CAPITOLO SECONDO

Era quella stramaledettissima pompa della benzina!

Rudy Solis capì immediatamente quale fosse l’ennesimo guaio del motore della vecchia Chevy. Controllò lo specchietto retrovisore e poi fissò di nuovo lo sguardo nell’oscurità, lungo la linea dello spartitraffico che sembrava perdersi in lontananza; non c’era niente da fare però: nel raggio di cinquanta miglia, non c’era niente che somigliasse ad una luce!

Con tutta la California del Sud a disposizione, la cosa migliore che era riuscito a fare era stata quella di scegliere quella strada, sperduta in quello sperduto deserto tra Barstow e San Bernardino, per rendere l’anima a Dio in quella notte domenicale deserta e silenziosa…

Rudy si chiese se sarebbe mai riuscito a farcela a tornare alla festa. Avrebbero certo rimpianto in molti la sua assenza, pensò tra sé, gettando un’occhiata al di sopra della spalla destra verso le dieci casse di birra accatastate tra macchie di schiuma, vecchi giornali ed articoli di abbigliamento ormai non più identificabili ammucchiati sopra al sedile posteriore.

Il motore tossì e scoppiettò. Rudy maledisse il proprietario di quel catorcio, una stella nascente del rock, alla cui festa aveva bevuto ed oziato allegramente per tutto il fine settimana, nonché gli amici che gli avevano affidato il compito di andare a prendere la birra trenta miglia più in basso, a Barstow. Non furono maledizioni veramente sentite, ma picchiò con forza il pugno sul volante ed imprecò con se stesso per quella sua decisione di andare.

Bene, gli serva di lezione! La prossima volta che mandano qualcuno a comprare birra, ci penseranno due volte prima di dargli una macchina come questa!

Purtroppo, la maggior parte degli invitati alla festa di Tarot era arrivata in motocicletta, come aveva fatto anche Rudy. E Tarot — il suo vero nome era James Carrow ed era noto come Jim quando non vestiva gli abiti da palcoscenico — non era abituato a prestare la sua Eldorado, non importa quante casse di birra fossero rimaste.

Okay! Vada all’inferno anche lui!

Rudy sì scostò i lunghi capelli dagli occhi e diede una occhiata alla monotona oscurità che scorreva nello specchietto retrovisore. Ormai tutti quelli che si erano rintanati in quel nascondiglio da centomila dollari tra i canyons dovevano essere talmente ubriachi da non accorgersi se mancavano o meno dieci casse di birra. Se le cose fossero peggiorate — e sembrava che ormai fosse inevitabile considerato il rumore di ferraglia che proveniva dal motore — avrebbe sempre potuto trovarsi un buco tra le colline dove ripararsi fino al mattino per poi cercare un passaggio che lo portasse al telefono più vicino. Stando a quello che poteva ricordare, a circa dieci miglia doveva esserci una strada secondaria che lo avrebbe condotto sino ad una baracca diroccata nascosta tra quello che rimaneva di un antico aranceto. Insonnolito e stanco, Rudy nemmeno pensò a fare qualcosa per il vecchio motore quella notte, né si sentiva attratto dal pensiero di dormire per strada.

Bevve quindi un lungo sorso dalla bottiglia di vino mezza vuota che teneva poggiata sul sedile accanto a sé e continuò a guidare.

Guidava da molto tempo e da molto tempo aveva avuto a che fare — non sempre legalmente — con i motori, ma gli ci volle tutta la sua esperienza per riuscire a far andare avanti la cadente Chevy dalla tabella indicatrice luminosa fino alla strada secondaria battuta dai camion.

Lo scoppiettio e gli strattoni che venivano dagli otto cilindri consunti della macchina mentre si inerpicava tra pendii ghiaiosi ed ì letti di ruscelli scavati dall’acqua, gli fecero chiedere se si trattasse soltanto di qualche pezzo rotto. Desiderò all’improvviso di aver già finito quella salita per fermarsi a controllare — sebbene non avesse nulla con sé per illuminare, neanche una torcia tascabile — ma era sempre più convinto che niente di meno di una revisione totale avrebbe fatto ripartire quella stupida macchina.

Il debole bagliore dei fari fece risaltare i punti di riferimento che aveva ben fissi in testa fin dai tempi in cui percorreva quella strada in motocicletta: una quercia che si contorceva con l’aspetto di un monaco che sembrava disapprovasse vivacemente le coppiette che usavano fermarsi lì, ed una roccia, simile ad un bufalo dormiente, che si stagliava nettamente contro lo sfondo del cielo stellato.

L’hobby della caccia con arco e frecce aveva consentito a Rudy di familiarizzarsi con quasi tutta la solitaria campagna della California del Sud: una conoscenza casuale, ma reale come quel maledetto motore che lo aveva condotto nell’ombra densa delle colline.

Era sorprendente quanto fosse silenziosa quella notte. Di solito, il mondo intorno, al calar del sole, si popolava di migliaia di rumori. Anche lontano dalla folla di una città si potevano udire areoplani, macchine, l’eco della civiltà lontana. Adesso invece udiva solamente il picchiettare del metallo della carrozzeria, ed il fruscio del vento attraverso l’erba secca. Finalmente gli occhi di Rudy, sforzandosi nel pallido chiarore delle stelle, riuscirono a distinguere il profilo della baracca tra l’erba, ed un mucchio disordinato di alberi contorti.

Scese, e il rumore dei suoi passi gli sembrò assordante in quella oscurità. Camminò lentamente, quasi vacillando, e portò con sé una confezione da dodici lattine di birra e la bottiglia di moscato che gli aveva tenuto compagnia durante il viaggio. La testa cominciava a dolergli.

Proprio ciò di cui ho bisogno: una pompa della benzina rotta ed un mal di testa da sbornia. Gli altri probabilmente penseranno che mi sia preso i soldi della birra e me la sia filata in Messico.

Si avvicinò alla baracca che si ergeva solitaria nel buio delle colline. L’erba alta intorno alle pareti nascondeva i resti fossilizzati dell’attrezzatura, ormai arrugginita, della fattoria. Le tegole logore del tetto avevano ceduto sotto il peso di una quantità incredibile di foglie marce.

Salì l’instabile scala frontale ed appoggiò le lattine di birra sulle assi della stretta veranda. L’aria fresca della notte profumata lo fece tremare quando si tolse la giacca di cotone unta e bisunta: se l’avvolse intorno ad una mano e, con il suo aiuto, riuscì ad infrangere con un pugno un vetro della finestra accanto alla porta.

