CAPITOLO OTTAVO

«Starà bene?»

«Se il braccio non si infetta, si.»

Le voci giungevano distinte alle orecchie di Gil, anche se tra lei e loro c’era una sorta di barriera nebulosa quasi fosse un sogno nel quale lei poteva comprendere tutto, ma senza sapere in quale maniera riuscisse a farlo. Come in fondo ad un pozzo profondissimo, riuscì ad alzare gli occhi e scorse, lontana, l’alta figura di Alwir che si stagliava contro il sole oscurandolo quasi fosse una nuvola. Accanto a lui stava il Falcone di Ghiaccio, luminoso e freddo come il vento. Ma l’acqua del pozzo nel quale giaceva era percorsa da una sottile sofferenza, una sofferenza bruciante e luminosa, chiara come il cristallo.

La voce di Alwir continuò.

«Se si infetta lo perderà.»

«Nessuno sa dov’è Ingold?», chiese il Falcone di Ghiaccio.

«Chi lo sa? Una delle sue prerogative è quella di sparire di quando in quando.»

Maledetto!, pensò Gil in preda ad un’improvvisa rabbia cieca. Maledetto, maledetto, maledetto!!

Alwir si spostò, ed un raggio di sole la colpì negli occhi come la lama di un coltello. Gil girò convulsamente il volto per sfuggire, ed il movimento le procurò una fitta accecante di dolore che le attraversò le ossa del braccio sinistro. Pianse in preda ad una disperazione simile ad un’agonia.

Nel suo delirio cominciò a sognare, e nel suo sogno cominciò a ripercorrere la lunga strada che l’aveva condotta fin lì. Dal posto buio nel quale giaceva, poteva scorgere la sua cucina illuminata nell’appartamento di Clarke Street: un cumulo di tazze di caffé ancora da lavare ed un gran numero di vecchi giornali coprivano il tavolo, mentre il suo lavoro, la tesi destinata a rimanere incompleta, era sparso sul pavimento della stanza, ogni foglio simile ad una manciata di erba appassita.

Le sembrava di essere ancora vicina a quella vita, a pochi passi da casa, dall’Università, dall’esistenza calma e tranquilla di una studentessa modello, dagli amici, e dalla sicurezza del proprio tempo e del proprio spazio.

Sentì squillare il telefono, e capì che si trattava di una delle sue amiche che la stava cercando. Chissà da quanto tempo continuavano a telefonarle? Forse si sarebbero preoccupate, ed avrebbero cominciato a cercarla. Il pensiero della loro preoccupazione e della paura per la sua sorte che poteva nascere in loro, le fece male quasi quanto la ferita al braccio. Cercò di muoversi per andare fino alla cucina e poter finalmente rispondere. Ma c’era Ingold a sbarrarle la strada.

Incappucciato, la lama sguainata che riluceva come fosse cosparsa di fosforo, si fermò davanti a lei, una forma scura che mutava e volteggiava in balia di un vento misterioso.

Qualsiasi cosa cercasse di fare, lui era sempre sulla sua strada.

Gil cominciò a gridare: «Lasciami andare, lasciami andare!», in un attacco parossistico di furia impotente. Poi il vento colpì, sollevandolo come una grande ala scura, il mantello del Mago e, nello stesso istante, la sua figura divenne quella di un Guerriero del Buio che attraversava veloce l’aria.

La ragazza cercò di correre via, ma il mostro era già su di lei, ed allora cercò di lottare con la spada che le era comparsa tra le mani. Non appena la lama toccò quella creatura infernale, le sue fauci scattarono richiudendosi sul suo braccio lanciando uno sbuffo di acido che le bruciò la carne facendola urlare dal dolore.

Vide il suo braccio ridotto ad un ammasso di ossa e carne lacerata, poi vide una mano che si tendeva a sfiorarlo e a toccarlo modellando ed impastando i resti squarciati del muscolo quasi fossero di creta. Nel suo sogno comparve la figura di un uomo curvo su un banco di legno ed intento a modellare stucco ed a mescolare cere colorate.

Quella mano era di Ingold, riconoscibile dai segni e dalle tracce più chiare di antiche cicatrici, callose per il tempo passato a stringersi intorno all’elsa di una spada… Là c’era lui, stanco e trasandato, che la fissava con i suoi occhi luminosi cerchiati e segnati da un’enorme fatica.

Gil allungò una mano a toccarlo, come a cercare di credere in quello che vedeva, singhiozzando e pregando dentro di sé che non andasse via… Era stato lui ad intrappolarla in quel mondo, e provò improvvisa la voglia di maledirlo e di lottare contro la sua presa forte e sicura.

Poi quella parte di sogno svanì e su di lei scesero, pietose, le ombre scure e fitte del sonno…


Dalle scale del Palazzo Municipale, Rudy guardò i superstiti dei Nobili del Regno che si apprestavano a riunirsi in Consiglio. Era il primo pomeriggio, e fredde nuvole erano giunte dall’orizzonte a coprire la luce del giorno, stendendosi come un pesante mantello sulle montagne intorno a Karst, simili ad un triste presagio di morte.

Rudy aveva mangiato e dormito, ma per molto tempo avrebbe ricordato il lavoro compiuto con le Guardie e con i sopravvissuti agli orrori dell’ultima notte, quando avevano ripulito i corpi smembrati e straziati dalla melma intrisa di sangue che tappezzava il pavimento della piazza.

Ora aveva freddo, era stanco, e si sentiva ferito nell’animo. La piazza sembrava essere stata percossa dalla mano vendicativa di una divinità crudele, e dava un’impressione di assoluta desolazione. Sparsi e calpestati giacevano ancora nel fango i resti pietosi della lotta: vestiti, pentole, libri strappati, tutto materiale portato da Gae, e del quale ora i proprietari non avrebbero più saputo cosa farsene.

Durante i servizi funebri della mattina, aveva trovato quella che sembrava una piccola fortuna in gioielli sparpagliata nel fango della piazza, cose preziose evidentemente gettate via al momento di cercare un riparo in quella notte di terrore.

Karst adesso era una città di morti. La gente si muoveva ciecamente tra le case barcollando per la stanchezza, lo shock ed il dolore. Da ogni casa proveniva un lamento od un pianto che, unendosi agli altri, si diffondeva dappertutto come un mormorio soffocato. I luoghi che soltanto il giorno prima traboccavano di gente, ora erano pressoché vuoti. Uomini e donne attraversavano le vie immersi nei loro pensieri, e si guardavano l’un l’altro senza dire una sola parola perché non osavano chiedersi: «Cosa avverrà adesso?»

Sarebbe un ottima domanda, pensò Rudy seccamente. Cosa avverrà dal momento che i Guerrieri del Buio possono comparire di nuovo, da un momento all’altro? E cosa sarà di me, esiliato in un universo alieno, costretto a nascondermi ed a ripararmi fino a che qualcosa — il Buio, il freddo, la fame, la peste o qualsiasi altra avversità — mi colpirà impedendomi di far ritorno alla sicurezza familiare di casa mia?

Forse nemmeno Ingold avrebbe saputo rispondergli. E qualcuno avrebbe anche potuto imprigionare di nuovo il Mago e, questa volta, chi sarebbe andato a liberarlo?

Cosa succederebbe, pensò ancora Rudy, se qualcuno imprigionasse me? È possibile: io sono uno straniero, ignoro completamente le leggi di questo mondo, e ciò basterebbe a farmi gettare in una di quelle celle nelle quali ho trascorso la notte scorsa… Diamine, non conosco nemmeno la lingua!

Rudy era ben consapevole di non aver più pronunciato una parola di inglese da quando era giunto in quell’universo. Non riusciva proprio a capire come facesse a parlare il Wathe, la lingua ufficiale del Regno. Ingold gli aveva detto qualcosa su come arrabbattarsi con la lingua, ma allora non gli aveva dato molto peso, dato che lo credeva ancora un simpatico lunatico.

