: se non vi fosse stata la tormenta saremmo sfuggiti ai russi?
In quella notte il tenente Cenci era di retroguardia con il suo plotone. A un certo punto si erano fermati in un’isba isolata per riposare ma se due donne non li avessero svegliati in tempo per riprendere in fretta il cammino sarebbero stati sorpresi dai russi che già erano in vista dell’isba. E l’alba era grigia e il sole non veniva mai e c’era solo la neve e il vento e noi nella neve e nel vento.
Nessuno voleva piú portare le pesanti e le casse di munizioni; e quando uno si prendeva sopra lo zaino una di queste cose non c’era piú nessuno che voleva dargli il cambio. Cercavo di convincerli che bisognava tenerle con noi. Le Breda della mia squadra erano le armi migliori della compagnia e sapevo che cosa significasse per i fucilieri sentire le pesanti in caso di attacco. Bisognava portarcele con noi a costo di qualsiasi sacrificio. Ma quando, in quella mattina, dopo una tale notte, bisognava prendere sopra lo zaino il treppiede o una cassa di munizioni i coltelli sotto le ascelle pareva raggiungessero il cuore e i polmoni rimanevano senz’aria. Alleggerendo un compagno di una di queste cose, pareva che costui si alzasse in volo: sospirava, bestemmiava e poi diceva mentalmente un’avemaria.
Si camminava su una strada e la neve era ammucchiata ai lati; ma quella vecchia, non quella portata dalla tormenta. A destra c’era una rada fila di isbe. Si camminava a gruppetti e con lunghe code, era difficile tenere unito il plotone. Tra uno spazio e l’altro passava libero il vento e sibilava la tormenta. Eravamo tutti grigi e si vedeva poco.
Qui, una volta, vi dovevano essere magazzini o conducenti, perché tra la neve, si vedevano dei fili di paglia.
Pensate: paglia che una volta era un campo di grano. Vi erano anche delle casse di galletta. Come vedono le casse gli alpini vi si gettano sopra, sono vuote, ma pure qualche cosa ci deve essere nel fondo perché a spintoni e a pugni cercano di farsi largo e di affondarvi le mani.
Quelli che sono presi sotto gridano; poi lentamente si allontanano tutti. Uno rimane, gira ancora attorno alle casse, poi le rovescia e fruga nella neve.
Il capitano in testa a tutti si ferma e guarda la bussola.
Ma dove siamo? A un lato della strada vedo una massa oscura e immobile. Un camion? o una carretta? o un carro armato? é una macchina rotta e abbandonata.
Un senso di apprensione m’invade e mi pare che carri armati russi debbano uscire dalla tormenta. – Andiamo,
– dice il capitano, – state sotto, dobbiamo camminare in fretta. Avanti –. Finalmente arriviamo in un grosso paese dove erano comandi e magazzini. La tormenta è cessata, però tutto è grigio: la neve, le isbe, noi, i muli, il cielo, il fumo che esce dai camini, gli occhi dei muli e i nostri. Tutto di uno stesso colore. E gli occhi non vogliono piú stare aperti, la gola è piena di sassi che vi ballano dentro.
Siamo senza gambe, senza braccia, senza testa, siamo solo stanchezza e sonno, e gola piena di sassi.
Vediamo il maggiore comandante il battaglione uscire da un’isba. – Andate nelle isbe al caldo e riposatevi, – ci dice. – Sono già diverse ore che sono qui le altre compagnie. Dove siete andati? Chissà dove siete andati voi questa notte. Entrate nelle isbe, – dice il maggiore. Forse pensa di parlare con delle ombre perché stiamo lí come i muli che fumano dalla pelle. – Andate al caldo e riposate, – dice il capitano, – tra poche ore si riparte.
Sistemate i plotoni nelle isbe, – dice agli ufficiali e a me,
– e fate pulire le armi.
Quando siamo partiti dal caposaldo, eravamo con le squadre al completo; ora, guardando cosí, mi accorgo che mancano parecchi uomini: forse spersi nella tormenta, forse fermatisi in qualche isba, forse entrati nelle case appena arrivati qui. Ma nessuno s’interessa a controllare chi manca. Quelli che sono rimasti si allontanano a gruppetti in cerca di un’isba libera dove entrare. Io solo rimango fuori e giro da una strada all’altra senza sapere dove andare. Perché non sono andato con i miei compagni di plotone? anzi con i miei uomini? Non lo so perché. Rimango solo, fuori sulla neve; e non so dove andare. Infine vado a bussare a qualche porta. Ma, o mi rispondono male o non mi aprono. La maggior parte delle case è occupata da gente dell’autoreparto, della sussistenza, dei magazzini, della sanità. Voglio dormire un po’ al caldo, perché non mi lasciano entrare? Non sono anch’io un uomo come voi? E no, non sono come loro, io. Sono solo in mezzo alla strada e mi guardo attorno. Mi si avvicina un vecchio e mi indica, dietro una fila di isbe, in un orto, un cumulo di terra. Dalla terra sporge un comignolo, e dal comignolo esce del fumo.
Mi fa cenno di andare là e scendere giú. E un rifugio antiaereo. All’altezza del terreno vi sono due piccole finestre con vetri, scendo per una scaletta, scavata nel terreno e busso alla porta. Provo a spingere ma è chiusa dall’interno. Qualcuno viene ad aprire, è un soldato italiano. – Siamo già in tre qui, – dice, – e una famiglia russa –. E richiude la porta. Batto: – Lasciatemi entrare, – dico, – mi fermerò poco, voglio solo dormire un po’, non mi fermerò tanto –. Ma la porta resta chiusa. Busso, la porta torna ad aprirsi, si affaccia una donna russa e mi fa cenno di entrare. È caldo qui dentro, è come nella mia tana al caposaldo, o nelle stalle, con la differenza che qui vi è questa donna russa con tre bambini e tre imboscati italiani. Ma ora ve n’è uno solo perché gli altri due sono fuori. Quello che è rimasto mi guarda male. La donna mi aiuta a levarmi il cappotto. Devo avere una faccia proprio conciata male se mi guarda con quegli occhi pieni di compassione che quasi piangono. Ma io non so piú commuovermi, ora. L’imboscato che da un angolo mi guarda, come vede che sulla manica ho due straccetti di gradi e sopra il taschino qualche nastrino, vuole attaccare discorso. Porca naia! E se fossi un conducente qualsiasi? un fuciliere? un mulo? una formica? Non rispondo alle sue domande e mi levo anche l’elmetto e il passamontagna. Mi pare di essere nudo. E svuoto le tasche dalle bombe e le metto nell’elmetto e mi levo le giberne che mi pesano sul ventre. Cavo da una tasca della giubba una manciata di caffè misto a neve e nel coperchio della gavetta lo pesto con il manico della baionetta.
La donna ride, l’imboscato sta zitto e mi guarda. La donna mette a bollire l’acqua e fa alzare i ragazzini che mi guardano sdraiati su dei cuscini. Prende i cuscini e li mette su una specie di palco, vi butta sopra anche una coperta; la mia la mette ad asciugare vicino al fuoco. Mi fa cenno di salire sul palco a dormire. Mi siedo con le gambe ciondoloni e finalmente dico: – Spaziba –. La donna mi sorride e anche i bambini. L’imboscato mi guarda sempre zitto. Levo dallo zaino la marmellata che mi aveva dato Adriano, non ho altro, e mangio. Voglio offrirne anche ai bambini ma la donna non vuole: – Cusciai, – mi dice, – cusciai, – mi dice sottovoce sorridendo. Quando l’acqua bolle mi fa il caffè e, finalmente, dopo tanti giorni, mando dentro qualche cosa di caldo. Mi aggiusto il posto per dormire, mi metto vicino il moschetto e l’elmetto con le bombe a mano. – Stamattina c’erano qui i carri armati russi, – mi dice l’imboscato. –
Ma tu cosa fai qui? – domando. – Che cosa aspetti? Non vai con il tuo reparto? – Non risponde. Fuori fa freddo, c’è la steppa, il vento, la neve, tanto vuoto attorno, i carri armati russi e lui sta qui al caldo con i suoi due compagni e la donna russa. – Se senti sparare, svegliami, – dico. Su di un’asse, contro la parete di terra gialla, c’è una vecchia sveglia e faccio cenno alla donna di svegliarmi quando la lancetta piccola sarà arrivata al numero due. A quell’ora devo trovarmi con la compagnia. Sono le undici, ora, dormirò tre ore. E mi butto giú sui cuscini, vestito e con le scarpe addosso. Ma perché non sono capace di dormire? Perché penso ai miei uomini che sono nelle isbe al caldo? Perché sto con le orecchie tese a sentire se sparano? Perché non viene il sonno? Da tanti giorni non dormo. Ritornano i due imboscati che erano fuori e sento che parlano fra di loro; sento un bambino che piange e sto con gli occhi aperti a guardare la parete di terra gialla. Il caposaldo, i chilometri, i miei compagni, i russi morti nel fiume, la Katiuscia, i miei paesani, il tenente Moscioni, le bombe a mano, la donna russa, i muli, i pidocchi, il moschetto. Ma esiste ancora l’erba verde? Esiste il verde? E poi dormo; dormo, dormo.
Senza sognare nulla. Come una pietra sotto l’acqua.
Quando la donna russa mi sveglia è tardi, mi ha lasciato dormire mezz’ora di piú. In fretta lego la coperta allo zaino, rimetto in tasca le bombe a mano e in testa l’elmetto. Quando sono pronto per uscire la donna mi porge una tazza di latte caldo. Latte come quello che si beve nelle malghe all’estate; o che si mangia con la polenta nelle sere di gennaio. Non gallette e scatolette, non brodo gelato, non pagnotte ghiacciate, non vino vetroso per il freddo. Latte. E questa non è piú naia in Russia, ma vacche odorose di latte, pascoli in fiore tra boschi d’abete, cucine calde nelle sere di gennaio quando le donne fanno la calza e i vecchi fumano la pipa e raccontano. La tazza di latte fuma nelle mie mani, il vapore sale per il naso e va nel sangue. Bevo. Restituisco la tazza vuota alla donna dicendo: – Spaziba.
Mi rivolgo, poi, ai tre imboscati: – Non venite? – Ma dove vuoi andare? – mi risponde uno: – Siamo circondati dai russi e qui siamo al caldo. – Lo vedo, – dico; – io vado. Vi saluto e auguri –. E ritorno fuori.
Il paese era tutto un brulicare, come quando nel bosco si introduce un bastone in un formicaio. Ragazzi, donne, bambini, vecchi entravano nelle isbe con fagotti e sacchi mezzi pieni e subito ritornavano fuori con i sacchi vuoti sotto il braccio. Andavano nei magazzini che bruciavano e prendevano tutto quello che riuscivano a salvare dalle fiamme. Slitte, muli, camion, automobili andavano e venivano senza scopo per le strade; un gruppo di carri armati tedeschi fece presto ad aprirsi un passaggio tra quel groviglio. Un fumo giallo e acre si fermava sopra il villaggio e fasciava le case. Il cielo era grigio, le isbe grige, la neve calpestata in tutti i sensi era grigia.
Avevo ancora in bocca il sapore del latte, ma ormai ero fuori. Ora camminavo verso casa. Sia quel che sia.
Le mani in tasca, guardavo quello che succedeva intorno a me; mi sentivo solo. Passando davanti a un edificio, forse le scuole, vidi pendere verso la strada due bandiere; una italiana e l’altra della Croce Rossa e quest’ultima era cosí grande che quasi toccava terra. Divenni improvvisamente triste. Immaginavo il paese vuoto con i magazzini che finivano di bruciare, gli abitanti chiusi nelle isbe, qualche mulo abbandonato che rosicchiava i torsi dei cavoli che spuntavano dalla neve. Immaginavo i soldati russi che arrivavano. I muli, allo sferragliare dei carri armati, muovevano appena le orecchie.
I nostri feriti guardavano dalle finestre dell’ospedale.
Tutto era grigio e le due bandiere pendevano verso la strada deserta.
Dall’ospedale ora stavano uscendo i feriti che potevano camminare e tentavano di aggrapparsi alle slitte e ai camion di passaggio.
Non riuscivo a vedere un soldato della mia compagnia o del battaglione. Forse erano già partiti tutti. Vidi uno del Cervino che camminava cosí come camminavo io. Lo chiamai e andammo assieme. Chiesi notizie di conoscenti. Il Cervino era il battaglione con il quale avevo partecipato a un’azione dell’inverno precedente. – E il sergente Chienale? – chiesi. – È morto. – E il tenente Sacchi? – Morto –. Tanti e tanti altri erano morti. Pochi, appena dieci, forse, erano rimasti di quel Cervino che era piú spavaldo di un battaglione di bersaglieri.
Attraversai il paese passando accanto ai magazzini che stavano bruciando. Piú tardi seppi che alpini arrivati qui dalla linea erano entrati nei magazzini abbandonati; e i soldati della sussistenza avevano detto: – Prendete quel che volete –. Trovarono cioccolata, cognac, vino, marmellata, formaggio. Sparavano nelle botti di cognac e mettevano sotto la gavetta. Dopo tanto tribolare, finalmente, bevevano e mangiavano e dormivano. Molti non si svegliarono piú: bruciati o assiderati. Altri svegliandosi si saranno trovati davanti al viso le canne dei mitra russi.
Ma qualcuno è riuscito a raggiungerci e a raccontare.
Poco prima di uscire dal paese, tra tutta quella confusione, riuscii a vedere degli uomini della mia compagnia.
Li raggiunsi. Al passaggio d’una balca, prima di entrare nella steppa libera, v’era tutto un ammasso di camion, di slitte, di auto. Camion erano rovesciati nel fondo della balca e là chi bestemmiava, chi gridava, chi chiamava aiuto per spingere o cercare di liberare la pista. Provai piacere quando vidi i camion rovesciati che non si potevano muovere e ricordai come, nell’estate precedente, durante le interminabili marce notturne di avvicinamento, ci sorpassavano le lunghe autocolonne e la polvere color cioccolata delle piste si appiccicava al sudore di noi che si camminava sotto lo zaino, penetrava nella gola e ci faceva sputar giallo per delle settimane.
E quelli della sussistenza, dei magazzini e del genio di retrovia ai lati della pista ci guardavano passare e ridevano. Sí! porca naia, ridevano. «Ma questa volta si muoveranno anche loro. Diavolo se si muoveranno. Se vogliono arrivare a baita si muoveranno!» Questo pensavo mentre li guardavo affaccendarsi attorno alle loro macchine che portavano le scartoffie o i bagagli dei loro ufficiali o chissà che diavolo. Alle spalle si levavano le fiamme e il fumo degli incendi e si udiva sempre piú vicino il rumore delle cannonate. «Disincantatevi, imboscati, è giunta l’ora anche per voi di lasciare le ragazze delle isbe, le macchine da scrivere e tutti gli altri accidenti che il diavolo se li pigli. Imparerete a sparare con il fucile, venite con noi se volete; per noi, ne abbiamo abbastanza».
Pensavo a questo, e questo pensiero mi metteva energia e calpestavo con forza la neve fuori dalla pista. Camminavo piú spedito e andavo avanti. Risalimmo la balca.
Attraverso la steppa si snodava la colonna che poi spariva dietro una collina, lontano. Era una striscia come una S nera sulla neve bianca. Mi sembrava impossibile che ci fossero tanti uomini in Russia, una colonna cosí lunga.
Quanti caposaldi come il nostro eravamo? Una colonna lunga che per tanti giorni doveva restarmi negli occhi e sempre nella memoria.
Ma si avanzava lentamente, troppo lentamente, e cosí, con il gruppo che mi seguiva, ritornai fuori dalla pista per cercar di portarmi piú avanti. Avevamo due Breda con qualche migliaio di colpi e ancora i viveri di riserva.
Il peso ci faceva sprofondare nella neve ma pure si andava molto piú lesti della colonna. Gli spallacci dello zaino ci segavano le ascelle. Antonelli, come sempre, bestemmiava e Tourn ogni tanto mi guardava come a dirmi:
«La finirà, no?» C’era con noi qualcuno della squadra di Moreschi che cercava di rimanere qualche passo indietro per evitare il turno di portare l’arma. Antonelli inveiva contro costoro con le piú belle parole dei bassifondi veronesi. Si incontrava ogni tanto qualche uomo supino nella neve che, trasognato, ci guardava passare senza farci alcun cenno. Un ufficiale italiano con stivali e speroni, a un lato della pista, gesticolava e gridava insulsamente. Era ubriaco e ciondolava. Cadeva nella neve, si rialzava gridando chissà che cosa e poi ritornava giú.
Stava assieme a un carabiniere che cercava di sostenerlo e di tirarlo avanti. Infine si fermarono dietro a un pagliaio isolato nella steppa. Piú avanti incontrai altri soldati della mia compagnia, poi quattro uomini del mio plotone tra i quali Turrini e Bosio. Si erano arrangiata una piccola slitta e vi avevano caricato sopra la pesante e tre casse spalleggiabili di munizioni. Un po’ qua e un po’ là, lungo la colonna, ero riuscito a radunare quasi tutto il mio plotone. Ogni qualvolta un gruppetto si univa al mio già grosso era un piacere; ci si chiamava per nome e si rideva scherzando sulle nostre condizioni. Quelli che camminavano nella colonna alzavano gli occhi dalla neve, ci davano uno sguardo e ritornavano ad abbassare la testa. – Stiamo uniti, – dicevo, – e camminiamo in fretta.
Venne la notte e arrivammo in un piccolo paese nella steppa. Non so che giorno o che notte fosse, so che faceva molto freddo, e avevamo anche fame. Ci trovammo riuniti con gli altri plotoni della compagnia e con il battaglione. Ormai eravamo nel nostro ambiente: si sentiva parlar bresciano. Anche il maggiore Bracchi parlava bresciano: – Corai s’cet, forza s’cet –. Il maggiore Bracchi: cappello in testa, scarpe Vibram, sigaretta in bocca, gradi di banda sulle maniche del pastrano, il passo sicuro, occhi azzurri e voce che infondevano serenità. – Coraggio, ragazzi, diceva in bresciano, – per Pasqua saremo a casa a mangiare il capretto –. Chiamava per nome or l’uno or l’altro di noi e sorrideva.
– Barba di Becco, – disse (cosí mi chiamava lui, Barba di Becco o Vecio), – mi sembri diventato un po’ magro e trasandato. Una pastasciutta ci vorrebbe o un liter de negher. – Naia potente se ci vorrebbe! – dissi, – anche due. E lei non ci starebbe? – Sciur magiur, – gli disse Bodei, – deve restare consegnato, le manca un bottone sul pastrano e ha la penna storta. – Enculet ciavad, – gli rispose il maggiore. Il maggiore sorrideva e scherzava quando parlava con noi, ma poi diventava serio e gli occhi si spegnevano. E io pensavo: «Pasqua è ancora lontana, abbiamo appena passato Natale; e tanti chilometri ci sono da camminare».
Era notte e molto freddo, e si era con le scarpe nella neve in attesa di ordini. Vedevo che il capitano era stanco da non poterne piú. Il tenente Cenci, avvolto in una coperta come in uno scialle, fumava una sigaretta dietro l’altra e ogni tanto bestemmiava. Quando succhiava il fumo vedevo la braccia accendersi come un occhio di gatto. Parlava un poco con un alpino del suo plotone e bestemmiava in modo gentile con voce armoniosa e da salotto. Mi si avvicinò: – Come va, Vecio? – disse. – Va bene, – risposi, – va bene; ma fa un po’ freddo –. Naia potente se faceva freddo!
Attorno a noi c’era una gran confusione; si sentiva parlare tedesco, ungherese, e italiano in tutti i dialetti.
Poco lontano bruciavano delle isbe e dei magazzini e la neve attorno riverberava la luce rossastra sino ai limiti del villaggio, dove poi incominciava la steppa. E laggiú bruciava anche il paese che avevamo lasciato nel pomeriggio. Ogni tanto si sentivano scoppi e rumore di motori ma pareva che di là dal chiarore rossastro degli incendi non vi fosse piú nulla. Il mondo finiva là. Diavolo! e noi dovevamo andare piú avanti di quel buio. Ma le scarpe erano come legno, la neve secca come sabbia e le stelle pareva che strappassero la pelle come speroni. Nel paese non era rimasto nessuno; non c’erano nemmeno vacche, pecore, oche. Lontano, nel buio, si sentivano abbaiare i cani. I nostri muli erano con noi; e con le orecchie abbassate sognavano le mulattiere delle Alpi e l’erba tenera. Mandavano vapore dalle narici come le balene; avevano il pelo coperto di brina e mai erano stati cosí lustri. E i pidocchi anche c’erano; i nostri pidocchi che se ne fregavano di tutto e stavano al caldo nei posti piú reconditi. Ecco, pensavo, se dovessi morire i pidocchi che ho addosso che fine farebbero? Creperanno piú tardi di me quando il sangue nelle vene sarà come vetro rosso oppure resisteranno sino a primavera?