Entrò: sorprendentemente, la luce si accendeva. Rudy diede uno sguardo veloce alla squallida cucina. Il lavandino funzionava, ma faceva scorrere solamente acqua fredda. Bene, pensò il giovane, non si può avere tutto… Nella credenza sotto il lavandino trovò tre scatole di maiale e fagioli — i prezzi stampati sopra risalivano ad almeno quattro anni prima — ed una stufa a kerosene con mezza lattina di combustibile.

Non male, rifletté tra se, ma se avessi qualcosa da cucinare… Continuò ad esplorare e trovò un minuscolo bagno ed una stanza da letto simile ad una cella, con un letto fradicio il cui materasso sarebbe stato rifiutato da qualsiasi penitenziario dello Stato.

Non è proprio una dolce dimora, pensò, poi ritornò in cucina e da lì uscì fuori sulla veranda a godersi lo spettacolo del silenzioso cielo stellato. Si rinfilò la giacca di tela blu, decorata piuttosto vistosamente, con un teschio fiammante che portava delle rose nelle orbite vuote, e si appoggiò allo stipite della porta per scolarsi il moscato e guardare la notte in pace.

La cupa quiete delle colline era penetrata in lui, e lo spinse a considerare con occhi diversi il panorama che lo circondava: c’era una solitudine perfetta, di gran lunga superiore a tutta la birra che gli avrebbe potuto regalare una qualsiasi delle stelle del rock californiano che di solito frequentava. Rimase ancora un poco seduto senza pensare a nulla, poi si alzò e tornò dentro lentamente, a dormire.

Si svegliò chiedendosi cosa avesse fatto di male per far arrabbiare a quel modo il piccolo gnomo con la mazza da fabbro che si stava agitando nella sua testa. Si girò — rimpiangendo immediatamente di averlo fatto — e si chiese se stesse per morire mentre fissava, senza vederle, le ombre delle travi stagionate di fitte ragnatele. Poi il ricordo della giornata e della notte precedente gli affiorò alla mente: la festa di Tarot, il fatto che era lunedì e che avrebbe già dovuto trovarsi al lavoro nel reparto lastratura a dipingere tramonti fiammeggianti su vecchi furgoni, la birra bevuta a Barstow… e quella scrofa di macchina!!

Potrebbe essere solamente il tubo della benzina… disse a se stesso richiamando i propri pensieri oltre l’ostacolo del terribile mal di testa che lo affliggeva a causa delle abbondanti libagioni.

Se il problema era quello, poteva porvi rimedio in poche ore. Altrimenti, se si trattava della pompa, lo attendeva una lunga camminata. Molto lunga.

Rudy uscì di casa e scese le scale socchiudendo gli occhi nella pallida luce dell’alba. Maledì subito il proprietario della macchina, chiunque fosse: fra tutta l’accozzaglia di cianfrusaglie sparsa nel bagagliaio e sul sedile posteriore, non c’era nulla che assomigliasse ad un cacciavite. C’era invece una baracca mezzo seppellita tra le erbacce nei boschi dietro il cottage. Ci trascorse dieci sudici minuti frugando tra i rottami ammuffiti ed infestati di ragni in cerca di qualche strumento. Il risultato fu a malapena soddisfacente: un cacciavite Philips arrugginito e con il manico mordicchiato da qualche cane randagio, un paio di cesoie con due pezzi di inutile metallo al posto delle lame, ed una chiave inglese così corrosa da fargli dubitare che potesse ancora essere usata.

Il sole stava appena illuminando la cima delle colline, quando uscì di nuovo asciugandosi le mani sui jeans; tutto intorno i magici colori del giorno si stavano liberando dalle grigie sfumature pastello dell’alba. La stessa casa, prima soltanto una massa confusa d’ombra, cominciò a coprirsi di caldi toni rossastri e nero seppia; i vetri ancora intatti delle finestre riflessero il bagliore d’oro e argento fuso del sole nascente.

Rudy pensò per un attimo che quel bagliore luccicante gli stesse giocando qualche scherzo agli occhi. Poi si accorse che nel mezzo di tutta quella luce stava accadendo qualcosa, ma non riuscì a capire di cosa si trattasse. Fu costretto a chiudere gli occhi per l’accecante luccichio d’argento che scendeva dal cielo, e batté le palpebre nella splendente luminosità che si andava spandendo intorno. Ebbe la momentanea impressione che lo spazio e la realtà circostante fosserp soltanto un dipinto su una tela misteriosa e che l’aria, la terra, il cielo e la baracca, stessero avvampando dentro una luce penetrante, all’interno della quale turbinavano insieme la più cieca oscurità e dei colori sconosciuti.

Poi, attraverso quello spazio vuoto, avanzò una sagoma indistinta, barcollando, coperta da un cappuccio e da una toga marroni, una spada sguainata in una mano ed un lacero fardello di velluto scuro legato strettamente ad un bastone nell’altra. La lama della spada brillò quasi che vi si specchiasse un sole!

Accecato dalla luce intensa, Rudy girò il capo, confuso, disorientato, scioccato. Quando tornò a girarsi, non c’era più nulla. Sul piazzale era rimasto soltanto un vecchio in abito marrone con una spada in mano ed un bambino in lacrime che gli si stringeva all’altro braccio.

Rudy ammiccò.

«Che diavolo ho bevuto ieri notte?», si chiese a voce alta, poi, trasalendo, chiese al vecchio: «E chi diavolo sei tu?»

L’uomo inguainò la spada con un gesto leggero, ed il ragazzo si rese conto che doveva essere molto veloce nel maneggiare quella lama che sembrava fin troppo reale, equilibrata ed affilata.

Il vecchio rispose con voce stridente:

«Mi chiamo Ingold Inglorion. E questo è il Principe Altir Endorion, l’ultimo Principe della Casa dei Dare!»

«Hunnh…»

Il vecchio sollevò il cappuccio, ed il suo viso mostrò un’espressione indecifrabile resa ancora più estranea dal blu marcato delle sue iridi e dalla sua solenne serenità.

Rudy non aveva mai visto un volto simile: gentile, affascinante e, al tempo stesso, imperioso. Era la faccia di un santo, di uno stregone o di un pazzo. Si stropicciò gli occhi indolenziti.

«Come sei arrivato qui?»

«Ho attraversato il Vuoto che separa il tuo universo dal mio,» spiegò Ingold pacatamente.

«Sei pazzo…»

Incuriosito, Rudy non riuscì a trattenersi dal girare intorno a quello strano visitatore, ma lo fece tenendosi a debita distanza.

Quel tizio, dopotutto, era armato, e Rudy era sempre più sicuro che fosse particolarmente bravo nell’usare la sua spada. Sembrava un uomo all’antica, e quell’idea la confermavano anche gli abiti francescani che indossava. Ma gli anni trascorsi sulla strada avevano reso il ragazzo estremamente sospettoso nei riguardi di chiunque fosse armato, non importa quanto sembrasse innocuo. Inoltre, chiunque andasse vestito così in giro, non doveva avere tutte le rotelle a posto…

Il vecchio lo fissò a sua volta divertito, mentre con la mano robusta accarezzava distrattamente il bambino che stava reggendo.