Rudy pensò che fosse quella dannata magia della quale si serviva ogni vagabondo nei suoi viaggi.

Scorse Ingold ed Alwir attraversare la piazza insieme, come se si controllassero l’un l’altro. Il Cancelliere camminava avvolto nel turbinio cremisi del suo mantello bruciacchiato con i rubini che brillavano come sangue raggrumato sulla pelle chiara di daino dei guanti. Ingold procedeva accanto a lui appoggiandosi al suo bastone come un vecchio stanco. Dio solo sapeva come avesse fatto il Mago a ritrovare sia il suo bastone che la spada…

La sua voce, forte e stridente con una leggera sfumatura vellutata di sottofondo, giunse alle orecchie di Rudy non appena i due cominciarono a salire le scale.

«… guardiamoci in faccia. Tutti quanti. Il nostro mondo, il nostro modo di vivere, è cambiato, e saremmo degli sciocchi se lo negassimo. Tutte le strutture del potere sono cambiate, e nessun tipo di macchinazione, di magia o di fede, ci permetterà di conservare ciò che avevamo prima.»

La voce di Alwir risuonò profonda e dolce nel rispondere.

«E tu, amico mio? Anche la tua magia ha fallito. Dov’è il tuo Arcimago adesso? E il Consiglio di Quo?…»

I due proseguirono allontanandosi, e Rudy non riuscì più a udire le loro parole.

Ha ragione Ingold, pensò il giovane. Posso essere ignorante, ma non sono stupido, ed è vero che tutto è cambiato: anche questa città che, nonostante sia stata trasformata in un campo profughi, ha avuto il suo splendore…

Rudy si fermò a contemplare ancora la piazza silenziosa. Soltanto ieri le case ed i palazzi avrebbero potuto essere venduti a cifre altissime. Adesso invece non rimaneva che un campo di battaglia cosparso di fango misto a terra, con ancora molte tracce della sanguinosa nottata.

Nel frattempo altre sagome si stavano avvicinando, ed egli le riconobbe: si trattava dei Nobili e dei notabili del Regno che si stavano avviando al Consiglio. Soltanto ieri glieli avevano indicati con orgoglio, mentre girellava per Karst senza preoccuparsi di nulla e limitandosi a fare l’involontario turista.

Riconobbe un paio di capi che si erano precipitati a Gae ad aiutare il Re e che poi avevano scelto Karst come ultimo baluardo. Uno era un giovane biondo dai lunghi capelli fluenti, l’altro un vecchio alto, vestito all’antica, che assomigliava a John Wayne nelle sue migliori interpretazioni da sceriffo. Insieme a loro si stavano avvicinando anche Janus, in una uniforme nera pulita, ma con ancora i segni della nottata, neanche fosse stato un poliziotto irlandese reduce da una rissa del venerdì notte, ed il Vescovo Govannin che si appoggiava al braccio di un prete. Tra quei personaggi spiccavano anche un paio di mercanti locali che stavano cercando, a quanto aveva saputo, di arricchirsi ulteriormente col mercato nero di acqua e cibo, dei quali c’era una spaventosa necessità.

Rudy gettò un’occhiata verso l’ombra gettata sul terreno dall’angolo della fontana. Il Consiglio poteva prolungarsi per tutto il pomeriggio, anche perché era necessario approntare un piano efficace per affrontare il prossimo calare della notte. Rudy si chiese se sarebbe riuscito a raggiungere Ingold al termine della riunione. Forse esisteva un modo per riuscire a tornare nel suo mondo senza tirarsi dietro tutti i Guerrieri del Buio. E forse l’Arcimago di Quo avrebbe potuto aiutarlo… in fondo era lui il capo di Ingold, o perlomeno lo era finché non fossero riusciti a mettersi in contatto con lui…

Poi, nella piazza comparve un volto familiare, e tutti i pensieri scomparvero dalla sua mente: la ragazza indossava un abito di velluto nero che aveva sostituito la pallida veste bianca del giorno prima. Le trecce avvolte in un’acconciatura complicata e lucente, la rendevano un po’ più vecchia, ma gli ricordarono egualmente un giovane e snello melo nella sua prima fioritura; era delicata, leggiadra, ed agile come una ballerina.

Si alzò senza pensarci e si mosse per raggiungerla.

«Vedo che stai bene,» disse. «Mi dispiace soltanto di non essere venuto io stesso a liberarti. Ma ero talmente stanco che non sono riuscito a pensare ad altro che a trovare un angolo di pace dove sdraiarmi a dormire un poco.»

Minalde gli sorrise timidamente.

«Va bene lo stesso. Gli uomini mandati da Alwir a cercarmi non hanno avuto alcun problema per trovarmi. E, dopo tutto ciò che hai fatto la scorsa notte, sarei stata una svergognata a chiederti di rinunciare ad un po’ di riposo per venire dietro a me ed assicurarti che non avessi altri problemi…»

La ragazza sembrava tesa e stanca, più fragile della notte precedente; a Rudy sembrò di poterla sollevare con una sola mano.

Alde continuò.

«Ti devo la vita… e Tir la sua due volte.»

«Si… Bene…», rispose imbarazzato Rudy. «Però penso ancora che sia stata un’azione da matti quella di seguirti in quelle gallerie. Penso che mi farò dare un’occhiata al cervello per averlo fatto.»

«Ti dissi un’altra volta che eri coraggioso», sorrise Alde burlandosi di lui. «Ora non puoi certo negarlo.»

«Figurati!», ghignò Rudy.

Gli angoli degli occhi della ragazza si incresparono leggermente in un’ombra di risata.

«Anche quando mi seguisti su per le scale?»

«Che diavolo! Non potevo certo lasciare che andassi da sola!» Rudy la fissò serio in volto per un istante ricordando il terrore provato in quel grande corridoio battuto dal vento e nell’intricato labirinto delle Volte. «Devi tenere molto al bambino per aver preso quella strada per salvarlo.»

La giovane allungò una mano a toccare quella di Rudy, e le sue dita erano calde e sottili.

«Si!», rispose semplicemente. «Tir è mio figlio. Se fossi morta io sola la scorsa notte, non avrebbe fatto una gran differenza… ti sarò grata in eterno per aver salvato la sua vita…»

Quindi si girò e salì le scale con la leggerezza di una ballerina, e le Guardie alle porte si inchinarono in un elaborato saluto al suo passaggio, mentre la giovane svaniva nelle ombre dell’entrata e Rudy rimaneva a bocca aperta per lo stupore, con i piedi che strusciavano nel fango della strada.


Il posto di guardia alle spalle della città, era stato una volta la stalla di qualche grande villa. All’occhio esercitato di Gil, la profusione di stemmi araldici eccessivamente lavorati sui cancelli delle case del complesso e la strombatura troppo ricercata delle finestre, sapevano di finta nobiltà, ed avevano l’inconfondibile impronta di qualche neo-arricchito.

Nella fredda luce del pomeriggio, la maggior parte del posto era visìbile dal pagliericcio dove giaceva, ricoperta da alcuni mantelli presi in prestito da chissà chi. Di quando in quando, il dolore la tormentava, strappandole qualche gemito sordo.

La luce del giorno non era certo benevola con quel luogo. L’edificio, che copriva tre lati del cortile, era stato grossolanamente trasformato in baracche e, tra le balle di fieno, spuntavano le maglie di ferro, le armi ed i materassi sui quali avevano dormito circa settanta Guardie, ammucchiate a casaccio. Il fango nel centro del cortile era scivoloso e coperto di impronte. In un angolo accanto alla fontana, qualcuno aveva improvvisato una cucina e stava preparando una farinata d’avena: la scia del fumo e l’odore del cibo giungeva fino al giaciglio di Gil. Nello spazio restante, una trentina di Guardie erano impegnate nelle esercitazioni quotidiane, infangate fino alle sopraccigha.