Quando, al caposaldo, mettevamo fuori le maglie con quaranta gradi di freddo per due giorni e due notti e le indossavamo dopo averle asciugate vicino alla stufa subito i pidocchi si facevano vivi. Erano robusti e forti.
– Rigoni, vuoi una sigaretta? – dice Cenci. Fumo, almeno il fumo è caldo. Antonelli impreca: – Ci muoviamo o no? Che facciamo qui? – E bestemmia.
Ascoltando quelli che erano qui prima di noi veniamo a sapere che i carri armati russi, arrivati fin qui, hanno portato il terrore. Ma ora siamo in tanti: una divisione ungherese, un corpo corazzato tedesco, la divisione Vicenza, quello che è rimasto della Julia, la Cuneense e noi della Tridentina. E poi tutti i servizi: autoreparti, sussistenza, genio, sanità, ecc. Buona parte di questi ultimi hanno già abbandonato le armi nella neve e sono convinti di essere già prigionieri. Prigionieri si è, penso e dico, quando un soldato russo ti fa camminare dove vuole puntandoti un fucile, ma non come ora.
– Sergentmagiú, ghe rivarem a baita? – È Giuanin che si è avvicinato. – Ghe rivarem sí, Giuanin, – gli dico, – ma non pensarci ora alla baita, salta tra la neve per non gelarti i piedi –. Finalmente il maggiore Bracchi che si era allontanato in cerca di ordini, ritorna. Ci muoviamo finalmente, ma torniamo indietro. – Andiamo di retroguardia, – dice il tenente Pendoli. – Sempre a noi tocca,
– brontoliamo. (E quelli del Tirano diranno altrettanto).
– Vestú! Avanti da questa parte, – grida Bracchi.
Si cammina nella neve alta; ogni tanto si batte la testa sull’elmetto del compagno che sta avanti e ogni tanto bisogna correre per star sotto. I magazzini e le isbe bruciano e qua e là si sente gridare in tedesco. Passiamo vicino a dei grossi panzer col motore acceso (per non gelare, penso). Camminando cosí nella neve do dentro col piede in un barattolo e lo raccolgo. È mezzo pieno e al chiarore di un incendio vedo che contiene roba da mangiare. Introduco la mano senza levarmi il guanto: questa è la manna di Mosè: marmellata e burro mescolati assieme. Mi lecco il guanto e i baffi; mangio camminando e mangiano quelli che mi sono vicino.
Non so quanto abbiamo camminato; ogni passo pareva un chilometro e ogni attimo un’ora; non si arrivava mai e non finiva mai. Finalmente ci fermiamo a delle isbe isolate. Sistemo il mio plotone in un edificio in muratura: saranno state le scuole o la casa dello starosta. Vi troviamo anche dei soldati dell’autocentro. Questi sono come i pidocchi: s’annidano dappertutto. E c’è un fuoco, e c’è caldo e persino paglia sul pavimento. Ah! com’è bello buttarsi giú e cavarsi l’elmetto e mettere lo zaino sotto la testa stretti al caldo uno vicino all’altro.
Finalmente possiamo chiudere gli occhi e dormire.
Ma chi è che mi chiama lí fuori? Andate al diavolo, lasciatemi dormire. Uno apre la porta e fa il mio nome: –
Va’ dal capitano, ti vuole –. Ho dentro un fuoco che mi brucia. Mi alzo, i miei compagni sono già addormentati e russano. Per uscire devo pestare i loro piedi: bestemmiano, aprono gli occhi, si girano dall’altra parte e ritornano a dormire. Fuori è freddo; è tutto silenzio, il portaordini non c’è piú, tante stelle ci sono invece come in un cielo di settembre. Ma erano belle allora le notti di settembre nei campi di grano e papaveri; tiepide e amorose come la terra queste stelle. Ora non so se è un incubo o se uno spirito maligno si diverte alle mie spalle. Non c’è nessuno fuori e vado a cercare il capitano che mi vuole. Che avrà da dirmi? Cerco in uníisba e non lo trovo, busso alle altre. Mi rispondono in tedesco: – Raus! – o in bresciano: – Inculet!
– Trovo i fucilieri della mia compagnia e mi chiedono se voglio entrare a dormire da loro. – Cerco il capitano, – dico. – È qui? – No, – mi rispondono. Giro tra i cavalli degli ungheresi e cerco i1 capitano; lo chiamo per le piste che portano nella steppa. Nessuno mi risponde. Le stelle mi straziano la carne, mi viene da piangere e da maledire.
Vorrei istintivamente uccidere qualcuno. Pesto con ira la neve; agito le braccia; faccio crocchiare i denti; i sassi mi ballano nella gola. Calmati! Non impazzire! Calma! Ritorna nell’isba del tuo plotone, ritorna a dormire. Chissà cosa ti attenderà domani. Domani! Ma è già líalba, laggiú incomincia il crepuscolo. Le mattine al caposaldo quando rientravo nella tana calda ed era pronto il caffè; le mattine prima di venir soldato quando andavo per legna e sentivo il canto degli urogalli, le mattine che salivo alle malghe con il mulo grigio. E lei starà dormendo tra lenzuola di bucato, nella sua città di mare, e dal mare entrerà nella stanza il primo chiarore dell’alba. Ma sarebbe meglio buttarsi su quel mucchio di neve e dormire, chissà come sarà morbida. All’erta, sta’ all’erta, cerca l’isba del tuo plotone. Stringo i denti e i pugni e do calci nella neve. Ritrovo l’isba, entro e mi lascio cadere fra i corpi caldi dei miei compagni.
Ma non dormo forse nemmeno un’ora perché Cenci batte alla porta e dice forte: – Plotone mitraglieri sveglia! Fate presto, si parte. Rigoni sveglia! – E sento i miei compagni che si alzano in silenzio e arrotolano le coperte e poi le bestemmie di Antonelli. Come desidererei dormire, dormire ancora un poco, un poco solo; non ne posso piú; o impazzisco o mi sparo. Ma pure mi alzo, esco, raduno il plotone, controllo per vedere chi manca; vado in cerca dei ritardatari e facendo questo ritorno quello di sempre. Non penso piú né al sonno né al freddo. Mi assicuro se non abbiamo lasciato nulla nell’isba, munizioni o armi. Controllo i presenti, guardo se le armi sono pulite, tiro il carrello di armamento e premo il bottone a vuoto. Questo mio fisico è davvero meraviglioso: muscoli, nervi, ossa; non credevo prima d’ora che potesse sopportare tanto. Ci avviamo verso l’altra estremità del villaggio. Gli altri plotoni della compagnia sono già partiti e noi siamo gli ultimi. Sorpassiamo le slitte degli ungheresi e un gruppo di artiglieria alpina. Nel fondo di una balca non tanto profonda ci riuniamo alla compagnia. Ma il capitano manca. Il maggiore Bracchi, impaziente, cammina avanti e indietro sulla neve.
Mi chiama e mi manda a cercare il capitano e una compagnia che manca. – Fai presto, – mi dice Bracchi, – dobbiamo andare all’assalto e cercare di aprire la sacca –. Torno a rifare la strada. E lo trovo il capitano. Sta su una slitta; mi chiama mentre sono ancora lontano. – Rigoni, paesano, – dice, – ho la febbre. Volevo fermarmi in un’isba; no, non sto bene. Dov’è la compagnia? – Capitano, – dico, – la compagnia è laggiú, – e indico con la mano. – Vi aspetta, mi ha mandato in cerca di voi il maggiore.
Sono con il capitano, l’attendente e il conducente della slitta. Il suo aspetto non è piú quello di una volta, gioviale e furbesco; ma con la coperta tirata sulla testa come uno scialle e il passamontagna infilato sino al collo, non sembra piú il contrabbandiere di Valstagna.
– Portatemi dov’è la compagnia, – dice il capitano, – non lasciatemi solo. Sono il vostro capitano, no? Non vorrete mica lasciarmi solo, sono il vostro capitano! Ho la febbre, – ripete. – Andiamo, – rispondo.
Trovo un tenente della compagnia che manca, con il suo plotone. – La compagnia sta venendo, – mi dice. Ma intanto abbiamo fatto tardi e al nostro posto sono andati il Verona e un battaglione del 5¡. Si sente già sparare.
Sparano forte. Si odono le raffiche secche dei mitra russi, le nostre pesanti, i colpi acuti dei fucili, qualche scoppio di mortaio e anche di bombe a mano. Dev’essere dura lassú. Sento brividi per la carne, mi pare sentire le pallottole cucire la mia anima, ogni tanto trattengo il respiro. Mi viene una grande malinconia e un gran desiderio di piangere. Lassú dove sparano: una fila di isbe sul dorso di una mugila. E bisogna passare, dicono, perché al di là c’è una strada da dove ci possono venire incontro le motorizzate tedesche.
Ma i russi non vogliono lasciarci passare. Sparano, sparano, sparano e io ho paura e se fossi con loro no. Mi pare che qualcosa si stacchi da me a ogni raffica, a ogni esplosione. Noi siamo qui pronti ad intervenire e vorrei finirla di stare ad aspettare in questa balca fredda a ridosso del villaggio e con questa angoscia. Passeranno o è davvero finita? I miei compagni sono stanchi, ogni tanto un uomo del mio plotone se ne va, gira per il villaggio tra le slitte degli ungheresi. Questi sono i piú passivi e i piú neutri di tutti. Hanno le slitte stracariche di lardo, salumi, zucchero, tavolette di vitamine, ma niente armi e munizioni. Gli alpini girano attorno alle slitte, sornioni, con le mani in tasca e l’aria da fessi. Quando ritornano tra noi tirano fuori pezzi di lardo e salami di sotto i pastrani. Abbiamo acceso un gran fuoco, ci stiamo attorno a cerchio e ogni tanto ci voltiamo per scaldarci da tutte e due le parti. Si chiacchiera e il vino è l’argomento principale. – Quando sarò a casa voglio fare un bagno in una botte di vino, – dice Antonelli. – E io mangiare tre gavette di pastasciutta, – aggiunge Bodei (si è dimenticato oramai che a casa si mangia nel piatto), – e fumare un sigaro lungo come un alpenstock –. Serio e convinto, guardando il fuoco, Meschini dice: – Fare una sbornia di grappa e liquefare con il fiato tutta la neve della Russia –.
Ma ogni tanto si sta zitti e lassú continuano a sparare. –
Sparano, – dice Antonelli, e bestemmia. – Tourn! – grida, battendogli una mano sulla spalla: – e bute e meze bute, Barbera e Grignolin! – E Tourn alza la testa, gli occhietti da scoiattolo sotto il passamontagna si accendono: – Basta ch’el sia da beive, – dice. Ma qui porca naia non c’è niente. Un fuoco che ti affumica davanti e neve che ti agghiaccia dietro. I tenenti Cenci e Pendoli chiamano adunata vicino alle slitte della compagnia: c’è qualcosa da distribuire. Sono gli ultimi viveri che ci vengono dati come razione e che i cucinieri sono riusciti a portare sin qua. Io ero convinto che non ci fosse piú nulla. I sacchi delle pagnotte sono incrostati di neve e odorano di cipolla, di carne, di conserva, di fumo di caffè; dell’odore dei cucinieri insomma. Ci sono due pagnotte per ciascuno, dure, gelate, e vecchie; e dalle slitte esce anche una forma di reggiano e anche quello è gelato. Per spaccarlo il tenente Cenci deve prendere un’accetta e poi l’aiuto io con la baionetta a fare le razioni per i plotoni. C’è anche cognac. Quando il cuciniere tira fuori i bidoni ne sentiamo l’odore e annusiamo l’aria come i cani da caccia e quelli che sono lontani si fanno sotto. Capisquadra fuori le gavette! Quante volte ho fatto le razioni in quattro anni di naia: una gavetta sino ai chiodi del manico otto razioni di vino, un gavettino di cognac una squadra. Ma di cognac ora ce n’è di piú e le parti le fa Cenci. Ritiro con i capisquadra la roba per il mio plotone. Attorno al fuoco beviamo il cognac; attorno al fuoco.
Antonelli bestemmia, Tourn si liscia i baffi, Meschini mugola. Cenci viene da noi. – In gamba, pesante, – dice e ci dà da fumare. Naia potente!
So che vicino a noi del Vestone ci dovrebbe essere il battaglione del genio alpino della nostra divisione ove ho i paesani e vado in cerca di loro. Trovo il Vecio e Renzo. Vengono dalla battaglia dove erano di collegamento presso il colonnello Signorini. Appena li vedo camminare stanchi sulla neve mi ritorna alla memoria che in settembre erano venuti a trovarmi in linea e tanto bene era nascosta la mia tana nel campo di grano che quasi ci cascavano dentro con la motocicletta che montavano. Strano il rumore della motocicletta nel campo di grano. Solo quello si sentiva e io, sdraiato nella tana, pensavo: «Chi sarà?» Ed erano loro, i miei paesani che mi portavano un sacchetto di frumento per fare il pane.
Quel giorno avevo un bidoncino di vino: un mese di razioni arretrate. Mi sembrava di vedere il mio paese nell’incontrarli. – Ciao Renzo, ciao Vecio. – Mario! –
Mario! – Vengono dal combattimento e sono stanchi. –
Questa volta non arriveremo a casa, Mario; ci lasceremo la pelle. I russi non ci lasciano passare, – dice il Vecio.
Ed è triste. Chissà quanti ne avrà visti morire; chissà cosa sarà passato per la sua radio. Renzo, invece, è sempre uguale. Se avesse un fiasco di vino o sentisse una quaglia cantare nell’avena, alla sacca non ci penserebbe piú. Ma forse non ci pensa nemmeno adesso. – Su, coraggio paesani, – dico, – vedrete che festa faremo quando saremo ritornati, che pastasciutte e che sbornie! Ci sarà anche lo Scelli con l’armonica e le ragazze e grappa –. Ma il Vecio sorride sfinito e gli occhi gli luccicano. Chiedo a loro di Rino. Non sanno dirmi dove sia e cosí vado a cercarlo.
Trovo il tenente medico del suo battaglione e mi dice d’averlo visto un attimo prima. Mi rallegro: almeno è vivo. Chiedo di lui ai suoi compagni: Era qui adesso, – mi dicono. Lo chiamo ma non riesco a trovarlo. Incontro Adriano e Zanardini: – Coraggio, – dico, – ce la faremo
–. Ritorno dov’è il mio plotone. Mi metto dietro un’isba e accendo il fuoco. Non so come, mi trovo assieme a Marco Dalle Nogare. Marco che non si risparmia mai con nessuno, amico di tutti. Con lui mi sento meglio anch’io. Nella tasca del pastrano, ho trovato un pacchetto di verdura essiccata; facciamo sciogliere la neve nella gavetta e la mettiamo a bollire. Mangiamo assieme. – Che naia, Marco! – Ma siamo abbastanza allegri noi due; e parliamo di quando in Albania abbiamo vuotato una bottiglia di doppio Kummel. Dopo mangiato Marco ritorna con i portaordini del comando di reggimento.
Come passano lente le ore; il freddo aumenta con l’avvicinarsi della sera. Lassú non si è deciso ancora niente e gli spari si fanno sempre piú radi, anche le raffiche sembrano stanche. Il cielo è tutto verdeceleste, immobile come il ghiaccio, gli alpini parlano poco e sottovoce fra di loro. Giuanin mi si avvicina, mi guarda da sotto la coperta che si è tirato sulla testa, non dice niente e torna via. Vorrei chiamarlo e gridargli: «Perché non mi chiedi se arriveremo a baita? Èfreddo e si fa sera, la neve e il cielo sono uguali. A quest’ora nel mio paese le vacche escono dalle stalle e vanno a bere nel buco fatto nel ghiaccio delle pozze. Dalle stalle escono il vapore e l’odore di letame e latte; i dorsi delle vacche fumano e i camini fumano. Il sole fa tutto rosso: la neve, le nubi, le montagne e i volti dei bambini che giocano con le slitte sui mucchi di neve: mi vedo anch’io tra quei bambini. Ele case sono calde e le vecchie vicino alle stufe aggiustano le calze dei ragazzi. Ma anche laggiú in quell’estremo lembo della steppa c’era un angolo di caldo. La neve era intatta, l’orizzonte viola, e gli alberi si alzavano verso il cielo: betulle bianche e tenere e sotto queste un gruppetto di isbe. Pareva che non ci fosse la guerra laggiú; erano fuori del tempo e fuori del mondo, tutto era come mille anni fa e come forse tra mille anni ancora. Lí aggiustavano gli aratri e le cinghie dei cavalli; i vecchi fumavano, le donne filavano la canapa. Non ci poteva essere la guerra sotto quel cielo viola e quelle betulle bianche, in quelle isbe lontane nella steppa. Pensavo:
«Voglio anch’io andare in quel caldo, e poi si scioglierà la neve, le betulle si faranno verdi e ascolterò la terra germogliare. Andrò nella steppa con le vacche, e alla sera, fumando macorka, ascolterò cantare le quaglie nel campo di grano. D’autunno taglierò a fette le mele e le pere per fare gli sciroppi e aggiusterò le cinghie dei cavalli e gli aratri e diventerò vecchio senza che mai ci sia stata la guerra. Dimenticherò tutto e crederò di essere sempre stato là». Guardavo in quel caldo e si faceva sempre piú sera.
Ma poi sentii un ufficiale che chiamava adunata e sorrisi. – Adunata Vestone. – Cinquantacinque adunata! –
Si radunarono le compagnie, i plotoni, le squadre. Si ritornava a fare la retroguardia. Era sera e non capivo dove si andava. Vedevo attorno a me gente che camminava e io andavo con loro. Dopo (quanto dopo?) ci fermammo vicino a delle costruzioni basse e lunghe, isolate nella steppa. Lí trovammo tre o quattro carri armati tedeschi e un gruppo di artiglieria alpina. Le costruzioni dovevano essere state o magazzini di qualche colcos o stalle. Dentro faceva freddo e c’era odore di muli, e per terra paglia mista a letame. Tra le fessure si vedevano le stelle. Non so dove andarono le altre compagnie; noi ci fermammo. Stabilii il turno di vedetta e misi fuori le sentinelle del mio plotone. In una buca accesi il fuoco con degli sterpi e nella neve liquefatta feci bollire una pagnotta gelata. In tasca avevo anche un cartoccio di sale.
Era tanto freddo, freddo; il fuoco faceva piú fumo che fiamma e gli occhi mi bruciavano per il fumo, il freddo, il sonno. Mi sentivo triste, infinitamente solo senza capire la causa della mia tristezza. Forse era il gran silenzio attorno, la neve, il cielo pieno di stelle che si perdeva con la neve. Ma pure, anche in simili condizioni, il corpo faceva il suo dovere: le gambe mi portavano in cerca di sterpi, le mani mettevano gli sterpi sul fuoco e frugavano nelle tasche per cercare il sale da mettere nella gavetta. Anche il cervello faceva il suo dovere perché, dopo, andai a fare un giro dalle vedette (– Come va, sergentmagiú? – Va bene, va bene; muoviti per non gelare) e andai a chiamare quelli che dovevano dare il cambio. Era come se io fossi due e non uno e uno di questi due stava a guardare cosa faceva l’altro e gli diceva cosa dovesse fare e non fare. Lo strano era che uno esisteva come esisteva l’altro, proprio fisicamente, come uno che l’altro potesse toccare.
Andai a dormire in un capannone. Ma i posti migliori erano occupati e cosí mi allungai dietro i muli, in prossimità delle loro parti posteriori. Era tutto zeppo di artiglieri e di alpini e bisognava camminare sopra le loro membra. Cercavo di fare piano, di camminare leggero ma pure qualche volta mi capitava di mettere i piedi su un arto assiderato e allora erano urli e bestemmie. Ogni tanto dovevo uscire per dare il cambio e accertarmi delle vedette. Ero appena rientrato da uno di questi controlli, quando un artigliere, camminando nel buio, mi mise gli scarponi sul viso lasciandomi i segni dei chiodi sulla pelle. Cosí gridai anch’io con tutta la mia voce.
Prima dell’alba vi fu adunata ancora una volta; ordine di abbandonare tutto tranne le armi e le munizioni. I miei compagni mi guardano e mostrandomi un fascio di lettere mi chiedono: – Questo lo possiamo tenere? – Sono tristi e pensierosi; nessuno butta via le munizioni. –
Forse si va, finalmente, – dico loro, – dovremo camminare molto e bisognerà essere leggeri –. Gli ufficiali dicono: – Fate presto, si parte.