Rudy notò che il mantello scuro del vecchio e la coperta che avvolgeva il bambino erano scuri di fumo. Suppose che avrebbero potuto benissimo essere sbucati fuori dalle ombre dietro l’angolo della casa, mentre lui era accecato dal violento riflesso del sole nascente, dando così l’impressione di essere usciti da un’aura fiammeggiante. Ma quella spiegazione razionale non lo aiutò certo a capire la provenienza di quella strana coppia, né come mai il vecchio avesse con sé il bambino.

Dopo un lungo periodo di silenzio, Rudy chiese:

«Sei reale?»

Il vecchio sorrise, ed un’intricata trama di rughe si allargò nel groviglio della sua barba bianca.

«Tu lo sei?»

«Voglio dire… sei per caso uno Stregone o qualcosa di simile?»

«Non in questo universo.»

Ingold esaminò il giovane davanti a sé, poi sorrise di nuovo.

«È una lunga storia», spiegò, e si girò avviandosi verso la casa come fosse il proprietario del posto, mentre Rudy lo seguiva passo passo.

«Sarebbe possibile per me rimanere qui fino a che il mio contatto in questo universo non mi raggiunga? Non ci vorrà molto tempo.»

«Che diavolo! Certo, contaci pure.» Rudy sospirò. «Sono qui solo per caso: mi si è rotta la macchina — voglio dire… non è proprio la mia macchina — e devo controllare la pompa per vedere se riesco a rimetterla in funzione…»

Vedendo l’aspetto corrucciato di Ingold, il ragazzo ricordò che, con ogni probabilità, quel tizio veniva da un altro mondo dove ancora usavano le spade — gli sarebbe comunque piaciuto sapere dove aveva pescato quel bambino — e dove forse nessuno aveva ancora inventato il motore a scoppio.

«Sai cos’è una macchina?»

«Il termine non mi è nuovo. Naturalmente nel nostro mondo non le abbiamo.»

«Naturalmente…»

Ingold si avvicinò con calma alle scale ed entrò in casa. Attraversò la stanza fino alla camera da letto dove depose il bambino sul materasso lurido e pieno di protuberanze. Il bambino iniziò immediatamente con il liberarsi della coperta che lo avvolgeva, manifestando l’intenzione di volersi girare per forza e finire con lo spaccarsi la testa sul pavimento di cemento.

«Ma chi sei?», insistette Rudy, appoggiandosi allo stipite della porta.

«Te l’ho detto! Il mio nome è Ingold. Questo deve bastarti…»

Il vecchio si piegò per impedire al Principe Tir di avvicinarsi alla sponda del letto. Poi lanciò un’occhiata al di sopra della spalla destra.

«Non mi hai detto il tuo nome,» sussurrò.

«Uh… Hai ragione… Rudy… Rudy Solis. Dove l’hai preso quel bambino?»

«Lo sto proteggendo dai nostri nemici», affermò tranquillamente Ingold.

Meraviglioso, pensò Rudy. Prima la pompa della benzina e adesso questo…

Il bambino dimostrava più o meno sei mesi, aveva una faccia come un bocciolo di rosa, i capelli neri e crespi, e gli occhi di un profondo blu, lo stesso colore del cielo in una limpida mattina d’estate.

Ingold lo spostò al centro del letto, da dove però ricominciò subito a rotolare verso il bordo. Il vecchio allora si tolse il mantello impregnato di fumo e lo distese come un tappeto sul pavimento. Sotto indossava una tunica di lana bianca rattoppata e macchiata, stretta in vita da una cintura di cuoio e da un’altra striscia lenta sul fianco che reggeva il fodero della spada oltre a quello rovinato di un corto pugnale.

Ingold alzò di nuovo il bambino e lo mise giù sul mantello steso sul pavimento.

«Là», disse. «Ora vuoi rimanere dove ti ho messo, e dormire come tutti i bambini per bene?»

Il Principe Altir Endorion gli rispose in maniera chiara ed inconfutabile.

«Bene», disse Ingold e si girò verso la porta.

«Di chi è questo bimbo?», chiese ancora una volta Rudy, incrociando le braccia e fissando i suoi due inattesi ospiti. Per la prima volta, la rabbia od uno sforzo per contenerla fece tendere i muscoli del volto del vecchio.

«È il figlio di un amico,» rispose con gelida calma. «Un amico che ora è probabilmente morto!»

Ci fu un attimo di silenzio. Ingold fissò i polsi della sua tunica stinta e si sfiorò le vecchie cicatrici che spiccavano sugli avambracci muscolosi. Quando alzò di nuovo lo sguardo, l’ormai familiare espressione sardonica era tornata sul suo volto.

«Non posso pensare che tu mi creda, naturalmente.»

«Bene! Adesso che l’hai detto tu… No, non ti credo!»

«Ottimo!» Ingold si avvicinò sorridendo a Rudy nella stretta stanza. «Meglio così: è molto meglio per te non credere. Chiudi la porta, vuoi? Per favore.»

«Non ti credo per un solo motivo,» disse Rudy seguendolo dalla sala alla cucina. «Se vieni da un altro universo come dici, come fai a parlare inglese?»

«Ohoo… Ma io non lo parlo.» Ingold aprì uno dei pacchi di birra sul mobile della cucina e ne estrasse una lattina per sé ed una per il ragazzo. «Parlare inglese… questo è il punto. Tu lo senti nella tua mente come fosse la tua lingua… ma se venissi sul mio mondo, userei sempre la stessa lingua e tu la capiresti lo stesso.»

Ah, si?, pensò Rudy cinicamente. E suppongo che tu sappia anche come fare la pubblicità per qualche marca di birra?!

«Sfortunatamente non ho alcun modo per provartelo,» continuò placidamente Ingold, mentre si sedeva su un angolo del sudicio tavolo di formica. La luce dorata del mattino penetrò da una delle finestre e si riflesse come una fiamma sull’elsa della sua spada.

«Universi diversi obbediscono a leggi fisiche diverse. Il tuo, tranne che in questo momento nel quale è in stretto collegamento con il mio, è troppo lontano dalla Fonte, dal centro del Potere. Le leggi fisiche qui sono fin troppo rigide, determinate, irreversibili, e non possono venire alterate da… certe altre leggi…»

Diede un’occhiata fuori dalla finestra sulla sua destra, studiando il dislivello del terreno lontano, e giudicando dall’angolazione del sole che ora fosse. L’espressione intensa dei suoi occhi, diede corpo ai timori di Rudy: quel vecchio era calmo, troppo reale.