Erano brave però. Persino l’occhio poco esperto di Gil riusciva a cogliere la loro velocità ed il loro senso dell’ equilibrio. Erano guerrieri professionisti, un’elite. Stando lì per la maggior parte della giornata, la ragazza li aveva visti tornare dal loro turno di servizio. Tutti avevano combattuto la scorsa notte e molti, come lei, portavano addosso i segni di quella lotta. Tra i morti però, pochissimi erano Guardie, ed ora riusciva a capirne il motivo. La velocità, la resistenza, la capacità di reagire senza pensare, erano un tutt’uno per quegli uomini e quelle donne. Il movimento rapido dell’attacco e della difesa era tanto automatico per loro quanto quello di un dito che si ritraesse da una fiamma.

In quel momento si stavano addestrando con spade di legno simili agli shinai giapponesi, armi che certo non tagliavano né ferivano, ma lasciavano in cambio terribili escoriazioni. Nessuno del resto portava un’armatura od uno scudo per evitare i colpi.

Gil continuò a guardarli con un’ammirazione che in qualche punto sconfinava nel timóre reverenziale.

«A cosa stai pensando?», chiese una voce accanto a lei.

Alzando gli occhi, la ragazza scorse il Falcone di Ghiaccio in piedi vicino al suo letto, con il volto seminascosto dall’ombra.

Gil fece un gesto in silenzio verso le figure che si muovevano in lontananza, e verso il cupo ticchettio delle lame di legno che battevano una contro l’altra.

L’uomo annuì, volgendo il suo sguardo pallido nella stessa direzione.

«Per te è impossibile non essere perfetto in combattimento, vero?», chiese Gil continuando ad osservare i movimenti aggraziati delle Guardie, simili quasi ad una danza. «E loro sono come te: perfetti!»

Il Falcone di Ghiaccio scrollò le spalle, ma i suoi occhi avevano una luce interrogativa sotto le sopracciglia argentee.

«Se sai maneggiare soltanto un’arma» commentò, «è meglio essere perfetti. Come sta adesso il tuo braccio?»

Gil scosse lentamente la testa cercando di non pensare al dolore.

«È stato stupido da parte mia.» Le bende, ancora incrostate di sangue, spuntavano dalla manica logora e strappata della camicia. «Ero stanca, avrei dovuto accorgermene… forse non sarebbe accaduto.»

Il giovane alto si appoggiò al muro piegando i pollici sull’elsa della spada con un gesto che le Guardie conoscevano bene.

«Non ti sei comportata male però», le disse. «Hai una certa abilità istintiva, un certo talento. Personalmente non credevo che riuscissi a farcela dopo il primo combattimento: i principianti di solito non ce la fanno… tu, invece, hai l’istinto di uccidere…»

«Cosa?», esclamò Gil, più sorpresa che altro, anche se, dopo aver riflettuto un attimo, pensò che forse avrebbe dovuto essere almeno un po’ spaventata.

«Tra la mia gente è un complimento,» continuò il Falcone di Ghiaccio con quella sua voce incolore e sussurrante. «Uccidere, significa uscire vivi da un combattimento. Vuol dire avere veramente voglia di vivere.» Quindi alzò gli occhi verso il cielo grigio del pomeriggio, e si sistemò contro il muro stringendo le mani intorno ad un ginocchio. «Nel Regno, considerano una simile visione della vita pazzesca, e forse anche tra la tua gente è così. Per questo dicono che le Guardie sono pazze e, dal loro punto di vista, forse hanno ragione.»

Forse…, pensò Gil, forse…

Sembrava giusto se si esaminava la cosa da lontano, continuò a meditare la ragazza. Quell’impegno, quel bisogno, raramente veniva compreso… Nessuno più di Rudy era riuscito a capire il motivo che l’aveva allontanata dalla casa e dalla famiglia per amore delle gioie astratte e coinvolgenti dell’erudizione. E, a modo suo, era quasi lo stesso genere di pazzia…

Un uomo piccolo e calvo si muoveva tra i guerrieri che continuavano ad allenarsi, osservando tutto con i suoi occhi castani e luminosi. Si fermò proprio dietro Seya passandosi una mano attraverso i riccioli della folta barba bruna mentre osservava gli sforzi della donna che combatteva contro un’altra Guardia della sua stessa corporatura.

Seya sferrò un colpo ed evitò la replica dell’avversario, poi si spostò per colpire di nuovo, ma l’osservatore allungò una gamba agganciando quelle della donna e facendola, poco cortesemente, rotolare nel fango.

«Posizione più stabile,» disse, poi si voltò ed andò via.

Seya si alzò lentamente in piedi, si asciugò il fango dal viso, e ritornò al suo addestramento.

«Sono pochi quelli che riescono a capirci», continuò il Falcone di Ghiaccio con quel suo tono suadente. «Pochissimi possiedono interamente quest’istinto per la vita od un’esatta comprensione per il fuoco della perfezione. Forse è anche per questo motivo che sono sempre esistite poche Guardie.»

La fissò a lungo, e la luce mise in risalto le ossa irregolari del suo viso.

«Vorresti diventarlo?»

Gil si accorse di arrossire, ed il suo polso accelerò i battiti. Attese di essere più calma prima di rispondere.

«Vuoi dire, rimanere qui per sempre, ed essere una Guardia come voi?»

«Non abbiamo molti rincalzi…»

La ragazza tacque di nuovo, anche se sentiva crescere dentro di sé un genere del tutto nuovo di tensione che le bloccava i muscoli e la rendeva sempre più confusa. Gettò uno sguardo verso il piccolo uomo calvo che continuava a camminare quasi senza interessarsi delle lame che oscillavano, per poi fermarsi di colpo e piegare in due una Guardia colpendola allo stomaco e continuare ancora, pronto a correggere la sua prossima vittima. Infine, dopo un’altra lunga pausa, disse:

«Non posso.»

«Sei sicura?», rispose il Falcone di Ghiaccio.

«Sto per ritornare nel mio mondo…»

L’uomo la guardò sollevando un sopracciglio.

«Mi dispiace…», mormorò Gil.

«Anche a Gnift dispiacerà ricevere questa notizia», disse il Falcone di Ghiaccio.

«Gnift?»

L’uomo indicò l’istruttore calvo nella piazza.

«È lui che insegna alle Guardie. Ti ha visto la notte scorsa e nelle sale di Gae. Dice che potresti diventare molto brava…»

Gil scosse la testa.

«Se rimanessi,» disse, «sarebbe soltanto una questione di tempo, fino a che non cadessi in qualche combattimento.»

«Si tratta sempre soltanto di una questione di tempo,» rimarcò il Falcone di Ghiaccio. «Ma hai ragione.» Alzò lo sguardo appena un’altra ombra si profilò sotto il tetto basso ricoperto di assicelle.

«Ehi, Gil…» Rudy si gettò sulla balla di paglia accanto al giaciglio della ragazza. «Mi hanno detto che sei stata ferita… Stai bene?»

Gil scrollò le spalle istintivamente, ma il movimento la fece sussultare anche se non avrebbe voluto.

«Sopravviverò…»

Nella penombra, Rudy sembrava trasandato e depresso; la sua giacca dipinta era incrostata di fango e melma bruciacchiata, mentre i capelli erano ugualmente sporchi di sudore. Anche se era riuscito a trovare un rasoio da qualche parte per farsi la barba, il suo aspetto nell’insieme era quello di un uomo scampato a qualche grave sciagura.

E non potrebbe essere diversamente, pensò Gil.