Camminiamo spediti. Le stelle fanno presto a sparire e il cielo ritorna come ieri. Una compagnia del nostro battaglione manca all’adunata e non si sa dove sia. Piú tardi venni a sapere che questa compagnia restò tutta prigioniera. Era sola di retroguardia e quella mattina s’era attardata sulle posizioni. Dalla steppa avanzavano colonne di uomini in cachi e gli ufficiali dicevano: – Sono gli ungheresi che vengono a darci il cambio –. Ma quando li ebbero addosso si accorsero che erano russi.
Cosí ci rimasero. Si salvò un ufficiale, qualche alpino, e il capitano che ci raggiunse piú tardi. Era ubriaco di cognac e gridava: – La mia compagnia è tutta prigioniera, siamo tutti circondati, è inutile combattere –. Ma era ubriaco e nessuno gli badava.
Ora tocca a noi andare su a tentare di rompere l’accerchiamento. Dicono che stanotte gli ufficiali superiori della nostra divisione abbiano tenuto consiglio decidendo di tentare la sorte sino all’ultima speranza.
Diventiamo tutti fiduciosi, allegri quasi, siamo convinti che questa volta ce la faremo. Con Antonelli e Tourn canto: «Maria Giuana l’era su l’us...» Qualcuno, passando, ci guarda con compassione: ci credono pazzi. Ma noi cantiamo piú allegramente. Il tenente Cenci ride.
– Avanti il Vestone, – si sente gridare. Ecco, ora toccherà a noi. Passiamo in testa a tutti. Gli artiglieri aprono le loro giberne e ci dànno i loro caricatori e le loro bombe a mano. Ci guardano come noi guardavamo quelli che andavano su ieri e cercano di farci coraggio.
Rido con Antonelli e diciamo: – Sparate giusto con il 75/13, a fil di penna. – State tranquilli paesani, – ci dicono, – state tranquilli.
Ecco, ora si dovrebbe essere sotto il tiro. Ma perché non sparano i russi? Di tratto in tratto si vede sulla neve un alpino disteso: sono i nostri compagni del Verona rimasti ieri con le scarpe al sole. Alle prime case sentiamo qualche raffica di arma automatica, poi piú nulla. Giriamo a destra e ci addentriamo in un bosco di querce. Si sprofonda nella neve con tutta la gamba; nel bosco accendiamo un fuoco con delle cassette vuote di munizioni.
Hanno detto di aspettare qui. Ora i russi si sono attestati a quell’altro villaggio laggiú che è come un’appendice di questo primo; e di là bisogna passare perché, ci ripetono, dopo c’è una bella strada da dove ci verranno incontro le motorizzate tedesche. Qui a comandare il mio plotone viene un tenente di Genova. Ma comandare non sa, almeno in queste situazioni, e mette lo scompiglio tra i miei uomini. Tiene sempre una mano sulla fondina della pistola e con l’altra gesticola; grida: – Dovete venire con me, io vi porterò in Italia, a chi si allontana sparo –. E intanto non si assicura che le armi funzionino e quante munizioni abbiamo. Noi non diamo importanza né ai suoi gesti né alle sue parole e io vado a far due chiacchiere con i fucilieri. Attorno al fuoco stanno pulendo i mitragliatori. Faccio portar là le due Breda che sono in grado di funzionare.
– Avanti il Vestone, – si sente ancora. In testa alla compagnia vediamo il capitano; non so dov’è stato finora, lo ritroviamo davanti a noi come una volta. Intanto, da dove siamo partiti stamattina, è salita una lunga colonna di gente. All’orlo del bosco sono appostate delle piccole Katiusce tedesche; guardo con curiosità quelle strane armi e penso con raccapriccio al rumore che faranno sparando.
Gli ufficiali stanno studiando la manovra. Noi della cinquantacinque dovremo fare un lungo giro e prendere il villaggio quasi alle spalle. Il Valchiese e i battaglioni del 5¡ manovreranno con noi; all’ultimo momento entreranno in azione le Katiusce e i carri armati dei tedeschi. Le autocarrette e i camion vengono abbandonati sulla pista che sale quassú. Passando vicino vediamo gli autisti che rendono inservibili i motori e levano la benzina per darla ai carri armati. Sulla neve sono sparsi pacchi di marchi nuovi e dalle casse sfondate escono circolari, ruolini, registri, ecc., e sono contento di vedere la fine di queste cose.
Da una autocarretta vedo scendere il tenente Moscioni. Cammina zoppicando sulla neve, è pallido, stringe i denti e viene avanti rigido e lungo. Lo chiamo e vado verso di lui. Mi chiede subito del suo plotone e della compagnia: – Ecco lí il suo plotone, signor tenente, andiamo –. Tante cose avrei da chiedergli e lui a me. Ma ci guardiamo felici di esserci ritrovati.
Camminiamo nella neve alta, si avanza a fatica. Portando le armi si sprofonda ed è una pena tirar su la gamba dalla neve e mandarla avanti per fare il passo. Siamo tutti stanchi e mi diventa sempre piú difficile far dare il cambio ai portatori. Il tenente X... vuole imporsi, ha sempre la pistola in mano, ma mi accorgo che non l’ascoltano e non hanno fiducia in lui: grida troppo.
Anch’io porto il treppiede per il mio tratto. C’è tanto sole, ora, e si suda. Siamo allo scoperto, e cosí sulla neve si è proprio un bel bersaglio. Cammino con l’animo sospeso pensando: «Se sparassero con i mortai? Per le loro armi automatiche siamo ancora troppo lontani». Mi accorgo che non tutti gli uomini del plotone mi seguono, anche i miei amici se ne accorgono e mi chiedono: –
Perché non vengono con noi? – Stiamo uniti, animo, ce la faremo, – dico, – siamo del peso noi –. Antonelli inveisce sempre piú, sprofondando sotto il peso dell’arma.
È in gamba veramente; bestemmia e impreca ma va sempre avanti e l’arma della sua squadra se la porta quasi sempre lui. Il tenente, che non vuole sentire bestemmiare, rimprovera Antonelli. Antonelli bestemmia piú forte e lo manda al diavolo. Come ho vivo questo ricordo!
Gli altri plotoni continuano a camminare in ordine sparso alla nostra destra; noi dobbiamo proteggere la sinistra della compagnia, i russi potrebbero capitare da qui. Il capitano è in testa a tutti e ci grida di camminare piú in fretta. Sento le voci di Pendoli, di Cenci, di Moscioni che incitano i loro plotoni. D’un tratto, sotto la crosta di terra che mi copre il viso, sento d’impallidire; ho sentito alcuni colpi di partenza. Ecco il sibilo: mortai. Le bombe passano sopra di noi e vanno a scoppiare cinquanta metri piú giú dove non c’è nessuno. – Avanti, presto, avanti, – dico. Ma come si fa? – Avanti, laggiú c’è una balca dove ci si può defilare. Avanti presto –.
Tutti vogliono stringersi intorno a me. – Sparpagliatevi,
– grido. – A sinistra –. Ecco un rombo lungo, ossessionante; lo conosco bene ma non sembra cosí furioso come allora. Alzo la testa e come vedo che le scie delle bombe a razzo vanno in direzione dei russi mi rallegro.
– Sono per loro! – grido, – sono i tedeschi che sparano
–. Dove cadono i colpi vediamo delle isbe che si incendiano e subito i mortai russi cessano di sparare su noi.
Alle prime case del villaggio si ode una nutrita sparatoria; lí c’è il Valchiese, noi siamo piú avanti di loro e dobbiamo fare un lungo giro. Il tenente, intanto, continua a gridare impugnando la pistola. Vede russi dappertutto, scambia per russi anche i plotoni della nostra compagnia e vuole piazzare le armi ogni cento metri puntandole in direzioni fantastiche. Era pazzo, credo, o sulla via di diventarlo.
Nel frattempo, a causa della confusione creata dal tenente, e del tempo che si perdeva a cambiare i portatori, i rimanenti plotoni della nostra compagnia ci avevano distaccati di un bel po’. Il capitano ci urlava da lontano:
– Fate presto –. E se la prendeva con me. Ed era giusto che bisognava fare presto, perché in caso di attacco noi si restava tagliati fuori né potevamo appoggiare i fucilieri con le pesanti. Accelero. Sudiamo e imprechiamo ma giungiamo in una balca ove si può tirare il fiato. Risaliamo; ora siamo vicini al paese e si sta per completare la manovra. Vedo una massa scura sulla neve e mi avvicino. è un alpino dell’Edolo, ha la nappina verde. Sembra placidamente addormentato, all’ultimo momento avrà visto i pascoli verdi della Val Camonica e sentiti i campanacci delle vacche.
Nel paese, tra isba e isba, passano delle slitte veloci e sento esplosioni di bombe a mano. – Guardate, – grido,
– scappano –. Ancora un poco, avanti. Il giro è compiuto, siamo arrivati alle ultime isbe del paese. Bisogna stare attenti perché sparano anche da pochi metri. Ma invece no; per non restare accerchiati, allíultimo momento se ne sono andati e hanno fatto pochissima resistenza. Sopra il paese grava una nube di fumo nero e puzzolente, delle isbe bruciano, vicino a queste vi sono dei cadaveri: donne, bambini, uomini. Si sentono lamenti e pianti. Un senso di raccapriccio mi invade e cerco di guardare altrove. Ma lí è come una calamita e il mio sguardo vi ritorna.
Ci fermiamo a bere vicino ad un pozzo e caliamo giú le gavette con il lungo palo a bilanciere. Qui sostiamo un poí.
Il colonnello Signorini ci passa accanto, sul volto onesto ha un sorriso di soddisfazione; la manovra è riuscita come in piazza d’armi e ci dice: – Bravi ragazzi –. Simultaneamente tutti sono presi da un sollievo, da un’allegria grande. È finita ora! Ancora pochi chilometri e saremo fuori dalla sacca. Davanti a noi si apre una strada larga e battuta. Il tenente del mio plotone dice: – Avete visto cosa ci voleva? Siamo in Italia ormai. Ve l’avevo detto di venire con me.
Ci raggiungono anche gli uomini del mio plotone che si erano allontanati al principio dell’azione. Li rimprovero; Antonelli non li guarda nemmeno. A ogni modo li carico ora delle armi. Il maggiore Bracchi è giulivo e fiero, si dà attorno per riorganizzare le compagnie del suo Vestone: – Sotto s’cet, forza s’cet! A Pasqua saremo a casa per mangiare il capretto.
Intanto la testa della colonna ci raggiunge, la fine si perde nella steppa. Veniamo a sapere che dove eravamo stamattina sono arrivati i carri russi. – Hanno fatto strage, – ci dicono. La divisione ungherese è rimasta quasi tutta prigioniera assieme a quelli che non avevano abbastanza coraggio o forza per venire con noi. Ma ora tutti corrono avanti creando confusione. In testa, però, ci vuole della gente armata e si sente gridare: – Avanti la Tridentina –. Bracchi grida: – Vestú! Avanti.
Il sole è basso, le nostre ombre si allungano sulla neve. Attorno vi è una distesa immensa, senza case, senza alberi, senza il segno di un uomo, solo noi e la colonna dietro di noi che si sperde in lontananza dove il cielo si unisce alla steppa.
Camminiamo. Guardando in giro mi accorgo che sulla nostra via, un poco fuori mano, vi sono dei cavalli sbandati. Riesco a prenderli. Sul piú forte proviamo a caricare le due Breda e le munizioni. Ma il capitano non vuole. Dice che le armi bisogna averle sempre pronte. E cosí ci tiriamo dietro i cavalli e le armi in spalla. Dopo un po’ un cavallo se lo prende il capitano e vi monta sopra. È molto stanco e ha la febbre. Un cavallo se lo prende Cenci per il suo plotone. Su quello che mi resta carico gli zaini dei portatori.
Ora non c’è piú il sole e si cammina ancora. Muti, con le teste basse, camminiamo barcolloni, cercando di mettere i piedi sulle peste del compagno che sta davanti.
Perché camminiamo cosí? Per cadere sulla neve un po’ piú avanti e non alzarci piú.
Alt. Il compagno davanti si è fermato e tutti ci fermiamo. Ci buttiamo sulla neve. Ufficiali superiori italiani e tedeschi su un automezzo cingolato, vicino a noi, consultano carte e bussole. Le ore passano, viene la notte e non ci si muove ancora. Forse aspettano una comunicazione radio. Stando fermi si sente il freddo piú che sempre, e tutto attorno è buio: la steppa e il cielo. Erbe secche e dure escono dalla neve. Fanno nel vento uno strano rumore ch’è il solo che si senta. Nessuno di noi parla. Sediamo sulla neve con la coperta sulle spalle uno vicino all’altro. Siamo ghiaccio dentro e fuori, eppure siamo ancora vivi. Levo dallo zaino la scatoletta di carne di riserva. L’apro, ma mi sembra di masticare ghiaccio, non ha nessun gusto e non vuole andarmi giú; riesco a mangiarne metà e il resto lo ripongo nello zaino. Mi alzo, batto i piedi, mi avvicino al tenente Moscioni. Viene anche Cenci e assieme fumiamo una sigaretta. Non ci diciamo che poche parole, sembra che ci si siano gelate anche le corde vocali. Ma restare in piedi cosí, fumando, ci dà un po’ di conforto. Non pensiamo a nulla, fumiamo e tutto è silenzio. Non si sente nemmeno Antonelli bestemmiare.
– In piedi! In piedi! – si sente infine gridare da qualcuno. Si riparte. È difficile, molto difficile muovere i primi passi; le gambe dolgono, le spalle dolgono, le membra intorpidite dal freddo sembrano non obbedire.
Qualcuno torna a cadere nella neve appena s’è alzato.
Ma un po’ alla volta, piano, piano, le gambe tornano a portare avanti il corpo.
Di nuovo, dunque, si camminava; squadra per squadra, plotone per plotone. Il sonno, la fame, il freddo, la stanchezza, il peso delle armi erano niente e tutto. L’importante era solo camminare. Ed era sempre notte, era neve e solo neve, erano stelle e solo stelle. Guardando le stelle mi accorsi che si cambiava direzione. Ma dove andiamo ora? E sentii che si ritornava a sprofondar nella neve. Dalla sommità di una mugila vediamo in lontananza dei lumi; si vedono anche delle case: un villaggio! Antonelli ritorna a bestemmiare e il tenente a rimproverarlo e lui a rimandarlo nei bassifondi di Verona. E Bodei mi chiede: – Sergentmagiú, ci fermeremo là? – Sí, ci fermeremo, – rispondo forte. Ma che ne posso io sapere, penso, se lí ci fermeremo; o se ci passeremo o se ci sono i russi? – Ci fermeremo, – dico forte per loro e per me. Il maggiore Bracchi passa vicino a noi: – Rigoni, – mi dice, ma in maniera da farsi sentire da tutti. – Là troveremo un’isba calda, Rigoni.
Nel paese però potrebbero esserci i russi e cosí ci prepariamo per l’attacco. La mia compagnia è di punta e il capitano dà le disposizioni. A plotoni aperti scendiamo lentamente la mugila, ogni tanto mi guardo attorno per vedere se gli uomini mi seguono. Tre panzer tedeschi vengono con noi. Accovacciati sopra vi sono i soldati tedeschi vestiti di bianco. Immobili impugnano le pistole mitragliatrici, fumano in silenzio e ci guardano. La colonna si è fermata in alto a vedere che cosa succede.
Improvvisamente, dalla nostra destra, entra velocissima un’autoblinda nera. Passa davanti a noi come un fantasma, sfiora un panzer tedesco e allora gli uomini del panzer si accorgono che è russa. Ma come è apparsa, cosí scompare, e nel cielo si vedono i segni luminosi delle pallottole traccianti che la inseguono invano. Tutto è successo in un tempo cosí breve da rimanere stupiti e increduli. Ma riprendiamo a camminare in direzione del paese. Al suo ingresso vi sono due pagliai che bruciano e due camion che pure bruciano. Questi sono carichi di munizioni che scoppiano e mandano attorno fiamme, scintille e schegge come un fuoco d’artificio. Passando vicino sentiamo il calore e ci si vorrebbe fermare lí a godere quel caldo di paglia, di camion e di munizioni che bruciano nella notte.
Attraversiamo un fiume gelato profondamente incassato tra due rive ripide. Dall’altra parte ci fermiamo ad aspettare i panzer tedeschi. Da un buco fatto nel ghiaccio, forse dalle donne per prender acqua o dai vecchi per pescare, tiriamo su, con le gavette, acqua per bere.
Beviamo quell’acqua fredda e aspettiamo che passino i carri armati battendo i piedi sul ghiaccio.
Ma come faranno a passare di qua i panzer? Risaliamo la scarpata e qualcuno entra nelle prime isbe del villaggio. Ma c’è nervosismo in noi; l’autoblinda di poco prima, i camion incendiati, un silenzio strano. Parliamo sottovoce pensando che i russi non dovrebbero essere lontani. Faccio postare le armi sull’orlo superiore della scarpata. Intanto la colonna si è mossa, scendono lentamente verso di noi come un delta di fiume. Vediamo le strisce nere che si muovono sulla neve piú chiara. Un po’ piú a monte di noi c’è un ponte di legno e i carri armati provano a passare uno alla volta. Ma sono pesanti i panzer e il ponte di legno è piccolo. Ce la farà a sostenerli? Tutta la nostra attenzione è lí sulle assi del ponte.
Il primo passa lentamente. Il ponte traballa tutto e scricchiola. Ora anche gli altri tentano di passare. Due soldati tedeschi sotto il ponte, uno da una parte e uno dall’altra, osservano le travature e ogni tanto gridano qualcosa.
Uno alla volta i panzer passano tutti.
I primi della colonna sono già arrivati alle isbe del paese. I camini fumano. Staranno bollendo le patate, qualcuno dormirà già e noi siamo sempre qui con le armi piazzate. Penso che sarebbe meglio andarcene anche noi al caldo con loro. Chi è che ci fa stare qui al freddo con le armi piazzate? Perché lo facciamo? Il maggiore Bracchi è andato via con un ufficiale tedesco, e i nostri ufficiali ci hanno detto di restare qui. Finalmente qualcuno viene a dirci che possiamo anche noi entrare in paese. Ma poi ci faranno ancora aspettare sulla strada davanti a un grande edificio in mattoni rossi. Poi entriamo. Ci stipiamo nelle stanze. Alcuni hanno trovato anche della paglia, si sono sdraiati e dormono. Tardivel e Artico, i caporalmaggiori del secondo plotone fucilieri, hanno acceso il fuoco in un angolo della stanza e fanno bollire galletta e scatoletta. Il locale è pieno di fumo, ma è vasto e freddo; siamo dentro in due plotoni. Nella tasca del pastrano ho ancora del caffè in chicchi e lo pesto nell’elmetto con il manico della baionetta. Non ho niente da mangiare. Nella cacciatora trovo alcune tavolette di meta, le accendo e con l’acqua della borraccia riempita al fiume tento di farmi un po’ di caffè. Ma l’acqua non vuol saperne di bollire, il meta fa poco calore. Ho sonno, molto sonno, sento che i miei compagni già russano e io sono intestardito a voler fare il caffè e l’acqua non bolle. I fuochi sono spenti e tutti dormono, dalle finestre senza vetri entra il gelo della notte, gli alpini sono uno addosso all’altro per riscaldarsi. Fucili ed elmetti sono allineati attorno alle pareti. Qualcuno nel sonno si lamenta e uno in un angolo, solo e triste, si osserva un piede; poi lentamente se lo sfrega e lo fascia con un pezzo di coperta; si è acceso vicino un mozzicone di candela, l’ha incollato al coperchio della gavetta. L’acqua non bolle ancora e allora butto dentro il caffè pestato e bevo tutto. Mi sdraio, i piedi sono come due pezzi di sasso bianco ma non voglio levarmi le scarpe. Mi rannicchio, vorrei farmi entrare le gambe nel ventre e le braccia nel petto. Ma con questo freddo non si può dormire.
– Allarmi! Allarmi! – Sento il capitano che mi chiama: – Rigoni! Scendi immediatamente con le armi. Adunata, – grida e bestemmia. Io salto in piedi, non ho ancora dormito un minuto, e grido: – Sveglia! Sveglia, fate presto e calma –. Succede un trambusto generale, chi si era levate le scarpe non è piú capace di rimetterle perché i piedi si sono gonfiati e le scarpe sono dure come il legno. Chi cerca il fucile e chi l’elmetto, qualche altro ha un sonno pesantissimo e lo sveglio a scossoni.
Per le scale e i corridoi vi è una confusione peggiore.
Vi sono gli artiglieri del Valcamonica; si passa a fatica non senza inciampare in qualcuno che non si può alzare e si lamenta. Fuori, davanti all’edificio, ci raduniamo.
Molti uomini mancano né si capisce dove siano; mi manca anche un’arma, ma è quella che non funziona. Il capitano entra nell’edificio e nello stanzone trova l’arma che manca. Quando scende se la prende con me. – Capitano, – dico, – l’ho lasciata lí io perché non funziona. È tutta scassata e portarla è un peso inutile. Guardate in che condizioni siamo. Abbiamo anche poche munizioni
–. Ma queste ragioni il capitano non le intende e risalgo io stesso a prenderla.