Il ragazzo aveva incontrato fin troppa gente che viveva dietro una maschera: vivendo nella California del Sud, non se ne può fare a meno. Giovani e vecchi, tutti i Fratelli di Atlantide avevano la stessa identica espressione concentrata quando erano in costume: sapevano di essere osservati e si comportavano di conseguenza…

Questo vecchio sparviero invece sembrava non interessarsi affatto alla presenza di Rudy, tranne che come compagno casuale in una situazione uguale a qualsiasi altra.

Rudy si ritrovò a pensare:

O è veramente ciò che dice di essere, o sto sognando tutto…

Si sentì indignato per essere costretto a credere ad una delle due ipotesi, e quella rabbia cominciò a cancellare il ricordo confuso della luce e dei colori che, forse, aveva creduto di vedere.

Stai attento ragazzo, disse a se stesso. Il vecchio non ha mostrato ancora tutto quello che è in grado di fare… Se non stati attento, è capace di sopraffarti…

Così chiese:

«Ma tu, nel tuo mondo, sei veramente uno Stregone?»

Il modo in cui era vestito non poteva essere adatto a niente altro.

Ingold esitò, poi la sua attenzione ritornò su Rudy. Annuì.

«Si!», rispose lentamente.

Il ragazzo si appoggiò al mobile e bevve un sorso della sua birra.

«E sei potente?»

Ingold si strinse nelle spalle, e sembrò rilassarsi quasi fosse stato tranquillizzato dall’incredulità di Rudy.

«Dicono che lo sia…»

«Ma non riesci a compiere nessuna magia qui?»

Rudy formulò la domanda senza attendersi una risposta affermativa. Gli emuli di Mago Merlino sulla Terra non avevano mai operato al di fuori di un ambiente loro congeniale…

I sostituti di Merlino però non sorridevano, anzi si nascondevano per timore di essere considerati degli impostori.

«No… non è possibile…»

Rudy non riusciva a classificare quell’individuo. Qualcosa in quella serena sicurezza però, lo indusse a fare un’altra domanda.

«Come puoi essere un Mago, senza Magia?»

Ingold terminò la sua birra, accartocciò senza sforzo la lattina tra le mani, e la gettò in un angolo della stanza.

«Oh! La Stregoneria — quella vera — ha poco a che fare, con la Magia.»

Rudy rifletté su quelle parole che toccavano corde insospettate dentro la sua mente, risuonando come gli accordi di un motivo scordato, ma mai veramente dimenticato.

«Si, ma…», iniziò, per poi fermarsi. «Cos’è la Stregoneria?», chiese quindi in tono più calmo. «E cos’è la Magia?»

«Cosa non è?»

La risposta di Ingold colpì ancora più profondamente Rudy, che rimase in silenzio, interdetto, lottando contro l’improvvisa comprensione di qualcosa che ancora non riusciva a definire: sembrava impossibile, ma quell’uomo sapeva cosa fosse la Magia!

«Non ti capisco.»

«Credo proprio di si, invece…»

La voce di Ingold era bassa.

È uscito proprio da quella luce… E tra un attimo sarò pazzo quanto lui…

La confusione rese un poco più aspra la voce di Rudy.

«Tutto ciò che capisco è che sei pazzo come un cavallo!»

«Credi veramente che lo sia?» Le candide sopracciglie del vecchio si alzarono in un ghigno derisorio. «E cosa intendi con il termine “pazzo”?»

«Beh… Chi non sa… Chi non sa riconoscere la differenza tra ciò che è reale e ciò che non lo è, o almeno, lo è soltanto nella sua immaginazione?»

«Ah!», rispose Ingold «È tutto chiaro adesso. Vuoi dire che se mi rifiutassi di credere a qualcosa che ho visto con i miei stessi occhi — e soltanto perché ho creduto che fosse impossibile — sarei pazzo?»

«Io non ho visto niente!!», gridò Rudy.

«Non è vero. Sai di aver visto qualcosa che non riesci a comprendere,» replicò, sempre con la stessa calma Ingold. «Ammetti che già adesso credi in migliaia di cose che non hai mai visto realmente con i tuoi occhi.»

«No!»

«Di sicuro credi nel Presidente del tuo Paese.»

«Certo. L’ho visto centinaia di volte alla televisione!»

«E non hai anche visto delle persone che si materializzavano nelle immagini trasmesse dallo schermo?», continuò implacabile Ingold.

«Dannazione! Non puoi fare questi paragoni! Sai bene quanto me…»

«No, io no, Rudy. Se tu scegli di ignorare deliberatamente l’evidenza dei tuoi stessi sensi, è un problema che riguarda te, non me. Io sono ciò che sono, e sono certo di esserlo…»

«Tu non lo sei!»

Lentamente, imitando il modo di fare di Ingold senza accorgersene, Rudy accartocciò tra le mani la sua lattina di birra vuota.

«Certamente sei uno dei giovani più prevenuti che abbia mai incontrato,» dichiarò il vecchio. «Per essere un artista, sei di vedute troppo ristrette.»

Rudy inspirò prima di rispondere, poi espirò con uno sbuffo rumoroso.

«Come fai a sapere che sono un artista?»

Uno sguardo chiaro e due profondi occhi blu lo fissarono divertiti.

«È solo una supposizione…»

Rudy nel suo cuore sapeva però che non era affatto così.

«Lo sei, è vero?»

«… dipingo quadri con pittura a spruzzo su vecchi camion, serbatoi di motociclette, cose del genere insomma…» Vedendo lo sguardo inquisitorio di Ingold si corresse. «Beh… suppongo che si possa chiamarla arte.»

Ci fu ancora silenzio. Il vecchio si fissava le cicatrici sulle mani, nella luce solare che inondava il piano del tavolo. La baracca intorno sembrava isolata dal mondo, immersa in un oceano di silenzio. L’unico rumore era quello del ronzio delle api e del frinire di qualche grillo tra l’erba alta fuori nel prato.

Lo Stregone alzò lo sguardo dal piano del tavolo e disse:

«Ed è male non avere amici! Tu la definiresti qualcosa di anormale…»

Rudy ripensò ai ragazzi che oziavano stravaccati sulle seggiole del bar accanto al negozio di motociclette di Wild David. Una anormalità… Era soltanto un modo di dire…

Sorrise.

«Diamine! In fondo credo di avere almeno due amici. Va bene. Hai vinto!»

Il vecchio sembrò preoccupato.

«Vuoi dire che adesso mi credi?»

«No. Ma non m’importa se non importa neanche a te!»

Se è schizofrenico, si ritrovò a pensare più tardi il ragazzo, non è certamente recuperabile.