«La riunione del Consiglio è finita», la informò Rudy scrutando il cortile davanti a sé con lo sguardo attento. «Penso che ormai Ingold dovrebbe essere già qui, ed è da molto che gli abbiamo parlato del nostro ritorno…»

Attraverso il cortile un gruppetto di figure emerse dalle ombre che già ricoprivano l’alto cancello della casa: erano Alwir, Govannin di Gae, Janus delle Guardie, ed un omone sfregiato, dall’aria imponente, che forse era Tomec Tirkenson, capo di Gettlesand. Il mantello del Cancelliere ruotò creando una grande macchia rossa contro il grigiore del cielo, e la sua voce possente echeggiò fino alle orecchie dei tre nella baracca.

«… la donna preferirebbe non credere più a nulla piuttosto che lasciare che sia fatto del male al suo bambino. Non sto dicendo che lui avrebbe potuto mettere un altro bambino al posto del Principe se quest’ultimo fosse stato ucciso dai Guerrieri del Buio… ma soltanto che avrebbe potuto farlo facilmente…»

«Per quale scopo?», chiese il Vescovo con quella voce che ricordava le ossa di un animale abbandonate a scolorire sotto il sole del deserto.

Sotto il bianco delle bende pulite, il viso di Janus arrossì vistosamente. Persino da quella distanza Gil riuscì ad afferrare il minaccioso luccichio che stava arrossando gli occhi del Comandante.

Alwir scosse le spalle.

«Quale scopo?», disse, facendo cadere dall’alto la sua risposta. «Ma l’uomo che salva un Principe avrebbe un prestigio sicuramente superiore a quello di chi non fosse stato capace di farlo. In particolare adesso, quando appare chiaro a tutti che la sua Magia comincia ad avere qualche effetto sul Buio. La gratitudine di una Regina può fare molto nello stabilire la posizione di un uomo in un nuovo governo, e Consigliere del Regno è un buon punto di arrivo per un uomo che ha iniziato la sua carriera come schiavo ad Alketch.»

La rabbia infiammò il volto di Janus che si stava accingendo a replicare, ma in quel momento il Falcone di Ghiaccio, che si era allontanato dalla baracca avviandosi speditamente verso il gruppetto, toccò il braccio del suo Comandante, sviandone l’attenzione in una situazione che poteva facilmente esplodere in un attimo.

Parlottarono tutti a bassa voce, e Alwir e Govannin ascoltarono con tranquilla curiosità. Gil scorse la lunga e sottile mano del Falcone di Ghiaccio che si agitava nella sua direzione.

Alwir sollevò le sopracciglia.

«Ritornare?», chiese sorpreso, e la sua voce attraversò l’intero cortile. «Non è questo ciò che mi è stato detto!»

Non c’era certo bisogno di chiedere di chi stessero parlando. Gil rabbrividì per lo spavento, ma gettò via il mantello che la copriva e si alzò in piedi. Attraversò il cortile con aria altera e distaccata, anche se il braccio le pulsava in maniera quasi insopportabile.

Alwir la vide e attese che si avvicinasse, osservandola con un attento sguardo calcolatore che brillava nelle profondità dei suoi occhi color fiordaliso.

«Che cosa ti è stato detto?», chiese Gil.

Le sopracciglia del Cancelliere si inarcarono per la sorpresa. Ma non durò molto: quello sguardo freddo la studiò da capo a piedi — logora, sporca, inzaccherata — confrontandola, senza dare a vederlo, con la sua figura immacolata, ed esprimendo un sardonico rincrescimento per il tipo di gente che Ingold sceglieva come amici.

«Che Ingold non può o non potrà farvi ritornare nel vostro mondo. Certamente ve ne avrà parlato…»

«Che stai dicendo?», esclamò Rudy. Gil si voltò e lo scorse accanto a sé. Senza dubbio si era affrettato a raggiungerla di corsa, perché ansimava leggermente.

Alwir scosse le spalle.

«Chiedetelo a lui. Se è ancora a Karst… Gli arrivi improvvisi e le partenze misteriose sono all’ordine del giorno per lui. Io non l’ho più visto da quando ha lasciato la riunione, ed ormai è passato un bel po’ di tempo.»

«Dov’è?», chiese Gil a bassa voce. Era la prima volta che parlava direttamente con Alwir. Nel corso del loro primo incontro, il Cancelliere l’aveva appena notata, ma c’era una strana sensazione in lei: quasi l’associasse in qualche misteriosa maniera all’arresto di Ingold.

«Ragazza mia, non ne ho la più pallida idea.»

«È sicuramente rimasto qui!», grugnì Tirkenson, gesticolando con la sua mano grande come un badile ed altrettanto sporca verso la stretta fortificazione che dominava il cancello del cortile. «Non ho ancora sentito che abbia lasciato la città.»

Gil si girò su se stessa e si diresse verso la piccola porta che dava sulle scale della casa senza dire una parola.

«Gil-Shalos!»

Il richiamo di Alwir giunse inaspettato. A dispetto di se stessa, la ragazza si sentì costretta a fermarsi, quasi fosse stata colpita dal comando che vibrava in quella voce, e si girò tremando, quasi avesse fatto una lunga corsa.

Il vento agitò il mantello del Cancelliere e rubini color del sangue luccicarono sulle sue dita.

«Senza dubbio avrà delle buone ragioni per ciò che fa. Ne ha sempre ragazza mia, ma guardati da lui. Le sue azioni hanno sempre uno scopo, e uno scopo che è tutto a suo vantaggio…»

Gil incontrò gli occhi di Alwir e fu come se lo vedesse per la prima volta; studiò quelle fattezze quasi a memorizzare l’espressione di quelle labbra taglienti che mostravano chiaramente il suo disprezzo per i sottoposti, e la posizione sporgente della mascella, dalla quale era possibile capire quanta arroganza e quanto spietato egoismo animasse quell’uomo.

Gil si ritrovò a tremare, agitata da una sorda rabbia, mentre le sue mani cercavano quasi per istinto l’elsa ormai familiare di una spada.

«Ogni uomo ha il suo scopo, mio Signore Alwir,» rispose sottovoce. Poi si avviò, ed abbandonò il gruppetto mentre Rudy si affrettava a seguirla.

Alwir li lasciò andar via e li guardò svanire nel buio passaggio della porta. Si era accorto dell’odio che Gil provava per lui, ma non ne rimase scosso: era abituato ad essere detestato dai suoi sudditi. Scosse il capo tristemente, e poi li scacciò dai suoi pensieri.

Né Gil né Rudy pronunciarono una parola mentre si avventuravano lungo i gradini scivolosi della scura scala a spirale. Quell’angusto passaggio li condusse fino ad una stanza, appena più grande di un atrio, situata oltre il cancello stesso; da alcune finestre sagomate a oblò, penetrava una smorta luce bianca filtrata da spessi vetri smerigliati. Il luogo, nato evidentemente come alloggio per un custode, era ora diventato il magazzino provvisorio dei viveri delle Guardie. Lungo le pareti infatti si stendevano pile ordinate di sacchi di farina e di avena, disposti l’uno sull’altro come i sacchi di sabbia degli argini dei fiumi, ed erano alternati a grandi forme di formaggio rosso coperto di cera.

In un angolo, lontano da quelle provviste, su una bassa pila di sacchi, erano state sistemate una coperta ed una stuoia di pelliccia. Un piccolo fagotto contenente un abito pulito, un libro, ed un paio di guanti lavorati a maglia, era avvoltolato ai piedi di quel giaciglio improvvisato. Ingold se ne stava seduto accanto alla finestra che dava a sud, immobile come una pietra. Quella luce chiara lo mostrava come una fotografia in bianco e nero, mettendo in risalto le profonde rughe dell’età e della fatica incise sul suo viso, che partivano dagli occhi fino a raggiungere le tempie.