I plotoni di Moscioni, Cenci, Pendoli sono già spariti, inghiottiti nel buio, in direzioni diverse. Con il tenente che fa il bravaccio andiamo con le tre pesanti verso le ultime isbe a sinistra del paese. Faccio star sotto gli alpini del mio plotone e come un cane da pastore vado avanti e indietro: – Sotto Bodei, forza Tourn, cammina Bosio; venite avanti con le cassette di munizioni –. E cosí arriviamo nel luogo assegnatoci dal capitano. Chissà che cosa è successo, forse ci stanno venendo addosso i russi.
Non riesco a rendermi conto della situazione. Ogni tanto sentiamo degli spari alla nostra destra. Postiamo le armi, pronte per far fuoco; una all’angolo di un’isba e l’altra davanti a un piccolo cocuzzolo. Faccio puntare in due direzioni differenti, cosí a istinto, verso la steppa. È notte fonda, forse le due del mattino, il cielo si copre lentamente e la luna che sta tramontando alle nostre spalle, tra uno squarcio e l’altro delle nubi, illumina la steppa davanti a noi. Quando esce dico ai miei compagni di mettersi nell’ombra.
Il tenente entra nell’isba piú vicina. Sono povere isbe, piú povere delle solite, piccole e fredde anche a guardarle. Ma il tenente esce subito impugnando la pistola.
Mi grida di correre da lui. Vado ed entro con una bomba in mano. Vi sono due donne e dei bambini e vuole che li leghi. Penso che il tenente stia proprio perdendo la ragione. Le donne e i bambini hanno capito e mi guardano con occhi terrorizzati. Piangendo si rivolgono a me parlando in russo. Che voce avevano le donne e i bambini! Sembrava il dolore di tutta l’umanità e la speranza. E la rivolta contro tutto il male. Prendo per un braccio il tenente ed usciamo. Il tenente, sempre impugnando la pistola, entra in uníaltra isba. Lo seguo.
Qui trovo dei soldati sbandati della divisione Vicenza.
Stanno rannicchiati sotto il tavolo, disarmati, semiassiderati, e pieni di paura. Su un letto di ferro c’è un vecchio.
Il tenente mi grida: – È un partigiano, ammazzalo! – Il povero vecchio mi guarda sospirando e tremando tutto da far ballare il letto. – Legalo, se non vuoi ammazzarlo,
– mi grida ancora il tenente. Antonelli è entrato nell’isba e ha visto tutto. Il tenente mi indica in un angolo un pezzo di corda. È proprio pazzo. Mi chino lentamente a prendere la corda; Antonelli leva le coperte al vecchio e mi avvicino. Il vecchio! Il vecchio è un povero paralitico e getto via la corda e dico al tenente: – Che partigiano, e partigiano. È un paralitico! – Il tenente esce dall’isba, si vede che ha ancora un briciolo di ragione. Sotto il tavolo vi sono sempre quei poveri diavoli della Vicenza pieni di paura e io li invito a venire con noi. – Non m’affido; non míaffido, – dicono. E rimangono. Esco con Antonelli e lasciamo in pace quella povera gente.
Sotto, dove è appostata un’arma, proprio sotto terra sento dei bisbigli. C’è una botola. È uno di quei buchi in cui i russi ripongono le provviste per l’inverno: una specie di cantina vicino all’isba. Tiro su la botola. Vediamo giú un lume acceso e donne e bambini stretti lí sotto.
Salgono la scaletta ed escono fuori uno alla volta con le mani alzate. Mi viene da sorridere ma i bambini piangono. Ma quanti sono? Non finiscono mai. Antonelli ride e dice: – C’è un formicaio là sotto –. Mando tutta quella gente nelle isbe e ci vanno contenti e di corsa. Fortuna per loro che il tenente non si è accorto di niente. Dopo un po’ un ragazzino ci porta delle patate calde bollite.
Due bombe di artiglieria passano sibilando sopra di noi e scoppiano all’altra estremità del paese. Mi accorgo che due colonne nella steppa stanno venendo verso di noi. Russi o nostri sbandati? Sono ancora lontani ed è notte. Ogni tanto la luna esce ad illuminare la steppa ma ora s’è fatto quasi completamente buio. Il tenente è ritornato. Si è accorto anche lui della gente che sta venendo verso di noi. Forse è ritornato per questo. – Sparate!
– dice. – Sparate! Avanti, sparate. – No, – dico io, – non sparate; state calmi, non fate rumore.
Le armi erano piazzate, il tenente diceva: – Sparate, sparate vi dico –. E io: – No. Bisogna aspettare che siano piú vicini, abbiamo poche munizioni e poi potrebbero anche essere italiani o tedeschi –.
I pochi uomini che mi sono rimasti dei cinquanta del plotone hanno ancora fiducia in me, e non sparano. – È matto il tenente, – dice Antonelli. – È matto, – dice qualcun altro. – Perché sparare? non c’è nessuna necessità.
Sparano per il paese. Che succede ora? Pallottole sperdute passano miagolando fra gli orti e le isbe; ma il nostro angolo è tranquillo.
Ramazzini, un portaordini in gamba di Collio Valtrompia, viene di corsa e mi dice trafelato: – Presto Rigoni, fa’ presto, bisogna che tu ti riunisca con la compagnia.
Come ombre smontiamo le armi e ce le carichiamo in spalla con le munizioni e, in fila, senza dire una parola, ritorniamo presso l’edificio in mattoni. Non troviamo nessuno dei nostri. La compagnia è partita senza aspettarci.
Il paese è tutto in trambusto. Slitte che si incrociano, ufficiali che gridano, gente che va in ogni direzione. Infine la colonna si forma. Camminiamo in fretta ai lati della pista per portarci avanti e raggiungere la compagnia.
Ma è piú faticoso perché dobbiamo batterci la strada nella neve fresca. Bombe scoppiano davanti e dietro a noi, qualche volta colpiscono in pieno la colonna. Ma è tutto cosí apatico e freddo. Si bada ai colpi di artiglieria come ai morsi dei pidocchi.
Viene l’alba livida e grigia, incomincia a nevicare.
Guardo indietro, siamo rimasti in pochi, forse dieci; ma le armi le abbiamo sempre con noi, manca qualche cassetta di munizioni. Nemmeno il tenente c’è, chissà dove sarà rimasto. Camminiamo ancora ai lati della colonna fiancheggiando un bosco di abeti; siamo tutti bianchi di neve come gli abeti. Un tedesco, aviatore dalla divisa, cammina lentamente davanti a noi, ha i piedi fasciati di stracci, lo sorpassiamo. Sorpassiamo qualche slitta di tedeschi e ungheresi.
Ora si sono fermati tutti perché in testa alla colonna sparano. Noi continuiamo a camminare. Troviamo gli artiglieri alpini, qui siamo tra i nostri, avanti ancora. Finalmente raggiungiamo la nostra compagnia. Il capitano ci vede arrivare e non dice niente. Stiamo fermi; in testa c’è il Valchiese. Si sentono sparare le nostre pesanti e il gruppo Bergamo mette in batteria i pezzi. Bisogna conquistare un altro paese per passare. Ma sparano poco. Si riprende a camminare lentamente e cosí, ora, ci sembra di riposare. Veniamo raggiunti anche da qualche altro alpino del nostro plotone. Qua e là sulla neve si vedono dei bossoli vuoti, macchie nere di scoppi, solchi di cingoli dei panzer.
Il paese è rivolto a levante, dietro una mugila. Scende verso il fondo di una balca ed è circondato da alberi da frutto. Si sentono abbaiare i cani nell’aria chiusa dalla neve. Il maggiore passa tra noi e dice: – Qui riposeremo; andate nelle isbe, mangiate e dormite; forse si ripartirà domattina –. A noi non sembra vero poter riposare tutta una notte. Al caldo tutta la notte!
Scelgo una bella isba verso il centro del paese. Entriamo e mettiamo vicino al fuoco le armi incrostate di neve e ghiaccio. Andiamo in un’altra isba a prendere tre galline (penso che non è giusto prenderle dove siamo ospitati, altri poi verranno a prenderle qui). Siccome il paese è in pendenza e noi siamo in un punto dominante vediamo dall’alto l’affaccendarsi della gente che sta arrivando. Alpini della mia compagnia inseguono un maiale che corre a zig zag sulla neve come un pipistrello; gli sparano anche col fucile.
Infine lo prendono e lo finiscono. Corrono, gridano e ridono; pare un giorno di sagra per loro.
Rientriamo nell’isba a spennare le galline tra le grida di gioia della padrona di casa. Mettiamo l’acqua a bollire; chi porta paglia per il giaciglio, e chi legna.
Infine ci sediamo sulle panche attorno al fuoco. È bello vedere il fuoco; stiamo bene, siamo contenti e non pensiamo a nulla. Ma nemmeno qui si può stare tranquilli. È entrato il capitano. – Rigoni, che cosa fai qui? – mi dice, e si è rotto l’incanto. Guarda le galline, il fuoco, la paglia, la legna. – Che cosa fate qui? – ripete. Entrano anche attendenti, furieri e portaordini. – Rigoni, vai con gli uomini e le armi laggiú in quell’isba –. E il capitano me la indica, attraverso la porta aperta e la neve che cade, giú in fondo alla balca. – Devi andare laggiú e piazzare le armi in quella direzione, – e me la segna con la mano. Dice: – Vi può essere un attacco da un momento all’altro; di partigiani o di soldati. Piazzate le armi e datevi il turno per riposare e riscaldarvi –. Si tiene per sé l’isba calda con il focolare e la paglia e non ci lascia prendere nemmeno le galline. Antonelli bestemmia e anche gli altri imprecano ma come sempre mi seguono.
Questo è peggio che andare all’attacco. Scendiamo verso il fondo del paese. L’isba è vuota e fredda. Postiamo le armi e cerchiamo di sistemarci alla meno peggio. Accendiamo il fuoco. Ma nevica e le armi s’incrostano subito di ghiaccio. Cosí finirà che non potranno sparare e una la porto dentro, e l’altra la piazzo nel vano tra la porta interna e la porta esterna dell’isba, con la canna rivolta verso la steppa.
Poi il capitano ci manda giú due galline, e le cuciniamo nelle gavette. Ci lasceranno tranquilli, adesso. Mi fermo sulla porta a guardar nevicare e sento rumore di motori nell’aria. Sono aeroplani. Volano bassi ma nella neve non si distingue se sono nostri o russi. Il rumore giunge ovattato. Vedo bene però che se ne staccano delle cose oscure e poi che si aprono dei paracadute. Corro ad avvertire il capitano. Penso che siano dei paracadutisti russi. Sono in molti e scendono lentamente sulla mugila di fronte a noi, al di là dei frutteti. Il capitano guarda e non sa cosa dire. Subito, però, veniamo a sapere che non si tratta di paracadutisti russi ma di munizioni, medicinali, benzina lanciati dai tedeschi.
Ritorno al mio plotone, le due galline sono cotte e le dividiamo in quindici. Ma nemmeno adesso possiamo stare in pace: si è fermata qui davanti una slitta carica di feriti del gruppo Bergamo. Un capitano mi chiede ospitalità. – Le altre isbe sono tutte occupate, – dice, – lasciateci entrare. Siamo feriti –. Intanto è giunta un’altra slitta di feriti e cosí lasciamo a loro il posto e il brodo delle galline.
Proviamo a sistemarci in una piccola stalla lí vicino, ma è aperta ai quattro venti. Il capitano ci manda a dire che poco lontano da noi, a protezione del paese, si è appostato un altro plotone di un’altra compagnia e che noi possiamo ritirarci. Ma dove possiamo andare ora a passare la notte? é già quasi buio. Bussiamo a delle isbe: sono tutte occupate. Finalmente riusciamo a trovare i nostri fucilieri. Ci dànno ospitalità. Ma non ci stiamo tutti: sul tavolo, sotto il tavolo, sulle panche, sotto le panche, sopra il forno, per terra. Mi devo accontentare di restare in piedi vicino al forno. Ma fuori c’è la tormenta ora, e qui fa caldo. Anche troppo caldo L’isba è satura di vapore, di fumo, di odori. Tardivel mi chiede se ho mangiato.
Hanno ammazzato una pecora, e mi dà fegato cucinato con la cipolla nel grasso della pecora. È incredibile quanto sia buono il fegato e che buon compagno sia Tardivel che ha fatto tre anni di Africa e otto di naia alpina.
Cenci, che è con il suo plotone in un’isba di fronte a questa, mi manda a dire che se qui siamo troppo stretti qualcuno può andare da lui. Andiamo in quattro.
Mi allungo sotto il tavolo, distendo le gambe e mi sembra che in nessun altro posto del mondo si possa star bene come qui. Il lume a olio si affievolisce sempre piú; Cenci parla sottovoce con un alpino, si sente frusciar la paglia, il fuoco nel forno e il russare calmo dei primi addormentati. E io penso a una luna grande che illumina il lago, a una strada tutta fiancheggiata da giardini odorosi, a una voce calda, a un riso tintinnante e al rumore delle onde sulla riva. È meglio che allora, fuori c’è la tormenta e mi addormento.
Battono. Battono alla porta. Non in modo brusco, in maniera civile, da città; ma insistentemente. Qualcuno si sveglia e brontola. Il tenente Cenci dice: – Chi sarà? –
Battono e si sente la tormenta. Mi alzo al buio e vado ad aprire. Un soldato italiano, a testa scoperta e senza pastrano, mi guarda tranquillamente. Calmo mi dice: –
Buona sera, ingegnere. È in casa suo padre? – Lo guardo fisso. – Buona sera, – dico. – Volete entrare? – E lui:
– é in casa suo padre, ingegnere? – Sí, – dico; – ma dorme. Che volete? – Sono venuto per gli articoli, – risponde, – raccomando a lei la pubblicazione. Ma ritornerò piú tardi quando suo padre sarà alzato. Arrivederci. Ritornerò piú tardi –. E cosí si allontana tranquillamente a capo chino, le mani dietro la schiena, e sparisce nella tormenta e nella notte. Quando rientro Cenci dice: –
Chi era? – Uno che cercava mio padre, aveva degli articoli da pubblicare, ritornerò piú tardi, ingegnere, buona sera –. Cenci mi guarda in silenzio e mi osserva finché io ritorno a sdraiarmi sotto la tavola.
Ci svegliamo di soprassalto: una pallottola è entrata schiantando i vetri della finestra piantandosi nella parete di fronte sopra la mia testa. – Allarmi! Allarmi! – si sente gridare. – I partigiani! – Usciamo con precauzione. Ombre corrono di qua e di là; le pallottole passano per l’aria come vespe. Mi metto sotto una siepe vicino all’isba e aspetto di vedere cosa succede. Da breve distanza una vampata nella mia direzione. Sento la pallottola passarmi sopra. Balzo da un lato, sparo in direzione della vampata e faccio un salto. Silenzio. Poi sento parlare: sono italiani. Per fortuna non ho colpito nessuno.
Li chiamo, mi rispondono e vanno via. Non si capisce cosa stia succedendo, sto li fermo e solo. Dall’altra parte della balca scendono persone gridando: – Taliani non sparare. Deutschen Soldaten! Non sparare. Camarad! – Sono tedeschi ch’erano stati presi per partigiani.
Ma può anche darsi che ci siano stati realmente dei partigiani. Rientriamo nelle isbe, dormiamo ancora un’ora e viene l’alba.
Da quell’alba non ricordo piú in che ordine i fatti si siano susseguiti. Ricordo solo i singoli episodi, il viso dei miei compagni, il freddo che faceva. Certe cose chiare e limpide. Altre come un incubo. Cadenzate dalla voce di Bracchi che ci rincuorava: – Forza s’cet! – O che ci dava gli ordini: – Avanti il Vestone! Avanti il gruppo Bergamo! Avanti il Morbegno!
È mattina, la colonna si divide in due. Il Vestone è di punta nella colonna di sinistra. In testa la mia compagnia. C’è un bel sole e non fa freddo. Da una pista vediamo venire verso di noi degli automezzi, a una certa distanza si fermano. Gli ufficiali guardano con i binocoli: sono russi. Arrivano subito dei cannoni anticarro tedeschi, in fretta li mettono in posizione e sparano qualche colpo. Gli automezzi spariscono nella steppa come sono venuti. Poco dopo, forse mezz’ora, nell’affiorare all’estremità di una mugila, siamo accolti da una nutrita sparatoria di armi automatiche. Stando laggiú in quel paese i russi vedranno spuntare solo le nostre teste e sparano. Le pallottole passano alte. Ritorniamo indietro di qualche decina di metri e aspettiamo. Arrivano le altre compagnie del Valchiese e l’automezzo cingolato tedesco con su gli ufficiali superiori. Ora bisognerà conquistare questo paese per poter passare.
Risaliamo la mugila e scendiamo per l’altro versante verso il paese. Alla nostra destra il Valchiese. Alla sinistra le altre compagnie del Vestone.
I russi riprendono a sparare. Tourn, che cammina qualche passo dietro a me, viene ferito a una mano. Mi grida: – Sono ferito! – E agitando la mano che cola sangue sulla neve, ritorna indietro. Grido di sparpagliarci.
Sparano forte i russi. Ci stendiamo sulla neve cosí allo scoperto e poi riprendiamo a scendere. Dietro a un pagliaio, un po’ piú a destra di noi, si è fermato il capitano con gli esploratori. Li raggiungo con quelli che mi seguono. Sparano tremendamente forte in direzione del pagliaio e quando riusciamo a raggiungerlo tiriamo un sospiro di sollievo. Riparati là dietro proviamo il funzionamento della pesante. Smontiamo, puliamo, facciamo azionare energicamente la massa battente col carrello di armamento e controlliamo la valvola di recupero gas. Le pallottole continuano a passare ai lati del pagliaio e un portaordini, Ramazzini, che viene mandato da Moscioni con un biglietto del capitano, si accascia gemendo su se stesso appena è allo scoperto. Due suoi compagni di squadra e compaesani escono a prenderlo. Lo riportano al sicuro sempre fra le pallottole che sibilano. È stato colpito all’addome e ora geme sulla neve vicino a noi.
Sentiamo dei colpi di partenza e poi vediamo gli scoppi tra le isbe del paese: sono i nostri 75/13 e non ci sembra piú d’essere soli. Ora la pesante funziona e mi porto con Antonelli davanti al pagliaio. C’è una specie di bassa trincea di neve, mettiamo l’arma in postazione e ritorniamo dietro il pagliaio a prendere le munizioni.
Tutto il paese è lí davanti a noi, ora. Siamo l’arma, Antonelli e io. Gli altri sono dietro il pagliaio, o piú su, immobili nella neve. Spariamo a delle slitte che passano veloci tra uno steccato e l’altro e a un gruppo di soldati russi che stanno entrando in un’isba. Vediamo la loro sorpresa. Ma ora ci hanno visto e sparano anche loro. I nostri compagni riprendono ad avanzare. Quelli del Valchiese, lassú a destra, sono alla nostra altezza, camminano a fatica nella neve alta e i russi sparano. Sentiamo le raffiche. Alpini si trascinano lentamente indietro e altri si sostengono a vicenda. Mi porto con l’arma piú avanti e piú a sinistra per dominare meglio il paese. Riprendiamo a sparare. L’arma non inceppa un colpo, tutto sembra regolare. Io introduco caricatori e osservo il tiro, Antonelli spara. Da dietro il pagliaio il capitano grida: – Spara! Spara! Spara! – Ma finiamo le munizioni e grido: – Portateci munizioni –. Bodei, Giuanin e Menegolo camminano curvi verso di noi con tre cassette da trecento colpi. Dietro il pagliaio è arrivata una cassa grande, da basto, che avevano i conducenti della cinquantaquattro. Camminano curvi perché i russi sparano sul serio e vado loro incontro per aiutarli.
Il tenente Cenci osserva con il binocolo il paese e da una trentina di metri mi grida: – Rigoni attento! Vi sono dei russi che passano a gruppi sotto quel ponte in principio del paese. Io vedo quando partono. Tu puoi vederli appena sbucano di sotto al ponte. Ti avviserò delle partenze e tu allora tienti pronto a sparare. Eccoli che partono –. Io vedo che i russi escono correndo di sotto il ponte, li vedo per pochi metri, e poi saltano in un fosso.
Puntiamo l’arma in quel passaggio obbligato, saranno duecento metri da noi. Cenci grida: – Pronto Rigoni! – e Antonelli che ha gli occhi fissi laggiú spara. Cenci grida:
– Pronto! – Antonelli spara e io introduco caricatori. I russi corrono. Ma sparano anche su di noi. Proprio su Antonelli e me. E le pallottole passano vicinissime. Due colpiscono l’arma: a una gamba del treppiede e sotto lo zoccolo dell’alzo: e pallottole entrano nella neve sollevando piccoli spruzzi davanti, di fianco e dietro a noi.