Stregoneria; il mitico Regno di Darwath; la Città Nascosta di Quo sull’Oceano Occidentale, dove l’immensa cultura di cento generazioni di Maghi era conservata nei labirinti oscuri della Torre di Forn… questo era il mondo di Ingold, ma il vecchio sembrava conoscerlo intimamente quanto conosceva il mondo di Rudy, fatto di bar, motociclette e negozi di abbigliamento… un mondo pieno di fumo e di acciaio.

Per tutto il resto della mattinata, Rudy trafficò con il motore della Chevy; Ingold lo aiutò quando ce ne fu bisogno, e si tenne in disparte quando non c’era necessità del suo aiuto. Parlarono di Magia, del Vuoto, dei motori, e di pittura. Ingold non commise nemmeno un errore. Conosceva ogni angolo del suo mondo di fantasia, ma possedeva una conoscenza imperfetta di quello di Rudy.

Il ragazzo notò che lo Stregone sembrava letteralmente affascinato dalle meraviglie della radio, della televisione, dalle complessità del mondo economico, dai misteri del motore, dei cilindri lucenti di olio, del frenetico andare dei pistoni…

Sembrava posseduto da una insaziabile curiosità che, come gli aveva spiegato, era il marchio distintivo degli Stregoni: l’avidità di sapere, di conoscere tutto, si sostituiva anche alle considerazioni più elementari sulla sopravvivenza o sulla sicurezza personale.

Se non fosse per il bambino, pensò Rudy gettando un’occhiata oltre il sipario del cofano verso lo Stregone seduto nell’erba alta intento a sezionare ed esaminare pensosamente un seme, non me ne interesserei. Al diavolo! Costui potrebbe anche credere di essere Napoleone, e non sarebbe certo affar mio. Però ha a che fare con un bambino piccolo, e lo sballotta per milioni di miglia da un universo all’altro!

Il sole picchiava alto: non aveva certo migliorato il suo mal di testa, e si sentiva ancora turbato dalla realtà innegabile della visione di prima. Certo non poteva dare la colpa al moscato: non c’entrava per niente. Ma qualcosa lo infastidiva. Qualcosa che non riusciva ancora a definire, a capire compiutamente.

Il dado arrugginito sul quale stava lavorando accanitamente da un po’, iniziò a svitarsi, ed altri problemi attrassero la sua attenzione. Dieci minuti dopo, si alzò da sotto la macchina, sporco di grasso, sudato, disgustato. Ingold mise da parte il seme e sollevò le sopracciglia con fare indagatore.

Rudy gettò nella polvere la chiave inglese che stringeva in mano.

«Dannata pompa della benzina!», sospirò, e si sdraiò accanto allo Stregone incrociando le gambe.

«È la pompa allora. Non il tubo?»

Rudy gli aveva spiegato quale fosse il problema.

«Si!», sacramentò il giovane, coinvolgendo nelle sue imprecazioni, la macchina, il proprietario e tutti i problemi che lo affliggevano. Poi finì con: «Suppongo che l’unica cosa che mi rimanga da fare sia quella di camminare fino alla strada principale e cercare un passaggio!»

«Mi dispiace», disse Ingold cercando di confortarlo. «Il mio contatto in questo mondo dovrebbe essere qui tra poco. Potresti sempre aspettarla e tornare in città con lei.»

Rudy si fermò asciugandosi le mani unte su uno straccio che aveva pescato dentro la macchina.

«Il tuo cosa?»

«Il mio contatto in questo mondo.» Vedendo l’espressione sorpresa di Rudy, Ingold spiegò: «La notte sarò in difficoltà nel tuo mondo, e sebbene in qualche occasione abbia patito la fame, non vedo alcuna ragione di soffrire se posso evitarlo.»

«Allora stai proprio soffrendo, non è così?»

Rudy si chiese se il «contatto» esistesse veramente o se si trattava ancora di un’allucinazione del vecchio, un’invenzione della sua peculiare immaginazione.

«In un certo senso…», rispose lentamente Ingold.

«Ma se sei uno Stregone… come puoi morire di fame anche nel tuo mondo?» La domanda di Rudy fu generata da un’allegra curiosità. «Com’è possibile? Non puoi far apparire del cibo se sei affamato?»

«No, le cose non funzionano in questo modo,» rispose semplicemente Ingold. «Creare l’illusione del cibo è relativamente semplice. Fare di un filo d’erba come questa qualcosa che rassomigli in maniera convincente ad un pezzo di pane, richiede che io convinca me stesso o gli altri del suo gusto, non solo della sua forma o della sua apparenza. Però, se tu lo mangiassi, non avresti altro nutrimento che erba, ed una dieta di questo genere ti porterebbe rapidamente a morire di inedia. Trasformare completamente l’erba in pane, modificandone la natura, vorrebbe dire alterare la realtà stessa, manomettere la struttura dell’intero universo.»

«Troppi problemi da esaminare per un pezzaccio di pane… magari anche raffermo!»

«Certo! Inoltre, è terribilmente pericoloso. Qualsiasi intervento, per quanto piccolo, sulla struttura dell’universo, è rischioso. Per questo raramente cambiamo le forme: la maggior parte degli Stregoni di alto rango conosce il principio della trasformazione in animale — con la mente e con il cuore di un animale — ma pochi, pochissimi, hanno osato metterlo in pratica. Un Arcimago potrebbe anche farlo, a rischio della sua stessa vita… ma…»

Ingold si interruppe alzando di scatto una mano, e Rudy sentì il lontano borbottio di un motore nell’aria quieta e calda del pomeriggio.

«È la mia amica», affermò Ingold. Quindi si alzò scuotendosi l’erba secca e i rametti dalla tunica. Rudy lo imitò non appena un polveroso Maggiolino Volkswagen rosso apparve tra le curve delle colline. La macchina avanzò avvolta da un’impalpabile nuvola di polvere, traballando lentamente a causa dei solchi che tormentavano il sentiero. Finalmente si fermò a pochi passi dai due uomini e ne scese una ragazza.

Lanciò un’occhiata sospettosa a Rudy e si fermò: sembrava sorpresa di trovare lì un estraneo, per giunta sconosciuto. Ingold però le si avvicinò tendendole le braccia in segno di benvenuto.

«Gil», disse, «questo è Rudy Solis. Pensa che io sia pazzo… Rudy, Gil Patterson. È lei il mio contatto in questo mondo.»

I due si guardarono scambiandosi un’occhiata attenta.