Gil iniziò a parlare, poi si accorse che lo Stregone stava osservando un cristallo che aveva posto sul davanzale della finestra. I suoi occhi erano puntati sulla sfaccettatura centrale della pietra, lavorata come una gemma, quasi stesse cercando un’immagine nel cuore dell’oggetto.

Gli occhi di Ingold si sollevarono verso i due giovani e sorrisero.

«Entrate,» disse.

Gil e Rudy si mossero cautamente attraverso la stanza evitando gli oggetti sparsi qua e là, e si diressero verso il piccolo spazio di pavimento sgombro accanto al letto del Mago, dove trovarono da sedersi su sacchi e barilotti.

«Alwir ci ha detto che non ci rimanderai nel nostro mondo,» disse Gil.

Ingold sospirò, senza distogliere lo sguardo dal volto amareggiato della ragazza.

«Temo che abbia ragione…»

Gil respirò profondamente e la paura, il dolore, ed il timore di un incerto futuro, la colpirono brutalmente. Nascondendo l’emozione, chiese con voce contratta:

«Mai?»

«Almeno per qualche mese…», rispose il Mago.

Gil sospirò ancora, ma lasciar andar via il respiro lentamente non alleviò per nulla il suo dolore.

«Va bene…», disse, e fece per andar via.

La mano di Ingold scattò a trattenerla.

«Siediti!», le disse dolcemente. La ragazza cercò di liberare il braccio, senza rispondere, ma la stretta dello Stregone era troppo forte. «Per favore…»

Gil si voltò, fredda e innervosita ma, abbassando lo sguardo verso gli occhi blu di Ingold, si accorse che l’uomo era stato ferito dalla sua rabbia. Sentì il cuore battere in fretta.

«Per favore, Gil…»

Lei si allontanò ancora da lui per un momento, per tutta la lunghezza delle loro braccia. Le dita dell’uomo rimasero strette intorno al polso, quasi che Ingold avesse paura, una volta lasciatala, di non vederla mai più.

E forse potrebbe anche avere ragione… pensò Gil.

In quello stesso istante, davanti ai suoi occhi scorsero le immagini dei suoi sogni; calde e luminose visioni di un’altra vita, di un altro mondo… Gli amici, la sua borsa di studio — ragione non ultima del suo impegno — si stavano allontanando da lei, mentre al loro posto prendeva sostanza una forma cupa e misteriosa che avrebbe potuto essere sia quella di un Guerriero del Buio, sia quella più familiare di Ingold. I suoi progetti, i suoi piani, tutte le sue ricerche e le sue relazioni, caddero in un baratro profondo come la morte, nel quale lei non sarebbe mai più potuta scendere a tentare di recuperare qualcosa… La rabbia montò in lei come un’ondata feroce di calore.

Alle sue spalle sentì Rudy alzarsi e dire, in tono allarmato:

«Alcuni mesi è un periodo troppo lungo per continuare a giocare a nascondino con il Buio, amico!»

«Mi dispiace,» rispose Ingold, ma i suoi occhi non avevano abbandonato per un attimo Gil.

Tremando per lo sforzo che le costava, la giovane riuscì a smaltire la rabbia, ingoiandola. Senza quell’energia che ancora la sosteneva, si sentì però improvvisamente debole e barcollò. Ingold le si avvicinò e l’aiutò premurosamente a sedere sul suo giaciglio: lei non oppose alcuna resistenza.

«Avrei dovuto parlarvene prima del Consiglio,» disse lo Stregone a bassa voce. «Temevo che sarebbe successo proprio questo.»

Gil non riuscì a parlare, ma Rudy si sostituì a lei:

«Tu avevi detto qualcosa in proposito ieri mattina quando stavi andando a Gae con le Guardie… Se il Buio si fosse fatto vivo, forse non avremmo potuto far ritorno…»

«È vero!», ammise Ingold. «Avevo paura di questa eventualità da molto tempo. Vi ho già detto una volta che i nostri mondi sono estremamente vicini l’uno all’altro. Vicini abbastanza da consentire ad un sognatore — come ha fatto Gil — di oltrepassare il confine tra di loro. Vicini tanto da consentirmi di transitare velocemente da un mondo all’altro come fa un uomo che si muove dietro le pieghe di una tenda… Con il passar del tempo questa vicinanza diminuirà, e la congiunzione tra i due mondi terminerà… soltanto allora, con il Buio o senza il Buio, mi sentirò abbastanza sicuro di potervi rimandare indietro.

«Sono consapevole di quanto accade nel Vuoto tanto quanto lo sono del trascorrere del tempo. La prima volta che l’ho attraversato per raggiungere Gil nel suo appartamento, ero conscio di un indebolimento nella sua struttura in vicinanza del passaggio che avevo effettuato. È stato proprio in quel momento però che ho iniziato ad avere paura. I Guerrieri del Buio non comprendono il Vuoto, ma ritengo che in quel momento si accorsero della sua esistenza. Alla fine lo videro. La seconda volta che lo attraversai, fuggendo dalla battaglia nel Palazzo di Gae, sentii un Guerriero che mi seguiva. L’apertura che feci allora provocò una serie di fratture nel suo tessuto; la maggior parte di esse non avrebbe fatto mai passare un essere umano, ma il Buio, dotato di una consistenza diversa dalla nostra, fu capace di usarne almeno una. Questo avvenne quando cercai di mandarvi via dalla baracca, ma tu fosti troppo testarda per andar via…»

«Io fui testarda?», saltò su Gil. «Fosti tu l’unico testardo!»

«Ehi, se mi avessi detto la verità…»

«Io ve l’ho detta», rispose Ingold a Rudy. «Foste voi a non credermi.»

«Ma…»

Le lamentele di Rudy si spensero in un silenzio imbarazzato.

«Sentivo che mandarvi indietro ieri sarebbe stato assolutamente insicuro, con i Guerrieri del Buio ad appena quindici miglia da Karst», continuò imperterrito Ingold. «Adesso è sicuramente fuori questione. L’unico Guerriero del Buio che attraversò il Vuoto dopo di me, ricavò una certa conoscenza da quello che stava facendo. E adesso essi sanno che dall’altra parte esistono altri esseri umani…»

«Come fai ad affermarlo?» Le doghe del barilotto si ruppero non appena Rudy cambiò posizione, costringendolo a contorcersi per riuscire a stare in piedi. «L’unico che ti seguì è finito tra le fiamme, nel nostro mondo… E certo non è potuto tornare indietro per raccontare quanto sapeva.»

«Non ne aveva bisogno.» Ingold si voltò verso Gil. «Hai visto con i tuoi occhi la velocità con la quale combattono quelle creature, e li hai visti cambiare posizione e muoversi come un’unico corpo. Non sono sicuro del modo nel quale avviene uno scambio di informazioni tra di loro, ma credo che quello che uno impara, dopo un istante lo sanno tutti gli altri. Se noi ora indeboliamo la struttura del Vuoto, così che molti di loro possano attraversarlo insieme a te e Rudy, e se, come sospetto, la loro conoscenza degli avvenimenti è simultanea e non cumulativa, sarebbe poi soltanto questione di tempo prima che imparino a manovrare i cancelli attraverso il Vuoto da soli.

«Quale Guardiano del Vuoto io ne sono responsabile. In questo momento non posso mettere in pericolo il vostro mondo rimandandovi indietro.»

Nel silenzio che seguì a quelle parole, echeggiò lontano il lento picchiettio degli zoccoli dei cavalli nel cortile, al quale si aggiunse la voce indistinta di Janus che urlava qualche incomprensibile comando. Un cane abbaiò da qualche parte e, proprio in quell’istante, la luce nella stanza iniziò a scemare, lasciando posto al crepuscolo che scese d’improvviso sulla città.

«Cosa possiamo fare allora?», chiese Rudy.