Antonelli bestemmia: la nostra pesante si è inceppata.
Mi alzo in piedi e apro il coperchio dell’arma. Una cosa da poco. Antonelli bestemmia e mi dice: – Abbassati che ti ammazzano –. Riprendiamo a sparare e mi posto davanti una sull’altra le cassette di munizioni. «Qualcosa ripareranno», penso.
Una ventina di metri dietro a noi c’è il tenente scomparso. Quello che avrebbe dovuto comandare il mio plotone. Sento che si lamenta e chiama. È ferito a una gamba. Gli grido che si ritiri da lí. Ma non si muove. Allora lo vengono a prendere due soldati della nostra compagnia, e io non l’ho piú rivisto. So che la gamba ferita gli andò in cancrena e che morí su una slitta, sicché ora mi sembra che fosse un buon diavolo anche lui.
I plotoni fucilieri che si sono distesi sulla neve un po’ dietro a noi si alzano e inastano la baionetta. Quelli del Valchiese scendono e anche gli altri che sono piú in là. Il nostro capitano è tra i primi e grida ordini imbracciando un parabellum russo. Andiamo anche noi ma l’arma è arroventata e cosí Antonelli che vuole prenderla per la canna, si scotta le mani. Ora ci raggiungono anche gli altri compagni di plotone. I russi non aspettano di venire alle corte e se ne vanno. Piazziamo ancora la pesante e spariamo a quelli che ritardano. Siamo alle prime isbe e qualcuno lancia delle bombe a mano. Intanto scendono sferragliando i carri armati tedeschi. Ho trovato per terra un disco rosso, di quelli che usano le autocolonne per le segnalazioni, e con questo mi metto a sbracciare in direzione dei panzer segnando via libera. I tedeschi passano ridendo. Appena entrano nel paese, quelli che sono sui carri saltano agilmente a terra, e io osservo il modo che hanno di occupare le isbe. Dànno un calcio alla porta, balzano da un lato, spianano la pistola mitragliatrice e poi pian piano guardano dentro. Dove vedono mucchi di paglia sparano dentro qualche colpo. E scrutano con le pile negli angoli bui e nei sotterranei.
Mi metto a girare da solo il paese. I borghesi sono quasi tutti scomparsi. I soldati nostri che entrano nelle isbe non fanno come i tedeschi. Aprono le porte e varcano le soglie senza sospetto. Mi imbatto in una pattuglia del genio alpino. Rimango meravigliato a vederli in quel luogo e chiedo loro di Rino. – È qui con noi, – mi dicono, – o almeno lo era sino a un momento fa –. E mentre parlo con loro vedo Rino attraversare di corsa la strada. Anche lui mi vede; ci chiamiamo e siamo uno nelle braccia dell’altro. Ha l’elmetto calcato in testa, stringe nella mano il moschetto e con l’altra mano mi afferra il collo. Rino! Tutta la mia giovinezza mi vedo davanti, il mio paese, i miei cari. Siamo stati a scuola insieme. Lo ricordo com’era da ragazzo e mi vien voglia di chiedergli perché sia cresciuto. Ma non so dirgli nulla.
Vedo il suo ardore, il suo desiderio di rendersi utile, di fare qualcosa per chi non sa fare o anche per chi non vuol fare, poi mi accade di trovarmi nuovamente solo.
Non so come sia stato, ed entro in un’isba per tornare subito fuori. Un cavaliere tedesco passa a galoppo per il paese gridando: – Ruski panzer! Ruski panzer! – Il rumore dei motori gli è dietro. Sento anche lo sferragliare dei cingoli. Impallidisco, vorrei farmi piccolo in modo da potermi cacciare in un buco da topo. Mi metto dietro a uno steccato e attraverso le fessure vedo i carri armati che passano a meno di un metro di distanza. Trattengo il fiato. Su ogni carro vi sono dei soldati russi con armi automatiche in pugno. È la prima volta che ne vedo in combattimento cosí da vicino. Sono giovani e non hanno la faccia cattiva, ma solo seria e pallida, e compunta, guardinga. Indossano pantaloni e giubboni imbottiti. In testa hanno il solito berrettone a punta con la stella rossa. Avrei dovuto sparare? I carri erano tre, passarono l’uno dopo l’altro rasente allo steccato, spararono qualche raffica cosí a caso e scomparvero. Io mi precipitai verso un’isba. Dentro c’erano tre ragazze. Erano giovani e mi sorridevano tentando cosí di indurmi a non cercare quello per cui ero entrato. Trovai del latte e ne bevetti un poco; e, in un cassetto, tre scatole di marmellata, alcune gallette, del burro. Tutta roba italiana presa forse in qualche magazzino militare abbandonato. Le tre ragazze, ora, quasi piangevano e mi si facevano attorno con preghiere. Mi sforzai di spiegar loro che quella era roba italiana e non russa, e che quindi potevo prendermela, e che avevo fame e che i miei compagni avevano fame. Ma le ragazze quasi piangevano, mi guardavano supplichevoli, e cosí lasciai loro una scatola di marmellata e un pacchetto di burro. Uscii con il resto della roba rosicchiando una galletta. Le tre ragazze guardavano per terra e dicevano: – Spaziba.
Fuori feci in tempo a vedere le ultime cannonate che si scambiavano i carri russi e tedeschi. Mentre ero nell’isba non avevo sentito niente. Le ragazze mi avevano fatto dimenticare la guerra per un attimo. Seppi piú tardi che il cavaliere passato poc’anzi gridando aveva avvisato i carri tedeschi che si erano appostati fuori dal paese. E i carri russi, ora, bruciavano tutti, e sulla neve si vedevano i segni del breve combattimento: solchi di improvvise virate, di giri viziosi, di fermate brusche, e chiazze nere di olio e d’altro. Un carro era stato colpito nei cingoli e i cingoli segnavano la neve come due strisce nere tracciate su un foglio bianco: tristi come moncherini di una cosa già viva. Cadaveri bruciavano vicino ai carri. Dei soldati russi che scesero da un carro caddero subito sulla neve. Un tedesco si avvicinò cauto, strisciando quasi, e da pochi centimetri sparò nella nuca ai russi.
Gli altri tedeschi, da poco piú lontano, facevano fotografie e ridevano, agitavano le braccia e parlavano, mostrando sulla neve i segni del combattimento. Ma da un carro russo che bruciava partí una raffica di arma automatica in direzione dei tedeschi e questi si sparpagliarono subito come uno stormo di uccelli. Due salirono sul loro carro e tirarono un colpo di cannone al carro russo e questo, colpito nella riserva delle munizioni, saltò in aria come si vede qualche volta al cinematografo. Io assistevo all’accaduto da non molto lontano, e tutti i russi che avevo visto passare di dietro a un semplice steccato, ora erano lí, morti, nella neve.
Gli alpini del mio e degli altri plotoni si erano radunati nelle vicinanze e io vado da loro. Distribuisco quel po’ di roba che avevo trovato nell’isba e per me spalmo su una galletta un po’ di burro e marmellata. Il capitano ha visto; mi chiama e mi rimprovera davanti a tutti, perché, dice, questo non è il momento di mangiare o di pensare a mangiare e mi fa mettere via ogni cosa. Forse ha la febbre il capitano; non rispondo e mi ritiro in disparte. Poi il capitano mi chiama e mi dice: – Dài qualcosa anche a me da mangiare.
Lasciamo il paese. Incontro Rino un’altra volta. – Ho bevuto un secchio di latte, – mi dice, e sorride.
Attraversiamo una palude gelata. Vi sono erbe alte e dure che potrebbero nascondere qualche sorpresa e procediamo cauti. La mia compagnia è in testa; le pattuglie di Cenci e Pendoli braccano il terreno davanti a noi, subito dopo vengo io; dietro vi sono le altre compagnie del Vestone, gli altri due battaglioni del sesto, le batterie del secondo da montagna, gli altri battaglioni del quinto, e poi l’interminabile fila degli sbandati. Italiani, ungheresi, tedeschi. Feriti, congelati, affamati, disarmati.
Sulla sommità di una mugila è apparso un carro russo e spara qualche colpo sulla colonna, ma un 75/13 della diciannove è pronto a rispondere e il carro russo scompare. Il maggiore Bracchi, il nostro capitano, un ufficiale tedesco, un maggiore di artiglieria sono dietro a noi e di tanto in tanto ci gridano degli ordini. Ci avviciniamo a un gruppo di costruzioni, magazzini per il grano forse.
Da uno di questi vediamo uscire gente che agita le braccia, grida verso di noi e ci viene incontro. – Sono dei nostri, sono dei nostri! – gridiamo. Pensiamo a mille cose ma la piú forte è: sono italiani, soldati italiani che ci vengono incontro dall’altra parte. «Siamo fuori dalla sacca», pensiamo. Diventiamo tutti allegri. Viene il desiderio di fare capriole sulla neve. Antonelli grida e canta.
Camminiamo piú lesti e leggeri verso di loro, sembra di volare e di non arrivare mai. Ma l’illusione dura solo pochi minuti. Quando siamo vicini ci accorgiamo che sono senza armi. Vorrebbero abbracciarci. Sono qualche centinaio. Nella confusione, apprendiamo, in poche parole, che sono stati prigionieri dei russi, che dalle fessure delle baracche dov’erano custoditi hanno visto il combattimento volgere in nostro favore, e che le sentinelle russe sono scappate al nostro avvicinarsi. Noi vorremmo saper dell’altro, ma Bracchi taglia corto e li manda in coda alla colonna.
Cala la sera e camminiamo sempre nella steppa. Vediamo dei soldati italiani stesi rigidi nella neve uno di fianco all’altro. Dal colore delle fiamme e dal numero noto che sono del genio alpino della divisione Cuneense. La pista è dura, lucida di ghiaccio levigato dal vento.
Porto in spalla l’arma della Breda 37, e scivolo, e cado.
Mi rialzo, cammino e di nuovo cado. Quante volte cosí?
La compagnia ha serrato le file e si cammina in fretta. Il maggiore Bracchi mi cammina al fianco, mi guarda e tace. È notte: si cammina e ancora cado. Poi rimango indietro e Bracchi mi dice: – Forza, ci arriveremo –. Ma quanto è lontano ancora? Ora è qui anche il nostro generale. Ci sorpassa su un automezzo tedesco. Si ferma e ci guarda: – Bravi ragazzi, bravi ragazzi, – ci dice. Ci guardava passare uno per uno dall’automezzo. Dopo ci raggiunge ancora, cammina un poco con noi e dice forte: – Ancora poche ore e poi saremo fuori, a pochi chilometri c’è un caposaldo tedesco.
Un mio compagno, finalmente, mi dà il cambio a portare l’arma. Si cambia direzione. Gli ufficiali si sono fatti seri; tra loro dicono che una colonna di russi si è infiltrata fra noi e il caposaldo tedesco. Quando ci fermiamo a pernottare in un villaggio è notte. Non ne possiamo piú, siamo disperati di fatica, di freddo, di fame, di sonno.
Le scarpe le abbiamo di vetro sulla neve. Ci sentiamo nelle tasche le lettere che non possiamo spedire. «Avanti s’cet, forza s’cet». Polenta e latte in una cucina al caldo. «Ghe rivarem a baita?» Avanti, forza. E si cade per terra. Ma ora c’è un villaggio a cui siamo arrivati.
I panzer tedeschi si fermano alle prime isbe, noi andiamo alle ultime. Le isbe sono vuote e il villaggio è deserto. Le porte sono chiuse a chiave. Dobbiamo scardinarle per entrare. Il forno dell’isba dove siamo entrati è ancora caldo, ma non c’è nessuno. È un’isba pulita e tiepida; davanti alle icone arde ancora il lumino e vi sono tende alle finestre e drappi e fotografie alle pareti.
Chi porta legna e chi paglia. Nella stalla vicina vi sono due pecore e un maiale. Le pecore le diamo agli altri plotoni e noi ci ammazziamo il maiale.
A comandare il mio plotone mandano un ufficiale che ha la fama di iettatore. Entra nell’isba, si pianta in mezzo con le mani in tasca e comanda. Vuole che la paglia sia ben sparpagliata, le coperte tese e allineate, il pavimento pulito, e che il maiale venga cucinato cosí e cosí. Ha due occhi cattivi e duri, ed è alto e rigido. Comanda. Ma i miei compagni hanno piú buon senso di lui, non rispondono nulla, non dicono nulla, e continuano a fare come hanno sempre fatto da quando mi trovo con loro. «Domattina, penso, – vado dal capitano e, se non basta, dal maggiore e dal colonnello. Non voglio questo ufficiale nel mio plotone. Sono piú che sufficiente io. Se no mi mandino uno come Moscioni o Cenci».
Vengo a sapere che in un’isba vicina c’è Rino e vado a chiamarlo. Ho voglia di averlo con me, stanotte. Poi arrostisco sulla brace un pezzo di maiale e seduti sulla paglia mangiamo assieme. Infine ci sdraiamo, coprendoci con le coperte e i pastrani. Il tepore di un corpo riscalda l’altro, l’alito di uno riscalda il viso dell’altro, ogni tanto socchiudiamo gli occhi e ci guardiamo. Quanti ricordi fanno groppo alla gola. Vorrei parlare di casa nostra, dei nostri cari, delle nostre ragazze, dei nostri monti; degli amici. Ti ricordi, Rino, quella volta che l’insegnante di francese ci disse: – Una mela guasta può far marcire una mela sana, ma una mela sana non può sanare una mela guasta? – E la mela guasta ero io e la sana tu. Ricordi, Rino? E prendevo sempre quattro e tre. Tante cose vorrei dirti e non sono capace di augurarti la buona notte. I nostri compagni già dormono e noi ancora no. Fuori c’è la steppa desolata e le stelle che splendono di sopra a quest’isba sono le stesse che splendono di sopra alle nostre case. Ci addormentiamo.
Al mattino vado dal capitano a chiarire la situazione del mio plotone. Il capitano ne parla al maggiore. L’ufficiale nuovo viene mandato via e non lo vedrò piú. Sarà andato a far l’eroe fra gli sbandati. Cosí, da ora, rimarrò solo a comandare il plotone. Quei venti uomini che sono rimasti sono contenti e io pure. Antonelli piú di tutti.
Il sole nel cielo limpido ci riscalda le membra indolenzite e si continua a camminare. Che giorno è oggi? E dove siamo? Non esistono né date né nomi. Solo noi che si cammina.
Passando per un villaggio vediamo dei cadaveri davanti agli usci delle isbe. Sono donne e ragazzi. Forse sorpresi cosí nel sonno perché sono in camicia. Le gambe e le braccia nude sono piú bianche della neve, sembrano gigli su un altare. Una donna è nuda sulla neve, piú bianca della neve e vicino la neve è rossa. Non voglio guardare, ma loro ci sono anche se io non guardo.
Una giovane è con le braccia aperte, e ha sul viso un lino bianco. Ma perché questo? Chi è stato? E si continua a camminare.
Passiamo per una valletta stretta e deserta. Cammino con angoscia, vorrei che se ne fosse già fuori; mi sembra di soffocare. Guardo da tutte le parti con apprensione.
Ascolto e trattengo il fiato. Vorrei correre. Mi aspetto di veder comparire da un momento all’altro le torrette dei carri armati e di sentire le raffiche delle mitragliatrici.
Ma passiamo.
Ho fame. Quando ho mangiato l’ultima volta? Non ricordo. La colonna passa tra due villaggi distanti tra loro pochi chilometri. Lí ci sarà certamente qualcosa da mangiare. Dalla colonna si staccano dei gruppetti che vanno verso i villaggi in cerca di cibo. Gli ufficiali gridano, dicono che potrebbero esservi dei partigiani o delle pattuglie russe. Soldati del mio plotone vanno anch’essi in cerca di cibo. Durante una breve sosta ci fermiamo a bere ad un pozzo e poi vado in un’isba che mi sembra la piú vicina. Ma è una delle piú vistose ed è già stata visitata da molti. Non vi trovo che un pugno di fettine di mele essiccate che i russi usano per fare i decotti.
Si cammina e viene ancora notte. È freddo: piú freddo di sempre, forse quaranta gradi. Il fiato si gela sulla barba e sui baffi; con la coperta tirata sulla testa si cammina in silenzio. Ci si ferma, non c’è niente. Non alberi, non case, neve e stelle e noi. Mi butto sulla neve; e sembra che non ci sia neanche la neve. Chiudo gli occhi sul niente. Forse sarà cosí la morte, o forse dormo. Sono in una nuvola bianca. Ma chi mi chiama? Chi mi dà questi scossoni? Lasciatemi stare. – Rigoni. Rigoni. Rigoni! In piedi. La colonna è partita. Svegliati, Rigoni -. È il tenente Moscioni che mi chiama quasi con angoscia e aprendo gli occhi lo vedo curvo su di me. Mi dà un paio di scossoni e vedo bene il suo viso ora, e i due occhi scuri che mi fissano, la barba dura e lucente di brina, la coperta sopra la testa. – Rigoni, prendi, – dice. E mi dà due piccole pastiglie. – Inghiotti, fatti forza, avanti –. Mi alzo, cammino con lui e a poco a poco raggiungiamo la compagnia e capisco tutto... Ma quanti che si sono buttati sulla neve non si alzeranno piú? Cenci e Moscioni mi fanno salire su un cavallo. Ma è peggio che camminare; temo di congelarmi, ridiscendo e cammino. Cenci mi dà una sigaretta e fumiamo. – Di’ Rigoni, che desidereresti adesso? – Sorrido, sorridono anche loro. La sanno la risposta perché altre volte l’ho detta camminando nella notte. Entrare in una casa, in una casa come le nostre, spogliarmi nudo, senza scarpe, senza giberne, senza coperte sulla testa; fare un bagno e poi mettermi una camicia di lino, bere una tazza di caffè-latte e poi buttarmi in un letto, ma un letto vero con materassi e lenzuola, e grande il letto e la stanza tiepida con un fuoco vivo e dormire, dormire e dormire ancora. Svegliarmi, poi, e sentire il suono delle campane e trovare una tavola imbandita: vino, pastasciutta, frutta: uva, ciliege, fichi, e poi tornare a dormire e sentire una bella musica –. Cenci ride, Antonelli ride e anche i miei compagni ridono. –
Eppure lo voglio fare, se ci ritorno, – dice Cenci, – e poi,
– aggiunge, – un mese di mare alla spiaggia, sulla sabbia tutto nudo, solo con il sole che brucia –. Intanto camminiamo e Cenci vede il mare verde e io un letto vero. Ma Moscioni è serio, è il piú consapevole tra noi, ha i piedi nella neve e vede steppa, alpini, muli, neve. Laggiú si vede un lume. Non è il mare verde, non è il letto vero, è solo un villaggio.
Ma quel lume è come quello della favola. Anzi è piú lontano. Non ci si arriva mai. Il villaggio è piccolo e non c’è posto per tutti; siamo tra i primi, ma le isbe sono già tutte occupate. Dovremo forse passare il resto della notte all’aperto. Il capitano, Cenci, Moscioni e una metà della già ridotta compagnia vanno in cerca di alloggio.
Io rimango con il resto degli uomini e il mio plotone.
Il mattino dopo il capitano mi disse che aveva mandato un portaordini: da loro c’era posto per tutti. Ma io non vidi arrivare nessun portaordini, quella notte.
Parte dei miei compagni si sistemarono attorno a un pagliaio coprendosi poi di paglia. Altri andarono non so dove, e io rimasi solo con Bodei davanti a un fuoco.
D’un tratto si sentí belare e Bodei si alzò, andò a prendere la pecora che aveva belato e l’uccise vicino al fuoco. Io l’aiutai a scuoiarla e sul fuoco vivo mettemmo ad arrostire una coscia della pecora per ciascuno. La carne calda e sanguinolenta era incredibilmente buona. E dopo le cosce, abbrustolimmo il cuore, il fegato, i rognoni infilati alla bacchetta del fucile. Attorno al fuoco si abbrustoliva la carne della pecora e l’odore del fumo era grasso e buono. Mangiammo le braciole, e passavano le ore, poi il collo e le gambe anteriori. Vennero da noi, forse attratti dall’odore, due fanti italiani e un tedesco; finirono di mangiare la pecora; anzi spolparono le ossa che Bodei e io avevamo lasciato. Erano senza armi e al posto delle scarpe avevano stracci e paglia legati attorno ai piedi con filo di ferro. Facemmo loro un po’ di posto vicino al fuoco, e se ne stettero lí silenziosi. Non si alzavano nemmeno per andare in cerca di legna e Bodei brontolava; nemmeno il fumo scansavano con la testa.