Gil avrebbe quasi preferito incontrare una pattuglia della Polizia Stradale. Quel teppistello invece aveva scritto in faccia «fan degli Hell’s Angels»: jeans macchiati di grasso, una sudicia maglietta bianca, stivali di cuoio rovinati. I capelli scuri, dalla leggera sfumatura rossastra, gli cadevano sulle spalle, ed anche i suoi occhi blu, sormontati da folte sopracciglia scure, avevano un’espressione presuntuosa mentre la osservavano per poi non curarsi apparentemente più di lei. Gil notò anche un segno sul naso di Rudy, un rigonfiamento dovuto senza dubbio a qualche rissa. Per completare il quadro poco edificante, non poteva mancare un tatuaggio: uno stendardo sopra una torcia fiammeggiante inciso sul polso sinistro.

Un vero e proprio distintivo…

Alta e snella, ma non bella, pensò Rudy, osservandola. Se si tratta di una prostituta, ha più dello spettro… Lo sguardo del ragazzo si soffermò sui vecchi jeans, sulla camicia blu a quadri, sull’assenza di trucco. Le mani però erano delicate, anche se le unghie erano rosicchiate. Gli occhi però erano un po’ troppo chiari ed avevano un’espressione assente e svagata. Ingold: dove l’hai scovata?

Lo Stregone intervenne come se non si fosse accorto di nulla.

«Rudy ha avuto dei guai con la sua macchina. Potresti riportarlo con te quando tornerai in città? Consideralo un favore fatto a me.»

Ingold allungò una mano e l’appoggiò delicatamente sulla spalla della ragazza sussurrandole poi a bassa voce:

«Va tutto bene. Lui non mi crede, Gil…»

Lei sospirò e si costrinse a rilassarsi.

«Va bene», assentì.

Rudy aveva osservato la scena annoiato.

«Potete anche risparmiarvi questi convenevoli. Non ho bisogno di alcun favore!»

Gli occhi grigio pallido della ragazza si strinsero impercettibilmente, ma la mano di Ingold le afferrò gentilmente una spalla trattenendola, mentre le si rivolgeva in tono più naturale:

«No, va tutto bene!»

Rudy si rilassò a sua volta, quasi senza rendersene conto, e si avvicinò alla ragazza che aveva iniziato a scaricare dalla macchina un mucchio composito di provviste tra cui uno stufato di carne e dei pannolini per bambini.

«Posso darti una mano?»

Fece un passo indietro per camminare accanto a lei, ed insieme seguirono Ingold che si era avviato verso la baracca. Appena il vecchio fu ad una distanza tale da impedirgli di capire, Rudy chiese a bassa voce alla ragazza:

«Chi è?»

Lei lo fissò con quel suo sguardo da maestra di scuola — occhi da zitella che spiccavano su un viso da ragazza — e rispose:

«Che cosa ti ha detto?»

«Che era non so che genere di Stregone, e che proveniva da un altro universo.»

L’imbarazzo portò Gil ad essere brusca.

«È la sua storia.»

Rudy non accettò la risposta.

«Dove lo hai incontrato?»

Gil sospirò.

«È una lunga storia,» disse, quasi ripetendo le parole dello stesso Ingold. «E non ha importanza in verità…»

«Non sarà importante per te, ma lo è per me», replicò Rudy, che gettò un’occhiata verso le ombre cupe della casupola dentro le quali Ingold stava svanendo. «Vedi, quel vecchio mi è simpatico. Puoi stare tranquilla: è la verità! Anche se sta barando… Quello che mi preoccupa è quel bambino, e i danni che può subire.»

Si fermarono ai piedi della scala traballante e Gil osservò attentamente il viso del giovane davanti a lei. Era abbronzato e, a modo suo, affascinante: non certo quello di un macho, né quello di uno sciocco vanesio.

«Credi che lui possa permettere che al bambino accada qualcosa di male?»

Rudy ricordò il comportamento del vecchio verso il bambino, la sua gentile fermezza, il tono caldo e preoccupato quando gli si rivolgeva.

«No!», rispose a bassa voce. «No! Ma cosa fanno qui? E cosa accadrà quando tornerà in città, in mezzo all’altra gente?»

C’era un’inquietudine sincera nella sua voce, e Gil la trovò toccante.

D’altronde, pensò la ragazza, se non avessi fatto quei sogni, la penserei nello stesso modo di Rudy.

Cominciò a giocherellare con le dita.

«Andrà tutto bene…», cercò di rassicurarlo, usando il suo tono più tranquillo.

«Sai cosa succederà?»

Gil annuì.

Rudy la guardò con un’espressione dubbiosa dipinta sul volto. Non era certo soddisfatto, e capì che qualcosa continuava a non quadrare. Comunque, questa ragazza era il contatto di Ingold e, nonostante la sua indubbia perspicacia ed il suo carisma, il vecchio ne aveva veramente bisogno.

Mentre saliva le scale, fu di nuovo assalito dal ricordo dello Stregone che usciva da un’aura di luminosa luce argentea: intanto Gil lo seguiva passo passo. Si girò bruscamente verso di lei chiedendole a bruciapelo:

«Hai fiducia in lui?»

Prima però che Gil potesse rispondere, la porta della baracca si aprì, e ne uscì Ingold che stringeva tra le braccia il bambino rubicondo ed in lacrime. A Gil i bambini non piacevano particolarmente ma, come la maggior parte delle donne come lei, provava un grande interesse per i deboli e gli indifesi. Sfiorò la guancia paffuta e rosea del Principe con prudenza, quasi avesse paura di rompere qualcosa.

«È molto bello…», sussurrò.

«È anche molto bagnato», replicò pragmaticamente Ingold, e ritornò in casa.

Fu Rudy che finì per cambiargli il pannolino: era l’unico ad avere una qualche esperienza in materia. Intanto Gil preparava lo stufato ed il caffé sulla stufa a kerosene, e Ingold si perdeva nell’esame degli interruttori della luce nel tentativo di afferrare il principio della corrente elettrica. Rudy notò, tra le altre cose, che Gil aveva portato con sé un’altra latta di kerosene, anche se, come ricordava bene, la piccola stufa era nascosta sotto un bancone quando era entrato la prima volta, e non c’era alcun segno che la casa fosse stata abitata da anni.

Come faceva Ingold a saperlo?

Gil gli si avvicinò e poggiò sul pavimento accanto a lui una tazza di caffé bollente e schiumoso. Osservò Rudy che stava giocando con Tir, solleticandolo, ed un bel sorriso le illuminò il volto, poi disse:

«Sai, sei il primo uomo che ho visto proporsi come volontario per il cambio di un pannolino.»

«Diamine!», replicò Rudy restituendole il sorriso. «Con sei tra fratelli e sorelle più giovani, uno deve abituarcisi!»

«Suppongo di si…» La ragazza provò una delle sedie traballanti, poi si accomodò tenendo una mano sulla spalliera. «Ho avuto soltanto una sorella, ed aveva appena due anni meno di me, così non ho mai dovuto occuparmene.»

Rudy la guardò.

«È come te?», chiese.

Gil scosse la testa.