«Aspettare,» rispose Ingold, «Solamente aspettare. Fino all’inverno, quando i nostri mondi saranno abbastanza lontani da permettere un passaggio sicuro. O aspettare fino a che io non sia riuscito a parlare con l’Arcimago.»

Gil alzò gli occhi.

«Ne hai parlato prima…»

Ingold annuì.

«Lui è il Capo del Consiglio dei Maghi di Quo, colui che governa tutta la Magia del mio mondo. La sua comprensione delle cose è molto maggiore della mia, così come i suoi poteri. Se qualcuno può aiutarci, quell’uomo è lui.

«Riuscii a parlare a Lohiro appena prima che i Guerrieri del Buio irrompessero a Gae. Mi disse che l’intero Consiglio dei Maghi, in pratica tutti coloro che praticano la Magia nell’emisfero occidentale, si era riunito a Quo. La Magia è conoscenza, lo sapete… Unendo insieme tutta la Magia, tutta la conoscenza, e tutto il potere esistente in questa parte del mondo, potremmo anche trovare un modo per sconfiggere il Buio…

«Cingerò Quo tra le pareti dell’aria e ne farò una fortezza che nessuna Oscurità potrà penetrare… Qui saremo al sicuro e, da questa fortezza, amico mio, torneremo alla luce…

«Queste furono le ultime parole che ho ascoltato da lui…»

Gli occhi di Ingold a quel ricordo persero un po’ della loro durezza e la sua voce mutò acquistando un tono ed una cadenza diversi. La sua mano sfiorò il cristallo posato sul davanzale e le sfaccettature rosee della pietra brillarono nella luce.

«Ogni tanto credo di riuscire a centrare un contatto, un collegamento… ho l’impressione di vedere la sagoma delle colline intorno alla città, e i contorni della Torre di Forn che emergono dalla foschia. Ma non ho saputo nulla, né da Lohiro, né da qualche altro Mago. Si sono racchiusi in un cerchio di incantesimi che è possibile spezzare soltanto percorrendo le strade dell’Illusione… e solo un vero Mago può farlo.»

«Poi ci lascerai partire?», chiese gentilmente Gil.

Lo sguardo di Ingold tornò veloce verso di lei.

«Non immediatamente,» disse. «Ma intanto andremo via da Karst. Domani all’alba Alwir condurrà la gente a sud, verso il vecchio torrione di Dare a Renweth, vicino al Passo di Sarda… Ne avete sentito parlare in Consiglio… Era la fortezza più antica costruita dagli uomini del Vecchio Regno contro il Buio, molte migliaia di anni fa, al tempo della prima invasione di quelle malvage creature. Sarà un viaggio lungo e faticoso, ma a Renweth sarete al sicuro… non meno comunque di qualunque altro posto su questo mondo.

«Io andrò con gli altri a Renweth. Anche se non faccio più parte del Consiglio dei Reggenti, sono pur sempre legato al giuramento fatto a Eldor prima della sua morte. Gli promisi di portare il Principe Tir in un posto sicuro, e non posso venir meno alla parola data, con o senza l’approvazione di Alwir. Temo che voi due, ragazzi miei, vi siate alleati ad un emarginato, a qualcuno che la gente non vede di buon occhio!»

«Alwir può anche andare all’inferno, per quanto mi riguarda!», disse Gil seccamente.

«Non considerarlo troppo male: lui ha i suoi sistemi… è solo che mi trova un po’ troppo… imprevedibile,» disse Ingold scuotendo il capo. «Sulla strada di Renweth Tir sarà in costante pericolo a causa del Buio. Non posso lasciarlo quindi, ma Renweth per me sarà soltanto una tappa di un viaggio più lungo e con molte incognite.»

«Sono d’accordo con te…», si intromise Rudy che fino a quel momento aveva riflettuto sulle parole dello Stregone. «Ma non potremmo accompagnarti fino a Quo? Se venissimo fin là, non correremmo alcun pericolo da parte del Buio: se è così sicuro, sarebbe l’unico posto nel quale i Guerrieri del Buio non oserebbero mettere… piede.»

«È vero,» assentì Ingold. «Se voi decideste di venire a Quo sareste al sicuro. Ma non ve lo consiglio. Pochissime persone hanno avuto il coraggio, o l’incoscienza, di avventurarsi nella pianura e nel deserto d’inverno. Si tratta di attraversare circa duemila miglia di lande desolate. In aggiunta al Buio ci sarà anche il pericolo dei Razziatori Bianchi, una delle tribù barbare che hanno intrapreso da secoli una feroce lotta ai confini del Regno.»

«Ma tu ci stai andando!», esclamò Rudy, puntando l’indice verso la figura seduta del Mago.

La mano di Ingold continuò a giocherellare con il cristallo sul davanzale della finestra.

«E voi potreste essere al sicuro viaggiando con me. Ma dovete credermi se vi dico che le possibilità di rivedere il vostro mondo sono di gran lunga maggiori rimanendo nel Torrione di Dare.»

Gil era rimasta in silenzio: le sue mani stringevano con forza le ginocchia, ed i suoi occhi erano persi nella tenebra intorno alla porta. Cercò di immaginare quella fortezza tra le montagne: settimane, forse sei mesi da sola, senza conoscere nessuno, una vera vita da reclusa. La sua mascella si indurì.

«Tu ritornerai però, vero?»

«Vi ho portati su questo mondo contro la vostra volontà», disse calmo Ingold. Appoggiò le mani su quelle di lei, e il calore di quel contatto l’attraversò riscaldandola come faceva sempre. «Per questa ragione, già sufficiente da sola, sono responsabile della vostra incolumità. Lohiro può avere una risposta migliore di quella che potrei trovare io. Ed è anche probabile che torni al Torrione in sua compagnia.»

«Va bene!», disse Rudy con un tono incerto di voce. «Ma cosa accadrà se non riuscirai a trovare i Maghi? Cosa accadrà se non riuscirai a oltrepassare il cerchio magico dentro il quale si sono rinchiusi? Cosa accadrà se — ed è soltanto una supposizione — l’Arcimago dovesse essere morto?»

Quest’ultima frase gli uscì a fatica dalle labbra. Non avrebbe voluto pronunciarla dal momento che Ingold faceva molto affidamento sulle capacità dell’Arcimago, ma il cipiglio dello Stregone non fu tanto di ansietà quanto di considerazione per quell’ipotesi.

«È possibile,» ammise con calma Ingold. «Ci avevo pensato, si, ma… lo saprei… se Lohiro fosse morto.»

L’ultima luce del crepuscolo scintillò sulle sue folte sopracciglia aggrottate.

«Gli incantesimi che circondano Quo potrebbero nasconderlo… però, anche in questo caso riuscirei a saperlo. So che lo saprei.»

«Come?», chiese Rudy incuriosito.

«Per un motivo semplicissimo: lui è l’Arcimago, ed io sono un Mago.»

«È per questo che Alwir ti ha cacciato dal Consiglio?», chiese a sua volta Gil rammentandosi degli occhi gelidi del Vescovo e del modo in cui Alwir aveva parlato di Ingold davanti al cancello del cortile. «Perché sei un Mago?»

Ingold sorrise e scosse la testa.