Io avevo un gran sonno. Mi addormentai ma incominciava l’alba, e di lí a poco mi svegliarono i rumori che sempre precedevano la partenza della colonna. Raduno i miei compagni di plotone. Si va, ma la colonna, invece di proseguire, ritorna sulla pista di ieri. Che succede? Vediamo giú a destra un paese abbastanza grosso.
Dicono che vi sono i russi e che bisogna conquistarlo per lasciare la strada aperta agli altri dei nostri che seguiranno. – Avanti il Vestone! – gridano in testa, e ci fanno passare. Ora son pronti a farci passare. Ci viene comunicato da che parte attaccare e andiamo ancora una volta. Il plotone di Cenci e Moscioni a destra, io al centro e un po’ arretrato con la pesante, poi le altre compagnie del battaglione, infine i tedeschi. Da un fosso vengono fuori dei soldati russi con le mani alzate e i nostri li disarmano. Si sente qualche sparo qua e là, ma fiacco. Il maggiore Bracchi ci segue e ogni tanto ci grida degli ordini. Vediamo altri soldati russi che se ne vanno.
Non sembra una vera battaglia. La pesante non spara nemmeno un colpo. Noi siamo piú in alto e vediamo tutto. Raggiungiamo le prime isbe e aggiriamo il paese.
Troviamo un branco di oche che strepitano. Ne acciuffiamo alcune; e tiriamo loro il collo e ce le portiamo in spalla tenendole per la testa. È stata per le oche la battaglia. Dal centro del paese, dove c’è la chiesa, gridano adunata. È già finito tutto.
Andando in direzione della chiesa vediamo dei camion abbandonati di marca americana, vi sono anche dei cannoni piazzati con le munizioni accanto. Strano che i russi abbiano tanta artiglieria in un piccolo paese.
Ma perché non hanno sparato? Era un caposaldo ben munito. Stanotte la colonna è passata sull’orlo della mugila che sovrasta il paese. È stato là che io mi sono addormentato sulla neve. Non ci hanno sentiti. Eravamo veramente ombre. E mi ricordai di aver visto qualche chiarore nelle vicinanze. E che mi ero detto: «Perché non andiamo lí?» Pensando a queste cose vedo ora un’isba con la porta aperta ed entro. Non mi accorgo che entrando ho scavalcato un morto, un russo, messo di traverso sulla soglia. Nellíisba mi guardo attorno per cercare qualcosa da mangiare. C’è già qualcun altro che mi ha preceduto; vedo cassetti aperti, biancheria, merletti sparsi sul pavimento e cassapanche aperte. Frugo in un cassetto, ma poi in un angolo vedo delle donne e dei ragazzi che piangono. Piangono singhiozzando forte con la testa fra le mani e le spalle che sussultano. Allora mi accorgo dell’uomo morto sulla porta e vedo che lí vicino il pavimento è tutto rosso di sangue. Non so dire quello che ho provato; vergogna o disprezzo per me, dolore per loro o per me. Mi precipitai fuori come se fossi il colpevole.
Vi è di nuovo adunata. Stavolta è davanti alla chiesa.
Si vedono abbandonati dei camion italiani carichi di sacchi di patate secche tagliate a fette e mi riempio le tasche di queste. Sulla neve vi sono pure due botti di vino. Una è sfondata con dentro il vino gelato tutto a scaglie rosse.
Mi riempio la gavetta di scaglie rosse e me ne metto qualcuna in bocca. Un ufficiale dice: – State attenti, potrebbe essere avvelenato –. Ma non era affatto avvelenato.
I tedeschi si prendono tutti i prigionieri russi che abbiamo fatto, si allontanano e poi sentiamo numerose raffiche e qualche colpo. Nevica.
Si riprende a camminare. I reparti si confondono fra loro. Si alza un forte vento freddo. Siamo tutti bianchi.
Il vento sibila tra l’erba secca, la neve punge il viso. Ci attacchiamo uno all’altro. I muli degli artiglieri sprofondano sino alla pancia, ragliano e non vogliono andare avanti. Bestemmie, richiami, urli nella tormenta.
Un’altra notte in un altro villaggio. Non sono isbe quelle laggiú vicino a quegli alberi? Cammino solo in quella direzione; sprofondo nella neve sino al petto e avanzo come se nuotassi sognando un’isba. Raggiungo il punto dove credevo che fossero le isbe e non trovo che ombre. Ombre di che cosa? Torno indietro. Ma poi di nuovo ho l’impressione di vedere delle isbe. E vado da quella parte fino alla riva di un fiume. Anche qui però non c’è niente, ci sono solo tre betulle cariche di ghiaccioli che tendono i rami irsuti di ghiaccio al cielo carico di stelle. Piango in riva al fiume gelato. Dove sono i miei compagni? Avrò la forza di ritornare da loro? Li ritrovo in un edificio di mattoni. Il paese non era che a poche centinaia di metri e io avevo camminato nella direzione opposta. Fa freddo e quel po’ di fuoco che abbiamo acceso manda piú fumo che altro. La stanza è occupata in gran parte da un mucchio di grano. Ci sdraiamo sul grano, tutti sporchi di neve e con le coperte gelate. Sono innumerevoli giorni che non mi tolgo le scarpe e ora me le tolgo per farne sciogliere il ghiaccio e asciugarle. Subito i piedi mi si gonfiano. Le calze non le levo per la paura di vedermi i piedi bluastri con la pelle che si stacca. Mi addormento. Un bagliore improvviso e scoppi di bombe a mano ci svegliano di soprassalto. «Ci siamo», penso.
Non sono capace di mettermi le scarpe che trovo dure come legno. Afferro il moschetto e prendo le bombe a mano. Chi urla, chi piange, uno rompe i vetri della finestra e salta giú scalzo nella neve della strada. Striscio via sul mucchio del grano ad appostarmi dietro la finestra.
C’è un grande incendio, il paese ne è tutto illuminato.
Vedo gente correre tra le fiamme, altri che ne escono e si buttano fra la neve. Entra da noi il tenente Pendoli: –
Non è un attacco, – grida; – non sono i partigiani –. I fuochi accesi dai soldati per scaldarsi hanno provocato l’incendio della chiesa e le munizioni che erano nella chiesa stanno scoppiando. La spiegazione riporta la calma e ritorniamo a sdraiarci sul grano.
Attraverso la finestra senza piú vetri entra un terribile freddo e si vede la neve tutta rossa come inzuppata di sangue.
Che giorno sarà oggi? Vedo che c’è un bel sole e che il cielo è rosa. Sembra una di quelle giornate di marzo che preannunziano la primavera. Giornate piene di speranza. Ci fermiamo, c’è una breve sosta. Con Tourn, Antonelli e Chizzarri canto in piemontese: «All’ombra di un cespuglio, bella pastora che dormiva». Cantiamo tranquillamente e con convinzione, e non siamo pazzi.
Cammina, cammina, ogni passo che facciamo è uno di meno che dovremo fare per arrivare a baita. Attraversiamo un villaggio piú grande dei soliti e con qualche casa in muratura. Si vede che ormai usciamo dalle steppe.
Ci stiamo addentrando nell’Ucraina.
Ogni tanto un soldato corre in una casa e ne torna fuori con un favo di miele biondo. Un soldato del mio plotone ha portato a Cenci un secchio pieno di latte e miele. Cenci beve avidamente. Si direbbe che la bevanda, appena penetrata nello stomaco si tramuti subito in sangue. Ne bevo anch’io. La strada è fiancheggiata di isbe, per chilometri. Ma la maggior parte delle isbe sono chiuse, in quelle aperte non si trova niente. In lontananza risuonano spari. Possono essere partigiani, e affretto il passo lungo la colonna per raggiungere la mia compagnia. Mentre passo vengo insultato e un ufficiale di artiglieria dice: – Sempre cosí questi sbandati.
Sempre i primi ad arraffare e sempre gli ultimi dove c’è da combattere –. Egli mi dà una spinta. – Sono del Vestone, – io gli dico, – sto cercando il mio plotone. Mi chiamo Rigoni. – Rigoni tu? – dice l’ufficiale e ride. È un sottotenente del gruppo Vicenza che mi ha conosciuto in Albania.
La colonna si è fermata. Il maggiore Bracchi e altri ufficiali che sono in testa vengono investiti da una raffica di mitra. Un ufficiale di artiglieria è ferito a un piede.
Bracchi mi grida di portare avanti la pesante. Da un cortile spariamo ai russi che passano di corsa davanti a noi.
Di fianco alla mia pesante è piazzata una vecchia Fiat azionata dagli artiglieri. Sparano bene anche loro. Nel cortile vi sono molti ufficiali superiori che ci osservano.
Mi sembra di essere agli esami di caporale e divento rosso quando l’arma, sprofondando nella neve, mi sposta il tiro e spara troppo corto.
I russi scendono in una balca e si dileguano. Nell’isba vicina è sdraiato sul tavolo il tenente ferito. Lo trovo che scherza con gli altri ufficiali. Vi è anche il generale. Una donna russa porta caffè a tutti e ne dà una tazzina anche a me. Pure la raffica di mitra dev’essere partita da questa stessa casa.
Il grosso della colonna si ferma nel villaggio e noi del Vestone con una batteria alpina, proseguiamo verso un altro villaggio situato a destra sopra una mugila. Vi arriviamo che è notte. Vi entriamo con precauzione, a squadre distanziate, e prendiamo posto nelle isbe. Siamo comodi, un plotone per isba; e il mio, da cinquanta uomini, è ridotto a meno di venti. Troviamo patate, miele, galline, ci prepariamo la cena spensieratamente.
Avremo una buona serata, a quel che sembra, e potremo anche fare una buona dormita.
Rino è in un’isba vicino alla mia, con altri paesani, Renzo, Adriano, Guzzo. Il loro reparto è stato aggregato al mio battaglione in sostituzione di una compagnia rimasta prigioniera. Tornando dalla visita che faccio loro trovo la cena quasi finita e la paglia già stesa per il riposo. Un giovane russo dai lineamenti del viso delicati e nobili si dà attorno per aiutarci; porta dentro legna da ardere, porta fuori tavole e panche per far posto, prepara ciotole e cucchiai. Cammina sciancato e curvo, con le mani che quasi toccano terra e ride continuamente.
Mentre l’osservo mi si avvicina Giuanin a dirmi sottovoce: – Sergentmagiú, qui fuori c’è la paglia piena di armi
–. Esco a vedere. È proprio vero. Sotto un pagliaio vicino allíisba trovo fucili automatici e bombe. Quando rientriamo il giovane sciancato è scomparso. I miei compagni dicono che dev’essere un partigiano in gamba.
Viene il 26 gennaio 1943, questo giorno di cui si è già tanto parlato. È l’aurora. Il sole che sta sorgendo dal basso orizzonte ci manda i suoi primi raggi. Il biancore della neve e il sole abbagliano gli occhi. Abbiamo con noi dei panzer tedeschi.
Una slitta fugge veloce in lontananza, da un carro tedesco partono alcuni colpi e la slitta salta in aria. Ci fermiamo piú avanti ad aspettare il grosso della colonna.
Affacciandoci ad una dorsale vediamo giú un grosso villaggio che sembra una città: Nikolajewka. Ci dicono che al di là c’è la ferrovia con un treno pronto per noi. Saremo fuori dalla sacca se raggiungiamo la ferrovia. Guardiamo giú e sentiamo che questa volta è veramente cosí.
Intanto il grosso della colonna si avvicina a noi. Nel cielo appaiono tre enormi aeroplani, anzi quattro, e si abbassano a mitragliare i nostri compagni. Vediamo le fiammelle che escono da tutte le armi di bordo e la colonna che si sbanda e si sparpaglia. Gli aeroplani risalgono la colonna e poi s’allontanano e ritornano ancora a mitragliare e vanno in giú verso la coda che come una linea nera si perde nella steppa.
Dicono, e continuano a dire, che a Nikolajewka vi siano state tre divisioni di russi. Ma, a giudicare da come le cose si svolsero, io credo di no. Il Vestone, il Valchiese, l’Edolo, il Tirano devono andare all’attacco. La nostra artiglieria s’è piazzata. Il colonnello e il generale consultano le carte e quindi chiamano a rapporto i comandanti di battaglione. Noi del Vestone dobbiamo attaccare a destra. Il luogo di ritrovo è la piazza davanti alla chiesa.
Preparazione di artiglieria non se ne può fare perché vi sono poche munizioni. I bravi artiglieri sono desolati.
Ritrovo Rino. Lo saluto come se si fosse sulla piazza del nostro paese. – A stasera, – gli dico. Saluto gli altri paesani: – In gamba ragazzi, – dico loro. – E conservate sempre la calma.
Con Cenci e Moscioni fumo l’ultima sigaretta. Il capitano ci osserva uno per uno. Infine ci muoviamo. Il mio plotone è l’ultimo a destra. Il capitano è tra il mio e il plotone di Cenci. Poi vengono gli altri. Come usciamo allo scoperto siamo subito accolti da colpi anticarro e da colpi di mortaio.
I miei uomini esitano, si tengono indietro, vi è già qualche ferito e grido: – Avanti, avanti, venite avanti –.
Anch’io esito un poco, ma ormai ci siamo dentro e sarà quel che sarà. Il capitano grida: – Avanti, avanti! – I miei compagni cominciano a seguirmi, e Antonelli e qualche altro mi sorpassano. Ho con me la pesante, ma non abbiamo munizioni.
Dovrebbe portarne giú la squadra di Moreschi. Ma Moreschi ha un po’ paura e i suoi uomini sono come lui. Lo chiamo: – Venite giú; venite avanti, ormai è tutto lo stesso –. I colpi arrivano attorno a noi sprofondando nella neve. Si continua ad avanzare. Il capitano impugna un mitra russo e indicando il paese grida: – Avanti! avanti!
In questo momento penso con accoramento a Rino, e guardo dove sta scendendo il suo reparto. Ora sparano anche con le mitragliatrici; le pallottole si infilano miagolando nella neve accompagnandoci passo per passo.
Qualcuno tra noi è colpito e si abbatte gemendo nella neve. Ma non si può nemmeno fermarsi a vedere chi è.
Grido di sparpagliarci. Ma è inutile perché quando il pericolo è maggiore viene naturale il contrario. Il capitano mi grida di portarmi piú a destra e in alto. C’è una leggera depressione da superare. Cosí formiamo un bersaglio nitidissimo, con il sole in faccia e d’infilata alle mitragliatrici. Vedo Cenci accasciarsi sulla neve e sento che dice forte: – Mi hanno ferito a tutte e due le gambe –.
Due alpini del suo plotone lo riportano indietro. Dovranno risalire allo scoperto fin dove è la colonna. Chissà se arriveranno vivi. Ma aveva la pelle dura Cenci, e l’ho ritrovato sei mesi dopo in Italia.
Il caporalmaggiore Artico prende subito il comando del plotone e davanti a tutti grida: – Secondo e terzo plotone avanti! – Un’arma automatica mi ha preso di mira, spara raffiche brevi e precise: «Ecco, – penso trattenendo il fiato, – adesso muoio». E trattengo il fiato: adesso muoio. Mi allungo in un piccolo avvallamento nella neve e le pallottole battono lí attorno sollevando spruzzi. La saliva mi si impasta in bocca. Non so che cosa penso o che cosa faccio, guardo gli spruzzi di neve a un palmo dalla mia testa. Antonelli e qualche altro mi sorpassano a dieci metri, allora mi alzo e vado ancora avanti.
Guardando a sinistra vedo il reparto del genio muovere all’assalto di un cannone anticarro che sparava su di noi. Dopo un lancio di bombe a mano e una breve mischia il cannone è preso. Quei genieri hanno lo slancio dei primi combattimenti. Sarà perché non ne hanno avuti prima. Io invece mi sento tanto vecchio di guerra al loro confronto.
Ci avviciniamo alla scarpata della ferrovia dietro a cui sono trincerati i russi. Col mio plotone stringo verso il centro. Trovo il sergente Minelli del plotone di Moscioni; perde sangue da varie ferite leggere alla testa e alle braccia; ma ha le gambe fracassate da un colpo anticarro. Si lamenta e piange: – El me s’cet, – dice, – el me s’cet-. Gli faccio coraggio come posso. – Non sei grave,
– gli dico. – Animo Minelli, dietro vi sono i portaferiti, ti verranno a prendere –. So che mentisco, chissà dove diavolo saranno i portaferiti. Forse lassú a vedere come andrà. Ma Minelli mi crede. Mi saluta, mi sorride anche tra le lacrime. Io vorrei fermarmi con lui ma non posso, i miei uomini mi aspettano alla scarpata e Antonelli mi chiama. Minelli riprende a dire: – Il mio bambino, il mio bambino –. E piange.
Spariamo dall’orlo della scarpata; Moscioni ha imbracciato il mitragliatore e spara; spariamo anche con la pesante a dei russi che si ritirano. Ora, qui dietro, possiamo un po’ tirare il fiato; ma siamo in pochi. Guardando per dove siamo scesi si vedono tante macchie nere sulla neve. Ma so anche che nella mia compagnia ve ne sono che si son finti morti per non venire all’assalto. Ora bisogna uscire dal nostro riparo. Inastiamo la baionetta.
Il capitano controlla il funzionamento del suo mitra russo, soffia nella canna e poi mi guarda: – Corajo paese, – mi dice, – la xe l’ultima –. Ci dà gli ordini: – Tu, Rigoni, vai con i tuoi uomini per quella strada. Tu, – dice poi a Moscioni, – vai in un primo tempo con Rigoni e poi gira a sinistra all’altezza di quell’isba. Pendoli, con il plotone comando, e Artico con il secondo e il terzo vengono con me. Andiamo –. Scavalchiamo la ferrovia, siamo accolti da qualche raffica ma ci buttiamo giú per l’altro versante. Io non incontro molta resistenza, il capitano coi suoi due plotoni ne incontra di piú ma poi cedono anche quelli. Alla mia destra noto dei russi vestiti di bianco ma non me ne curo e continuo ad andare avanti. Ora spara anche la nostra artiglieria; vedo russi che corrono attraverso la piazza del paese.
In una delle prime isbe lascio i feriti. Vi è una donna russa e la prego di averne cura. Inoltre lascio con loro, ad assisterli, Dotti della squadra di Moreschi. Con Antonelli e la pesante entro in un’altra isba. Mi sembra un posto ottimo per piazzarvi l’arma. Un soldato del mio plotone mi segue con una cassetta di munizioni. Sfondo una finestra con il calcio del fucile e trascino lí il tavolo coperto da una tovaglia ricamata. Sopra il tavolo postiamo l’arma e spariamo dalla finestra. I russi sono a un centinaio di metri, di schiena. Li cogliamo di sorpresa, ma dobbiamo fare economia di munizioni. Mentre spariamo i ragazzini dell’isba si stringono piangendo alle gonne della mamma. La donna, invece, è calma e seria.
Ci guarda silenziosa.
Durante una pausa vedo spuntare di sotto a un letto gli stivali di un uomo. Sollevo la coperta e lo faccio venir fuori. È un vecchio alto e magro che si guarda attorno spaurito come una volpe nella tagliola. Antonelli ride e poi fa il gesto di dargli un calcio nel sedere e lo manda dov’è la donna coi bambini.
Spariamo qualche raffica a un gruppo di russi che stanno trascinando un cannone anticarro. Non ci restano piú che tre caricatori.
Usciamo dall’isba e incontriamo Menegolo che veniva in cerca di noi con una cassetta di munizioni. Mi irrito perché non vedo comparire Moreschi con le altre cassette. Antonelli e Menegolo postano l’arma all’angolo di un’isba; io un po’ piú avanti, alla loro destra, indico dove devono sparare e sparo con il moschetto attraverso le fessure di uno steccato. Siamo sempre quasi alle spalle dei russi e rechiamo loro molto fastidio. Spero intanto che la colonna si decida a scendere da dove l’abbiamo lasciata ferma. Dopo un po’ che spariamo i russi riescono a individuarci e un colpo d’anticarro porta via l’angolo dellíisba pochi centimetri sopra alla testa di Antonelli. – Spostiamoci, – gli grido. Ma Antonelli si mette a cavallo del treppiede e dice: – Adesso li ho proprio di mira –. E spara ancora.
Il tenente Danda con qualche soldato della cinquantaquattro (credo) vuole attraversare la strada e venire dove siamo noi, ma da una casa vicina partono dei colpi e rimane ferito a un braccio.
La nostra artiglieria non spara piú da un pezzo. Avevano pochi colpi, li avranno sparati tutti. Ma perché non scende il grosso della colonna? Che cosa aspettano? Da soli non possiamo andare avanti e siamo già arrivati a metà del paese. Potrebbero scendere quasi indisturbati ora che abbiamo fatto ripiegare i russi e li stiamo tenendo a bada. Invece c’è uno strano silenzio. Non sappiamo piú niente nemmeno degli altri plotoni venuti all’attacco con noi.
