Robert Silverberg Il vicino

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Durante la notte era caduta altra neve sul bianco lenzuolo che già ricopriva la pianura, per uno spessore di due o tre metri. La superficie candida e uniforme si stendeva ininterrotta fino all’orizzonte. Michael Holt, che guardava attraverso il vetro di sicurezza spesso trenta centimetri del finestrino della sala comando, notò per prima cosa la zona di terra bruna, larga un centinaio di metri, che circondava la casa, e, subito oltre, la neve da cui spuntava qualche albero nudo e contorto; più lontano ancora, infine, proprio all’orizzonte, scorse la torre metallica in cui abitava Andrew McDermott.

Nel corso di settanta o ottant’anni non c’era stata una sola volta che quella vista non avesse provocato in lui un senso di odio e di irritazione. Il pianeta era abbastanza ampio, no?

Perché allora McDermott aveva costruito quello sgorbio d’acciaio in un posto in cui lui, Holt, non poteva fare a meno di vederlo? McDermott possedeva una proprietà abbastanza estesa, perciò avrebbe potuto costruire la sua abitazione cinquanta o sessanta miglia più a oriente, vicino alle rive dell’ampio fiume che attraversava il continente. E invece, no. Holt non aveva mancato di suggerirlo, con i dovuti modi, quando erano arrivati dalla Terra gli architetti, ma McDermott, altrettanto educatamente, aveva insistito perché la torre fosse costruita proprio in quel punto.

E lì era rimasta. Guardandola, Michael Holt si sentiva torcere le budella. Andò al quadro dei comandi, e posò le mani sottili e nodose su uno scintillante reostato. C’era un che di sensuale nel modo con cui le mani di Holt sfioravano i pulsanti e le leve. Ora che si avvicinava al duecentesimo compleanno, si accostava sempre più di rado alle sue mogli e, del resto, non le aveva mai amate con la passione e l’intensità con cui amava le sue installazioni di artiglierie che avrebbero potuto sbriciolare in un attimo Andrew McDermott e la sua casa.

“Lasciamo che sia lui a provocarmi” pensò Holt, in piedi davanti al pannello. Era alto, inagrissimo, col viso segnato dagli anni, un gran naso a becco, e una sorprendente chioma rossa e folta.

Chiuse gli occhi e si concesse il lusso di sognare.


Immaginò che McDermott lo avesse offeso, e non con la sua solita, eterna presenza, ma con un affronto diretto. Per esempio, avrebbe potuto sconfinare nella sua zona, o mandare un robot ad abbattere un albero al confine delle loro proprietà o, peggio ancora, installando un’insegna al neon in cui fosse scritta qualche frase volgare al suo indirizzo. Qualunque cosa, insomma, che avrebbe potuto giustificare la sua rappresaglia.

Poi Holt immaginava di entrare in sala comando per trasmettere un ultimatum al nemico. “Togli quell’insegna, McDermott”, oppure: “Fa’ uscire i tuoi robot dalla mia terra”. E, al rifiuto dell’altro: “Se vuoi la guerra, guerra sia!”.

McDermott avrebbe risposto con una salva di radiazioni; che altro c’era da aspettarsi da un tipo subdolo come quello? Gli schermi deflettori della prima linea difensiva di Holt avrebbero deviato senza difficoltà i raggi, assorbendoli e dirigendo l’energia nei generatori di Holt.

Poi, Holt sarebbe passato all’offensiva; le sue dita avrebbero manovrato i comandi e crepitanti scariche di energia sarebbero salite nella ionosfera per ridiscendere poi sulla casa di McDermott passando attraverso i suoi schermi difensivi come se nemmeno esistessero. Holt si vide nell’atto di afferrare i comandi con le mani contratte, scagliando una folgore dopo l’altra, mentre l’odiosa abitazione di McDermott fiammeggiava all’orizzonte avvolta in un fuoco infernale e si sbriciolava nella neve.

Ah, valeva la pena di vivere un momento come quello!

Poi, sarebbe andato alla finestra a guardare quelle fiamme che erano state la casa di McDermott, e avrebbe accarezzato i comandi come se fossero la groppa di un fedele cavallo. Ma non bastava ancora: sarebbe uscito per andare a vedere da vicino le rovine fumanti e accertarsi che la torre fosse distrutta una volta per sempre.

In seguito, naturalmente, ci sarebbe stata un’inchiesta. I cinquanta signori del pianeta si sarebbero riuniti per discutere l’accaduto, e Holt avrebbe spiegato: “Mi aveva provocato impudentemente. Sapete anche voi come mi avesse offeso costruendo la casa in modo che l’avessi sempre sotto gli occhi; questa volta, poi…”.

E i signori colleghi di Holt avrebbero annuito, in segno di comprensione, perché anch’essi ci tenevano a spaziare con gli occhi sulla piana sterminata senza che nulla offendesse la loro vista, così come ci teneva Holt, e l’avrebbero scagionato da ogni colpa; così dopo gli avrebbero assegnato le terre di McDermott, e in tal modo nessun altro, mai più, avrebbe potuto ripetere l’offesa.

Michael Holt sorrise. Quel sogno l’aveva lasciato soddisfatto. Forse l’entusiasmo aveva fatto accelerare un po’ troppo i battiti del suo cuore, e dovette fare uno sforzo per calmarsi. In fin dei conti era un debole vecchio, sebbene detestasse doverlo ammettere, e bastava l’eccitazione di un sogno ad occhi aperti per sfibrarlo.

Si allontanò dal pannello per tornare alla finestra. Non c’era nulla di cambiato: la zona di terra bruna dove i suoi apparecchi fondevano la neve, quindi l’immensa distesa candida, e infine quell’odiosa protuberanza all’orizzonte, che scintillava al sole di mezzogiorno. Holt si accigliò: il suo sogno non era servito a nulla. Non era stato sparato un sol colpo, e la casa di McDermott continuava ad essere lì, come un pugno nell’occhio. Holt si staccò dalla finestra, e, trascinando i piedi, si diresse verso lo scivolo che l’avrebbe portato cinque piani più in basso, dove viveva la sua famiglia.

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