«No,» rispose. «Io e Alwir siamo nemici da lunga data. Lui non ha mai potuto digerire la mia amicizia con Eldor. E temo che non riuscirà mai a perdonarmi di aver avuto ragione circa i pericoli che avremmo incontrato insistendo a rimanere qui a Karst. Alwir, come avrete potuto immaginare, non ha mai voluto considerare seriamente l’idea di portare la popolazione nei Torrioni. Sono fortezze sicure contro gli attacchi del Buio, ma con una funzione prevalentemente difensiva. Ritirarsi in esse significa frantumare il Regno oltre ogni logica possibilità di ricostruzione e cancellare migliaia di anni di civiltà umana. Un destino simile è però inevitabile in una società isolata nella quale non esistono mezzi di scambio e di comunicazione oltre quelli che si possono utilizzare giorno per giorno. Il sapere diminuirà certamente, e dominerà una diffusa ignoranza; la capacità dell’uomo di guardare lontano, di progettare per il futuro, sarà sostituita da una meschina ottusità che non riuscirà a pensare a qualcosa che possa oltrepassare i confini della sua conoscenza immanente. Come sai bene dai tuoi studi, la legge del singolo genera inevitabilmente abusi e malversazioni: senza un centro dal quale diffondersi, raccogliendo idee ed esperienze, la Chiesa degenererà, ed i suoi teologi o sacerdoti si trasformeranno in scrivani santificati, semplici dispensatori di Sacramenti di cui non conosceranno neanche più il significato, ad una popolazione rozza e superstiziosa. Temo che anche l’arte della Magia avrà a soffrirne, inquinata dalle mille piccole necessità quotidiane alle quali può far fronte fino a perdere completamente di vista il suo fine ultimo che è quello di acquisire la conoscenza dell’intero Cosmo. Tutto ciò che richiede un complesso di conoscenze svanirà lentamente: le Università, la medicina, ogni forma evoluta d’arte, diventeranno semplici ombre del passato del quale nessuno saprà nulla…

«Eldor era uno studioso, e previde tutto questo. Sapeva cosa era successo migliaia di anni fa grazie alle proprie memorie ancestrali, e conosceva bene i secoli della superstizione e dell’oscurità del pensiero quando regnava la paura dell’ignoto, una vera calamità per quegli uomini. Alwir e Govannin sanno perfettamente quale sia il rischio che corre la loro autorità… nulla potrebbe più ristabilirla… Per questo motivo Quo potrebbe essere la nostra ultima speranza!»

Rudy alzò il capo e interloquì incuriosito.

«Alwir non ha parlato di un progetto per chiedere aiuti o alleanza allo scopo di invadere i covi del Buio? Cosa ne è stato della sua idea?»

«Si…» rispose Ingold con voce improvvisamente debole. «Ha mandato dei messaggeri per questo scopo a sud, al grande Impero di Alketch… Non dubito che riuscirà a ottenere un aiuto…»

Il tono piatto ed inespressivo della voce dello Stregone turbò Rudy, che iniziò a giocherellare con il cristallo facendolo roteare tra le dita e tentando di dargli la giusta angolazione per raccogliere la luce del sole calante.

«Non mi sembra una cattiva idea», disse.

Ingold scosse le spalle.

«Non lo sarebbe,» disse, «se non ci fossero due buone ragioni per non farci affidamento. La prima è che dobbiamo ammettere che la nostra civiltà ha ricevuto un colpo mortale. Anche se riuscissimo ad allontanare il Buio, a quale tipo di Luce potremmo aspirare? Ho visto con il mio cristallo, e con altri mezzi, che le devastazioni del Buio a sud sono nettamente inferiori a quelle avvenute qui. L’Impero di Alketch è un regno giovane e forte: possono certamente aiutarci in questa impresa proposta da Alwir, ma saremo noi quelli che subiremo la maggior parte delle perdite. Il nostro territorio allora rimarrà spopolato ed indifeso, ed avremo assoluto bisogno delle forze di Alketch… Alwir così riuscirà soltanto a cambiare la morte in schiavitù… Molti pensano che questo non sia certamente un destino migliore!»

Gli occhi del Mago luccicarono sotto le sopracciglia.

«Conosco bene Alketch!», continuò con più calma. «L’Impero Meridionale aspetta da tempo l’occasione giusta per impadronirsi delle nostre terre… Conosco bene Alketch ripeto… e conosco bene anche il Buio…

«Alwir può avere da ridire su alcune cose, ma ha ragione sul fatto che la mia è l’unica soluzione possibile. Per quanto riguarda il Buio, la mia è l’unica conoscenza valida ora che Eldor è morto ed il solo erede della Casa di Dare è ancora troppo giovane per poterci aiutare. So con certezza assoluta che un attacco contro i Covi è destinato ad un sicuro fallimento! …Io sono stato in una di quelle tane… ed ho visto con i miei occhi il Buio e le sue città sotterranee!»

Lo Stregone si appoggiò al muro. La stanza ora era stata invasa dalle ombre. La sua voce era calma, distante, e condusse i suoi ascoltatori in un luogo lontanissimo, in un altro tempo…

«Molti anni fa ero il Dispensatore di Incantesimi in un piccolo villaggio sperduto vicino a Gettlesand. Era un villaggio ordinato e pacifico, ma non tanto grande da attirare l’attenzione del Signore di Gettlesand… Mi stavo nascondendo allora, ma questa è tutta un’altra storia…

«In quella parte del paese i doic vivono da selvaggi in tribù nomadi. Solitamente preferiscono le pianure, ma amano nascondersi tra le colline e sono ben noti per la loro propensione ai rapimenti, in particolare di bambini. Uno dei bambini del mio villaggio era scomparso, ed io mi gettai all’inseguimento di un gruppo di quei selvaggi per una notte ed un giorno intero. In una cava, durante quell’inseguimento, tra una cresta di colline che si stendeva sotto una catena montuosa, vidi per la prima volta uno dei Guerrieri del Buio. Era notte. La creatura se ne stava appesa al soffitto di una caverna e stava divorando un vecchio doic maschio che evidentemente aveva sbagliato nel cercare rifugio lì. Non si accorse di me.

«Sapevo già molto sui Guerrieri del Buio, almeno quello che avevo potuto leggere da alcuni antichi volumi e da molte leggende che avevo ascoltato e che mi aveva tramandato, insieme a questo gioiello, il mio Capo, Rath. Capii che quell’esemplare doveva appartenere a qualche gruppo isolato dei Guerrieri del Buio sopravvissuti al primo attacco, durante il quale avevano quasi distrutto il genere umano per poi scomparire dalla faccia della Terra. Probabilmente quella creatura si nascondeva nei recessi più impenetrabili delle montagne e del deserto, da tempo immemorabile. Io sono stato sempre posseduto da una curiosità insaziabile, e quell’incontro la stimolò ancora di più, per cui decisi di inseguirlo, e fui condotto attraverso tunnel tanto ripidi da costringermi ad aggrapparmi alle pareti ed al terreno per non scivolare a capofitto nell’oscurità. Ricordo, pensandoci bene, l’epoca in cui molti Guerrieri del Buio furono costretti ad una fuga precipitosa continuando a vivere così, come reietti. Erano gli ultimi resti di una potenza che aveva dominato l’intero mondo cambiando il corso stesso della storia!

«Seguii il piccolo Guerriero del Buio: era appena grande così», le mani di Ingold si allargarono a mostrarne la misura, «sempre più in giù nel cuore della Terra, strisciando, scalando, ed arrampicandomi per non perderlo di vista. In quei momenti riuscii anche a provare una sorta di piacere per quella razza che era scomparsa in quello che credevo essere un esilio senza ritorno. Poi il tunnel si aprì davanti a me, e finalmente entrai nella loro città.»

La voce dell’anziano Stregone era diventata quasi ipnotica, e i suoi occhi brillavano mentre si perdevano nel vuoto ad inseguire le immagini del ricordo.