Compresi gli uomini del tenente Danda saremo in tutto una ventina. Che facciamo qui da soli? Non abbiamo quasi piú munizioni. Abbiamo perso il collegamento con il capitano. Non abbiamo ordini. Se avessimo almeno munizioni! Ma sento anche che ho fame, e il sole sta per tramontare. Attraverso lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d’occhio. Corro e busso alla porta di un’isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mniè khocetsia iestj, – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste piú. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. –
Spaziba, – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta, – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.
Cosí è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto piú del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.
Tornato tra i miei compagni appendiamo il favo di miele al ramo di un albero e un pezzo per uno ce lo mangiamo tutto. Io poi mi guardo attorno come risvegliandomi da un sogno. Il sole scompare all’orizzonte. Guardo l’arma e i due caricatori che ci sono rimasti.
Guardo per le strade deserte del paese, e mi accorgo che da una di esse avanza verso di noi un gruppo di armati.
Sono vestiti di bianco e procedono con sicurezza. Sono nostri? Sono tedeschi? Sono russi? Giunti a qualche decina di metri da noi si fermano e ci guardano. Sono incerti anche loro. Poi sentiamo che parlano. Sono russi.
Ordino in fretta di seguirmi e mi butto tra le isbe e gli orti. Antonelli e Menegolo mi vengono dietro con l’arma. Tutti mi guardano perplessi come se aspettassero di vedermi compiere un miracolo. Mi rendo conto che la situazione è disperata. Ma non ci passa per la testa di darci prigionieri. Un alpino, di non so quale compagnia, ha un fucile mitragliatore ma non munizioni; un altro mi si avvicina e dice: – Ho piú di cento colpi –. Sporgendomi di sopra a uno steccato sparo un paio di caricatori con il mitragliatore a un gruppo di russi poco lontani e poi passo l’arma a un alpino: – Spara, – gli dico. Da sopra lo steccato l’alpino spara ma poi mi cade rantolando ai piedi, colpito alla testa. Riprendo a sparare con il mitragliatore e i russi si diradano. I cento colpi sono già finiti. Anche Antonelli ha finito le munizioni e ora smonta la pesante e ne disperde i pezzi nella neve. La nostra compagnia perde cosí la sua ultima arma.
Siamo meno di una ventina di uomini. – Animo, – dico, – preparate tutte le bombe a mano che avete, gridate, fate baccano e poi seguitemi –. Sbuchiamo fuori dallo steccato. Siamo in quattro gatti ma facciamo baccano per tre volte tanto e le bombe fanno il resto. Non so se siamo stati noi ad aprirci la strada o se i russi ci abbiano lasciato passare; il fatto è che ci siamo messi in salvo.
Raggiungiamo di corsa la scarpata della ferrovia, e ci infiliamo in un condotto che l’attraversa, ma come metto fuori la testa dall’altra parte vedo che lí davanti la neve è coperta di cadaveri. Una raffica mi passa rasente al muso. – Indietro, – grido, – indietro! – Ritorniamo fuori l’uno dopo l’altro da dove siamo entrati. Mi getto in una piccola balca e sempre correndo ne risalgo il fondo. I miei compagni mi seguono. Costeggio una siepe e sento arrivare dei colpi alle nostre spalle. Giungiamo alle isbe di dove, al mattino, tiravano su di noi con gli anticarro.
Ci fermiamo un attimo a riprender fiato e a guardarci.
Ci siamo ancora tutti. Dall’isba piú vicina vedo uscire il tenente Pendoli. – Rigoni, – mi chiama, – Rigoni, venite qui a prendere il nostro capitano che è ferito. – Ma gli altri, – chiedo, – dove sono? – Non c’è piú nessuno, – risponde il tenente Pendoli. – Andiamo a prendere il capitano, – dico ai miei compagni. Ma dalle isbe attorno, e dalle siepi, dagli orti, vengono fuori sparando decine e decine di soldati russi. Molti dei miei compagni cadono, altri corrono verso la breve scarpata della ferrovia, raggiungono le rotaie e lí ricevono un’altra raffica come una grandinata. Ne cadono ancora due o tre. Io mi precipito per unirmi ai rimasti. Le pallottole battono sulle rotaie con rumore di tempesta e mandano scintille, ma riesco a rotolare dall’altra parte. Sono ultimo dietro agli scampati che si arrampicano nella neve. La scarpata della ferrovia ci divide dai russi. Passo vicino a un cannone anticarro e mi fermo per cercare di toglierne l’otturatore e renderlo inservibile. Ma intanto, i russi riappaiono sulla scarpata e mi sparano contro. Allora riprendo a correre in su come posso, sprofondando di continuo nella neve sino al ginocchio. Sono allo scoperto sotto il fuoco dei russi e a ogni passo che faccio arriva un colpo. «Adesso e nell’ora della nostra morte», dico tra di me, come un disco che giri a vuoto. «Adesso e nell’ora della nostra morte. Adesso e nell’ora della nostra morte».
Sento qualcuno che geme e invoca aiuto. Mi avvicino.
È un alpino che era al mio caposaldo sul Don. È ferito alle gambe e al ventre da schegge d’anticarro. Lo circondo con le braccia sotto le ascelle e lo trascino. Ma faccio troppa fatica e me lo carico sulle spalle. I russi ci sparano contro con l’anticarro. Sprofondo nella neve, avanzo, cado, e l’alpino geme. Non ho proprio la forza di continuare a portarlo. Riesco tuttavia a portarlo dove i colpi non arrivano. Del resto i russi smettono di sparare. Dico all’alpino di provarsi a camminare. Egli tenta inutilmente, e ci fermiamo dietro a un mucchio di letame. – Resta qui, gli dico. – Ti mando a prendere con la slitta. E fatti coraggio perché non sei grave.
Io poi, non mi sono ricordato di mandare giú la slitta, ma i portaferiti della nostra compagnia sono giusto passati di là e lo hanno raccolto. Ho saputo in Italia ch’egli si era salvato, e un gran peso mi è caduto dal cuore. Lo ritrovai un giorno, finito tutto, a Brescia. Non lo riconobbi, ma lui mi vide da lontano, mi corse incontro, mi abbracciò. – Non ricordi sergentmagiú? – Io non lo riconoscevo e lo guardavo. – Non ricordi? – ripeteva, e si batteva con la mano sulla gamba di legno. – Va tutto bene ora –. E rideva. – Non ricordi il 26 gennaio? – Allora mi ricordai e tornammo ad abbracciarci con tanta gente attorno che ci osservava senza capire.
Ora, mentre continuavo da solo il mio cammino nella neve, sento d’un tratto un trambusto e vedo la massa nera della colonna precipitarsi giú per il pendío. Che diavolo fanno? Penso che il fuoco dei russi li sterminerà.
Perché non sono venuti giú prima? Ma vi sono di nuovo degli aeroplani. Mitragliano e lanciano spezzoni. È di nuovo come stamattina. In piú dal paese sparano con gli anticarro e i mortai. Alcuni panzer tedeschi scendono lentamente, guardinghi. Uno è colpito e si ferma, ma continua a sparare con il cannone. Gli altri mi passano vicino. Gruppi di soldati tedeschi li seguono e io mi unisco a loro. Cosí arrivo ancora una volta alle prime case.
Spariamo coi fucili di dietro ai carri. Spiegandomi a cenni cerco di far avanzare un panzer fin dove si trova il capitano ferito. Do loro a intendere che si tratta di un ufficiale superiore. Dopo molte esitazioni i tedeschi cedono alle mie insistenze. Facciamo pochi metri nella direzione che indico loro, e un colpo di anticarro frantuma il periscopio. Il panzer è costretto a fermarsi e dobbiamo rinunciare. Non siamo in numero sufficiente per addentrarci nel paese senza l’appoggio del carro.
Intanto è cominciata la sera. Mi metto dietro alle macerie di una casa sparando contro i russi che passano per gli orti. Sono rimasto solo. Venti metri piú a destra vi è un soldato tedesco che si avvicina, strisciando cauto sulla neve, a due russi appostati dietro un muricciolo. Egli poi lancia due granate su di loro. Io allora corro fino a una casa piú avanti. Dal marciapiede in faccia un soldato russo mi vede e svolta la cantonata per poi prendermi di mira. Io dal mio riparo e lui dal suo ci scambiamo dei colpi di fucile. Un capitano dell’artiglieria alpina che mi viene incontro cade colpito al petto mentre sta per rivolgermi la parola. Ha uno sbocco di sangue che mi chiazza le scarpe e i calzettoni. Arriva il suo attendente. Arriva un altro ufficiale. Piangono su di lui che rantola. Appena poi è morto l’attendente gli toglie dalla tasca il portafogli e dal polso l’orologio. Io non ne posso piú dalla stanchezza e vado a sedermi dietro un piccolo argine.
Un sottotenente mi si avvicina gridando: – Vigliacco, che fai lí? Vieni fuori –. Io non lo guardo nemmeno, e lui finisce che si mette a sedere lí vicino e se ne resta lí anche dopo che io me ne vado.
Vengo a sapere che il tenente colonnello Calbo dell’artiglieria alpina è stato colpito. Lo cerco. Il suo attendente gli sorregge il capo e piange. Il colonnello ha gli occhi velati e già forse non vede piú nulla. Mi parla credendomi il maggiore Bracchi. Non ricordo le parole che mi disse; ricordo solo il suono della sua voce, l’affanno cagionato dalla ferita e lui sulla neve. Qualcosa di grande era nel suo aspetto e io mi sentivo timido e stupito. Intanto i carri dei tedeschi sono tornati ad avanzare.
Alpini e tedeschi si mettono dietro. Le pallottole battono sulla corazza dei panzer e schizzano attorno a noi. Su un carro è accovacciato il generale Reverberi che ci incita con la voce. Poi egli scende e cammina da solo davanti ai carri impugnando la pistola.
Da una casa sparano con insistenza. Da quella sola casa. – Ci sono ufficiali? – grida il generale verso di noi.
Ufficiali forse ve ne sono, ma nessuno esce. – Ci sono alpini? – grida ancora. E allora esce un gruppetto di dietro ai carri. – Andate in quella casa e fatela finita, – ci dice. Noi andiamo e i russi se ne vanno.
é notte fatta, la colonna si è riversata nel paese e tutti cercano un posto per passare la notte al caldo, e, se è possibile, mangiare qualcosa. Che confusione ora! Sembra una fiera. Incontro alcuni genieri e chiedo loro di Rino. Lo hanno visto ferito leggermente ad una spalla durante il primo assalto, da allora non sanno piú nulla.
Lo chiamo e lo cerco senza trovarlo. Incontro il capitano Marcolini e il tenente Zanotelli del mio battaglione.
Con questi mi metto vicino alla chiesa e chiamiamo: –
Vestone! Vestone! Adunata Vestone! – Ma potrebbero rispondere i morti? – Si ricorda Rigoni, il primo di settembre? – mi dice piangendo il tenente. – È come allora.
– È peggio, – dico.
Ai nostri richiami risponde Baroni dei mortai e viene con un gruppetto del suo plotone. Hanno ancora un tubo di mortaio, nessuna bomba, nient’altro. Di tutto il Vestone riusciamo a radunarci in circa una trentina. Le isbe sono tutte occupate e prendiamo posto nelle scuole. Ma qui i vetri sono rotti, non c’è paglia e l’impiantito è di cemento. Ci sdraiamo ma non è possibile dormire. Ci congeleremmo. «La Ecia», alpino della mia compagnia, ha trovato chissà dove delle gallette e me ne dà una. Rosicchiamo assieme. Bodei, che mi è vicino, trema dal freddo. Ci alziamo e usciamo. Busso a un’isba; viene alla porta un soldato tedesco con la pistola spianata e me la punta al petto. – Voglio entrare, – dico. Gentilmente, con la mano, gli sposto la pistola e gli rido in faccia. Sconcertato la rimette nel fodero e mi chiude la porta sul viso. Entriamo in una stalla e accendiamo un piccolo fuoco con degli sterpi. Ci riscaldiamo, ma la parte che non guarda il fuoco è gelata.
I muli ci guardano con le orecchie basse. La testa ci ciondola di qua e di là. Lentamente mi addormento con la schiena appoggiata a un palo.
Questo è stato il 26 gennaio 1943. I miei piú cari amici mi hanno lasciato in quel giorno.
Di Rino, rimasto ferito durante il primo attacco, non sono riuscito a sapere nulla di preciso. Sua madre è viva solo per aspettarlo. La vedo tutti i giorni quando passo davanti alla sua porta. I suoi occhi si sono consumati.
Ogni volta che mi vede, quasi piange per salutarmi e io non ho il coraggio di parlarle. Anche Raul mi ha lasciato quel giorno. Raul, il primo amico della vita militare.
Era su un carro armato e nel saltar giú per andare ancora avanti, verso baita ancora un poco, prese una raffica e morí sulla neve. Raul, che alla sera prima di dormire cantava sempre: «Buona notte mio amore». E che una volta, al corso sciatori, mi fece quasi piangere leggendomi Il lamento della Madonna di Jacopone da Todi. E anche Giuanin è morto. Ecco Giuanin, ci sei arrivato a baita. Ci arriveremo tutti. Giuanin è morto portandomi le munizioni per la pesante quando ero giú al paese e sparavo. È morto sulla neve anche lui che nel ricovero stava sempre nella nicchia vicino alla stufa e aveva sempre freddo. Anche il cappellano del battaglione è morto: «Buon Natale, ragazzi, e pace». È morto per andar a prendere un ferito mentre sparavano. «State sereni e scrivete a casa». «Buon Natale, cappellano». E anche il capitano è morto. Il contrabbandiere di Valstagna.
Aveva il petto passato da parte a parte. I conducenti, quella sera, lo misero su una slitta e lo portarono fuori della sacca. Morí all’ospedale di Carkof. Sono andato a casa sua, quando ritornai in primavera. Ho camminato attraverso i boschi e le valli: «Pronto? Qui Valstagna, parla Beppo. Come va paese?» E la sua casa era vecchia e rustica e pulita come la tana del tenente Cenci. E soldati del mio plotone e del mio caposaldo, quanti ne sono morti quel giorno? Dobbiamo restare sempre uniti, ragazzi, anche ora. Il tenente Moscioni si ebbe bucata una spalla e poi in Italia la ferita non poteva chiudersi.
Ora è guarito della ferita ma non delle altre cose. Oh no, non si può guarire. E anche il generale Martinat è morto quel giorno. Lo ricordo quando in Albania lo accompagnavo per le nostre linee. Io camminavo in fretta davanti a lui perché conoscevo la strada e mi guardavo indietro per vedere se mi seguiva. «Cammina, cammina pure in fretta caporale, ho le gambe buone io». E anche il colonnello Calbo che era cosí bravo con i suoi artiglieri della diciannove e della venti. E anche il sergente Minelli era ferito lí nella neve: – El me s’cet, – diceva e piangeva, – el me s’cet –. Giuanin, troppo pochi siamo arrivati a baita, dopo tutto. Nemmeno Moreschi è ritornato. «Possibile una capra di sette quintali? Porca la mula sempre Macedonia». E neanche Pintossi, il vecchio cacciatore, è arrivato a baita a cacciare i cotorni. E sarà morto pure il suo vecchio cane, ora. E tanti e tanti altri dormono nei campi di grano e di papaveri e tra le erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle leggende di Gogol e di Gorky. E quei pochi che siamo rimasti dove siamo ora?
Quando mi svegliai trovai che le scarpe mi si erano bruciate ai piedi. Sentii un rumore di gente che si preparava a partire. Non trovai piú nessuno della mia compagnia né del battaglione. Nel buio persi anche Bodei e rimasi solo. Cercavo di camminare piú in fretta possibile perché i russi potevano ritentare di agganciarci. Era ancora notte e c’era un gran trambusto per il paese. Feriti gemevano sulla neve e nelle isbe. Ma io, ormai, non pensavo piú a niente; neanche alla baita. Ero arido come un sasso e come un sasso venivo rotolato dal torrente. Non mi curavo di cercare i miei compagni e, dopo, nemmeno di camminare in fretta. Proprio come un sasso rotolato dal torrente. Piú niente mi faceva impressione; piú niente mi commoveva. Se fosse accaduto di combattere ancora sarei andato avanti, ma per conto mio; senza curarmi di quelli che mi avrebbero seguito o sorpassato.
Avrei fatta la battaglia per mio conto; personalmente; isolato; da isba a isba, da orto a orto; senza ascoltare comandi, senza darne, libero di tutto, come per una caccia in montagna; da solo.
Avevo ancora dodici colpi per il moschetto e tre bombe a mano. Ve n’erano pochi, forse, in tutta la colonna che avevano tante munizioni quante ne avevo io.
Un’altra giornata di cammino sulla neve. Le scarpe bruciate vanno in pezzi e me le saldo attorno ai piedi con del filo di ferro e stracci. Camminando il cuoio secco mi ha rotto la pelle sotto il malleolo e ha formato una piaga viva. Le ginocchia mi dolgono; a ogni passo che muovo fanno cric crac. Mi viene anche la dissenteria.
Cammino senza dire una parola con nessuno per chilometri e chilometri.
Ora la colonna procede a monconi. I piú validi camminano in fretta, gli altri come possono. Io non sono tra questi, ma neanche tra i piú validi, ormai. Vado per conto mio.
Un altro giorno di cammino sulla neve. Lungo la pista sono abbandonati i cannoni dell’artiglieria alpina. È giusto; è inutile portarli, è giusto che i muli siano adoperati per i feriti. Capita ogni tanto di sentire delle brevi discussioni tra artiglieri alpini e tedeschi. Dei tedeschi, chissà come, erano riusciti a impossessarsi dei nostri muli che ora certamente valevano piú delle loro macchine. Soltanto noi avevamo muli. Ma gli alpini e gli artiglieri discutono poco; fermano i muli e fanno scendere i tedeschi. Si riprendono le brave bestie e vanno via. Hanno i loro paesani feriti da caricarci sopra. Di fronte alla pacatezza degli alpini l’ira dei tedeschi era ridicola.
Era molto lunga quel giorno la marcia. Non si vedeva nessun paese da nessun lato e bisognava camminare. Si mangiavano manciate di neve. Venne la notte. Ancora non ci si fermava né si vedeva un paese. Finalmente, lontano, una luce, e non pareva mai di arrivarci. Lo potete immaginare, voi, quanto era lontana quella luce e quanta neve bisognava calpestare per arrivarci? Fu interminabile nella notte. Era un villaggio. Non so dove andai a dormire né con chi; né se mangiai. Alla mattina quando ripartii c’era il sole. La maggior parte erano già andati; ero con gli ultimi; le isbe erano vuote e i fuochi si spegnevano. Ricordo che entrai in un’isba; per terra c’erano delle bucce di patate arrostite tra la cenere e le mangiai.
Ero sempre solo.
Una sera incontrai in un’isba dei soldati del mio battaglione. Mi riconobbero. Uno era congelato alle gambe. Alla mattina quando ripartimmo aveva le gambe nere per la cancrena e piangeva. Non poteva piú venire con noi né si trovò una slitta per caricarlo. Lo raccomandai alle donne dell’isba. Piangeva e anche le donne piangevano. – Addio Rigoni, – mi disse. – Ciao sergentmagiú.
Io sono sempre solo. Un giorno trovo sulla neve una tavoletta gialla; la raccolgo e mangio. Sputo subito.
Chissà che diavolo è. Lo sputo è giallo. Ha un gusto tremendo. Sputo e sputo giallo, mangio neve e sputo giallo, dove cade lo sputo la neve attorno si fa gialla. Per tutto il giorno ho sputato giallo e per tutto il giorno ho avuto quel sapore in bocca. Chissà che diavolo era quella roba; forse anticongelante per i motori o esplosivo. Ma sono solo e non m’importa del mio sputo giallo sulla neve né della dissenteria.
Una notte mi fermo a dormire con alcuni ufficiali del Valchiese. Entro nell’isba, parlo bresciano e dico che sono del loro battaglione. Mi accettano nella loro compagnia. Accendo il fuoco nel forno e un soldato porta dentro una capra. L’ammazzo e la faccio a pezzi per arrostirla nel forno. Troviamo anche un po’ di sale. Faccio le razioni e mangiamo tutti lí dentro, saremo una quindicina. Gli altri a vedermi cosí intraprendente e pratico mi prendono in simpatia. Ma faccio tutto come un automa. Trovo anche della paglia e dopo aver mangiato la capra ci addormentiamo al caldo. Alla mattina mi sveglio per primo ed è ancora buio. – Sveglia, – dico,
– dobbiamo partire se no rimaniamo gli ultimi –. Ma non si vogliono alzare, vogliono dormire ancora. Esco solo e cammino nella colonna che si è già avviata.