«No. È molto più carina. Ha ventidue anni, ed è già al suo secondo divorzio…»

«Ti capisco: anche la mia sorella più giovane sta per divorziare», disse Rudy pensosamente, frugando nelle tasche della giacca in cerca delle chiavi della motocicletta che porse alle manine ansiose di Tir. Poi cercò di farlo mangiare. «Ha soltanto diciassette anni, ma ha visto molto più di me…» S’interruppe e seguì lo sguardo indagatore di Gil che stava fissando i disegni sulla sua giacca: teschi, rose, fiamme nere. «Picasso ha avuto il suo Periodo Blu. Io ho avuto il mio Periodo Pachuco…»

«Oh!», disse Gil con una vaga sfumatura di disgusto nella voce. «Fai parte di una banda?»

Rudy si accoccolò sui calcagni studiando l’espressione della ragazza.

«Cosa diavolo credi che faccia? Che viva nei bassifondi e campi di rapine?»

Poiché era esattamente quello che pensava, la ragazza non seppe cosa rispondere.

«No. Volevo dire…,» la sua voce si spezzò per la vergogna. «Vuoi dire che lo hai dipinto tu?»

«Certo!», affermò deciso Rudy, spiegando la giacca e mostrandogliela con tutta la sua elaborata simbologia intramezzata da macchie di grasso. «Lo disegnerei meglio adesso. Una sigla diversa e niente fuoco: il fuoco lo fa sembrare pacchiano. Cioè, se lo dovessi disegnare ora, userei una tecnica diversa», ammise. «Ma è comunque una buona pubblicità!»

«Vuoi dire che ti guadagni da vivere così?»

«Oh si! Per ora. Lavoro al negozio di abbigliamento e di pittura di Wild David Wild a Berdoo, e stai pur sicura che dipingere è di gran lunga più facile che fare l’operaio!»

Gil contemplò la giacca ancora per un poco e restò ferma con il mento appoggiato sulle mani incrociate sopra la spalliera della seggiola. Sebbene fosse violento e bizzarro, il disegno era veramente ben fatto, e rivelava una discreta abilità insieme ad una insospettabile delicatezza di stile.

«Allora non sei uno di quelli che girano in motocicletta?»

«Guido una motocicletta», rispose Rudy, «e le moto mi piacciono: ci lavoro su. Ma non faccio parte di una banda. Puoi veramente trovarti nei guai con quelli.» Il ragazza strinse le spalle. «Sono tipi un po’ troppo… anticonformisti. Io non potrei mai esserlo!»

Ingold rientrò di corsa in casa. Aveva seguito i cavi elettrici fino alla loro origine, ed aveva anche frugato nella terra intorno alla casupola come stesse cercando un tesoro nel polveroso silenzio dei boschi.

Gil si alzò, e riempì i piatti di stufato di manzo. Durante il pranzo, Rudy rimase in silenzio ad ascoltare la conversazione tra la ragazza e lo Stregone, e si chiese di nuovo come quella donna potesse credere in quello che il vecchio si ostinava a propugnarle come verità, e quanto di quelle chiacchiere tra i due potessero essere accettate per soddisfare la pazzia di un amico, per quanto si potesse volergli bene.

Era impossibile dirlo. Che Gil fosse pazza di quel vecchio era chiarissimo: era ovvio da come lo guardava e dall’intensità dei suoi sguardi. Il suo viso vivace e rilassato sembrava anche più carino. Era Ingold però che dominava la scena e conduceva: lei non faceva altro che seguirlo. Qualche volta Rudy si chiese se anche Gil non fosse pazza quanto il loro strano compagno.

«Non l’ho mai capito,» disse Gil, mentre soffiava sul caffé per raffreddarlo. «Devo ammettere che, quando tu ed Eldor ne avete parlato, mi sono sentita come una stupida.»

«In verità non lo capisce nessuno», replicò Ingold. «È un fenomeno raro, più raro della stessa Magia. Per quanto la storia del Regno ricordi, si è verificato solamente in due o tre case di nobili e in due di contadini. Non sappiamo cos’è e perché agisca così: un bambino improvvisamente richiama alla memoria avvenimenti accaduti a suo padre, ma nemmeno suo nonno ha mai mostrato di possedere un talento simile in tutta la sua vita. Sembra che si trasmetta soltanto per linea maschile e che salti qualche generazione: una o due, oppure cinque… Solo alcuni bambini riescono a ricordare certi avvenimenti, altri no!»

«Potrebbe trattarsi di un gene doppio, recessivo…», disse Gil pensosamente.

«Un cosa?»

«Una caratteristica genetica…» Rimase un attimo in silenzio. «Cristo! Nel tuo mondo nessuno sa niente di genetica, è vero?»

«Ha a che vedere con l’allevamento dei cavalli?», chiese Ingold sorridendo.

La ragazza annuì.

«Qualcosa del genere. Se procrei per ottenere una determinata caratteristica ed ottieni invece una regressione, continuerai a ottenerne quanto più procrei… o giù di lì. Dovremo parlarne più approfonditamente qualche altra volta.»

«Vuoi dire che il bambino,» disse Rudy entrando d’improvviso nella conversazione, «può ricordare ciò che accadde a suo padre e suo nonno, e cose simili?»

«Dovrebbe,» rispose Ingold. «Ma sarebbe un colpo di fortuna, perché non sappiamo per certo se e cosa ricorderà. Suo padre ricorda… ricordò,» la voce dello Stregone si spezzò per un attimo ed i suoi occhi si velarono appena, «cose che accaddero al tempo dei loro più antichi antenati. Riuscì ad arrivare fino a Dare di Renweth. E Dare di Renweth, Gil, era il Re al tempo della comparsa del Popolo del Buio.»

«Di chi?», chiese Rudy.

«Il Popolo del Buio.» L’impatto con il profondo sguardo blu dello Stregone diede l’impressione a Rudy che gli stesse leggendo i pensieri. «Il nemico dal quale stiamo scappando.» I suoi occhi si spostarono su Gil mentre la luce del sole si rifletteva morbida sui vetri della finestra posta ad occidente e scendeva a colpire i suoi lineamenti severi. «Sfortunatamente, ho motivo di temere che i Neri lo sappiano. Sono in grado di sapere molte cose… e il loro potere è diverso dal mio: di una diversa natura, poiché proviene da una fonte diversa. I loro attacchi si sono concentrati sul Palazzo a Gae perché, probabilmente, ritenevano che Eldor e Tir fossero pericolosi per i loro disegni. I loro ricordi forse erano effettivamente la chiave che può permetterci di sconfiggerli definitivamente. Sono riusciti a ehminare Eldor: ora rimane soltanto Tir…»

Gil alzò la testa e guardò con tenerezza il viso paffuto del bambino che continuava a giocherellare col mazzo di chiavi della motocicletta di Rudy. Poi si rivolse verso lo Stregone il cui profilo era riflesso dal vetro sporco e incrinato della finestra. Le colline facevano da cornice a tutta la scena, desolate, aspre e segnate di calanchi, ma con una loro severa bellezza accentuata dall’oro che spandeva su di loro la luce solare.