«Era completamente buio, naturalmente», continuò, «ma io riesco a vedere chiaramente al buio. La cavità che conteneva la città doveva essere lunga perlomeno un miglio e continuava, sprofondando nel centro della Terra. Il tunnel dal quale ero uscito la dominava e, da quel punto, riuscivo a malapena a scorgere l’altra estremità di quella caverna che si perdeva nella tenebra più fitta. Le stalattiti del soffitto che riuscivo a distinguere, erano letteralmente coperte dai loro corpi, mentre il picchiettio dei loro artigli sulla pietra calcarea sembrava il rumore di una violenta grandinata. Lungo la parete alla mia destra si apriva, a livello del pavimento, l’entrata di un altro passaggio, grande abbastanza da permettere ad un uomo di entrare. C’era un fiume di Guerrieri che entrava ed usciva da un sotterraneo ancora più profondo… capii che sotto quella caverna se ne apriva un’altra uguale oppure anche più grande. E, al di sotto di quella, forse, ce ne doveva essere ancora un’altra. Quella era soltanto una delle loro città, sperduta nel deserto, e probabilmente non era neanche la più grande…»

Il ricordo di quell’impatto con la cultura aliena e sconosciuta del Buio, rese più profonde le rughe sul volto di Ingold; l’età e la vita avevano segnato i suoi lineamenti, rendendo il suo viso simile a quello di un profeta biblico, consapevole dello sfacelo della sua civiltà e della sua incapacità di impedire che ciò avvenisse.

Rudy capì, osservandolo, che — in quell’istante — Ingold non stava osservando quella stanza o i suoi compagni di un altro universo, ma stava invece osservando la moltitudine dei Guerrieri del Buio: li sentiva vivere sotto di sé, nelle profondità della Terra, non in esilio o in quanto costretti, ma per pura e semplice scelta di un luogo dove stare. E non era possibile in alcun modo impedir loro di salire alla superficie… come, del resto… avevano già fatto una volta…

La voce del giovane ruppe il silenzio che era seguito al racconto dello Stregone.

«Hai detto che vivevano appesi al soffitto di quella caverna,» disse. «Ma cosa c’era sul pavimento?»

Gli occhi di Ingold lo fissarono cupi e con una luce indispettita per la perspicacia del ragazzo che aveva già indovinato il seguito della storia.

«Anche loro hanno delle mandrie di… pecore e bovini», rispose malvolentieri e, dal tono della sua voce, era facile intuire che avrebbe preferito lasciar cadere l’argomento, ma gli occhi di Rudy lo incitarono a continuare. «Erano cambiati, mutati, adattati all’ambiente dopo innumerevoli generazioni cresciute in quell’oscurità… Ma è certo che gli esseri umani costituiscono la loro preda naturale…»

«Questo spiega la presenza delle scale,» commentò Rudy pensieroso. «Il Buio non ne ha certamente bisogno… ma forse possono servire per i doic…»

«Quelli che ho visto,» disse Ingold, «non erano doic. Erano esseri umani… se così vogliamo dire…» Lo Stregone rabbrividì a quel ricordo. «Ma vedete, ragazzi miei, tutti gli eserciti del mondo non sarebbero sufficienti per porre in atto quello che Alwir propone. L’unica conseguenza di un’invasione sarebbe soltanto quella di indebolire ancora di più le nostre forze già dissanguate e lasciare pochissimi uomini a difesa delle loro case contro l’Impero di Alketch… o contro il Buio!

«L’alternativa, ritirandoci nei Torrioni, e lasciando che la civiltà intorno a noi — quella almeno che conosciamo, — muoia, nella speranza che un giorno il Buio si ritiri di nuovo, è soltanto un vano tentativo di sopravvivere. Ma a questo punto non riesco a vedere una terza, possibile soluzione. Anche Alwir ha dovuto riconoscere che non possiamo semplicemente fuggire dal Buio, così come non è certo probabile che i Guerrieri del Buio divengano di colpo vegetariani.

«Come vedete», concluse calmo, «devo assolutamente trovare Lohiro, e devo trovarlo in fretta. Se non ci riesco, dovremo affrontare molti altri disastri. La Magia si è rinchiusa a lungo in una torre isolata sulle sponde dell’Oceano Occidentale, lontano dal mondo, per sperimentare — sistemandosi al centro esatto del Cosmo e servendosi di un potere che lavora per la perfezione di se stesso — una sapienza che viene utilizzata per raggiungere un’altra e maggiore sapienza… Non c’è nulla di fortuito, nessun avvenimento casuale. Forse l’intera storia della Magia, da Forn in poi, potrà servirci per ottenere la salvezza dal Buio!»

«Se sarà possibile…», commentò sconsolato Rudy restituendo al Mago il suo gioiello.

«Certo, se sarà possibile!», ripeté Ingold annuendo.

Era ormai calata l’oscurità. Sui resti della città di Karst ora cadeva una leggera pioggerella che si spandeva piano sul fango scivoloso del cortile, macchiando il legno e la paglia delle baracche. Dalle montagne poi aveva cominciato a soffiare un vento freddo e sferzante che agitò vigorosamente il mantello di Gil quando lei e Rudy attraversarono il cortile.

«Tre mesi…», mormorò Rudy alzando la testa sotto la pioggia e contemplando le rovine della città. «Cristo! Se non ci uccide il Buio, moriremo di freddo con questo tempo!»

Un tuono rimbombò in lontananza come un colpo di cannone. Gil si gettò nell’oscurità di una baracca in cerca di un riparo dalla pioggia che si era fatta via via più forte, e vide Rudy allontanarsi attraverso il cortile in direzione del bagliore tremolante di un fuoco da campo sul quale era stata sistemata la pentola del rancio. Le Guardie giravano intorno, come scure sagome simili a fantasmi. Costituivano la Fratellanza della Spada: le uniformi nere e macchiate portavano l’emblema bianco a quadrifoglio della Compagnia di appartenenza… Il vociare di quegli uomini giungeva attutito dallo scrosciare della pioggia.

Due forti mani si appoggiarono sulle sue spalle, ed una voce fioca chiese:

«Gil-Shalos?»

Lei guardò le mani che ora le stringevano le guance. Avevano dita lunghe e sottili, segnate da tagli e callosità dovuti all’uso continuo della spada. Poi scorse una sagoma in uniforme e le punte infiocchettate di due trecce chiare. Da una pattuglia lì vicino si staccarono due figure che si avvicinarono ponendosi a fianco della prima.

L’addestratore delle Guardie Gnift le prese la mano e la strinse al petto in un gesto caloroso.

«O perla del mio cuore!», la salutò, ed ella sorrise ritraendo la mano.

Non aveva mai parlato con l’istruttore e, in verità, quell’uomo le ispirava soggezione dopo aver visto i suoi sistemi con le altre Guardie. Il suo umore scherzoso però, allontanò la timidezza della ragazza, e diminuì la punta di amarezza che aveva piantata nel cuore. Accanto c’era Seya, che la fissò in silenzio fino a che un rapido sorriso le attraversò il viso. Evidentemente era abituata ai burleschi corteggiamenti di Gnift.

«Cosa volete?», chiese Gil sorridendo anche lei. Si sentiva ancora intimidita, ma al tempo stesso provava una curiosa sensazione di sicurezza quasi fosse tornata a casa. In poco tempo aveva conosciuto sia il Falcone di Ghiaccio che Seya, ed ora anche Gnift l’aveva accettata senza condizioni. Raramente si era sentita così tranquilla, persino tra i suoi vecchi compagni di Università.

Il riflesso lontano di un falò brillò sulla calvizie di Gnift, più simile ad una tonsura; i capelli infatti scendevano folti fino al collo sui lati del suo viso. Sotto la sporgenza delle sopracciglia, i suoi occhi castani erano luminosi, vispi, sempre all’erta.

Gnift mormorò silenziosamente:

«Te!»

Con un gesto elegante mise in mostra il fagotto che aveva tenuto nascosto sotto il braccio fino a quel momento e lo porse alla ragazza.

Gil lo aprì: c’era una stinta tunica nera, una camicia di cotone grezzo, dei calzoni, un soprabito ed una cintura con un pugnale.

Tutti quegli oggetti portavano ben impresso il bianco quadrifoglio delle Guardie…

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