Un pomeriggio si arriva in un villaggio, la colonna è avanti: sono tra gli ultimi. Da una mugila vedo la colonna che avanza a zigzag per la steppa e poi degli aeroplani che sorvolano e mitragliano. Nel villaggio vi sono gruppetti di due tre persone che vanno per le isbe in cerca di cibo. Nella piazza vi sono dei colombi. Penso di sparare a uno e poi mangiarlo. Levo dalla spalla il moschetto, abbasso la sicurezza e miro da venti passi. Il colombo s’alza per volare e allora sparo. Quello cade giú fulminato senza battere le ali. Di essere un discreto tiratore lo sapevo, ma non sino al punto di colpire un colombo al salto con fucile a pallottola. Mi stupisco, certo è stato un caso. Mi riprendo un po’ e sorrido di soddisfazione. Un vecchio russo che mi osserva da poco lontano si avvicina ed esprime la sua meraviglia. Scuote la testa incredulo e indica il colombo morto; poi lo prende in mano, osserva il foro della pallottola che lo ha passato da parte a parte e conta i passi da dove ho sparato. Mi dà il colombo e mi stringe la mano. Mi commuovo un poco. È un vecchio cacciatore come lo zio Jeroska.
Entro in un’isba per cucinare il colombo e levo la gavetta che porto infilata nella cinghia delle giberne. Lí vi sono due soldati italiani ma nessun borghese. Piú tardi entrano degli ufficiali giovani e disarmati. Dopo aver mangiato il colombo faccio per riprendere il moschetto che avevo appoggiato al muro ma non lo trovo piú. Il mio vecchio moschetto di tante battaglie, che funzionava cosí bene, che sparava cosí bene e che avevo cosí caro. Chi me lo aveva preso?
Gli ufficiali non c’erano piú, non posso dire che me lo avessero preso loro. Ma lo penso. Rimasi male, veramente male. Ora che si era sfuggiti all’accerchiamento, i disarmati, ed erano i piú, cercavano di prendere le armi a quelli che le avevano tenute fino allora. Non volevo né potevo ritornare dai miei compagni disarmato, avevo buttato l’elmetto, la maschera antigas, lo zaino, bruciate le scarpe, persi i guanti ma il mio vecchio moschetto lí avevo sempre tenuto con me. Avevo ancora i caricatori e le bombe a mano. Nell’isba c’era un fucile pesante e rozzo. Presi quello: le cartucce andavano bene. Quando uscii sentii degli spari vicino al paese e delle grida. Erano partigiani o soldati regolari che attaccavano gli ultimi sbandati della colonna. Per non rimanere prigioniero corsi in fretta, come potevo, tra gli orti e le isbe dietro gli steccati e poi nella steppa finché raggiunsi la colonna.
La piaga del piede s’era fatta purulenta e puzzava, camminando ne sentivo l’odore e la calza s’era attaccata.
Mi faceva male: era come se uno mi avesse piantato i denti nel piede e non mollasse. Le ginocchia scricchiolavano, a ogni passo facevano cric crac, cric crac. Camminavo con passo regolare, ma ero lento e anche sforzandomi non ero capace di tenere un’andatura piú svelta. In un orto avevo preso un bastone e mi appoggiavo a quello.
Un’altra notte mi fermai in un’isba dove c’era un tenente medico servito da una guardia ucraina. (Uno di quei borghesi con la fascia bianca sul braccio che facevano servizio per le truppe di occupazione). L’ucraino preparò la minestra di miglio e latte, e me ne diede un piatto. Era proprio buona. Mi levai gli stracci e le scarpe bucate. Le calze erano attaccate alla piaga e l’odore di marcio era proprio fetido. Attorno alla piaga la carne era bianchiccia, sporca di un umore giallo. Lavai con acqua e sale. Fasciai con un pezzo di tela. Rimisi le calze, i resti delle scarpe, gli stracci e legai con il filo di ferro.
In quel villaggio, la sera prima, avevo incontrato Renzo. – Come va, paesano? – gli chiesi. – Va bene, – rispose, – va bene. Guarda, io sono in quell’isba; domani ripartiremo assieme –. E corse via. Lo rividi in Italia. Ero solo, non cercavo nessuno, volevo restar solo. Nell’isba, poi, venne a bussare un tedesco. Vidi che non era uno dei soliti. Entrò da noi e mangiò con noi. Dopo, seduto sulla panca, levò dal portafogli le fotografie: – Questa è mia moglie, – disse, – e questa è mia figlia –. La moglie era giovane e la figlia era bambina. – E questa è la mia casa, – disse poi. Era una casa della Baviera, tra gli abeti, in un piccolo paese.
Camminai ancora un altro giorno con il passo del vecchio viandante appoggiandomi al bastone. Per delle ore mi sorprendevo a ripetere: «Adesso e nell’ora della nostra morte», e questo pensiero mi ritmava il passo. Lungo la pista s’incontravano spesso delle carogne di mulo.
Un giorno stavo tagliandomi un pezzo di carne da una carogna quando mi sentii chiamare.
Era un caporalmaggiore del battaglione Verona che avevo avuto per allievo a un corso rocciatori nel Piemonte. Mi chiama e vedo che è contento d’incontrarmi.
– Vuoi che camminiamo assieme? – dice. Per me. Andiamo, – dico.
Due o tre giorni camminai con lui. Al corso rocciatori lo chiamavamo Romeo perché una notte era andato a trovare una pastora scalando la finestra. (Era proficuo il corso rocciatori). Romeo e lei Giulietta. Era recluta e lo canzonavamo per questo. Un’altra sera che eravamo in un rifugio tra i ghiacciai scese al paese per trovarla e camminò tutta la notte. La mattina dopo c’era da scalare una vetta ed era stanco ma il tenente Suitner lo caricò bene di corde e di attrezzi. Ora, qui in Russia, avevo sentito dire che era un caporalmaggiore tra i migliori del Verona. Camminando parlavo poco con lui, ma la sera, quando si arrivava nelle isbe, ci aiutavamo scambievolmente per preparare qualcosa da mangiare e la paglia per dormire.
Il sole incominciava a farsi sentire, le giornate si erano allungate. Si camminava in una vallata lungo il corso di un fiume. Si sentiva dire che ormai eravamo fuori dalla sacca e che un giorno o l’altro saremmo entrati nelle linee tedesche. Quelli che s’erano attardati alla fine della colonna dicevano che i soldati russi, i carri armati e i partigiani ogni tanto tagliavano la coda e facevano dei prigionieri.
Al passaggio d’una balca, v’erano un giorno delle slitte di feriti bloccate nella neve. Romeo e io si camminava fuori dalla pista per conto nostro. Il conducente e i feriti di una slitta chiedevano aiuto. C’era tanta gente lí attorno ma mi pareva che si rivolgessero proprio a noi. Mi fermai.
Mi guardai un po’ indietro e ripresi a camminare. Dopo, girandomi ancora, vidi che le slitte s’erano mosse. Ero solo; non cercavo nessuno, non volevo niente.
Un giorno passiamo per un villaggio; c’è ancora il sole alto, dalle finestre di un’isba delle donne battono sui vetri e ci fanno cenno di entrare. – Entriamo? – domanda il mio compagno. – Entriamo, – dico. L’isba è bella con tendine ricamate alle finestre e le icone adornate con fiori di carta. Tutto è pulito e caldo. Le donne fanno bollire due galline per noi, ci dànno da bere il brodo e mangiare la carne con patate lessate. Dopo ci preparano da dormire. Verso sera entrarono anche dei sottufficiali dell’Edolo. Chiedo a loro di Raul. Cosí per chiedere, perché vedo dalla nappina che sono del suo battaglione.
– È morto, – mi rispondono, – è morto a Nikolajewka.
Andava all’assalto su un carro armato e saltando a terra si prese una raffica –. Io non dico nulla.
Quando alla mattina devo muovere i primi passi sono costretto a fare piano. Cric crac mi fanno le ginocchia.
Piano piano fino a che si riscaldano e poi continuare il cammino appoggiandomi al bastone. Il mio compagno ha pazienza e viene con me silenzioso. Come due vecchi viandanti che si sono messi insieme senza conoscersi.
Nella colonna si sente sovente imprecare e litigare.
Siamo diventati irascibili, nervosi, per una cosa da nulla si trova da dire.
Un giorno entriamo in una capanna; abbiamo sentito lí dentro cantare un gallo. Vi sono molte galline, ne prendiamo una per ciascuno. Camminando le spenniamo per mangiarle alla sera. Un aeroplano tedesco «Cicogna» è atterrato vicino alla colonna; vengono caricati dei feriti. Tra qualche ora quelli saranno all’ospedale.
Ma non m’importa niente di nulla.
Incontriamo dei soldati tedeschi che non erano con noi nella sacca. Sono di un caposaldo e ci aspettavano.
Sono lindi e ordinati. Un ufficiale di questi osserva all’orizzonte attorno attorno con il binocolo. Siamo fuori, tento di pensare. Ma non provo nessuna emozione nemmeno quando troviamo delle tabelle segnavia scritte in tedesco.
Al lato della pista si è fermato un generale. È Nasci, il comandante del corpo d’armata alpino. Sí, è proprio lui che con la mano alla tesa del cappello ci saluta mentre passiamo. Noi, banda di straccioni. Passiamo davanti a quel vecchio dai baffi grigi. Stracciati, sporchi, barbe lunghe, molti senza scarpe, congelati, feriti. Quel vecchio col cappello d’alpino ci saluta. E mi sembra di rivedere mio nonno.
Sono camion italiani quelli laggiú, sono i nostri Fiat e i nostri Bianchi. Siamo fuori, è finita. Ci sono venuti incontro per caricare i feriti e i congelati o chiunque voglia saltarci sopra. Guardo i camion e passo oltre. La mia piaga puzza, le ginocchia mi dolgono, ma continuo a camminare sulla neve. Delle tabelle indicano: 6¡ alpini; 5¡ alpini; 2¡ artiglieria alpina. Battaglione Verona, e il mio compagno se ne va senza che me ne accorga. Battaglione Tirano, battaglione Edolo, gruppo Valcamonica e la colonna si assottiglia. 6¡ alpini, battaglione Vestone, indica una freccia. Sono del 6¡ alpini io? Del battaglione Vestone? Avanti per di qua allora. Vestone, Vestone, el Vestú. I miei compagni.
«Sergentmagiú ghe rivarem a baita?» Sono a baita. Adesso e nell’ora della nostra morte. – Vecio! Ciao Vecio! – Ma chi è quello? Sí, è Bracchi. Mi viene incontro, mi batte una mano sulla spalla. Si è lavato, si è fatto la barba.— Vai laggiú, Vecio, in quelle isbe troverai la tua compagnia-. Guardo e non dico niente. Lentamente, sempre piú lentamente vado laggiú dove sono quelle isbe. Sono tre, nella prima vi sono i conducenti con sette muli, nella seconda la compagnia e nella terza un’altra compagnia. Apro la porta, nella prima stanza vi sono dei soldati che si stanno radendo e pulendo. Mi guardo attorno. – E gli altri? – dico. – Sergentmagiú! Sergentmagiú! – E arrivato anche Rigoni, – gridano. – E gli altri? – ripeto. C’è Tourn e Bodei, Antonelli e Tardivel. Visi che avevo dimenticato. – E allora è finita? – dico. Sono contenti di rivedermi e qualcosa dentro di me si muove, ma lontano come una bolla d’aria che viene dagli abissi del mare. – Vieni, – dice Antonelli. E mi accompagna nell’altra stanza dove c’è un ufficiale che era alla compagnia comando. – È lui che comanda la compagnia, – dice Antonelli. C’è anche il furiere e su un pezzo di carta annota il mio nome. – Sei il ventisettesimo,
– dice. – È stanco, Rigoni? – mi chiede il tenente. – Se vuole riposare si accomodi in qualche modo.
Mi butto sotto il tavolo che è appoggiato a una parete e sto lí rannicchiato. Tutto il giorno e tutta la notte seguente sto lí sotto ad ascoltare le voci dei miei compagni e vedere i piedi che si muovono sulla terra battuta del pavimento.
Alla mattina esco fuori e Tourn mi porta un po’ di caffè nel coperchio della gavetta. – Come va, sergentmagiú? – Oh Tourn, Vecio! Sei tu, vero? E gli altri? – dico.
– Sono qui, – dice, – vieni –. Il plotone, il nostro plotone pesante. – Dove sono? – Vieni, sergentmagiú –. Chiamo vicino a me Antonelli, Bodei e qualche altro. – Giuanin,
– chiedo, – dov’è Giuanin? – Non mi dicono niente.
«Ghe rivarem a baita?» Di nuovo domando di Giuanin.
– È morto, – mi dice Bodei. – Ecco il suo portafogli. – E gli altri? – chiedo. – Siamo in sette con te, – dice Antonelli. – In sette con te del plotone pesante. E quella recluta, – e m’indica Bosio, – ha una gamba spezzata. – E tu Tourn? Mostrami la mano, – dico. Tourn mi stende la mano aperta. – Vedi, – dice, – è guarita, vedi come la cicatrice è sana. – Se vuoi farti la barba vado a scaldarti dell’acqua, – dice Bodei. – Ma non importa, perché? – rispondo. – Puzzi, – mi dice Antonelli.
Qualcuno mi mette in mano un rasoio di sicurezza e un piccolo specchio. Guardo queste cose nelle mie mani e poi mi guardo nello specchio. E questo sarei io: Rigoni Mario di GioBatta, n. 15454 di matricola, sergente maggiore del 6¡ reggimento alpini, battaglione Vestone, cinquantacinquesima compagnia, plotone mitraglieri. Una crosta di terra sul viso, la barba come fili di paglia, i baffi sporchi di muco, gli occhi gialli, i capelli incollati sulla testa dal passamontagna, un pidocchio che cammina sul collo. Mi sorrido.
Bodei mi dà un paio di forbici, mi taglio con queste il piú della barba e poi mi lavo. L’acqua viene giú del colore della terra. Con il rasoio di sicurezza, piano, perché chissà quante barbe come la mia ha tagliato questa lametta, incomincio a radermi. Mi lascio la barba sul mento e i baffi come una volta. Poi ritorno a lavarmi e i miei compagni mi guardano come sto uscendo dal bozzolo.
Tourn mi passa un pettine. Ohi, come fa male a pettinarsi. – Puzzi ancora, – dice Antonelli. – È il piede, – dico, – è il piede. – Avete un po’ di sale? – Anche il sale c’è, – dice Bodei. E fa bollire un po’ di acqua e sale. –
Sei congelato? – mi chiedono. Mi levo gli ultimi pezzi delle scarpe e gli stracci. Che odore! Sembra che sulla piaga vi siano dei vermi tanto è putrida e schifosa. Con l’acqua e sale mi lavo per bene, mi lavo anche i piedi.
Antonelli ha anche un pezzo di garza rimastagli del pacchetto di medicazione e mi fascio. Infine ritorno sotto il tavolo e rimango lí a fissare la parete dell’isba.
Tre giorni siamo rimasti lí. In quei tre giorni arrivò ancora qualche ritardatario. Ma ormai era finita. Il sergente furiere, congelato, partí il giorno dopo il mio arrivo per l’ospedale. Piú nessun ufficiale della compagnia era rimasto: Moscioni, Cenci, Pendoli, Signorini. Piú nessuno e neanche sottufficiali tranne il sottotenente e il sergente maggiore dei conducenti. Bosio, la recluta della vecchia squadra di Moreschi, quello che aveva la gamba ferita, lo accompagnai personalmente con un mulo e lo caricai su un camion che sgomberava i feriti. V’era un altro alpino del terzo plotone fucilieri, paesano di Tourn, che aveva un fazzoletto attorno alla testa. – Che hai lí? – gli chiesi. Si levò il fazzoletto e vidi che era senza un occhio; al suo posto restava un buco rosso. – È guarito ormai, – disse, – vengo in Italia con voi.
Uno di quei giorni morí il nostro colonnello Signorini. Dissero che dopo aver tenuto rapporto ai comandanti di battaglione e udito quel che rimaneva del suo reggimento si sia ritirato in una stanza dell’isba dove alloggiava e sia morto di crepacuore. Mi ricordai che un giorno, prima di andare al caposaldo sul Don ed eravamo a scavar tane, venne da noi. Bracchi mi chiamò e mi presentò al colonnello. Nel mettermi la mano sulla spalla un guanto s’impigliò in una stelletta della mia mantellina e si strappò. Ricordo il mio imbarazzo e il suo sorriso. E ora anche lui ci ha lasciati.
Andai anche al comando di reggimento per domandare di Marco Dalle Nogare. – È rimasto congelato, – mi dissero, – ed è partito per l’Italia.
Il tenente che aveva preso il comando della compagnia mi chiese il nome di quelli che meritavano di essere decorati. Diedi i nomi di Antonelli, di Artico, di Cenci, di Moscioni, di Menegolo, di Giuanin, di Tardivel, e di qualche altro.
Ecco, ora è finita la storia della sacca, ma della sacca soltanto. Tanti giorni poi abbiamo ancora camminato.
Dall’Ucraina ai confini della Polonia, in Russia Bianca. I russi continuavano ad avanzare. Qualche volta si facevano delle lunghe marce anche di notte. Un giorno, quasi perdetti le mani per congelamento perché mi ero aggrappato a un camion ed ero senza guanti. Vi furono ancora tormente di neve e freddo. Si camminava reparto per reparto e a gruppetti. Alla sera ci fermavamo nelle isbe per dormire e mangiare. Tante cose ci sarebbero ancora da dire, ma questa è un’altra storia.
Un giorno mi accorsi che era arrivata la primavera. Si camminava da tanti giorni; era il nostro destino camminare. E mi accorsi che la neve sgelava, che nei paesi attraverso i quali si passava c’erano delle pozzanghere. Il sole scaldava e sentii cantare una calandra. Una calandrella che cantava primavera. Desiderai l’erba verde, sdraiarmi sull’erba verde e sentire il vento tra i rami degli abeti. E l’acqua tra i sassi.
Si era in attesa del treno che ci doveva portare in Italia; eravamo nella Russia Bianca nei dintorni di Gomel. La nostra compagnia, pochi ormai, era in un villaggio vicino alla foresta. Per arrivarci dovemmo camminare parecchie ore attraverso i campi che sgelavano. Quel luogo era famoso per i partigiani; nemmeno i tedeschi si fidavano ad andarci. Mandarono noi. Lo starosta del villaggio ci disse che doveva metterci uno o due per famiglia per non gravare sulla popolazione. L’isba dove mi accettarono era spaziosa e pulita, e abitata da una famiglia di gente giovane e semplice. Mi preparai in un angolo sotto la finestra la cuccia per dormire. Passai sdraiato su un po’ di paglia tutto il tempo che rimasi in quella capanna; sempre lí, sdraiato per ore e ore a guardare il soffitto. Nel pomeriggio c’erano nell’isba solo una ragazza e un neonato. La ragazza si sedeva vicino alla culla. La culla era appesa al soffitto con delle funi e dondolava come una barca ogni volta che il bambino si muoveva. La ragazza si sedeva lí vicino, e per tutto il pomeriggio filava la canapa con il mulinello a pedale. Io guardavo il soffitto e il rumore del mulinello riempiva il mio essere come il rumore di una cascata gigantesca. Qualche volta la osservavo e il sole di marzo, che entrava tra le tendine, faceva sembrare oro la canapa e la ruota mandava mille bagliori. Ogni tanto il bambino piangeva e allora la ragazza spingeva dolcemente la culla e cantava. Io ascoltavo e non dicevo mai una parola. Qualche pomeriggio venivano le sue amiche delle case vicine. Portavano il loro mulinello e filavano con lei. Parlavano tra loro dolcemente e sottovoce, come se avessero timore di disturbarmi.
Parlavano armoniosamente tra loro e le ruote dei mulinelli rendevano piú dolci le voci. Questa è stata la medicina. Cantavano anche. Erano le loro vecchie canzoni di sempre: Stienka Rasin, Natalka Poltawka e i loro antichi motivi di balli. Guardavo per ore e ore il soffitto e ascoltavo. Alla sera mi chiamavano per mangiare con loro. Mangiavamo tutti nel medesimo recipiente con religiosità e raccoglimento. Ritornava la madre; ritornava il padre; ritornava il ragazzo. Solo alla sera ritornavano il padre e il ragazzo; si fermavano poco, ogni tanto guardavano dalla finestra e poi uscivano insieme sino alla sera dopo. Una sera che non vennero la ragazza pianse.
Vennero al mattino... Il bambino dormiva nella culla di legno, che dondolava leggermente sospesa al soffitto; il sole entrava dalla finestra e rendeva la canapa come oro; la ruota del mulinello mandava mille bagliori; il suo rumore sembrava quello di una cascata; e la voce della ragazza era piana e dolce in mezzo a quel rumore.
Preblic (Austria), gennaio 1944 - Asiago, gennaio 1947.
Edizione di riferimento:
in Il sergente nella neve (Ricordi della ritirata di Russia); Ritorno sul Don, Einaudi, Torino 1973