La sua voce si alzò tranquilla.

«Pensi che vi abbiano seguito sin qui?»

Ingold la guardò rapidamente, ed i suoi occhi azzurri incontrarono quelli della ragazza per allontanarsene subito.

«Oh, penso di no», replicò con la stessa tranquillità. «Non sanno nulla del Vuoto, né di come attraversarlo!»

«Come puoi esserne sicuro?», insistette Gil. «Tu stesso hai detto che non conosci tutti i loro poteri ed il loro sapere. Oltretutto non hai alcun potere particolare in questo mondo. Se quelli del Buio attraversassero il Vuoto, si troverebbero nella tua stessa situazione?»

Ingold scosse il capo.

«Dubito che riescano a materializzarsi in questo Universo», disse. «Le leggi della materia sono troppo diverse. Qui non c’è ciò che rende materialmente possibile la Magia… un mutamento dei criteri che regolano le leggi della fisica…»

La discussione cominciò a scivolare sulla Magia teorica e sulle sue relazioni con le arti marziali, e Rudy la segui sconcertato: anche se Ingold riusciva ad avere l’ultima parola, era più spesso la ragazza a proporre nuovi argomenti a difesa delle sue tesi.

Dopo un po’, Ingold si arrese, e decise di dar da mangiare a Tir. La ragazza uscì fuori sulla veranda e rimase in silenzio con il vento della sera che le scompigliava i capelli, ad osservare gli ultimi raggi di sole ad occidente. Si sedette sul margine superiore della scala, le gambe penzoloni, le braccia appoggiate sulle stecche vecchie e traballanti della balaustra. Le colline sotto i suoi occhi si coprirono di sfumature bronzo dorate che lentamente si trasformarono in una tinta simile a quella inafferrabile e trasparente del cristallo… sembrava quella dello champagne, e cambiava con la mutevole inclinazione della luce. Il pulviscolo che riempiva l’aria si illuminò d’oro e poi, improvvise, giunsero le fredde ombre delle colline ad accompagnare il sopraggiungere della sera. Il vento soffiava leggero tra l’erba rossiccia, ed ogni pietra, ogni ramo contorto degli alberi, si arricchiva di luce e di una sua caduca bellezza, unica e singolare…

Diventavano belli anche i profili della vecchia Chevy Impala e dell’impolverato Maggiolino di Gil che spuntavano tra l’erbaccia del piazzale.

La porta si aprì e si richiuse, ed il vento portò a Gil l’acre sentore di sego e di lana impregnati di fumo del pesante mantello di Ingold. L’uomo si sedette accanto alla ragazza.

Per alcuni minuti non parlarono; rimasero lì a godere dello spettacolo del tramonto in un caldo e confortevole silenzio.

Fu Ingold a romperlo.

«Grazie di essere venuta Gil. La tua presenza è molto importante…»

«Non c’è problema…», rispose la giovane scuotendo la testa.

«Ti da molto fastidio riaccompagnare Rudy in città?»

Gil capì che Ingold aveva colto il suo imbarazzo e fu quasi compiaciuta per quel suo interessamento.

«No, nessun fastidio.» Girò la testa e l’appoggiò al braccio che si reggeva alla balaustra. «Va bene…» Gil notò che, sebbene i capelli dello Stregone fossero candidi, le sue sopracciglia conservavano ancora il rosso acceso che doveva essere stato il colore originario di un tempo. «Ma lo porterò solo fino alla strada principale, e poi tornerò indietro. Non voglio lasciarvi qui da soli.»

«Staremo bene…», disse Ingold gentilmente.

«Non mi interessa,» replicò lei.

Ingold la guardò piegando il capo.

«Tu non potresti essere d’aiuto, sia che succeda, sia che non succeda nulla.»

«Non hai poteri magici qui», osservò la ragazza dolcemente. «E sei con le spalle al muro. Non posso lasciarti.»

Ingold incrociò le braccia sulla balaustra ed appoggiò il mento sui polsi: sembrava stesse contemplando il vento che scorreva tra l’erba dietro la veranda, e la prima brina che cominciava a comparire nelle pozze d’ombra sotto le colline lontane.

«Apprezzo la tua premura,» disse all’improvviso, «sebbene sia fuor di luogo. Non devi dire altro però, perché ho deciso di rischiare il ritorno questa stessa notte, prima che faccia completamente buio!»

Gil si spaventò. Si sentì liberata da un gran peso, ma allo stesso tempo era turbata da quel suo sollievo.

«Non capiterà niente a Tir?»

«Userò una formula magica per proteggerci. Dovrebbe essere sufficiente a fare da scudo per lui, perlomeno contro la parte peggiore e più scioccante del tragitto.» Il sole ormai era giunto al margine più alto delle colline e la brezza serale cominciava a portare con sé le prime avvisaglie del freddo notturno che si avvicinava. «Ci dovrebbero essere ancora due ore buone di sole nel mio mondo quando io ed il Principe torneremo indietro. Sembra che ci sia qualche discronia nel Vuoto. I nostri rispettivi mondi non sono sempre in sincronia, e forse riusciremo a nasconderci prima che giunga la notte.»

«Non sarà troppo rischioso?»

«Forse.» Ingold girò il capo per incontrare lo sguardo di Gil, e nella luce serale sempre più tenue, la ragazza vide che era stanco. Le ombre della balaustra gli oscuravano il volto, ma non riuscivano a nascondere le rughe profonde intorno alla bocca ed agli occhi. Le sue dita giocherellavano con piccoli frammenti di legno della veranda, ed appariva troppo rilassato rispetto al pericolo che lo attendeva. «Preferirei correre il rischio però, piuttosto che mettere a repentaglio il tuo mondo e la tua civiltà, nel caso che le creature del Buio riuscissero a seguirmi attraverso il Vuoto.»

Sospirò e si alzò, come per cancellare quei pensieri. Tese quindi una mano a Gil per aiutarla: era calda, forte, e ruvida, ma leggera e delicata come quella di un gioielliere. L’ultima luce del giorno la illuminò, e formò strane ombre cinesi sui vetri impolverati delle finestre.

«Sono abituato a giocarmi la vita, Gil», disse Ingold. «Ma, ogni volta che lo faccio, non metto mai a repentaglio quella degli altri. Specialmente quella di chi mi è fedele come lo sei tu. Non preoccuparti. Saremo del tutto al sicuro…»

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